sabato 24 gennaio 2009

Ferdinando Ingarrica, maestro suo malgrado




Ti saluto, o gentiluomo

Nel 1834 fu dato alle stampe a Napoli l'Opuscolo che contiene la raccolta di cento anacreontiche su di talune scienze, belle arti, virtù, vizj, e diversi altri soggetti, composto per solo uso de' giovanetti, di Ferdinando Ingarrica, giudice del regno borbonico alla Gran Corte criminale nel Palazzo di Giustizia di Salerno. Forse con la stessa penna usata per firmare la condanna di un giacobino, ispirato da una musa ottusa, don Ferdinando scriveva poemetti didascalici come questo:

"L'astronomia"
Stronomia è scienza amena
Che l'uom porta a misurare
Stelle, Sol e'l glob'Lunare,
E a veder che vi è là sù.
Quivi giunto tu scandagli
Ben le Fiaccole del Mondo:
L'armonia di questo tondo
Riserbata a Dio sol' è.

Queste anacreontiche, poi chiamate incarrighiane storpiando il nome dell’autore, sono composizioni in ottonari di comicità inconsapevole, con ardite acrobazie verbali e spesso con l'ultimo verso apocopato. La prima edizione fece ridere tutta Napoli, e il successo del libro provocò il moltiplicarsi di composizioni apocrife; le edizioni successive del libro, non autorizzate, misero addirittura in difficoltà l’Ingarrica con la corte. Pare che la famiglia dell'autore abbia cercato di togliere dalla circolazione il maggior numero possibile di copie dell'Opuscolo, per sottrarre dal ridicolo il loro congiunto.

I commenti dei contemporanei furono davvero spietati (“bestia”, “spropositate poesie”, “conati strani”), ma l’Ingarrica aveva creato un genere di successo suo malgrado:

"Religione"
Religione tu a noi insegni
Come adorasi il Gran Dio;
Ah potessi ognora io
Colla faccia in terra star!
Chi seconda i tuoi precetti
Rasserena mente e core,
Vive ben; né mai timore
Della Morte debbe aver.

"L'ubriaco"L'Ubriaco è l'uom schifoso
Che avvilisce la natura;
Tutto dì la sepoltura
Per Lui aperta se ne sta.
Il far' uso del liquore
Con dovuta temperanza
L'Estro sveglia, e con possanza
Spinge l'Uomo a poetar.

"L'ecclissi"
Ecclissi è quando s'incontra
Fra il Sol' la Lun' sovente
O fra Lun' la Ter' movente
E scuror ne vien qua giù.
Questo fatto sì innocente
Una volta fe’ timore
Si credea che Dio in livore
Stasse colla Umanità.

L’ultima anacreontica era composta da soli quattro versi:

“Il saluto”
Ti saluto, o Gentiluomo,
Per averti rincontrato;
Il tuo piè sia salvato
Dall'intrigo ingannator.

Le anacreontiche incarrighiane erano così popolari in tutto il Regno e, dopo l’unificazione, in tutta l'Italia meridionale, che accadeva che due amici, nell'incontrarsi per strada, si dicessero a vicenda: “Ti saluto, o gentiluomo”. C’era anche chi le sapeva tutte a memoria. Le pseudo-incarrighiane diventarono di moda tra i letterati napoletani, e anacreontiche di vari autori furono aggiunte alle ristampe non autorizzate dell'Opuscolo. Alcune sono talmente fedeli allo spirito di don Ferdinando da sembrare originali:

"Sulla Trinità"
La Trinità significa
Un Dio in tre persone,
Di una intenzione;
Ma di diverse età.
Il Padre col cappello,
Il figlio colle spine,
Lo spirto coll'augello,
O che bella Trinità!

La scuola di don Ferdinando

Una corrente sotterranea lega l’opera dell’Ingarrica, che il rodariano Carmine De Luca ha definito “una sorta di via italiana al nonsense”, a molti prodotti della rima italiana, sia colta che popolare.

Furono sicuramente influenzati dalle anacreontiche incarrighiane i “versi maltusiani” dei futuristi che gravitavano intorno alla rivista Lacerba durante la sua breve vita (1913-1915) e frequentavano il caffè letterario Giubbe Rosse di Firenze. Il nome "maltusiani" faceva riferimento scherzoso alle teorie dell’economista Thomas R. Malthus, sostenitore della necessità della limitazione delle nascite (con la castità): senza rispetto per la verità storica, poiché allora il metodo anticoncezionale più diffuso era il coitus interruptus, le giocose rime maltusiane avevano la peculiarità di terminare con un verso troncato. Il trionfo dei versi maltusiani fu il divertentissimo Almanacco Purgativo del 1914 curato dai lacerbiani. Scrissero versi maltusiani Luciano Folgore (1888-1966), che li diffuse tra gli altri futuristi, Giovanni Papini (1881-1956) e Ardengo Soffici (1879-1964), che dipinse la Composizione con uovo rosso sopra riprodotta.

Padreterno è quella cosa
che ti veglia giorno e notte
ma che poi se ne strafotte
delle tue calamità.
(Luciano Folgore)

Si va al cinematografo
insieme a molta gente,
s’entra, e naturalmente
dopo si deve uscir.
(Anonimo)

La saliera è quella cosa
che ha la forma di un occhiale;
da una parte ci sta il sale
e dall’altra ci sta il pep.
(Anonimo)

Lo stesso procedimento veniva adottato da Ettore Petrolini (1884-1936), che spesso partecipava alle serate organizzate dai futuristi:

È la moglie quella cosa
che per lusso e per vestito
spende il doppio del marito
e si chiama la metà.

