venerdì 30 ottobre 2009

La scienza dilettevole (3)

L’elettroscopio

Ripiegate un filo di ferro a foggia di Z a due angoli retti, come l'indica il nostro disegno, ponete il ramo orizzontale superiore sull'orlo di un bicchiere e collocatevi al disopra un piccolo vassojo od una piastra di metallo.

Il braccio verticale non dovrà toccare il vetro, e il ramo orizzontale inferiore sosterrà una strisciolina di carta di stagno piegata in due e posta a cavallo su di essa.

Se voi soffregate ora una bacchetta di vetro oppure un bastone di ceralacca con uno strofinaccio di lana, e avvicinate l'una o l'altro all'orlo del vassojo, vedete tosto le due fogliuzze di carta di stagno respingersi violentemente l'una l'altra, come sarebbe avvenuto coll'apparecchio ben noto dei gabinetti di fisica, l'elettrometro o elettroscopio dalle fogliuzze d'oro.

L'eccellente elettroscopio che avete or ora improvvisato vi permetterà, non solo di constatare se un corpo è o no elettrizzato, ma vi renderà edotti altresì di quale specie d'elettricità, vuoi positiva, vuoi negativa, quel corpo è caricato.

Avviciniamo, per esempio, al vassojo un pezzo di carta ben secco che avremo elettrizzato soffregandolo vigorosamente con una spazzola, e mentre le foglie del nostro elettroscopio si scostano sotto l'influenza di quella carta, tocchiamo il vassojo col dito. Le fogliuzze cadono, ma se ritiriamo il dito e poscia il pezzetto di carta, divergono di nuovo. L'apparecchio è allora carico di elettricità contraria a quella della carta. Per constatare quale è questa elettricità avviciniamo lentamente al vassojo la bacchetta di vetro soffregata colla lana, e vediamo la divergenza delle foglie farsi maggiore, locchè indica che l'elettricità del nostro elettroscopio è dell'egual specie di quella del vetro, e cioè positiva. Il nostro foglio di carta era dunque carico dell'elettricità contraria, ossia negativa.

In senso inverso, quando la divergenza avesse diminuito, concluderemmo che il corpo da studiarsi era carico d'elettricità positiva.


Un altro articolo tratto dall’edizione italiana de La scienza dilettevole di Tom Tit (1890), in cui si propone l’ingegnosa costruzione di un elettroscopio domestico. Qualcosa di simile ci fece vedere nei primi anni ’60 la mia maestra delle elementari, la signorina Luciani, una fiorentina che mi iniziò all’amore per la scienza e per l’arte. Il mio ricordo sia un auspicio perché mai si sottovaluti il lavoro prezioso degli insegnanti della scuola primaria.

mercoledì 28 ottobre 2009

Il limerick in Italia


Gli esordi

Il lettore del mio precedente articolo su Edward Lear avrà già notato che non è facile tradurre fedelmente un limerick: sarebbe come cercare di rendere in inglese il significato e l’emozione di una filastrocca per bambini mantenendo inalterati la metrica e le rime. Inoltre il traduttore si deve scontrare con i doppi sensi, i giochi di parole, le allitterazioni di cui si fa largo uso in questa particolare forma poetica. Per questo motivo non si può quasi mai parlare di traduzione fedele, semmai di adattamento, in cui, per restare il più fedeli possibile al senso del testo, lo si deve allo stesso tempo tradire per ottenere comunque delle rime, indispensabili perché se ne apprezzi, almeno in parte, lo humour originale. La sfida del traduttore è rendere da una parte il rigore filologico delle parole, dall’altra la leggerezza da filastrocca e la musicalità del tono.

In Italia molti hanno provato a misurarsi con le traduzioni di Lear. Il primo influsso di questo genere arriva nel nostro paese verso il 1930, grazie alle traduzioni libere e allegramente scorrette di una scrittrice per l’infanzia, Camilla Poggi Del Soldato (per l'Enciclopedia dei Ragazzi). Nell’impresa si cimentarono anche Carlo Izzo (1935) e Mario Praz (1938). Fu Izzo a portare a termine durante la guerra la prima traduzione in lingua italiana di tutti i limerick del poeta inglese, pubblicata nel 1946 a Vicenza con il titolo di Il libro delle follie; nel 1954 la casa editrice Neri Pozza rimise in circolazione le copie invendute, ritirate dal primo editore che nel frattempo aveva chiuso i battenti.

