sabato 28 marzo 2009

Una poesia scientifica, con la sua genesi



Contare l’infinito / La sorella di Wordsworth

Il cielo è una scommessa. E chiamarlo cielo
è un tentativo di dare un senso
dalla nostra parte visibile, all’impensabile.
In questa infinità s'annegava il pensiero
di Leopardi, che diceva assurdo –
distrazione da bambini – contar le stelle
(e ne possiamo vedere meno di tremila).

Ricostruiamo da tutte le frequenze
solo ciò che possiamo pensare
degli oggetti celesti, oscuramente
morenti e fecondi. Decifriamo il lampo
di una stella che muore, supernova –
Aleph uscito dalla cantina di Buenos Aires –,
il nero inquietante di ciò che si cela
sotto l’orizzonte degli eventi.

Diciamo “oggetti”, “lampi”, “buchi neri”,
perché il linguaggio riduce l’enormità
delle scale che possiamo tollerare,
perché la fantasia ha le nostre dimensioni,
e non siamo in grado di superarle.
Perché i nostri poveri sensi sono fatti
per guidarci entro gli orizzonti terrestri.

Quando andarono a Crewkerne,
lei e il fratello, Dorothy Wordsworth
misurò il cammino spingendo un contapassi:
sette miglia. Suo fratello William
si trastullava con la poesia sui narcisi.
Diecimila ne vidi con un solo sguardo:
con ciò intendeva troppi per contarli tutti,
ma avrebbe potuto dirlo solo contandoli.


Fonti:

Questa poesia è un rifacimento e una scopiazzatura di quella dell’americano Albert Goldbarth, The Way, pubblicata sul New Yorker il 13 ottobre 2008, che ho voluto contaminare con i miei amati Primo Levi e Jorge Luis Borges. Forse dovrei pagargli i diritti. Ecco gli altri ingredienti del minestrone:

"Comincia qui la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui esercizio presuppone un passato condiviso dagli interlocutori; come trasmette agli altri l'infinito Aleph che la mia tremula memoria a stento capta? (…) Ciò che videro i miei occhi fu simultaneo; quello che trascriverò, è successivo, perché lo è il linguaggio."
(Jorge Luis Borges, da L'Aleph, Feltrinelli, Milano, 1959)

(…) generazioni di amanti e di poeti avevano guardato alle stelle con confidenza, come a visi famigliari: erano simboli amici, rassicuranti, dispensatori di destini, immancabili nella poesia popolare ed in quella sublime; con la parola “stelle” Dante aveva terminato le tre cantiche del suo poema. Le stelle d’oggi, visibili ed invisibili, hanno mutato natura: sono fornaci atomiche. Non ci trasmettono messaggi di pace né di poesia, bensì altri messaggi, ponderosi ed inquietanti, decifrabili da pochi iniziati, controversi, alieni (…) non è ancora nato, e forse non nascerà mai, il poeta-scienziato capace di estrarre armonia da questo oscuro groviglio, di renderlo compatibile, confrontabile, assimilabile alla nostra cultura tradizionale ed all’esperienza dei nostri poveri cinque sensi fatti per guidarci entro gli orizzonti terrestri (…)
(Primo Levi, da “Notizie dal cielo”, in L’altrui mestiere, Einaudi, 2006).

(...) la nostra capacità di rappresentazione è scarsa, e chi voglia o debba farci capire quanto grandi sono le cose molto grandi, e quanto piccole le piccole, urta contro una nostra antica sordità, oltre che contro l’insufficienza del comune linguaggio. Se ne sono resi conto da sempre i divulgatori di scienze quali l’astronomia e la fisica nucleare, ed hanno cercato di compensare questa insufficienza ricorrendo al paradosso e alla proporzione: se il sole fosse ridotto alla grandezza di una mela (…), se un miliardo di anni fosse compresso a un giorno (…), ma in molti casi “capire” vuol dire invece rendersi conto che di alcuni oggetti e fenomeni non ci è concesso costruirci un’immagine…la nostra fantasia ha le nostre dimensioni, e non le possiamo imporre di superarle (…)
(da “Il libro dei dati strani”, in L’altrui mestiere, cit.).

Continuous as the stars that shine
And twinkle on the Milky Way,
They stretched in never-ending line
Along the margin of a bay:
Ten thousand saw I at a glance
Tossing their heads in sprightly dance.
(William Wordsworth, da I Wandered Lonely as a Cloud, 1807-1817)


giovedì 26 marzo 2009

La “poesia scientifica” di René Ghil



“Tra cinquant’anni il poeta sarà colui che comanderà delle macchine fonetiche. La poesia sarà una scienza oppure non sarà”
(René Ghil)

Per gli psicologi, la sinestesia indica stati in cui la stimolazione di un senso è percepita come due eventi distinti e contemporanei. Essa è presente in molte persone (la sua incidenza è di circa 1 individuo su 2.000), nelle quali la percezione di uno stimolo (ad esempio il suono) induce la reazione chiara e specifica di un altro senso (ad esempio la vista). Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze psicotrope, con la meditazione, oppure intervengono in alcuni tipi di malattie che colpiscono la corteccia cerebrale.

Nell’Ottocento la sinestesia è stata considerata la radice della creazione di ogni opera d’arte. Per i Simbolisti la corrispondenza tra tutti gli elementi della natura può essere colta dal poeta che riconosce dentro di sé la corrispondenza tra tutti i sensi. La poesia era considerata in grado di svelare i misteri che si celano dietro l’apparenza, cogliendo rapporti di corrispondenza anche fra cose lontane. Essa sarebbe in grado di esprimere le relazioni che legano il mondo interiore del poeta a quello esteriore.

I poeti decadenti hanno fatto della sinestesia il loro manifesto. Gli Scritti sull’arte di Baudelaire sono ricchi di osservazioni sull’intimo congiungimento tra colori, suoni e profumi. Accanto a lui, Gautier, Huysmans e Rimbaud hanno reso in poesia le loro esperienze sinestetiche, talvolta indotte dalla droga o dall’assenzio.

In questo contesto si spiega il celebre sonetto di Rimbaud sulle vocali, scritto nel 1872, che associa le lettere dell’alfabeto ai colori:

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu; voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes:
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bobinent autour des puanteurs cruelles,

Golfes d'ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
Lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d'ombelles;
I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
Dans la colère ou les ivresses pénitentes;

U, cycles, vibrements divins des mers virides,
Paix des pâtis semés d'animaux, paix des rides
Que l'alchimie imprime aux grands fronts studieux;

O, suprême Clairion plein des strideurs étranges,
Silences traversés des Mondes et des Anges;
- O l'Oméga, rayon violet de Ses Yeux!


A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Io dirò un giorno le vostre origini segrete:
A, nero corsetto villoso delle mosche lucenti
Che ronzano intorno a fetori crudeli,

Golfi d'ombra; E, candori di vapori e di tende,
Lance di fieri ghiacciai, re bianchi, brividi di umbelle*;
I, porpore, sangue sputato, riso di belle labbra
Nella collera o nelle ebbrezza penitenti;

U, cicli, vibrazioni divine di mari verdi,
Pace dei pascoli seminati di animali, pace delle rughe
Che l'alchimia scava nelle ampie fronti studiose.

O, Tuba suprema piena di stridori strani,
Silenzi attraversati dai Mondi e dagli Angeli:
- O l'Omega, raggio violetto dei Suoi Occhi

*Le umbelle (o ombrelle) sono le infiorescenze racemose in cui tutti i fiori hanno peduncolo di lunghezza più o meno uguale: sono tipiche delle piante appartenenti alla famiglia delle Apiaceae (dette anche Ombrellifere o Umbelliferae).

All’interno di questi fermenti sinestetici occupa una posizione particolare il poeta francese René Ghil (1862-1925). Oggi quasi dimenticato, conobbe ai suoi tempi una certa, ambigua, notorietà, talvolta ferocemente discussa più per le sue teorie che per la sua opera di poeta. Ancora oggi i suoi critici non sono teneri: c’è chi parla di megalomania e i più severi lo classificano tra i freaks della letteratura.

Dopo gli esordi sotto l’ala protettrice di Mallarmé, il quale aveva scritto la prefazione al suo primo libro di teoria poetica, il Traité du Verbe (1886), Ghil si distaccò dai simbolisti, dei quali contestò con forza l’idealismo e l’irrazionalità. Si scagliò contro quella che definiva la “poesia di rêverie”, di cui stigmatizzò a più riprese la religiosità, l’impressionismo e l’incoerenza, opponendole Lamarck e Darwin. Ghil assegnava alla poesia e la “nuovo Poeta” la “missione” di “ricreare coscientemente una commossa armonia di questo universo”. Ricreare, razionalmente, con l’ausilio della scienza. Le sue idee furono ribadite e sviluppate nel 1909, quando pubblicò De la Poésie Scientifique, e nel 1920, con La Tradition de Poésie-Scientifique.

Così scriveva nel Traité du Verbe : “Il dovere del poeta, ora, è di pensare e di conoscere, in primo luogo secondo il pensiero e la conoscenza del sapiente che sperimenta, e poi (…), inducendo e deducendo più in fretta e più oltre (…) leggi e leggi e leggi di supporto, sintetizzare in una parola molteplice la logica e la musica!” Per questa missione impossibile un po’ presuntuosa, Ghil si appoggiava all’atomismo di Lucrezio, all’enciclopedismo degli illuministi, all’evoluzionismo nelle sue varie declinazioni e persino al concetto non dualista del cosmo tipico del buddismo, da poco tempo introdotto in Francia.

Le sue concezioni poetiche si basavano sulle teorie linguistiche di Rousseau: all’origine del linguaggio c’è “il grido”, espressione della sensibilità pura. In seguito, attraverso stadi successivi, si è verificata una crescente complessità dell’espressione e a una perdita della sua unità primordiale. Un’implacabile dissociazione ha allontanato gli “ideogrammi” (i grafemi) dai loro corrispondenti fonemi. La missione del poeta è allora quella di ritrovare “il carattere originale della parola”.

A sostegno di questo programma, Ghil portò le teorie acustiche e fonetiche di Hermann von Helmholtz, grande fisico e fisiologo e valente musicista, tradotte in francese nel 1868. Nella “Dottrina della percezione dei toni come fondamento per una teoria della musica” (1862), il tedesco aveva esposto una teoria della musica, basata sui dati sperimentali elaborati con strumenti matematici, che spiegava le leggi dell’acustica fisiologica proposte in precedenza da Ohm. Per Helmholtz l’estetica musicale dipende dall’acustica e dalla biologia dell’apparato uditivo.

Una lettura troppo semplicistica ed entusiasta dell’opera di Helmholtz e del sonetto di Rimbaud sulle vocali portò Ghil, che poco sapeva di teoria musicale, a elaborare la sua dottrina della Strumentazione verbale: ogni timbro della lingua corrisponde a quello di uno strumento musicale e a uno stato psicologico e, per sincretismo, a un colore. È con questa combinazione di timbri e con il significato delle parole in cui essi compaiono, che il poeta, come fa il musicista con le note, deve comporre le sue opere. Questa modalità di composizione semio-acustica si combina con una concezione originale del ritmo: viene conservato il sillabismo, ma sono ignorate per principio le regole tradizionali della metrica, per far posto a modi di scansione del verso che mirano a creare armonie e discordanze per rendere possibile la lettura del ritmo stesso dell’universo. Insomma, una scienza mal masticata a supporto di una elucubrazione metafisica e dell’asserzione che “scientificamente il linguaggio è musica”.