E’ l’amore quella cosa
che platonico tu chiami
se la femmina che ami
ti vuol dar soltanto il cuor

Farmacista è quella cosa
se stai bene te ne freghi
viceversa poi lo preghi
se per caso sei malat.

Dopo un oblio di qualche decennio, l’Ingarrica veniva riscoperto e, in parte, rivalutato: Ettore Janni in I poeti minori dell'Ottocento (Rizzoli, Milano, 1958) scriveva “che don Ferdinando non diceva sciocchezze, ma le verità comuni le diceva scioccamente: caricatura, dunque, di non pochi scrittori dello stesso stampo ma che passano per uomini di riguardo.” In quegli anni Paolo De Benedetti, uno dei principali biblisti italiani, direttore editoriale e consulente di molte case editrici, autore di moltissimi limerick, trovava anche il tempo di scrivere versi maltusiani, come questi, del 1957 (ora in Paolo De Benedetti, Nonsense e altro, Milano, Libri Scheiwiller, 2002):

È Milano quel paese
tutto pien di ragionieri
messi a guardia dei forzieri
dove stanno i panettòn.

Riproposti nuovamente dalla rivista elettronica Golem ai tempi della direzione di Stefano Bartezzaghi, negli ultimi anni i versi apocopati di don Ferdinando, di Petrolini e dei maltusiani hanno trovato nuovi seguaci sull’esempio dei suoi redattori:

Internet è quella cosa
che t'appar se ti connetti
e ti piace finché smetti
di rileggere Golèm.
Ma se il server non ti serve
non fai altro che aspettare:
maledici ogni tuo lare
e ai ginocchi scende il lat.
(Stefano Bartezzaghi)

Berlusconi è quella cosa
che ci dà TV ogni sera
poi per non patir galera
organizza Forzital.
(Umberto Eco)

Umberteco è quella cosa
che s'inventa un'abbazia
poi per colpo di pazzia
non ricorda manco il nom.
(Umberto Eco)

L'Ingarrica, accanto a tanti sciagurati librettisti d’opera, è stato il maestro di buona parte della versificazione per canzonette fino ad anni abbastanza recenti. Tullio De Mauro, in un suo saggio sui testi dei cantautori italiani (in Borgna - Dessi, C'era una volta una gatta. I cantautori degli anni '60, Savelli, Roma, 1977), cita ad esempio l’opera di Bixio e Cherubini, che, gli anni Venti del secolo scorso, foggiarono gioielli come la "qual seduzion ognun prova" (Alcova, 1921), oppure "Hanno la chioma bruna, / hanno la febbre in cor. / Chi va a cercar fortuna, / vi troverà l'amor" (nel celeberrimo Tango delle capinere, 1922).

Il fascismo fu una casa accogliente per i versi à la Ingarrica. Le canzonette di regime pullulavano di troncamenti: in Giovinezza “Non v'è povero quartiere / che non mandi le sue schiere, / che non spieghi le bandiere / del fascismo redentor”.

Gli anni Cinquanta furono caratterizzati da quella che, nel 1952, Alberto Cavaliere (l'autore dell’indimenticabile Chimica in versi) denunciò come la "inflazione di cuor e amor". Nilla Pizzi mieteva successi con versi come “Se il vento scuote e fa tremar / le siepi in fiore, / poi torna lieve a carezzar / con tanto amore! / E tu, che spesso fai soffrir / tormenti e pene, / sussurrami baciandomi / che m'ami ancor...” (L’edera, D’Acquisto-Seracini, 1958). I ritmi delle canzoni americane e i testi degli chansonnier francesi rimasero a lungo un fenomeno limitato, e avrebbero dato frutti in Italia solo a partire dagli anni ’60. Ma, accanto ai primi cantautori, ai primi complessini beat, ancora mieteva successi la canzone tradizionale di Luciano Tajoli, Claudio Villa e dei loro epigoni, in cui è possibile riconoscere gli ultimi influssi di don Ferdinando nella cultura popolare.

3 commenti:

  1. Ti ringrazio per questo post e per tutto il blog. Complimenti davvero :)

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  2. il Natale è quella cosa che d'inverno il cuore allieta
    ma con mossa assai discreta lo si può anche evitar';

    il Presepio è quella cosa che la monti con diletto,
    poi si inventa uno scherzetto sempre ai danni del neonat;'

    l'alberello è quella cosa luminosa e divertente,
    se le luci non le hai spente poi la notte prende fuoc';

    il Pandoro è quella cosa che è rivale al Panettone,
    se ne fa' gran discussione l'hanno detto anche al tiggì;

    il cenone è quella cosa che talvolta è come un parto
    poi ti piglia un bell'infarto proprio al posto del dessert;

    e la tombola è la cosa che rallegra la serata,
    salutiam la tavolata e ce ne andiamo a gigolette;

    ma... la Messa è quella cosa che si tiene a mezzanotte...
    con un paio di mignotte passeremo anche di là!

    Ah! I regali son la cosa che è più propria del Natale
    c'è chi spende un capitale e chi regala uno stornell' !

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  3. Complimenti, o Popinga, per il tuo meraviglioso blog, che m'accade di scoprire con tanto ritardo ma con tanta gioia!

    In tema di maltusiane, ne cito a memoria una livornese tardonovecentesca che ebbi il piacere di sentir recitare dall'indimenticato Giorgio Marchetti (alias Ettore Borzacchini, Accademico della Farina di Semi di Lino, 1943-2014) e che fu anche, credo, pubblicata sul "Vernacoliere":

    Il budello è quella cosa
    che sta in corpo all'animale:
    se sta in corpo del maiale
    è il budello di tu' ma'.

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