Nel 1957 “due ill.mi Dottori dell’Ambrosiana” (che si scoprirà poi essere Paolo De Benedetti e Mario Spagnol) pubblicano un Viaggio in Limerick sul Reno e dintorni, con versi come:

C’è una vecchia a Francoforte
Che ha paura della morte
Tiene sempre in una mano
Un adatto talismano
Quella prudente vecchia a Francoforte.

Agli inizi degli anni Sessanta esce la traduzione dei limerick di Lear curata da Renato Bellabarba (Nonsensi, Roma, G. Bardi, 1961). Nell’Almanacco letterario Bompiani del 1966, il già citato Paolo De Benedetti (biblista insigne, professore universitario, direttore editoriale, consulente di molte case editrici) ne parla a lungo, durante una attenta analisi della letteratura nonsense (anche in Paolo De Benedetti, Nonsense e altro, Milano, Scheiwiller, 2002, ormai introvabile). Lo stesso De Benedetti ne scrive direttamente:

C'era un uomo dell'Unesco
che teneva il burro in fresco
da spalmare sul paese
dove scoppiano contese,
quel pacifico uomo dell'Unesco.

Uno dei primi autori italiani di limerick è stato Giuseppe Isnardi (1886-1965), che ha dedicato a Lear molte delle sue fatiche, traducendo i suoi Diari di viaggio in Calabria e nel Regno di Napoli e componendo lui stesso, storico e pedagogo, decine di limerick come il seguente:

C'era una giovane donna di Roma
che portava disciolta una gran chioma.
Tutte le volte che il vento soffiava
lieta e felice pe 'l cielo volava
questa gentile fanciulla di Roma.



Tutti a limerick!

Nel 1970 Einaudi ripubblica la traduzione di Izzo dei limerick di Lear (Il libro dei nonsense, con testo originale a fronte e le illustrazioni di Lear), ottenendo un inaspettato successo anche da noi. Ecco un limerick di Lear nella ormai classica traduzione di Carlo Izzo:

There was an Old Person of Dutton,
Whose head was as small as a button,
So, to make it look big,
He purchased a wig,
And rapidly rushed about Dutton.

C'era un vecchio di Caltagirone
Con la testa non più grande d'un bottone;
Quindi, per farla sembrare più grande,
Comperò una parrucca gigante
E corse su e giù per Caltagirone.


All’inizio degli anni Settanta, provocati dai Wutki (curatori della celebre rubrica di giochi diretta da Sergio Morando, pubblicata su Linus dal 1966 al 1982) che hanno lanciato l’idea dì un “Giro d’Italia in limerick”, i lettori sommergono la redazione della rivista con centinaia di opere, costringendola a chiudere in fretta il concorso.

L’interesse per una forma poetica decisamente non convenzionale è confermato in quegli anni pieni di impegno e di utopie dagli studi che anche in Italia cominciano a comparire. Uno dei saggi più interessanti è opera di Milli Graffi, Edward Lear: una logica del nonsense, che viene pubblicato sul numero 1 de Il verri, storica rivista letteraria diretta da Luciano Anceschi. Secondo la Graffi, “La totale insensatezza del nonsense di Edward Lear è una percezione immediata sulla quale non si possono avere dubbi: sono così squisitamente folli da scoraggiare qualsivoglia tentativo di sviscerarne un qualsivoglia senso”. L’autrice del saggio avvicina “l’annaspio intellettivo” provocato dai limerick al “momento del panico” nei quadri di Magritte: insomma il limerick avrebbe in qualche modo anticipato il surrealismo.

Gianni Rodari dedica alla costruzione del limerick un capitolo della sua Grammatica della fantasia (Torino, Einaudi, 1973), concentrando però la sua attenzione sugli aspetti “tecnici” (con rigida metodologia strutturalista), probabilmente a scapito di quelli estetici. Ecco un limerick di Rodari:

Un abile cuoco di nome Dionigi
Andava a comprare le uova a Parigi,
così invece di semplici frittate
faceva omelettes molto raffinate
quel furbo cuoco chiamato Dionigi.