I risultati pratici di queste idee sono contradditori. Ghil mostra a volte un certo talento, seppure asservito alle sue concezioni teoriche:

Vie, et ride des eaux, depuis que hors l'amère
Navrure de ses Yeux son âme ne sourd plus,
De ses Yeux inlassés la Vieille aux os de pierre
Morne et roide regarde : et sa voix de prière
Très aigre, égrène au soir les avés des élus.

Diversamente da Rimbaud, Ghil associa la U al color oro e la O al rosso. Prende in considerazione anche i suoni delle consonanti: la R, ad esempio, è rossa e corrisponde “alla serie grave dei sassofoni” e alle idee di predominio e di gloria. Tuttavia, la R unita alla U, corrisponde “alla serie delle trombe, dei clarinetti e dei pifferi” e “alle idee di tenerezza, del riso, dell’istinto amoroso”. Le parole assumono dunque, oltre al loro senso interno, un senso esterno, meno definito, che deriva dai fonemi elementari che le costituiscono. Il bravo poeta deve saper utilizzare parole che corrispondono al meglio alla loro famiglia semantica. I risultati di questi deliri teorici sono a volte davvero irritanti per il lettore, anche se dotato di buona volontà:

Le rudiment hésitant se retrouve
complexe et sûr aux nuits humides de l'ovaire
et des lourds génitoires, de l'oogone et
de l'antéridie en la même algue où itère
le génital attrait des deux pôles!

Oppure :

Tout étonnés et languissants de l'éparrant
choc en retour,
qui de tous Sens de notre grand
néoraxe impressionna, d'éclair ! et à les rendre
notre présente réduction, – nos germes à
s'unir en ustïon de leur phosphore,
cendre
vivante et qui efferve...

Nessuna musica verbale può temperare lo sconcerto provocato da tali accostamenti di parole e di neologismi. Ghil sembra scegliere semplicemente le parole in cui suono e senso gli appaiono avvicinarsi, sicuro che nel testo troveranno il loro reciproco accordo.

Come “duro investigatore della vita”, tuttavia, il poeta francese non poteva accontentarsi a lungo di restare confinato nelle gabbie di una lingua. Egli voleva nominare le cose con parole che fossero esteticamente congruenti con esse. Ad un certo punto la lingua indonesiana dell’isola di Giava, “in cui così sensibilmente stanno uniti i sensi e i suoni” gli sembrò adatta allo scopo. Le Pantoun des pantoun, un lungo poema narrativo scritto nel 1904 in ricordo di una danzatrice di Giava incontrata all’Esposizione Universale di Parigi del 1900, è il frutto di questa esuberanza maccheronica. I versi sono permeati di un lirismo che vuol essere complesso e delicato, nel quale si mescolano l’esotismo orientale e il ricordo amoroso, la lingua insulare e il francese maltrattato dall’autore. Eccone un assaggio:

Plus doux
que la nuit de noudioum' dont le vent luit sur nous.
quand miaulent-perteha sous l'emper, les koutshin'g .

Più dolce
che la notte di noudioum', il cui vento brilla su di noi!
Quando miagolano perteha sotto l’emper, i koutshin'g.

L’opera è seguita da un glossario che spiega che i noudioum' sono le stelle, perteha vuol dire miagolare (e quindi miaulent-perteha può voler dire “miagolano e miagolano”), l’emper è un arbusto fiorito (Buddleja davidii), i koutshin'g sono i gatti domestici.

Se questo gramelot franco-indonesiano può far sorridere, bisogna almeno notare che René Ghil fu terribilmente coerente fino in fondo con le sue idee iniziali.


martedì 24 marzo 2009

William Jevons: cicli economici e macchie solari



Diceva Gramsci, a proposito delle eccentricità sistematiche di Achille Loria, che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto e ogni paese ha il suo».

Nell'Inghilterra dell’800 troviamo un altro di quegli intellettuali tratteggiati dal fondatore del partito comunista italiano, almeno per quanto riguarda la teoria delle fluttuazioni economiche: si tratta di William Stanley Jevons (1835-1882), pioniere della statistica descrittiva, logico ed epistemologo di notevole livello, oltre che uno dei grandi ispiratori della cosiddetta teoria economica marginalista, secondo la quale è il valore del prodotto e non la quantità di lavoro che definisce il valore dei fattori produttivi, tra cui il lavoro stesso. Jevons espose nella Teoria dell'economia politica (1871) il principio fondamentale di questa dottrina: “il valore di tutte le cose dipende dalla loro utilità”.

L’economista ha conosciuto recentemente una nuova fama in campo ambientalista e tra i sostenitori della “decrescita”, a causa di quello che è noto come il “paradosso di Jevons”: man mano che i miglioramenti tecnologici aumentano l'efficienza nell'uso di una data risorsa, il consumo totale della stessa tende ad aumentare invece di diminuire, fino all’esaurimento della risorsa stessa. L'aumentata efficienza va infatti a favorire in vari modi un uso accresciuto di quella risorsa, fino a farla terminare. Ciò determinerebbe la necessità del risparmio delle risorse, soprattutto di quelle energetiche.

Tuttavia qui mi occupo di lui per un altro motivo: la sua audace ipotesi nota come «teoria delle macchie solari». Attraverso un’attenta osservazione dei cicli economici, egli stabilì una connessione tra il ritmo dei raccolti, ipotizzato come determinato da periodiche fluttuazioni meteorologiche, e l’andamento altrettanto ciclico del commercio, in ciò preceduto da altri studiosi.

Jevons però andò oltre: notò la «meravigliosa coincidenza» fra l’intervallo medio (circa 10,466 anni) con cui le principali crisi commerciali si susseguirono dall’inizio del Settecento fino al 1878 ed il ciclo delle macchie solari (10,45 anni), secondo quanto calcolato dall’astronomo tedesco Samuel Heinrich Schwabe (1789-1875) e confermato su base storica dallo svizzero Rudolf Wolf (1816-1893). Il nucleo di questa brillante intuizione si trova in diversi scritti dell’economista inglese, fra cui The Solar Period and the Prince of Corn (1875), The Periodicity of Commercial Crises and Its Physical Explanation (1878) e Commercial Crises and Sun-Spots, quest’ultimo apparso sul numero XIX del novembre 1878 di Nature.

L’economista, colto dalla vivace e spesso insana passione degli economisti per le «leggi fisiche» della società, fu affascinato da quel suggestivo parallelismo, al punto da esprimersi nei seguenti termini:

«È curioso notare la varietà di spiegazioni offerte dagli economisti sulle cause dell'attuale situazione commerciale. La competizione straniera, il consumo di birra, la sovrapproduzione, il sindacalismo, la guerra, la pace, la mancanza di oro, la sovrabbondanza di argento, Lord Beaconsfield, la politica di governo, i dirigenti della Glasgow Bank, Edison e l'elettricità sono alcune delle felici e abituali argomentazioni portate per spiegare l'attuale crollo disastroso dell'industria e del credito. Capita solo a poche persone di ricordare che quello che sta succedendo ora, altro non è che una specie di ripetizione di quello che è di volta in volta successo precedentemente. La periodicità di questi eventi è così evidente che convinse i ricercatori scientifici, pur non avendo nessuna informazione che convalidasse le toro teorie, che doveva essere all'opera una qualche profonda causa».

«Se ci fosse permesso di trarre qualche conclusione immediata da queste analisi
- prosegue Jevons - si dovrebbe sottolineare la necessità urgente di osservare direttamente il variare della forza e del carattere dei raggi del sole. Mentre gli astronomi discutono animatamente e dedicano illimitate energie al duecentesimo planetoide, la vera fonte di calore, di luce e di vita è lasciata inosservata. Ma perché menare il can per l'aia quando tutto quello che si richiede è una mezza dozzina di pireliometri di Pouillet e di osservatori capaci, che vogliano sfruttare ogni giorno terso per determinare direttamente la forza-calore del sole? Verrà il tempo in cui la più importante notizia del Times sarà il cablogramma quotidiano che riporta i dati dell'energia solare. Si dovrebbero situare osservatori solari sugli altipiani di Quito o Cuzco, nel Cashmere, nell'osservatorio di Piazzi Smith sulla vetta di Teneriffe, nell'Australia Centrale o laddove si possa osservare il sole senza offuscamenti nell'atmosfera. Un impero sul quale il sole non tramonta mai e il cui commercio si diffonde in ogni porto e in ogni insenatura del soleggiato sud, saggiamente non può tralasciare di dare uno sguardo alla grande fonte di energia. Dallo stesso sole, che è veramente of this great world both eye and soul, noi traiamo la nostra forza e la nostra debolezza, i nostri successi e insuccessi, la nostra euforia nei momenti di febbre commerciale, la nostra depressione e rovina nei momenti di crollo commerciale. Un astronomo di fiducia e qualche semplice calcolo basteranno dunque per determinare il momento più opportuno per prendere o per lasciare il potere».

Nelle opere citate la confusione tra ambiti diversi regna sovrana. La cosa singolare non è tanto che l’idea dell’influenza delle macchie solari sui cicli economici si sia rivelata un fallimento, bensì che Jevons, quell’idea, l’abbia potuta semplicemente architettare, plasmare nella sua mente per tanto tempo, fino a darle una forma elegante, una parvenza di dignità scientifica. La cosa che a me pare ancor più strana è che degli epigoni israeliani di Jevons possano essere riusciti a pubblicare sul New Scientist del 18 novembre 2004 un articolo che investiga storicamente il rapporto tra il ciclo solare e il prezzo del grano, concludendo che “il ciclo solare influenza il clima e i raccolti sulla Terra, probabilmente cambiando i livelli della copertura nuvolosa”.

L'influsso solare sull'economia viene invocato anche dall'americano M.W. Mandeville, "studioso dei sistemi dell’universo", che si era già interessato con "approccio olistico" ai cicli cosmici e agli allineamenti dei pianeti, il quale ha pubblicato nel 2004 un testo dal profetico titolo Il crollo economico del 2006-2007 (Macro edizioni), pubblicizzato su siti come Scie Chimiche o Disinformazione, libro cult di un certo mondo new age pure in casa nostra. Il poliedrico Mandeville (qui un suo sconcertante curriculum) si è anche occupato di terremoti e tettonica, mettendoli in relazione con un ciclo di 6,5 anni nella rotazione dell'asse terrestre. Il suo omonimo Bernard de Mandeville, empirista e materialista nel XVII secolo, era più moderno.


domenica 22 marzo 2009

Achille Loria, l’aviazione e la sifilide



Achille Loria (1857-1943) è stato un economista e sociologo di scuola positivista. Celebrato in vita come "il Marx italiano" e insultato da Engels come travisatore e plagiario di Marx; descritto da Schumpeter come "un ibrido curioso di genialità e di cattiva preparazione in analisi"; bersagliato da Croce, Achille Loria è un caso singolare nella storia del pensiero economico.

Nel suo profilo della cultura torinese, Bobbio lo classifica fra i luminari della facoltà giuridico-economica. Per quasi trent'anní fu direttore del laboratorio fondato da Salvatore Cognetti de Martiis in cui si formò una generazione illustre di economisti. Nel 1885 divenne Professore ordinario di Economia Politica, quindi Socio Corrispondente dell'Accademia dei Lincei (1887), nonché membro di una trentina di Accademie e Società di Studio tra le più prestigiose del mondo. Divenne Senatore del Regno nel 1919 e Professore Emerito nel 1932.

Socio di tutte le accademie, collaboratore dì tutte le riviste, per mezzo secolo Loria fu uno degli economisti italiani più noti nel mondo. Ma la sua caduta fu verticale e oggi sono molti gli economisti che ammettono senza imbarazzo di non averlo letto. Non si può dar loro torto, se tra le opere del Nostro compare anche l’agile saggetto del 1927 in cui l’economista salutava l’eugenetica con l’appellativo di scienza nuova (Una scienza nuova: l’eugenica, Edizioni del Pensiero Sanitario, 1927) e sottolineava che l’eugenica sarebbe senza dubbio divenuta la “scienza della stessa società in embrione”. Ma il luminare scrisse anche di peggio, e dispiace che Bobbio non se ne sia accorto.

Le sue eccentricità furono oggetto dello scherno di Gramsci, che coniò il termine “lorianismo” per indicare una tipologia di intellettuali caratterizzata da aspetti deteriori e bizzarri come “disorganicità, assenza di spirito critico, sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell’attività scientifica, assenza di centralizzazione culturale, mollezza ed indulgenza etica nel campo dell’attività scientifico-culturale”.

Ne “I quaderni dal carcere” (Q6 e Q28) Antonio Gramsci registra i documenti in cui si trovano le principali «bizzarrie» di Achille Loria:

Le influenze sociali dell’aviazione
L’articolo Le influenze sociali dell'aviazione (Verità e fantasia) in «Rassegna Contemporanea» del 1° gennaio 1910 è un capolavoro di «bizzarrie»: vi si trova “la teoria dell'emancipazione operaia dalla coercizione del salario di fabbrica non piú ottenuta per mezzo della «terra libera», ma per mezzo degli aeroplani che opportunamente unti di vischio, permetteranno l'evasione dalla presente società con il nutrimento assicurato dagli uccelli impaniati; una teoria della caduta del credito fiduciario, dello sfrenarsi delle birbonate sessuali (adulteri impuniti, seduzioni, ecc.); sull'ammazzamento sistematico dei portinai per le cadute di cannocchiali; un compendio della teoria, altrove svolta, sul grado di moralità secondo l'altezza dal livello del mare, con la proposta pratica di rigenerare i delinquenti portandoli nelle alte sfere dell'aria su immensi aeroplani, correzione di una precedente proposta di edificare le carceri in alta montagna, ecc.” Questo articolo, commenta Gramsci, data l'amenità del contenuto, si presta a diventare «libro di testo negativo» per una scuola di logica formale e di buon senso scientifico.

Il dolore universale degli attori di teatro
In una conferenza tenuta a Torino il 13 dicembre 1915 e pubblicata subito dopo nella «Nuova Antologia», l’economista parlò del «dolore universale» in modo molto stravagante. In quell’occasione il Loria, per dimostrare una legge universale del dolore, portò come unico esempio la lista di ciò che costa la claque agli attori di teatro. È vero che, secondo il suo metodo solito, il Loria fece intravedere la parte positiva del problema, affermando seriamente che la natura provvidenziale crea una difesa e un antidoto contro l'avvelenamento universale del dolore come si vede dal fatto che i poveri costretti a pernottare sul nudo sasso hanno la pelle piú spessa degli uomini che dormono sulle soffici piume.

Altimetria e civiltà
Loria fu l’autore anche dell’articolo Perché i veneti non addoppiano ed i valtellinesi triplano, inviato al Comitato triestino per le onoranze ad Attilio Hortis nel cinquantenario della sua attività letteraria. Il Comitato non poteva inserire l'articolo nella Miscellanea per la sua ridicola insulsaggine, ma non volle neppure mancare di riguardi al Loria che a Trieste era un esponente «illustre» della scienza italiana. Cosí fu comunicato al Loria che il suo «contributo» non poteva essere pubblicato nella Miscellanea già stampata in tipografia e che l'avrebbe pubblicato il settimanale letterario «Il Palvese». L'articolo espone un aspetto (quello linguistico) della dottrina loriana sull'influenza dell'«altimetria» sullo sviluppo della civiltà: i montanari, moralmente piú puri, fisicamente piú robusti, «triplicano» le consonanti; la gente di pianura, invece (e guai se si tratta di popolazioni che stanno al livello del mare, come i veneziani), oltre che moralmente depravata, è anche fisicamente degenerata e non riesce neppure ad «addoppiare». Il Loria ricorre alla «testimonianza della propria coscienza» e afferma che da malato egli non riesce a domandare alla cameriera che una semplice taza di brodo.

Misticismo e sifilide
Nella prefazione alla prima edizione di una delle sue prime opere «scientifiche», il Loria parla della sua prolusione all'Università di Siena, e della impressione suscitata nel pubblico accademico dall'esposizione delle sue «originali» dottrine materialistiche: vi si trova accennata la sua teoria della connessione tra «misticismo» e «sifilide» (per «misticismo» il Loria intende tutti gli atteggiamenti che non siano «positivistici» o materialistici in senso volgare).

Contro gli equilibristi
Il 12 dicembre 1931, nel culmine della crisi economica mondiale, Achille Loria, nel frattempo diventato senatore, discute in aula una sua interrogazione: se il ministero dell'interno «non ritenga opportuno evitare gli spettacoli di equilibrismo che non adempiono a nessuna funzione educativa, mentre sono troppo frequentemente occasione di sciagure mortali». Dalla risposta dell'on. Arpinati pare che «gli spettacoli di equilibrismo appartengano a quelle attività improduttive che il sen. Loria ha analizzato nel Trattato di Economia», e quindi la questione, secondo il Loria, avrebbe potuto essere un contributo alla soluzione della crisi economica.

Questi «documenti», afferma Gramsci, “sono i piú vistosi che si ricordino in questo momento: ma è da ricordare che nel caso del Loria non si tratta di qualche caso di «dormicchiamento» intellettuale, sia pure con ricadute negli stessi delirii: si tratta di un filone «profondo», di una continuità abbastanza sistematica che accompagna tutta la sua carriera letteraria. Né si può negare che il Loria sia uomo di ingegno e che abbia del giudizio. In tutta una serie di articoli le «bizzarrie e stranezze» appaiono qua e là, estemporaneamente, ma ci sono quelle di un certo tipo, legate cioè a determinati «nessi di pensiero». Per esempio, si vede la teoria «altimetrica» apparire nella quistione «penitenziaria» e in quella «linguistica». Cosí in un articoletto pubblicato nella «Prora» che usciva a Torino durante la guerra (…) si dividevano i protagonisti della guerra mondiale in mistici (Guglielmo e Francesco Giuseppe o Carlo) e positivisti (Clémenceau e Lloyd George) e si parlava della fine dello zarismo come di un destino antimistico”.

“Loria non è un caso teratologico individuale: è invece l'esemplare piú compiuto e finito di una serie di rappresentanti di un certo strato intellettuale di un determinato periodo storico; in generale di quello strato di intellettuali positivisti che si occuparono della quistione operaia e che erano piú o meno convinti di approfondire e rivedere e superare la filosofia della prassi. Ma è da notare che ogni periodo ha il suo lorianismo piú o meno compiuto e perfetto e ogni paese ha il suo. Che Loria potesse esistere, scrivere, elucubrare, stampare a sue spese libri e libroni, niente di strano: esistono sempre gli scopritori del moto perpetuo e i parroci che stampano continuazioni della Gerusalemme Liberata. Ma che egli sia diventato un pilastro della cultura, un «maestro», e che abbia trovato «spontaneamente» un grandissimo pubblico, ecco ciò che fa riflettere sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici che pur esistevano: è da pensare come, in tempi anormali, di passioni scatenate, sia facile a dei Loria, appoggiati da forze interessate, di traboccare da ogni argine e di impaludare per decenni un ambiente di civiltà intellettuale ancora debole e gracile”.

Loria fu anche l’autore della poesia Al mio bastone. Nel XXXV anno di possesso, pubblicata sulla «Nuova Antologia» del 16 novembre 1909, che Gramsci definisce ricca di elementi comici. Purtroppo non sono riuscito a trovare quello che, a giudicare dal titolo, potrebbe essere un capolavoro.

martedì 17 marzo 2009

Come rovinarsi la reputazione: il limerick piccante





Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze, licenze poetiche.
(Aldo Palazzeschi)

Con i limerick di Edward Lear, pubblicati tra il 1846 (A book of nonsense) e il 1871 (More Nonsense, Pictures, Rhymes, Botany, etc.), fu fissato un modello abbastanza rigido (si è parlato di creazione di uno stereotipo) ed ebbe un successo inaspettato una forma letteraria radicata nella tradizione orale inglese. Il successo dei versi di Lear si innesta tuttavia su una parallela e probabilmente antecedente produzione giocosa, molto più indecente, dei versi da pub, che ha spinto artisti, scrittori e altri giocatori a parodiare e a misurarsi con questa forma poetica. Alla fine dell’Ottocento fu persino teorizzata, in reazione al perbenismo vittoriano, la superiorità del limerick licenzioso su quello nonsensical. Tra i più convinti sostenitori di tale tesi era il poeta Algernon C. Swinburne (1837-1909):

There was an Old Man of Cape Horn
Who wished he had never been born...
...Nor would he have been
If his father had seen
That the end of the rubber was torn.

Ecco il mio adattamento (sono tutti miei se non diversamente indicato):

C’era un vecchio di San Miniato
che rimpiangeva di essere nato…
…e non avrebbe avuto torto
se suo padre si fosse accorto
che il preservativo era bucato.

I limerick meno innocenti (e perciò meno nonsensici) sono ancora oggi da molti considerati i migliori, come affermato in modo quasi programmatico da Vyvyan Holland:

The limerick packs laughs anatomical
Into space that is quite economical.
But the good ones I've seen
So seldom are clean
And the clean ones so seldom are comical.


I limerick ridono di temi anatomici
In spazi che sono molto economici.
Ma i migliori rimasti
Raramente son casti
E i più casti raramente son comici.

Creare nuovi limerick è un popolare drinking game tra i marinai di lingua inglese. Ecco uno degli esempi più famosi di limerick da pub:

On the breast of a barmaid named Gail,
Were tattoo'd the prices of ale.
And on her behind,
for the sake of the blind,
was the same, but written in Braille.


Tatuati sulle tette di Emma, la barista,
c’erano i prezzi delle birre in bella vista.
E sulle chiappe sporgenti,
ad uso dei non vedenti,
era scritta in Braille la stessa lista.

Sono diventati famosi i limerick salaci composti dall’eccentrico scrittore inglese Norman Douglas, che nel 1928 pubblicò la raccolta Some Limericks, con un finto apparato critico in cui si faceva gioco degli ambienti accademici. L’opera, distribuita privatamente agli amici, fu da lui stesso definita "estremamente oscena e blasfema oltre ogni misura, una delle più indecenti in lingua inglese". Il libro, con il titolo Certi limerick, tradotto e curato da Benito Iezzi, è stato pubblicato a Napoli nel 1990 dall'Alessandra Carola Editrice, con testo inglese a fronte e una nota introduttiva di Aldo Busi. A seguire un esempio dei limerick di Douglas.

There was a young fellow named Skinner
Who took a young lady to dinner;
At half past nine
They sat down to dine,
And by quarter to ten it was in her.
[What, dinner? No, Skinner! ]


C’era un giovanotto chiamato Massena
che portò una giovane signora a cena;
Alle nove e trenta
era pronta la polenta,
a un quarto alle dieci lei era piena.
[Della cena? No, di Massena!]

La bibbia degli appassionati del limerick indecente comparve però nei bigotti anni ’50, quando in due riprese, tra il 1955 e il 1956, il poeta Christopher Logue, con lo pseudonimo di Count Palmiro Vicarion, compilò una raccolta di 272 rime pornografiche. Il Count Palmiro Vicarion’s Grand Grimoire of Bawdy Ballads and Limericks viene tuttora pubblicato dalla Olympia Press, con un grande successo, come dicono le note di copertina, “nei pub, nei boudoir e dovunque si giochi a rugby”. Nobili e ministri del culto sono le categorie che più di frequente sono tra i protagonisti di queste storielle pornografiche in rima, ma tutte le categorie umane vi sono rappresentate, in ogni tipo di rapporto carnale, naturale oppure no. Eccone uno tra i più casti (sic), con l’adattamento dell’artista e poeta oplepiano Giorgio Weiss, anch'egli autore di limerick:

There was a young plumber named Lee,
Who was plumbing his girl by the sea.
"Oh Please! Stop your plumbing!
There is somebody coming!"
Said the plumber, still plumbing, "It's me.”