Da quegli anni la produzione di limerick prosegue ininterrotta, affollando persino i sogni letterari di intere classi delle scuole elementari e medie, spinte da entusiasti docenti di italiano e inglese. Importante a questo proposito è l’esperienza condotta da Ersilia Zamponi e sfociata nel libro I draghi locopei. Imparare l’italiano con i giochi di parole, Einaudi, Torino, 1986, il cui strambo titolo è l’anagramma di “giochi di parole”. Eccone un esempio:

Il colonnello di un reggimento
assai insoddisfatto e malcontento
girava sempre per mare e per terra
alla ricerca d'una bella guerra
per farsi bello col suo reggimento.

Nel 1994 il cantautore Max Manfredi e Manuel Trucco pubblicano presso Vallardi Il libro dei Limerick, una raccolta di oltre duecento limerick "seducenti, tragici, conviviali, titanici, felici, litigiosi, gastronomici, gotici, clericali, filosofici", con la prefazione di Stefano Bartezzaghi (in cui fa la sua comparsa per la prima volta il buffo termine “limericco” come forma italianizzata di limerick), le illustrazioni di Serena Giordano e il saggio di Pier Paolo Rinaldi “Un girotondo intorno al limerick (bambini e vecchi, semiologi e illustratori, poeti, poetesse e maghi)”. Il libro di Manfredi e Trucco si apre con alcuni limerick che parlano del limerick:

Il limerick, t'educe il dizionario,
è filastrocca d'argomento vario
che, con ritmo anapestico
vale a farti domestico
un mondo parallelo e immaginario.

Un divertente gioco di allitterazione nella nostra lingua è fornito da questo esempio:

Si diceva di due bulletti ad Affi:
quei due ceffi son nati già coi baffi!
Baffi fin dalla culla
ha certa gente bulla!
E sulla tomba? Baffi, ad epitaffi.

Il saggio di Rinaldi pubblicato nel libro è uno dei più notevoli sul limerick usciti in Italia. Dello stesso autore è utile leggere l’articolo dal terribile titolo “La langue batte dove la mente duole, ovvero il limerick all’italiana”, pubblicato sul n. 21 (agosto 1999) della rivista on line Golem–L’indispensabile, allora diretta proprio da Bartezzaghi.

Dal 1996 Giampiero Orselli, poligrafo genovese, costella di giochi, racconti, epigrammi e limerick, illustrati da Daniele Panebarco, i diari scolastici di Sottobanco. Il prolifico Orselli scrive centinaia di “Limericchi”, reperibili su Internet. Ne riporto due esempi :

Un oratore pubblico a Gibuti
parlava già da trentasei minuti.
"Che pubblico attento!",
pensò tutto contento
di fronte a centosette sordomuti.

Un portiere di calcio di Molare
fatica a trovar da lavorare.
Sussurra la sua sposa,
con voce timorosa:
"Mi chiedo sempre dove andrà a parare".

Nell'ultimo paragrafo della postfazione ai Limericks di Edward Lear, pubblicati nel 2002 nella «Collezione di Poesia» dell'editore Einaudi, il curatore e traduttore, Ottavio Fatica, ha riportato una «lima ricca» indirizzata a se stesso:

C'è un poeta che faccio fatica
a tradurre, che vuoi che ti dica,
si tiene per savio
ma è solo un ottavio
di poeta, e non senza fatica.

In un’intervista a Dario Fasoli per Riflessioni.it (giugno 2005), lo stesso Fatica ha detto che “La sfida era mantenere lo schema strofico e metrico, le rime nonché l’esile trama narrativa, nella sua illogicità seraficamente consequenziale.” Le traduzioni di Fatica hanno il pregio di essere assai fedeli alle regole del gioco nonsensico (e il rispetto del ritmo e del senso sfida il traduttore all’infedeltà al testo, così i cappelli, caps, che si vedono nell’illustrazione originale diventano babà).

There was an Old Lady of Prague,
Whose language was horribly vague,
When they said, "Are these caps?"
She answered "Perhaps!"
That oracular Lady of Prague.

Un’anziana signora di Praga
Si esprimeva in maniera assai vaga.
Le chiedevi: “E’ un babà?”
Rispondeva: “Chissà!”
Quell’anziana Cassandra di Praga.