C'era un giovin idraulico di Harare,
che pompava una tizia in riva al mare.
«Ferma quel che stai facendo:
c'è qualcun che sta venendo!»
«Son io!» disse pompando l’idraulico di Harare.

Anche in Italia esistono molti estimatori del limerick erotico. L’insospettabile Umberto Eco, ne Il secondo diario minimo riporta un finto limerick di Palmiro Vicarion, che attribuisce alla penna di Guido Almansi:

There were three old Owls of Cochoers
screwing a girl onto a big chest of drawers.
But the maid was the Daughter
of a Doctor, and their Mother
cried “Come back, lousy old Owls of Cochoers”.


Si tratta di un chiaro e giocoso riferimento alla canzoncina delle Tre civette sul comò. Ho provato a ritradurlo in italiano:

C’erano tre vecchie civette a Zerbolò
che trombavano una ragazza su un gran comò.
Ma lei era la figlia
di un dottore, e in famiglia
si gridò: “Via di lì, laide civette di Zerbolò”.

Di tono decisamente licenzioso sono le «limèriche» contenute nel libro di un certo Sergio Sesto Serpillo (in realtà Pier Francesco Paolini, scrittore, anglista e traduttore), dal titolo Che Dio la benedica! (Valentano, Scipioni, 2001), introdotto da un saggio di Giorgio Weiss. Eccone un esempio serpilliano:

C'era un Ottuagenario in quel di Trento
che scopava soltanto a lume spento.
all'amante un po' offesa
spiegava, a sua difesa:
"Perché la terza, sai, la faccio a stento."

Sempre in ambito colto, segnalo che il testo dell’enigmista, giornalista, scrittore e ludologo Giampaolo Dossena Luoghi letterari. Paesaggi, opere e personaggi (Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano, 2003), opera erudita e ricca di aneddoti letterari, attenta anche agli autori “minori”, si apre, nel primo luogo visitato, cioè Abano Terme (Padova), con un questo limerick, datato 1955 e successivamente attribuito a Sergio Morando (che negli anni 70 dalle pagine di Linus aveva contribuito al successo del limerick italiano):

C'era un vecchio goloso di Abano
le cui figlie coi Turchi folleggiavano
inventando sempre nuove tecniche erotiche
però mangiando unicamente cotiche:
il che stupiva quel vecchio di Abano.

Tra i cultori italiani, un noto esperto di informatica e comunicazione ha scritto un limerick assai pornografico, vero capolavoro del genere, in cui prende di mira l’amica di Nonna Speranza della poesia di Guido Gozzano. Non me la sento di riprodurlo, ma gli appassionati sapranno trovarlo in rete.

Concludo la rassegna con due mie scelleratezze:

Un’introversa ragazza di Belluno
non voleva amici, proprio nessuno.
Le sere nella Stube
rovistava nel suo pube,
contando tutti i peli uno a uno.

Il cacio di Bra,
che vera bontà!
Che piacere
due pere
col wonder Bra!

lunedì 16 marzo 2009

De Selby, filosofo e scienziato



L’eccentrico e prevenuto Du Garbandier assicura che «Il fascino supremo che il lettore scopre leggendo una pagina di de Selby è che essa lo conduce alla felice certezza di non essere, di tutti gli imbecilli, il più grande». Incompreso, controverso, solitario, il pensiero di De Selby costituisce una sfida alle convenzioni comuni, uno squarcio nella tela delle credenze assodate, una sfida per i paradigmi scientifici e sociali dominanti. Ecco una piccola presentazione delle idee di questo dotto d’Irlanda, nella speranza che la sua conoscenza apra nuovi orizzonti alle giovani generazioni e all’umanità intera. Per chi, incuriosito da queste mie note, volesse approfondire la conoscenza di questo singolare pensatore, consiglio la lettura de Il terzo poliziotto di Flann O’Brien, uscito per i tipi di Adelphi nel 1992. Che il libro di O'Brien sia stato scritto negli anni '30 e sia uscito postumo solo nel 1967 è a mio parere un indice della scomodità delle idee di de Selby per l'establishment filosofico e scientifico.

Case

De Selby considera una fila di case come una fila di mali necessari. Attribuisce il rammollimento e la degenerazione della razza umana alla sua crescente predilezione per i luoghi chiusi e al sempre più scarso interesse per l’arte di uscire e stare all’aperto. Questa predilezione, a sua volta, è secondo lui, il risultato di attività come la lettura, il gioco degli scacchi, il bere, il matrimonio e cose del genere, ben poche delle quali possono essere esercitate convenientemente all’aperto. Egli definisce una casa “una vasta bara”, “una conigliera”, “una scatola”. È chiaro che la sua principale obiezione andava al senso di imprigionamento dato da un tetto e da quattro pareti. Attribuiva virtù terapeutiche piuttosto improbabili a certe strutture di sua invenzione, di cui si possono vedere alcuni rozzi disegni nelle pagine del suo Album di campagna. Queste strutture erano di due tipi: “case” senza tetto e “case” senza pareti. Le prime avevano porte e finestre senza chiusure e un’assai poco maneggevole sovrastruttura di tele cerate arrotolate su stanghe a protezione dalla pioggia. L’altro tipo aveva un normale tetto spiovente di ardesia, ma era privo di pareti, tranne che sul lato da cui in prevalenza spirava il vento; intorno agli altri lati c’erano le solite cerate arrotolate su stanghe sospese alle grondaie del tetto, e l’intera struttura era circondata da un canaletto che ricordava vagamente le latrine militari. Alla luce delle moderne teorie abitative e igieniche, non v’è dubbio che queste idee fossero grossolanamente sbagliate, ma ai suoi tempi remoti, più di una persona malata perse la vita illudendosi di ritrovare la salute in queste fantasiose dimore.

Giorno e notte

De Selby avanza l’ipotesi che la notte, lungi dall’essere causata dalla comunemente accettata teoria dei movimenti planetari, sia dovuta ad accumulazioni di “aria nera”, e cioè una tinta dell’atmosfera dovuta a certe attività vulcaniche troppo fini per essere viste a occhio nudo, nonché a certe “deplorevoli” attività industriali che producono cascami di carbone e tinture vegetali.

Come per tanti altri concetti di de Selby, è difficile cogliere il meccanismo dei suoi ragionamenti e confutare le sue curiose conclusioni. Le “eruzioni vulcaniche” si verificano solitamente alla “sera”, sono stimolate dal fumo e dalle combustioni industriali del “giorno” e sono intensificate in certi luoghi che, in mancanza di un termine migliore, possiamo chiamare “luoghi bui”. Un luogo buio è tale perché vi “germina” il buio. De Selby non fa alcun tentativo per spiegare per quale ragione un “luogo buio”, quale ad esempio una cantina, debba essere buio, e non definisce le condizioni che devono sussistere uniformemente in tutti i luoghi del genere perché la teoria abbia un fondamento. L’unica spiegazione offerta è la dichiarazione che “l’aria nera” è altamente combustibile, come sarebbe dimostrato dal fatto che enormi masse d’aria sono immediatamente consumate dalla più piccola fiammella.

Manca qualsiasi indizio di quegli esperimenti con i quali De Selby cercava sempre di sostenere le sue idee. Kraus (forse uno pseudonimo dietro il quale si nasconderebbe il maligno e ostile Du Garbandier) ci parla per una quarantina di pagine di certi esperimenti aventi soprattutto lo scopo di imbottigliare una certa quantità di “notte”. Le operazioni di imbottigliamento erano eseguite “per ovvie ragioni” con bottiglie di vetro nero, ma furono usate “con un certo successo” anche brocche di porcellana opaca.

Confutazione del movimento

Tra le molte sorprendenti dichiarazioni di de Selby, credo che nessuna possa competere con la tesi che «un viaggio è un'allucinazione». La frase si trova nell'Album di campagna accanto al ben noto trattato sui «tendamenta», le coperture di tela ch'egli sosteneva quali sostituti delle odiate case. La sua teoria, per quanto è dato comprenderla, sembra negare ogni valore di testimonianza all'esperienza umana. De Selby l'ha infatti definita come «una successione di esperienze statiche, ciascuna infinitamente breve».

Da questa premessa egli svaluta la realtà o la verità di qualunque progressione o serialità nella vita, nega il passaggio del tempo secondo il senso tradizionalmente accettato e attribuisce la comune sensazione di progressione, per esempio, nel viaggiare da un posto all'altro, o anche semplicemente nel «vivere», a un fenomeno allucinatorio. Se uno sta fermo in A, egli dice, e desidera stare in un luogo B, lontano da A, può farlo solo rimanendo fermo per intervalli infinitamente brevi in un numero infinito di luoghi intermedi. Pertanto, non v'è alcuna essenziale differenza tra ciò che accade quando uno sta fermo in A prima di partire per il «viaggio», e ciò che accade quando sta in uno dei tanti luoghi intermedi. De Selby parla di questi «luoghi intermedi» in una lunga nota a pie di pagina. Non si tratta, avverte, di punti arbitrariamente determinati sull'asse A-B, distanziati di tanti centimetri o di tanti metri. Li si deve intendere, invece, come punti infinitamente vicini tra di loro, e tuttavia sufficientemente distanziati da consentire l'inserzione, tra l'uno e l'altro, di una serie di altri «punti inter-intermedi», tra i quali si deve immaginare un'altra catena di altri punti di sosta, naturalmente non rigorosamente adiacenti, bensì disposti in modo da permettere l'applicazione dello stesso principio all'infinito.


L'illusione di progressione, egli dice, è da attribuirsi all'incapacità del cervello umano («nel suo presente sviluppo») di cogliere la realtà di questi «punti di sosta» separati, preferendo raggruppare insieme molti milioni di essi e chiamando il risultato «movimento»: procedimento assolutamente indifendibile, poiché lo stesso corpo non può assumere simultaneamente posizioni diverse, fossero anche solo due. Pertanto, anche il movimento non è che un'illusione.

Quale che sia la fondatezza delle teorie di de Selby, è ampiamente provato non solo che egli ne era sinceramente convinto, ma che fece diversi tentativi per metterle in pratica. Durante il suo soggiorno in Inghilterra, gli capitò di vivere per un certo periodo a Bath, e si trovò nella necessità di recarsi a Folkestone per affari urgenti. Il metodo che seguì fu tutt'altro che convenzionale. Invece di andare alla stazione, si chiuse in una stanza del suo appartamento con una provvista di cartoline illustrate della zona che avrebbe dovuto attraversare lungo il viaggio e di un complesso armamentario di orologi, strumenti barometrici e un congegno per regolare la luce a gas, a seconda dei cambiamenti di luce all'esterno. Che cosa accadde in quella stanza, e con quanta precisione furono manipolati gli orologi e gli altri arnesi, non si è mai. saputo. A quanto pare, dopo sette ore, egli ne emerse convinto di essere a Folkestone. Non si ha notizia del grado della sua delusione quando si ritrovò nel suo solito quartiere di Bath, ma secondo una testimonianza autorevole, sostenne, senza batter ciglio, di essere stato a Folkestone e di esserne già di ritorno. Si parla di un tale (il cui nome è rimasto sconosciuto) che dichiarò di aver effettivamente visto il pensatore uscire da una banca di Folkestone proprio quel giorno.

Il tempo

De Selby fu sempre affascinato dagli specchi, e vi faceva ricorso con tanta frequenza che asseriva di avere due mani sinistre e di vivere in un mondo arbitrariamente delimitato da una cornice di legno. Il suo commentatore Hatchjaw invoca a conferma di ciò le circa trecento pagine manoscritte dell’Album, in cui la scrittura va da destra a sinistra, come i Codici di Leonardo. Gli specchi furono all’origine della sua teoria del tempo.

Se un uomo si pone davanti a uno specchio e vede in esso la propria immagine riflessa, questa non è una vera riproduzione della sua persona, ma un'immagine di quando egli era più giovane. La spiegazione che de Selby dà di questo fenomeno è semplicissima. La luce, com'egli giustamente osserva, viaggia a una velocità finita e accertata. Pertanto, affinché il riflesso di un qualsiasi oggetto in uno specchio possa dirsi compiuto, è necessario che i raggi di luce prima colpiscano l'oggetto e successivamente collidano con la superficie dello specchio per poi essere nuovamente respinti verso l'oggetto. C'è pertanto un apprezzabile e calcolabile intervallo di tempo tra l'atto del gettare un'occhiata alla propria faccia riflessa in uno specchio e la registrazione dell'immagine riflessa nell'occhio di chi guarda.

Giusta o sbagliata che sia quest'idea, la quantità di tempo è talmente trascurabile che poche persone ragionevoli ne farebbero una questione. Ma de Selby, mai contento, si spinse più in là: egli rifletté la prima immagine riflessa in un secondo specchio, e dichiarò di notare in questa seconda immagine infinitesimali cambiamenti. Alla fine, costruì il suo famoso sistema di specchi paralleli, ciascuno dei quali riflette, un numero infinito di volte, immagini sempre più piccole dell'oggetto interposto. L'oggetto interposto, in questo caso, era la sua faccia, che egli sostiene di aver studiato percorrendo a ritroso un'infinità di immagini riflesse con l'ausilio di una «potentissima lente». Ciò ch'egli dichiara di aver visto con questa lente è stupefacente. Nelle immagini della sua faccia man mano che si allontanavano, egli sostiene di aver notato crescenti segni di ringiovanimento: la più distante, troppo piccola per essere visibile a occhio nudo, era la faccia imberbe di un ragazzino di dodici anni - per usare le sue stesse parole, «un sembiante di singolare bellezza e nobiltà». L'esperimento non poté essere condotto fino alla culla «a causa della curvatura terrestre e della limitata potenza del telescopio».

La forma della Terra

L'opera di de Selby, letta con obiettività per ciò che c'è scritto, offre una certa misura di autentico sostegno morale. Nell'Atlante del laico egli tratta esplicitamente i temi del lutto, della vecchiaia, dell'amore, del peccato, della morte e altre salienti questioni esistenziali. È anche vero che concede loro appena una mezza dozzina di righe, ma ciò è dovuto alla sua sconvolgente asserzione che tutte queste cose sono «superflue». Egli fa quest'affermazione come diretta conseguenza della sua scoperta che la Terra, lungi dall'essere sferica, è «a forma di salsiccia».

Ponendosi in un punto della presunta sfera, egli dice, sembrerebbe possibile muoversi verso quattro principali direzioni, e cioè nord, sud, est, ovest. Ma non ci vuol molto per capire che, in realtà, le direzioni sono due soltanto, in quanto il nord e il sud sono concetti privi di significato in rapporto a uno sferoide, e possono connotare il movimento in una direzione soltanto; lo stesso discorso vale per l'est e l'ovest. È possibile infatti raggiungere qualsiasi punto sulla linea nord-sud muovendosi così nell'una come nell'altra direzione: l'unica differenza manifesta tra le due «strade» riguarda il tempo e la distanza, aspetti estranei alla questione e dei quali si è già dimostrata l'illusorietà. Nord-sud è pertanto un'unica direzione, e così pure, chiaramente, est-ovest. Anziché quattro direzioni, dunque, ve ne sono due soltanto. Da ciò si può legittimamente concludere, dice de Selby, che anche quest'ultima tesi contenga un errore analogo e che vi sia in realtà una sola direzione possibile, poiché se uno parte da un qualsiasi punto del globo e continua ad avanzare in una qualsiasi «direzione», finisce per arrivare nuovamente al punto di partenza.

L'applicazione di questa conclusione alla sua teoria che «la terra è una salsiccia» è illuminante. Egli attribuisce l'idea che la terra sia sferica al fatto che gli esseri umani si spostano continuamente in una sola direzione conosciuta (pur essendo convinti d'esser liberi di muoversi in qualunque direzione) e che quest'unica direzione è in realtà intorno alla circonferenza circolare di una terra che è di fatto salsicciforme. È difficilmente contestabile che dalla fallacia della multidirezionalità derivi inevitabilmente quella della sfericità della terra. De Selby paragona la posizione di un essere umano sulla terra a quella di un equilibrista, il quale deve continuare a camminare lungo il filo teso o perire, pur essendo tuttavia libero sotto ogni altro riguardo. Il movimento entro questa ristretta orbita risulta nella permanente allucinazione convenzionalmente nota come «vita», con le sue innumerevoli e concomitanti limitazioni, afflizioni e anomalie. Se si riuscisse a trovare un modo per scoprire la « seconda direzione», dice de Selby, quella, cioè, lungo il «cilindro» della salsiccia, all'umanità si aprirebbe un mondo di sensazioni e di esperienze interamente nuovo. Nuove e inimmaginabili dimensioni sostituirebbero l'ordine attuale, e le molteplici «superfluità» dell'esistenza «unidirezionale» scomparirebbero.

De Selby è piuttosto vago sul metodo da usare per trovare questa nuova direzione. Non può certo essere, ammonisce, quello di una microscopica suddivisione dei punti conosciuti della bussola, e ben poco assegnamento si può fare su una serie di balzi improvvisi in questa o quella direzione, nella speranza di un qualche caso fortunato. Egli dubita che le gambe umane siano «adatte» per attraversare il «celestium longitudinale» e sembra suggerire che alla scoperta della nuova direzione sia pressoché sempre concomitante la morte.

Come sempre, esiste la prova ch'egli condusse alcuni esperimenti personali in proposito. Pare che a un certo momento egli sia giunto a vedere nella gravitazione il «carceriere» dell'umanità, ossia ciò che la mantiene sulla linea unidirezionale dell'oblio, mentre la libertà ultima sarebbe da ricercarsi in una qualche direzione ascensionale. Quale possibile rimedio passò alcune settimane a progettare certe «pompe barometriche» azionate «con mercurio e fil di ferro» destinate a depurare vaste aree terrestri dall'influenza della gravitazione.

venerdì 13 marzo 2009

Rafael Alberti e la sezione aurea




Rafael Alberti (1902-1999) è stato uno dei più grandi poeti spagnoli del secolo scorso. Assai impegnato politicamente, ha vissuto in prima persona le tormentate vicende della sinistra spagnola, dal Fronte Popolare, alla Guerra Civile, al lungo esilio (in Francia, Argentina, Messico e Italia), al rientro nel 1977 con il ritorno della democrazia.
La sua poesia è intrisa di una profonda, amara nostalgia. Straordinaria e surreale è la sua raccolta Sobre los angeles (Sugli angeli), composta intorno al 1928 dopo una lunga crisi spirituale. Gli angeli di Rafael Alberti sono angeli sconosciuti, buoni, disillusi e senza fortuna, rabbiosi, ammuffiti, di carbone. Sono anche angeli dell'ira, vendicativi, del mistero, avari, sciocchi, muti. Sono i suoi nascosti stati d'animo, le creature perdute nel tempo, i sogni che accompagnano e sostengono le nostre azioni quotidiane. Ecco il suo angelo dei numeri, in cui affiorano i ricordi di scolaro affascinato dal freddo suono del gesso sulla lavagna e dall’azione del cancellino sulle parole e sui numeri:

El ángel de los números
Vírgenes con escuadras
y compases, velando
las celestes pizarras.

Y el ángel de los números,
pensativo, volando
del 1 al 2, del 2
al 3, del 3 al 4.

Tizas frías y esponjas
rayaban y borraban
la luz de los espacios.

Ni sol, luna, ni estrellas,
ni el repentino verde
del rayo y el relámpago,
ni el aire. Sólo nieblas.

Vírgenes sin escuadras,
sin compases, llorando.
y en las muertas pizarras,
el ángel de los números,
sin vida, amortajado
sobre el 1 y el 2,
sobre el 3 y el 4...


L’angelo dei numeri
Vergini con squadra
e compasso, vegliando
le celesti lavagne.

E l’angelo dei numeri,
Pensieroso, volando
dall’uno al due, dal due
al tre, dal tre al quattro.

Gessi freddi e cimose
graffiavano e cancellavano
la luce degli spazi.

Nè il sole, la luna, né le stelle
nè il verde improvviso
del fulmine e del tuono
nell’aria. Solo nebbie.

Vergini senza squadra,
senza compasso, piangendo.
E nelle morte lavagne
l’angelo dei numeri,
senza vita, coperto dal sudario
sopra l’uno e il due,
sopra il tre e il quattro.

Un tema matematico compare nell’opera di Alberti anche nei Poemas del destierro y de la espera (Poesie dell’esilio e dell’attesa 1935-1975), con un’ode alla sezione aurea. L’opera è stata probabilmente ispirata dalla visione di un’edizione della Divina proportione di Luca Pacioli, (pubblicato a Venezia nel 1509 e arricchito dai disegni dei cinque solidi platonici di Leonardo da Vinci).

A la divina proporción
A ti, maravillosa disciplina,
media, extrema razón de la hermosura,
que claramente acata la clausura
viva en la malla de tu ley divina.

A ti, cárcel feliz de la retina,
áurea sección, celeste cuadratura,
misteriosa fontana de mesura
que el Universo armónico origina.

A ti, mar de los sueños angulares,
flor de las cinco formas regulares,
dodecaedro azul, arco sonoro.

Luces por alas un compás ardiente.
Tu canto es una esfera trasparente.
A ti, divina proporción de oro.


Alla divina proporzione
A te, meravigliosa disciplina,
media, estrema ragione della bellezza,
che chiaramente accetta la chiusura
viva nella rete della tua legge divina.

A te, carcere felice della retina,
sezione aurea, celeste quadratura,
misteriosa fonte di misura
che l’universale armonia origina .

A te, mare dei sogni angolari,
fiore delle cinque forme regolari,
dodecaedro blu, arco sonoro.

Luci per ali, un compasso ardente.
Il tuo canto è una sfera trasparente.
A te, divina proporzione dell’oro.

La sezione aurea è il rapporto fra due grandezze disuguali, a e b (con a > b), di cui la maggiore è il medio proporzionale tra la minore e la loro somma:

(a+b) : a = a : b

Se poniamo a+b = 1 si ricava per il rapporto tra a e b il valore:



Phi tende a mostrarsi nei luoghi più impensati, e ha affascinato matematici, biologi, artisti, musicisti, storici, architetti, psicologi, perfino mistici, ed è apparso come un simbolo dell'armonia dell'universo, un universo progettato da un dio matematico. Fu proprio il frate Luca Pacioli a parlare per la sezione aurea di “divina proporzione”. Molte di queste evenienze sono tuttavia esagerazioni: contrariamente da quanto erroneamente divulgato in libri e tramissioni televisive, non si ritrova la sezione aurea nelle piramidi egizie, né nel Partenone, nè nei quadri di Leonardo.