Nell’articolo sul limerick osceno ho già parlato dell’erudito libro del compianto giornalista, scrittore e ludologo Giampaolo Dossena, Luoghi letterari. Paesaggi, opere e personaggi (Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano, 2003), che si apre con un limerick, datato 1955 e successivamente attribuito al “Wutki” Sergio Morando:

C'era un vecchio goloso di Abano
le cui figlie coi Turchi folleggiavano
inventando sempre nuove tecniche erotiche
però mangiando unicamente cotiche:
il che stupiva quel vecchio di Abano.

Dossena riporta anche alcuni limerick di Gian Carlo Cabella (autore teatrale di successo: suoi alcuni dei monologhi recitati da Angela Finocchiaro):

C'era un vecchio quadrivio a Novi Ligure
ove ogni notte stazionava un lèmure
che, non avendo spiccioli da spendere,
le sigarette si faceva accendere
dai nottambuli, rari a Novi Ligure.

Su Erewhon, rivista on line di Arti, Letterature, Scienze, nell’inverno 2004 viene pubblicata l’utile e dotta recensione di Martino Negri (Umori d'Albione) in occasione dell’uscita in edizione economica del Libro dei nonsense di Lear nella traduzione di Carlo Izzo.

Lo sviluppo di Internet ha consentito anche ai creatori di limerick italiani di farsi conoscere oltre la ristretta cerchia di amici e conoscenti: sono tantissimi, ed è necessario scusarsi con coloro che non cito per ignoranza. Originali e fedeli allo spirito nonsense sono i limerick dell’astrofisico, giornalista e divulgatore scientifico Stefano Sandrelli, del giornalista e scrittore di origini istriane Sergio Fumich e di Gabriele Ferrero:

C’era una volta un pazzo di Lambrate
che di notte dialogava con le fate.
Se ne stava sotto il lume di un lampione
dichiarandosi con autentica passione
alle fate delle notti di Lambrate.

Un altro scrittore di limerick è Lucius F. Schlinger (al secolo Luciano Fabi), di cui riporto questo esempio:

Dissero a un vecchio nobile di Atene
che un dì voleva tagliarsi le vene:
“Perderai sangue blu”.
“Già. Non le taglio più”,
concluse il saggio nobile di Atene.

Autrice degna di nota è anche Virginia Boldrini, ludolinguista e amante del limerick. Due suoi libri, che lei stessa illustra, sono dedicati proprio a questa forma poetica: Viaggio a Limerick e dintorni (Campanotto, Udine, 2006), con la bella postfazione di Paolo Albani, alla quale sono in gran parte debitore per questo mio articolo, e il recentissimo Limerick 99 (Joker, Novi Ligure, 2009), con prefazione di Stefano Bartezzaghi:

C’era una ragazza di Villesse
Che comunicava solo con sms.
Anziché parlare
Preferiva digitare
La taciturna ragazza di Villesse.

Una conclusione

Il limerick in Italia ha dunque ormai una lunga tradizione, anche se manca di un radicamento nella cultura popolare. Nel suo già citato saggio pubblicato su Golem, Pier Paolo Rinaldi si chiede se esiste una via italiana al limerick, concludendo che gli “sembra di non vedere nella nostra frenetica, densa produzione la "circolare, astorica quiete di Lear" di cui parla De Benedetti”. In effetti, Lear non prende parte in alcun modo alle storie che scrive. Sono totalmente assenti le osservazioni, anche distaccate, in prima persona; manca inoltre qualunque riferimento a un soggetto esterno che racconta, e perciò interpreta, i fatti: l'autore non partecipa agli avvenimenti e non li determina. Inoltre manca in quelli di Lear la “coda” epigrammatica che caratterizza tanti limerick successivi: la circolarità che determina l’effetto nonsensico deriva proprio dall’assenza di una conclusione quando il lettore se l’aspetta.