Nel suo libro dedicato alla sezione aurea (La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, Rizzoli, 2003) l’astrofisico e divulgatore americano Mario Livio riporta una piccola poesia del matematico Paul S. Bruckman, pubblicata nel 1977 sulla rivista Fibonacci Quarterly, che illustra alcune delle curiose proprietà matematiche di phi:

The golden mean
The golden mean is quite absurd
It's not your ordinary surd
If you invert it (This is fun),
You'll get itself, reduced by one
But if increased by unity
This yields its square, take it from me.


La sezione aurea
La sezione aurea è proprio strana,
non è la tua taciturna quotidiana.
Se la inverti (ciò non ti stressa),
ridotta di uno otterrai la stessa;
ma se l’accresci di un’unità
hai il suo quadrato, lo si sa.

Nelle traduzioni dallo spagnolo sono stato aiutato dai miei allievi peruviani Junior Bernales, Pier Gutierrez e Carlos Prada, tutti sedicenni, che ringrazio di cuore per la passione e la competenza.

lunedì 9 marzo 2009

Il sogno di Kekulé


Un grande scienziato, solo po’ bugiardo

Nel 1865 il tedesco August Kekulé (1829 –1896) fu il primo ad ipotizzare la struttura ciclica del benzene. Kekulé è considerato uno dei fondatori della moderna chimica organica e, nel 1858 aveva dimostrato come gli atomi del carbonio possano unirsi a formare lunghe catene. Nel caso del benzene considerò l'ipotesi che i sei atomi di carbonio fossero disposti ai vertici di un esagono regolare, con un atomo di idrogeno legato a ciascun atomo di carbonio. Affinché ogni atomo di carbonio fosse tetravalente, egli postulò un'alternanza di legami semplici e di legami doppi, che cambiano continuamente posizione lungo l'anello. Lo scienziato non volle rivelare come fosse arrivato a tale conclusione. Solo nel 1890, durante una festa in suo onore a Berlino chiamata Benzolfest, Kekulé raccontò che nell’inverno 1861-62, mentre risiedeva a Gand, in Belgio, in una buia stanzetta da scapolo, si era addormentato davanti al fuoco e nel sonno aveva visto un serpente che si mordeva la coda: “Ero seduto intento a scrivere, ma il lavoro non progrediva; i miei pensieri erano altrove. Girai la sedia verso il camino e mi appisolai. Di nuovo gli atomi giocavano di fronte ai miei occhi (…). Il mio occhio mentale, reso più acuto da questa ripetuta visione, era ora in grado di distinguere strutture più grandi di multiforme conformazione; lunghe file talvolta sistemate più strettamente, tutte sinuose e ricurve come il moto di un serpente. Ma guarda! Che cos’è? Uno dei serpenti aveva afferrato la sua stessa coda, e la forma girava beffardamente davanti ai miei occhi. Come per un lampo improvviso mi risvegliai e passai il resto della notte a elaborare la mia ipotesi.” Curiosamente una simile rappresentazione della struttura del benzene era comparsa nel 1886 nel Berichte der Durstigen Chemischen Gesellschaft (Giornale dell’Assetata Società di Chimica), una parodia, scritta in un linguaggio pseudo-accademico, del Berichte der Deutschen Chemischen Gesellschaft, con la sola differenza che il testo umoristico parlava, invece che di un serpente, di scimmie che si afferrano a vicenda formando un cerchio. Alcuni hanno ipotizzato che la parodia fosse una satira dell’aneddoto del serpente, che doveva circolare oralmente già prima del racconto in una sede ufficiale. Altri hanno addirittura pensato che Kekulé nel 1890 abbia voluto a sua volta prendersi gioco della burla delle scimmie, per cui il sogno del serpente sarebbe una mera invenzione. Altri ancora non escludono che lo stesso Kekulè fosse tra i buontemponi del finto giornale. A complicare le cose esiste il racconto di un altro sogno, fatto nella stessa festosa occasione da Kekulé, secondo il quale la danza di atomi e molecole che gli avrebbe ispirato la precedente scoperta dei legami tra gli atomi di carbonio nelle catene degli alcheni e degli alchini, sarebbe stata vista – disse – in un dormiveglia durante un viaggio su un omnibus a cavalli a Londra, nel 1853: “Durante il mio soggiorno a Londra abitavo in Clapham Road. (…) Spesso passavo le serate con il mio amico Hugo Mueller (…) Parlavamo di molte cose, ma soprattutto della nostra amata chimica. Una sera di fine estate [mentre] tornavo a casa con l’ultimo omnibus (…) caddi in una reverie e, ecco, gli atomi serpeggiavano davanti ai miei occhi. Tutte le volte fino ad allora in cui questi minuscoli esseri mi erano apparsi, erano sempre stati in movimento. Ora, invece, vedevo come, spesso, due atomi più piccoli si univano a formare una coppia; come una coppia più grande abbracciasse i due più piccoli; come alcune ancor più grandi afferrassero tre o anche quattro dei più piccoli; come il tutto continuasse a girare in una danza vertiginosa. (…) Il grido del conduttore “Clapham Road!” mi risvegliò dal sogno, ma passai una parte della notte a mettere su carta i primi abbozzi di queste forme viste in sogno”. A questo punto si potrebbe pensare che il chimico tedesco fosse o un gran bugiardo o un gran burlone, senza escludere che fosse entrambi contemporaneamente. Ma non è finita qui. Nel 1984 i biochimici americani John Wotiz e Susanna Rudofsky vollero indagare il motivo che aveva spinto Kekulé a un così lungo silenzio sulla circostanza del sogno. Negli archivi di Kekulé all'Università di Darmstadt, i due studiosi trovarono una lettera scritta nel 1854 a un editore tedesco, in cui lo scienziato proponeva la pubblicazione del testo Methode de Chemie del chimico francese Auguste Laurent (1807–1853), comparso postumo nel 1854. Trovarono inoltre una pubblicazione del 1858 in cui Kekulé citava di nuovo il saggio di Laurent, e in particolare la sua pagina 408. In effetti, alla pagina 408, il chimico francese proponeva per il cloruro di benzoile una formula di struttura esagonale: Insomma, quando Kekulé rese pubblica la formula, in realtà già la conosceva da almeno 11 anni. Una difficoltà nel progresso della scienza è il bisogno di molti scienziati di riconoscimento e status. Il riconoscimento del mondo scientifico è una delle priorità nel pubblicare nuovi risultati. La cosa triste è che gli scienziati, anche quelli grandi, non sempre sono modelli di rettitudine morale quando si tratta di reclamare la propria primogenitura su una scoperta. Tuttavia è ormai raro che una scoperta venga fatta da un singolo ricercatore. Diverse scoperte simultanee sono la norma. Perciò le dispute sulla priorità sono inevitabili. Anche a costo di ricorrere a bugie e storie fantastiche, magari riprese dalla tradizione o dalla letteratura.

Kekulé non dice se aveva già incontrato l’immagine serpentiforme prima del suo fantomatico celebre sogno (quello di Gand, non quello di Londra), ma è probabile che l’abbia vista in un libro o in un museo, perché si tratta di un simbolo con una lunga storia in molte culture. E anche sulla scoperta ispirata da un sogno c’è qualcosa da dire. 

L’uroboro 

 L’immagine di un serpente (o di un drago) che si morde la coda (Ouroboros) compare in tutto il mondo già dai tempi protostorici, dall’Egitto alla Grecia, dall’India all’America centrale, e continua a essere presente nelle sculture delle cattedrali medievali e nella tradizione alchemica. Furono i greci a dargli il nome con il quale oggi lo designiamo, che significa proprio “che si mangia la coda”. Questa figura rappresenta, in forma di cerchio zoomorfico, l’eterno ritorno, l’esistenza di un nuovo inizio che avviene inevitabilmente dopo ogni fine. L’uroboro rappresenta mediante il cerchio la metafora espressiva di una riproduzione ciclica, come la morte e la rinascita, la fine del mondo e la creazione, e di conseguenza anche l’eternità iconograficamente rappresentata dal cerchio stesso. L’uroboro è anche la coincidenza degli opposti ed è talvolta associato alla figura dell’androgino, l’unione dei principi femminile e maschile che si realizza in alchimia nel compimento dell’opera, nella Pietra Filosofale. Curiosamente ho trovato quest’immagine anche in una delle più belle canzoni di Leonard Cohen, Last Year's Man (1975), dove è utilizzata per descrivere poeticamente un rapporto sessuale: "And when we fell together all our flesh was like a veil That I had to draw aside to see the serpent eat its tail." E quando insieme cademmo Tutta la nostra carne era come un velo Che avrei voluto tirar da parte Per vedere il serpente mangiare la sua coda.. Carl Gustav Jung considerò l’uroboro come un archetipo e interpretò il sogno di Kekulé come un esempio di criptomnesia, o plagio involontario. Secondo lo psicanalista svizzero, si ha criptomnesia quando una persona ricorda erroneamente di aver avuto un’idea che in realtà non è sua. Il suo plagio non è dovuto a intenzione, ma a una distorsione nel meccanismo della memoria. Nel mondo della musica capita di frequente. 

Il sogno ispiratore

Le circostanze del secondo sogno di Kekulé, quello dell’uroboro, ricordano quelle della visione che avrebbe ispirato al poeta romantico inglese Samuel Taylor Coleridge la scrittura del poema incompiuto Kubla Khan, uno dei suoi capolavori. Ecco il racconto che fa lo stesso Coleridge parlando in terza persona nelle note che accompagnano la prima pubblicazione dell’opera (1816): “Nell'estate dell'anno 1797 l'autore, infermo, si era ritirato in una fattoria solitaria tra Porlock e Linton, (…) A causa di una lieve indisposizione era stato prescritto un anestetico [in realtà era oppio], per effetto del quale egli si addormentò seduto mentre leggeva nel Pilgrimage di Purchas la seguente frase, o parole analoghe: "Qui il khan Kubla ordinò che fosse costruito un palazzo con annesso un imponente giardino. Così dieci miglia di terreno fertile furono circondate da un muro". L'autore continuò a dormire profondamente per tre ore, almeno per quanto riguarda i sensi esteriori, e in questo periodo di tempo egli ha la più viva certezza di aver composto non meno di duecento o trecento versi, se invero può dirsi composizione il sorgere davanti a lui di tutte le immagini come cose, ciascuna accompagnata dalle espressioni corrispondenti, senza alcuna sensazione o consapevolezza di sforzo. Al risveglio gli parve di ricordare chiaramente il tutto e, prendendo carta, penna e inchiostro, subito e rapidamente mise per iscritto i versi che sono qui preservati. A questo punto fu malauguratamente chiamato fuori da una persona venuta da Porlock per affari (…) e quando tornò alla sua stanza scoprì con non poca sorpresa e delusione che, per quanto conservasse un vago e impreciso ricordo del significato generale della visione, tutto il resto, a eccezione di otto o dieci versi e immagini slegati, era svanito come le immagini sulla superficie di un corso d'acqua in cui è stata gettata una pietra, ma, ahimè, senza che esse si ricomponessero in seguito!”

Come gli atomi di carbonio di Kekulé, il testo casualmente letto dal poeta inglese prende a germinare e a moltiplicarsi: nel sonno prende corpo una serie d'immagini visuali e, semplicemente, di parole che le manifestano. Al risveglio l’idea della struttura del benzene e il poema sono lì, come ricevuti in dono, e al sognatore non rimane che mettere per iscritto quanto ricorda. E ciò che ricorda Coleridge è di rara bellezza:

In Xanadu did Kubla Khan A stately pleasure-dome decree: Where Alph, the sacred river, ran Through caverns measureless to man Down to a sunless sea. So twice five miles of fertile ground With walls and towers were girdled round: And there were gardens bright with sinuous rills, Where blossomed many an incense-bearing tree; And here were forests ancient as the hills, Enfolding sunny spots of greenery. (…)

The shadow of the dome of pleasure Floated midway on the waves; Where was heard the mingled measure From the fountain and the caves. It was a miracle of rare device, A sunny pleasure-dome with caves of ice! A damsel with a dulcimer In a vision once I saw: It was an Abyssinian maid, And on her dulcimer she played, Singing of Mount Abora. Could I revive within me Her symphony and song, To such a deep delight 'twould win me, That with music loud and long, I would build that dome in air, That sunny dome ! those caves of ice! And all who heard should see them there, And all should cry, Beware! Beware! His flashing eyes, his floating hair! Weave a circle round him thrice, And close your eyes with holy dread, For he on honey-dew hath fed, And drunk the milk of Paradise. Kubla Khan fece in Xanadù Un duomo di delizia fabbricare: Dove Alfeo, sacro fiume, verso un mare Senza sole fluiva giù Per caverne che l'uomo non può misurare. Per cinque e cinque miglia di fertile suolo Lo circondò con torri e mura; C'erano bei giardini, ruscelli sinuosi, Alberi da incenso in fioritura; C'erano boschi antichi come le colline E assolate macchie di verzura.

(…)

L'ombra del duomo di delizia Fluttuava sull'acqua a mezzo via, Dove si confondeva il ritmo sovrapposto Della fontana e delle grotte. Era un prodigio di rara maestria: Antri di ghiaccio e cupola solatìa.

Una fanciulla con salterio Io vidi in una visione: Era una giovane Abissina E col suo salterio sonava, Del Monte Abora cantava. Potessi in me resuscitare Quel suo canto e melodia, Vinto di gioia ne sarei, Di piena musica nell'aria Quel duomo anch'io fabbricherei, Quelle grotte di ghiaccio, la cupola di sole! E ognuno che ascoltasse li vedrebbe, Tutti gridando: attento! Attenti! I suoi occhi di lampo, le sue chiome fluenti! Fargli tre volte intorno un cerchio, Chiudi gli occhi con santo timore, Perché con rugiada di miele fu nutrito E bevve latte di paradiso.

Il caso, benché straordinario, non è unico. Il violinista e compositore Giuseppe Tartini sognò che il Diavolo (suo schiavo) eseguiva sul violino una prodigiosa sonata; il musicista, una volta sveglio, trasse dal suo imperfetto ricordo il Trillo del Diavolo. Un altro esempio di creazione incosciente è quello di Robert Louis Stevenson, al quale un sogno (come egli stesso ha narrato) dette, nel 1884, l'argomento di Jekyll e Hyde.

Forse non si sogna più come una volta.


domenica 8 marzo 2009

Giornata della Donna



Puntuale come l'influenza d'inverno, ecco che arriva il poeta.

Buona Giornata della Donna a tutte!

BALLATA DELLE DONNEEdoardo Sanguineti

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia:

quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace:

quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire:

perchè la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente

femmina penso, se penso l'umano
la mia compagna, ti prendo per mano.


da Il gatto lupesco (poesie 1982-2001), Feltrinelli

sabato 7 marzo 2009

Poesie monovocaliche



La poesia monovocalica è uno dei giochi letterari più noti e non occorre essere oulipiani per conoscerla. In Italia il suo maestro indiscusso è Giuseppe Varaldo. Di professione dermatologo, virtuoso prestigiatore di parole, enigmista, Varaldo è autore di alcuni tra i più lunghi palindromi in italiano: uno sul tema di Penelope (1041 lettere), uno sulla scoperta dell’America (630 lettere), uno sulla vittoria italiana ai Mondiali del 1982, di 4587 lettere (!). Varaldo ha pubblicato All'alba Shahrazad andrà ammazzata (Vallardi, 1993), con una divertita prefazione di Umberto Eco e di un’illuminante post-fazione di Stefano Bartezzaghi. Si tratta di quaranta sonetti, di metrica e prosodia regolari, ognuno dedicato al riassunto di un capolavoro della letteratura universale. Ogni sonetto è composto usando una sola delle cinque vocali. Ecco il Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand:

Confronto ognor lo sbocco forforoso
col corno, col trombon, col vòto dosso,
o l’osso con l’omologo Colosso.
Non sopporto sfottò o motto ontoso:

lo stolto (provocò l’onor focoso!)
lo tocco con lo stocco, lo fo rosso.
Col moccolo fo colmo pozzo o fosso,
lo scrosto con lo scovolo ‘sto coso.

Col nostro – non lo nomo – soffro molto:
troppo grosso lo mostro... mostro sono:
lo zoccolo sformò l’ombroso volto!

Non complotto, non mormoro, non stono,
collotorto non sono, sono colto...
Sposo non son, sto solo, non corono!


Così Varaldo ha riassunto il Vangelo:

Dalla casa natal (capanna? stalla?)
all'annata fatal, dal mar a Cana,
Satana scansa, campa alla spartana,
va tra la massa scalza, spalla a spalla.

Ama parlar d'amar, l'amar avalla:
ma la gamba malata, la mattana,
l'anca ch'arranca - abracadabra - sana.
La sacra saga al dramma s'accavalla:

data la bastardata mal pagata,
fatta dal tal ch'avrà dannata l'alma,
data la tanta calca scalmanata

ch'all'affrancar Barabba starà calma,
l'ammazzan; ma alla bara spalancata
manca (fantasma par!) la cara salma.


Una certa fama hanno ottenuto le monovocaliche del gruppo di poesia ludico sperimentale "Bufala Cosmica" (Marco Ardemagni, Alessandra Berardi, Gianni Micheloni, Antonio Pezzinga), autori di Rime tempestose (Sperling & Kupfer, 1992). Due di queste (I ciclisti, Ho l’orto) hanno avuto l’onore del teleschermo, quando le ha recitate Ugo Dighero, ospite del suo ex socio Broncoviz, Maurizio Crozza (qui l’esilarante interpretazione della seconda):

Ho l’orto
Non sono solo, sono con otto.
Con otto? Non so...
Solo solo lo poso, solo lo sgobbo.
Con loro otto lo colgo.
Con loro otto, porco mondo, lo godo.
Solo pongo orzo, sorgo, porro, pomodoro.
Non con loro!
Solo lo poto, lo sgombro, lo coccolo,
lo contorno col fosso
sgombro lo scolo, lo sormonto col dosso,
fo l’orco con lo storno o col topo col corvo,
col colombo o col tordo...
Oh, non lo scordo.
Sono stronzo?
No! Lo sono loro...
Lo so, ho torto
non ho polso con costoro
o non ho bon ton:
provo con Dodo, con John,
con Romolo, con Rodolfo, con Ron.
Propongo l’orto
cos’ho: conforto?
No, ho solo ‘sto coro:
"Non posso, non posso...
Non posso, son sotto concorso
non dormo, non sono pronto
ho lo scolo, non sono solo,
sono solo col nonno, son morto!"
Sporco mondo corrotto!
Non ho conforto....
Sopporto lo scotto
obtorto collo, tonto...

Poco dopo controllo l’orto:
ho troppo rovo
troppo poco pomodoro
non scorgo sorgo
l’orzo non lo trovo.
Solco toppo profondo?
Troppo poco posto?
Posto con troppo sol
o troppo fosco?
Boh!
Do lo zolfo? No, son contro!

Pomodoro...
lo sogno rosso, grosso, rotondo,
odoroso no,
lo trovo storto,
mollo, morso, bolso, corroso
Con foro!
T’ho colto mostro morboso!
Oh, non l’ho colto solo,
poco dopo lo scopro:
sono otto!
Corrono tondo tondo
col loro corpo rotondo
color oro.
Sono otto, sono loro!
Non controllo lo sconforto:
do lo zolfo
lo soffoco col cloro
col cromo, col bromo solforoso
lo sporco morbo morboso!

O lo soffoco,
o l’orto lo scordo
morso dopo morso
foro dopo foro
mostro dopo mostro!
Do lo zolfo!
Comodo, poco costoso...

No, non lo do, son contro!


Si parva licet, anch’io mi sono cimentato con il genere. Ecco il risultato: ditemi che cosa ne pensate.

Sì, li vidi

Li vidi distinti,
mitici, cinici, tristi.
Sì,
in primis vidi
i lividi visi
di invitti militi ittiti.
Vidi i tipici ciprinidi
di libici lidi,
gli indicibili mitili
di idrici infiniti.
I vini di Brindisi,
i tini di sidri citrini.
I brividi di pii stiliti,
intirizziti, di riniti intrisi;
i cilici di mistici
discinti, intimiditi.
I ciclici giri
di pitici riti,
gli spiriti frigi,
cinti di mirti divini.
I finitimi Lidi
infidi, i ricci tinti,
i sistri ritmici,
i fittili triclini.
Gli invisibili siti
di virili ginnici siri,
gli ippici sinistri
di ricchi principi sciti.
I mirifici inni, i distici
gli ibridi stili
di tristi lirici irpini,
Finiti i limiti civili,
vidi i plinti incisi
di piritici triliti
di Pitti, i visi dipinti,
gli insistiti gridi di Cimbri,
gli schivi primi Vichinghi
di climi rigidi.
Sì, li vidi.


Indi finii. Il gin? Smisi.

Vidi in infimi TG
crisi di listini, indici piccini,
primi ministri 
ricchissimi, disinibiti,
vili.
Crimini, cimici, 
missini sifilitici,
strilli di grilli,
divi, miss in slip.
Finii in tilt.

I gin? Mi ci rimisi: tripli.

lunedì 2 marzo 2009

Milton e Galileo secondo Giacomo Zanella




L’incontro tra John Milton e Galileo Galilei, di cui mi sono già occupato in precedenza, colpì molto l’immaginario ottocentesco. Giacomo Zanella dedicò all’episodio un poema di 980 versi, scritto in uno stile un po’ ostico per la sensibilità odierna e dalle vaghe tentazioni miltoniane, intitolato proprio Milton e Galileo, che uscì nella sua prima raccolta poetica.

Nella dedica all’amico Fedele Lampertico della prima edizione dei suoi versi, Zanella scrive: "I soggetti che più volentieri ho trattato sono quelli di argomento scientifico, ma non è già l'oggetto della scienza che mi paresse capace di poesia, bensì i sentimenti che dalle scoperte della scienza nascono in noi; per questo non ho mai posto mano ad uno di questi soggetti, che prima non avessi trovato il modo di farvi campeggiare l'uomo e le sue passioni, senza cui la poesia, per ricca che sia d'immagini, è senza vita. Ciò si vedrà ne’ versi, che hanno per titolo MILTON E GALILEO (…) Milton giovane, viaggiando in Italia, ebbe agio di vedere Galileo. Lo ricorda egli stesso nella sua Aeropagitica; e da due passi del poema, in cui tocca della Luna veduta col telescopio del Toscano geometra, si può argomentare che l’Italiano facesse godere l’Inglese quello spettacolo allora nuovo. Quella visita mi parve soggetto opportuno ad esporre alcune idee sulla religione e sulla scienza, che altrimenti non mi sarei avventurato a mettere in versi”.

Le “idee sulla religione e sulla scienza” dello Zanella sono innovative per un sacerdote della sua epoca (sul soglio pontificio sedeva Pio IX), in quanto cercano di inserire le scoperte scientifiche e le novità tecnologiche in un disegno provvidenziale. Così Galileo ci viene presentato come un cattolico osservante, quasi comprensivo per i suoi inquisitori, pronto a controbattere alle osservazioni indignate del giovane protestante Milton, fino quasi a convincerlo. Trovo tuttavia curioso ed inquietante che si tratta dello stesso Galileo che ci viene presentato oggi, dopo centocinquanta anni, dai vertici ecclesiali e dalla saggistica parascientifica e agiografica degli scienziati devoti alla Zichichi.