Molti limerick italiani risentono un poco della nostra tendenza nazionale allo sberleffo, se non alla satira pungente, all’invettiva, che rivela, attraverso una partecipazione emotiva dell’autore, un’uscita dalle regole del gioco. Abbandonando il cerchio magico del gioco si torna alla realtà quotidiana, si esce dallo spazio e dal tempo “altri”. Dice Bartezzaghi nella prefazione all’ultimo libro della Boldrini: “Non c’è più nulla da dimostrare, ma il limerick - come la poesia e come il gioco - non deve appunto dimostrare nulla, tranne il suo esserci e il suo volerci coinvolgere in un gioco che, c’è da esserne sicuri essendo fatto di parole, va oltre se stesso. Dove, non si sa, ma è quello il suo bello”. Ma siamo sicuri che siano sono solo i limerick italiani ad aver abbandonato (tradito) il nonsense? E poi: è giusto che il limerick sia costretto nei confini dell’assenza di senso?

Un fine teorico del pensiero debole
aveva un’usanza assai deplorevole.
Diceva a ogni attimo
“Ma io sono Vattimo!”
per spiegare la sua opinione mutevole.

Un barcaiolo colombiano, forse per gioco
bevve dieci birre, o pressappoco.
Poi, un bisogno impellente
lo fermò nella corrente:
solo nel grande e lungo fiume, Orinoco.


sabato 24 ottobre 2009

Riceviamo e volentieri pubblichiamo


Non so se l’ignoto autore (o autrice) di questo bellissimo esempio di poesia ludolinguistica l’ha realizzata stimolato/a da qualche mio vaneggiamento in questo blog, o l’aveva nel cassetto da tempo e ha trovato solo ora l’occasione o il coraggio di farla conoscere. Il fatto è che questo articolo nasce da una e-mail giuntami per mezzo di una contorta e diabolica serie di “inoltra”, attraverso l’amica BH.

Si tratta di una lirica composta utilizzando esclusivamente gli incipit delle poesie di Giuseppe Ungaretti, il primo dei quali, anagrammato, fa da titolo. BH mi assicura che i versi sembrano raccontare i dubbi, le nostalgie e contraddizioni di un sacerdote, sul limitare della vita. In mancanza di elementi ulteriori, non posso far altro che concordare con lei. Riporto l’opera affidando alle note l’elenco delle fonti. Ho controllato su Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Meridiani Collezione, Mondadori, 2005: sono tutte corrette.


Don Mimmo sul limine (1)

Come dolce prima dell'uomo (2)
dolce declina il sole, (3)
quel nonnulla di sabbia che trascorre (4)
balaustrata di brezza. (5)
E per la luce giusta (6)
da una finestra trapelando, luce. (7)

Di queste case (8)
migliaia d'uomini prima di me (9)
nel molle giro di un sorriso, (10)
in agguato, (11)
tornano in alto ad ardere le favole. (12)

Conosco una città (13)
Roma, a letto, dormicchiando, nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1966. (14)
Un'intera nottata (15)
tutto ho perduto dell'infanzia. (16)

L'ora impaurita (17)
tonda quel tanto che mi dà tormento, (18)
ha bisogno di qualche ristoro. (19)

Eccovi un uomo
uniforme.
(20)
Ogni mio momento (21)
con la mia fame di lupo (22)
chiuso fra cose mortali. (23).
I molti, immani, sparsi, grigi sassi, (24)
dondolo di ali in fumo. (25)


Di seguito l'elenco delle poesie da cui sono tratti gli incipit:

1. (anagramma), da Mattina, Santa Maria la Longa il 26 gennaio 1917.
2. da La preghiera (1928)
3. da Auguri per il proprio compleanno (1935).
4. da Variazioni sul nulla (pubbl. 1950)
5. da Stasera (1916)
6. da Sentimento del tempo (1931).
7. da Apocalissi (1961)
8. da San Martino del Carso (1926)
9. da Il lampo della bocca (1966-1968)
10. da Fase d'Oriente (1916)
11. da Pellegrinaggio (1926)
12. da Stelle (1927)
13. da Silenzio (1916)
14. da Proverbi, Uno (1966)
15. da Veglia (1915)
16. da Tutto ho perduto (1937)
17. da Fine di Crono (1925)
18. da Giunone (1931)
19. da Perché? (1916)
20. da Distacco (1916). Unica eccezione, qui l’autore/autrice ha preso il primo distico invece che il solo incipit.
21. da Risvegli (1916)
22. da Attrito (1916)
23. da Dannazione (1916)
24. da Tu ti spezzasti (pubbl. 1947)
25. da Lindoro di deserto (1915)


mercoledì 21 ottobre 2009

Il limerick e il gioco del nonsense

Edward Lear e il nonsense verse

È noto a tutti lo humour che caratterizza molte opere della letteratura inglese. Gli inglesi hanno sperimentato quasi tutte le possibilità di generare il riso, utilizzando figure retoriche, giochi di parole, ironia, satira, understatement e quant’altro. Dall’epoca vittoriana, prima quindi che in Italia, in Inghilterra il riso ha scelto anche la strada del nonsense, del testo che, a prima vista, appare composto da un casuale miscuglio di associazioni le quali, dando vita a una serie di immagini estranee al senso comune, producono un effetto umoristico.