L’opera si apre con l’arrivo di Milton nell’esilio galileiano di Arcetri, dove lo scienziato, vecchio malato e ormai cieco, è accudito dalla figlia Maria, suora del vicino convento:

A te levo il pensier, Milton divino.
Ed a te, Galileo, quando seduti
Sui toschi poggi a libero sermone
L' eccelse anime apriste. E non v' intese
Altri che 1' ombre della queta sera,
Le mute siepi e le sorgenti stelle
Che parean su' romiti orti d' Arcetri
Piovere ossequiiose il primo raggio.

L’orgoglio dello studioso è il primo a emergere nell’animo di Galileo:

“Aprimi il ver. Son io creduto ancora?
Fra i magnanimi pochi a cui rifulse
De' novi dommi il raggio, i miei volumi
Ancor son vivi? Ovver dal dì che affranto
Dall' etade e da' morbi, io derelitto
Vecchio tremante, delle corti ignaro.
Avvolto di nemici e combattuto
Da mortali terrori, alle minacce
Del Vatican m' arresi e la parola
Rinnegatrice di mie glorie emisi,
Tutto forse perii ? Perì la luce
Ch'io primo accesi? Nell'antica notte
Ricadranno le genti, a cui sì bella
Di secolo miglior 1'alba sorgea?”

Milton lo rassicura:

“De' tuoi naufragi il Vaticano, e chiuso
Nel silenzio sperò di questi colli
L' odiato vero. Ma la tua parola
Indefessa viaggia, e non del Reno
Alle rive soltanto e del Tamigi,
Ove già franco de' vetusti ceppi
Liberissime vie batte il pensiero;
Ma del nemico Tevere sull'onde
Venerata risuona; e qualche pio.
Cui la porpora ancor dell' intelletto
Il lume non offese, a' novi veri
Segreto applaude, e sulle tue sventure.
Che immortale di Roma onta saranno,
Versa, arrossendo, generoso pianto”.

Ma il pisano lo sorprende con una dichiarazione di fedeltà alla chiesa romana:

“Ma de' miei padri mi sarà giocondo
Addormentarmi nella Fé : ne andranno
Le mie figlie felici; e di riposo
A questa faticata anima Iddio
Largo sarà, di cui l'augusto accento
A riverir nel Roman Padre appresi”.

Provocando l’indignata reazione dell’inglese, che critica lo sfarzo del papa e dei cardinali:

“Supremo regnator 1' uom che de' servi
Servo si chiama. Allor dal tempio in bando
Le virtù se n' andar che fean la stola
Venerabile al mondo. Allor d' imperi
E di porpore e d' oro una superba
Febbre i cori riarse : empio mercato
Di mendaci dispense e di perdoni
Entro il tempio s' aprì : la terra accorse
Credula, e l'oro al poverel negato
Cesse all’altar, perchè più sontuosi
Ondeggiassero i manti al sacerdote,
E di fuggenti colonnati e d'aule,
Come il deserto, paurose, avvolti
Fossero al molle Archimandrita i sonni.
(…)
Tal Roma io vidi. E tu, Divino, a questo
Di bugiardi splendori idol caduco
La fronte inchini trepidando? Tu
Sovra la curva de' rotanti soli
Uso a colloqui coli' Eterno, udirne
Credi la voce d' un Urban sul labbro?”

Il Galileo di Zanella replica, rimproverando coloro che si sono allontanati da Roma, con la tipica visione ecumenica dei cattolici: tutti uniti, ma sotto il papa:

“Figlio, dell' uomo tu nel cor non leggi,
E poeta non sei. L' Onnipotente
Ben io nel volto delle stelle adoro :
Pur quando all'alba 1'umile chiesuola,
Che vedi là, m'accoglie, e l’inno ascolto
Delle devote vergini, lo Sposo
Propizianti a' nostri error, più cara
Né nien solenne dentro mi risuona
La voce dell' Eterno”.
(…)
Nel superbo pensier tutto raccolto,
'”Perchè, dicea, perchè l' eroica gente
Che pe' lati Oceàni alle venture
Schiatte prepara gli opulenti seggi
D' inclite industrie, se comuni i fasti
Ed il sangue ha comun, perchè l’altare
Non ha comune, ed unica non suona
De' fratelli la prece ? A suo talento
Perchè ciascuno Iddio si foggia, e muta,
Come muta stagion, riti e costumi?
Ah, se custode de' celesti veri
Autorità non siede e sola il pane
Di sapienza a' parvoli non frange,
D' umane fantasie ludibrio, o fìglio.
Vedrai farsi l'Eterno; e stanca l'alma
Del vano fluttuar, come fanciullo
Indispettito che le case atterra
Fabbricate per gioco in sulla sabbia,
Gl’idoli suoi respingere, e la creta
Delirando abbracciar, ultimo nume”.

Il dialogo viene interrotto dai canti delle suorine intente al vespro serale nella chiesa del vicino convento. Riprende con la richiesta di Milton di provare il telescopio. Galileo lo fa portare dalla figlia e si lancia in una lunga apologia della rivoluzione resa possibile dallo strumento, con la Terra che ha perso la sua posizione privilegiata (ma la ragione dell’uomo ne è stata glorificata) e con il Sole diventato il centro dell’universo (ma le sue macchie mobili ne turbano la perfezione) :

E questa Terra che un vetusto orgoglio
Dell' universo salutò reina,
Stabil reina, a cui ministri intorno
Il sole si aggirassero e le stelle
Disseminate per l'immenso vano,
Io, giusto librator, balzai di trono
E fra l’ancelle rilegai. Le toghe
Furibondi squarciar, d'alti clamori
Assordarono i chiostri e le tribune
I novi Scribi, a cui l'adulterato
Aristotile e l'irto sillogismo
Fruttavan agi, riverenza e fama.
Me temerario novator; di Roma
Me schernitor gridarono i maligni.
Me blasfemo e sacrilego: le genti
Teser l’orecchio abbrividendo; un motto
Poi lanciar sul caduto e dileguaro.
Io di Roma nemico? Se di Dio
A lei cale diffondere l'onore.
Opra feci diversa io, che nel tempio
Delle divine glorie non fumante
Cera o vile licor, ma sterminati
Gruppi di soli, pria non visti, accesi?
Io rapitor di sua corona all' uomo ?
Io che tratta di dosso al vanitoso .
Una porpora irrisa, ale gli diedi
Da spaziar nell' Infinito, e gli astri.
Ultime scolte a' limiti del mondo,
Di sua ragion sommettere al comando?
(…)
E tu, vase di fiamma, astro gigante,
Che regalmente la movenza affreni
De' seguaci pianeti, augusto Sole,
Dell' immoto tuo soglio e de' torrenti
Lucidi, che pel nero etra diffondi.
Non. superbir! Col vindice baleno
Le mie pupille saettasti intente
Nel tuo volto sovran ; ma non sapesti
Già le tue macchie ascondermi, o nebbioso
Genitor della luce. Ampi di fumo
Oceani io distinsi e rubiconde
Isole fluttuar entro il tuo seno
Ch' incessante bufera agita e squarcia.

Finalmente il giovane Milton può accostare l’occhio alla lente del telescopio. Il dialogo tra i due giunge persino ad ipotizzare l’esistenza degli extraterrestri, ma si conclude con un invito di Galileo a non trarre conclusioni che il libro della natura non può e non vuole svelare:

Lo sguardo v'appressò, né lungamente
Stette l'Anglo a mirar, che si ritrasse
Impaurito dell' arcana possa
Che al ciel pareva avvicinarlo. Immota
Maria sorrise; ed ei riscosso alquanto
Dall’immenso stupor, “Montagne e valli,
Esclamava, toccai! Tra mondo e mondo
Qual ponte hai steso, o Galileo! Ma dimmi :
Quegli aspetti son veri? O vana immago
Svia con bugiarda somiglianza il senso?”
(…)
'”E vi son mari e fiumi? Il suol s' ammanta
D' erbe e di mèssi? Le felici lande
Sguardo rallegra d' anime viventi?”
E l’austero Geometra: “Tu chiedi
Più che non possa mia scienza apporti ;
Né mai giorno verrà che a tanto attinga
Intelletto mortai. Ma quando io scerno
Che abitabili piagge han Marte e Giove,
E di spirabil aere vestita
Iride e nembi Venere conosce.
Credibile non parmi che Colui,
Che l’ostel fabbricò, voto il lasciasse
D' abitatori. Esìl grano d' arena
Nell’oceàn degli esseri è la terra.
Sé noi, cotanto in fondo, i firmamenti
Pur abbracciam coll’alma, e contemplando
Di giro in giro ci leviamo a Dio,
Chi torrammi la fé, che popolate
Sian di più pure, amanti Intelligenze
Le più nobili sfere, e ripercosso
Da tutti quanti i cieli, unico, immenso
Inno di lode al Creator risuoni?
Tal mi detta una fé; sull’alto arcano
Tace scienza.”
(…)
“Allor ch' io venni
Ne' suoi giardini, a me disse Sofia:
Figlio, del mondo le riposte origini
Non ricercar, né a qual lontano termine
L' universo si volva : impervie tenebre
All' umana ragion, quando la fiaccola
La Fé non alzi e 1' atro calle illumini.
Modesta più, ma men fallace indagine
A te fia di natura il libro svolgere
Che chiuso giace, di segrete sillabe
Tutto vergato e d'incompresi numeri”.

E l’orgoglio dell’uomo non lo spinga alla perdizione. Galileo (cioè Zanella) denuncia l’arroganza dell’uomo che, pieno della sua scienza, si è sostituito a Dio:

L' uom trascorre la terra, ed al suo cocchio
Docili aggioga le selvagge forze
Che gli evi tenebrosi empiean di larve.
L' ali incatena al fulmine: il listato
Cinto fura alla luce; e gli elementi
A suo senno stemprando, a novi corpi
Origin dona : civiltà procede,
E di saper, di costumanze e d'agi
Più nobil fassi e più gentil la vita.
Cotanta di trofei mèsse corranno
Lungo il sentier, che ritentando io schiusi,
Le non remote età! Di sue conquiste
Il mortai tuttavia non inorgogli;
Né sé creda alle cose unico sire.
Unica legge e fine. I monti adegui :
Misuri i mari: annoveri le stelle ;
Ma dì non sia, che baldanzoso usurpi
Trono non suo (…)

Milton sembra convinto, e si propone di scrivere un’opera sulla caduta dell’uomo provocata dall’orgoglio (sarà il Paradiso perduto):

Che virtù nova dalla tua parola
Attinge, Galileo. Veglio divino!
Poi che sinistro antiveder t' accora,
E paventi che tumida d' orgoglio
Scienza contro Dio l'armi non prenda;
Io rammentando al secolo superbo
L' antico fallo, ond' abbia esempio e freno,
Dell' uom la prima inobbedienza e '1 frutto
Canterò del vietato arbore, amaro
Frutto letal, che sulla terra addusse
Onda infinita di sciagure e morte.
Oltre l’Eden perduto ; infin che scende
Da' cieli a ristorarne Alma più grande
E ne racquista le beate sedi”.

Alzossi Galileo. Congratulando,
Come l’uom fa ch’alti proposti intende,
il giovane abbracciò. L' aura notturna
Già le membra pungeva : all' orizzonte
Chinata era la luna. Al fedel braccio
Di Maria s' appoggiò l' augusto vecchio,
E verso la magion prese il sentiero.
Per un istante il capo ella rivolse,
E sparsa di rossor, le poche rose
Ch' avea raccolte e timido saluto
Diede al garzon, che ravvolgendo in core
Sublimi visioni, inscio de' fati
Che in patria 1' attendean, scese dal colle.

Complimenti a chi mi ha seguito fin qui.