Se Lewis Carroll è il più noto degli autori del genere, e la sua Alice è diventata uno dei personaggi più noti di tutta la letteratura, il vero maestro del nonsense verse fu Edward Lear (1812-1888), che fu nella vita pittore di paesaggi, illustratore di testi naturalistici e viaggiatore (amante dell’Italia). I suoi versi nonsense (fu proprio Lear a inventare il termine) sono riuniti in due volumi da lui stesso illustrati (che sono riprodotti integralmente da Marco Graziosi nel prezioso sito nonsenselit.org) e consistono soprattutto in favole senza morale (appunto) nelle quali i protagonisti esibiscono modi assolutamente bizzarri e scambiano assurde conversazioni con grande serietà.

Grazie a Lear sono entrati nella storia della letteratura i limerick, forma poetica particolare composta da 5 versi, di cui i primi due e l'ultimo sono rimati tra loro, così come lo sono il terzo e il quarto. Le rime seguono dunque lo schema AABBA, con un metro piuttosto rigido (anche se oggi non sono rare le eccezioni) e un esito stranissimo, straniante. Nel limerick più comune il primo verso deve sempre contenere il riferimento al protagonista, un aggettivo per lui qualificante e/o il luogo geografico dove si svolge l'azione (da Lear sempre scelto esclusivamente per motivi fonetici), mentre i restanti versi sintetizzano l'aneddoto e nell'ultimo verso, spesso una ripetizione alterata del primo, viene richiamato il protagonista, magari definendolo meglio con un aggettivo poco usato, sorprendente o totalmente inventato. Eccone un esempio (nel mio adattamento), accompagnato dal disegno originale:

There was a Young Lady of Portugal,
Whose ideas were excessively nautical:
She climbed up a tree,
To examine the sea,
But declared she would never leave Portugal.

C’era una giovane signora di Braganza
con idee nautiche in abbondanza:
si volle arrampicare,
per osservare il mare,
ma disse di non voler mai lasciare Braganza.

E' importante notare come gli strumenti di cui Lear si serve per creare questo suo mondo sono sia la lingua sia il disegno. Se la prima é fondamentale poiché guida e chiarisce i rapporti fra i personaggi e gli oggetti nell’ambiente narrativo, il secondo assume un ruolo di sicuro rilevante perché, senza di esso, i limerick di Lear sarebbero molto meno divertenti e perderebbero gran parte della loro carica nonsensica.

Lear non usò mai la parola limerick, definendo i suoi versi nonsense rhymes, oppure nonsense pictures and rhymes, poiché le illustrazioni erano per lui importanti quanto i versi stessi. Il termine compare negli ultimi anni dell’Ottocento, anche se non è mai stato ben chiarito perché questa forma poetica abbia lo stesso nome di una città irlandese.

Con i limerick di Lear, pubblicati tra il 1846 (A book of nonsense) e il 1871 (More Nonsense, Pictures, Rhymes, Botany, etc.), fu fissato un modello abbastanza rigido (si è parlato di creazione di uno stereotipo) ed ebbe un successo inaspettato una forma letteraria radicata nella tradizione orale e legata sicuramente alle nursery rhymes, le filastrocche e le canzoncine per bambini, spesso con ritornelli senza senso puramente musicali, di cui si ha traccia scritta già alla fine del Quattrocento.

Alcuni primitivi limerick erano già comparsi a stampa: tra il 1820 e il 1822, infatti, erano stati pubblicati tre volumetti anonimi di poesie illustrate che presentavano la struttura metrica e i temi tipici del limerick. Queste pubblicazioni presentano tutte le caratteristiche che si troveranno nelle raccolte di Lear: ciascun limerick è accompagnato dalla propria illustrazione, descrive il suo peculiare personaggio, solitamente identificato con il riferimento a una città, i vari limerick non formano una serie logica, ma sono semplicemente riuniti senza apparente criterio.

Il primo libro, di autore ignoto, fu pubblicato a Londra da John Harris and Son nel 1820. Il titolo è The History of Sixteen Wonderful Old Women, illustrated by as many engravings: exhibiting their Principal Eccentricities and Amusements e presenta sedici limerick la cui protagonista è sempre una vecchia, una Old Woman:

There was an Old Woman of Leith,
Who had a sad pain in her Teeth,
But the Blacksmith uncouth,
Scar'd the pain from her tooth;
Which rejoic'd the Old Woman of Leith.

C’era una vecchia signora di Girgenti
che soffriva di un gran mal di denti,
ma il maniscalco volgare
le tolse il dolore con il molare;
il che rallegrò la vecchia di Girgenti

Le altre due pubblicazioni sono attribuite a un poeta dilettante (e si vede…), il commerciante Robert Scrafton Sharpe:

Said a very proud Farmer at Rye-gate,
When the Squire rode up to his high gate,
With your horse and your hound,
You had better go round,
For, I say, you shan't jump over my gate.

Disse un fiero villano di Maranello
quando il signore giunse al suo alto cancello:
“Con il tuo cavallo e il tuo alano,
dovresti andartene lontano,
perché, dico, non scavalcherai il mio cancello”.



Anche se il genere, inteso come forma poetica mista di versi e disegni, con caratteristiche riconoscibili e costanti, esisteva già prima di Lear, furono proprio i suoi componimenti a decretarne il definitivo successo. Egli dunque non inventò nulla (dichiarò anzi di essere stato indirizzato da un amico verso questa forma poetica), ma si limitò piuttosto a perfezionare ciò che la tradizione gli offriva, limitando le varianti possibili a un rigido schema di base e accompagnando i versi con surreali illustrazioni, assai più efficaci di quelle presenti nelle prime raccolte pubblicate.

There was an Old Person of Cromer
Who stood on one leg to read Homer
When he found he grew stiff,
he jumped over the cliff,
Which concluded that Person of Cromer.

C’era un anziano signore di Pero
che stava su una gamba per leggere Omero.
Quando si sentì un po’ irrigidito,
si gettò da un ripido sito,
il che mise fine al vecchio di Pero.



Il senso dell’assenza di senso

Dopo la lettura di queste cinquine di versi possiamo ora chiederci: che senso ha il nonsense? In realtà l'effetto nonsense non deriva dall'aver messo insieme parole casuali, senza ordine logico o addirittura senza significato: una “storia” esiste, perfettamente formata, esiste un “senso”, per quanto aberrante. Ma il senso vive il tempo della storia stessa, non può uscire al di fuori di essa. La storia fornisce situazioni che paiono scelte casualmente, o soltanto in base a un criterio acustico (esistono delle rime, anzi, invece di essere nascosta, l'intenzione di trovare la rima è apertamente esibita), così il lettore è ridotto a mero “ascoltatore”. Diversamente dovrebbe chiedersi: perché il lettore di Omero stava su una gamba sola? Perché alla fine si getta da un dirupo? Nel mondo reale il fatto di sentirsi irrigidire non sembra certo un motivo sufficiente. Ma qui i personaggi sono “fantocci verbali”, mossi cioè dalla pura e semplice necessità della forma verbale, che li imprigiona e determina la loro sorte. La storia non porta da nessuna parte, non ha morale, non ha nulla da insegnare. Meglio, la storia porta di nuovo a se stessa in maniera circolare, è autoreferenziale. L’eco del primo verso nell’ultimo suggerisce proprio un ritorno continuo all’inizio della storia, a un mondo dove il tempo non esiste. Il miglior esempio di questa staticità narrativa è dato dalla storia dell’Old man of Moldavia, il cui protagonista, precursore di Oblomov, non fa altro che dormire:

There was an Old Man of Moldavia,
Who had the most curious behaviour;
For while he was able,
he slept on a table.
That funny Old Man of Moldavia.


C’era un vecchio di Riva Trigoso
che si comportava in modo assai curioso;
Ché fino a che ci riusciva,
su una tavola dormiva.
Quel buffo vecchio di Riva Trigoso.

Il ruolo del lettore prevede che egli comprenda dove lo sta portando la storia che legge, perciò si sente beffato, colto impreparato dai collegamenti semantici che l’autore ha stabilito tra gli elementi del testo in cui ha dato vita ad un mondo possibile ma altamente imprevedibile. Le frasi, non coordinate in modo "verosimile", non organizzano saldi legami di significato, manca quell’ascesa verso un climax finale che caratterizza altre forme letterarie (come l’epigramma o, più banalmente, la barzelletta). Parallelamente, nelle illustrazioni manca completamente qualsiasi tentativo di ambientazione che vada al di là del mettere un cannocchiale in mano alla signorina portoghese o un grosso libro in mano al lettore su una gamba sola. Manca qualsiasi elemento superfluo, esistono solo gli oggetti convenzionalmente associati ad una determinata situazione. L'assenza di contesto figurativo, unita alla continua deformazione delle proporzioni, con un infantilismo certamente non casuale, impedisce la costruzione di un mondo stabile.

Il lato umoristico risiede proprio in questo straniamento linguistico e figurativo. Il combustibile è dato dall’eccentricità di condotte o situazioni, ma ad accenderlo è proprio il tono del racconto, quieto, assolutamente privo di ammiccamento o partecipazione. Significativa è a questo proposito la formula iniziale, “There was...”, che ha la stessa funzione del nostro “C’era una volta...” delle favole, cioè di introdurre il lettore in una dimensione parallela, in cui non vigono le categorie alle quali abitualmente ci si attiene. Si tratta, essenzialmente, di gioco.

Afferma Johan Huizinga (in Homo Ludens, Einaudi, Torino, 1979): "Il gioco è più antico della cultura, perché il concetto di cultura (…) presuppone in ogni modo convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare. (…) Il gioco come tale oltrepassa i limiti dell’attività puramente biologica: è una funzione che contiene un senso. Al gioco partecipa qualcosa che oltrepassa l’immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso nell’azione del giocare."

Il gioco può creare immagini e situazioni inconsuete mescolando sapientemente elementi concreti, il più delle volte assai banali. Queste immagini, con la loro novità, vanno oltre le inveterate abitudini, le consolidate acquisizioni. Il gioco crea una realtà parallela a quella reale, un mondo con regole sue, esplicite o implicite. Nella sua sfera, come in un cerchio magico, uno spazio e un tempo “altri” delimitano le sue condizioni d’esistenza e la libertà è data dalla piena adesione alle regole del gioco. E queste regole possono benissimo consistere in cinquine di versi in cui compaiono personaggi “normali” protagonisti di situazioni aliene dalla normalità.

Il nonsense ricorda che l’universo è più vasto di quanto sembrano offrire la vita o il linguaggio consueti. Esso è un’immagine speculare e capovolta della realtà, stranamente identica e diversa, che ne rivela il lato poco noto e asimmetrico.

There was an Old Man with a beard,
Who said, 'It is just as I feared!
Two Owls and a Hen,
Four Larks and a Wren,
Have all built their nests in my beard!'

Disse un vecchio con un lungo barbone:
“È come nella mia cupa previsione!
Una gallina ovaiola e due civette,
uno scricciolo e quattro lodolette,
han fatto il nido nel mio pel di Mormone!”


lunedì 19 ottobre 2009

Surrealistic crosswords

Oggi solo immagini, ispirate a quel grande passatempo che sono le parole crociate. Il primo posto spetta di diritto a Paolo Albani, artista e poligrafo poliedrico, divertito e divertente, nonché mio amico (ho pubblicato una sua bizzarra recensione nel mese di aprile). Il suo Mots croisés de Man Ray, schema composto da sole caselle nere, è un’opera che quando la vidi, qualche anno fa, mi provocò, dopo l’iniziale straniamento, una crisi di risa che soffocai a stento (chissà se era quello l’effetto voluto). Segue un’opera concettuale dell’inglese Adrian Nutbeem, dal titolo Twenty Down (Venti verticale), un simpatico, labirintico cartoncino in rilievo che ho trovato nel catalogo online di una galleria d’arte di Seattle. Concludo con una sciocchezza ludolinguistica che ho creato durante un afoso pomeriggio dell’estate 2007, sperando nella vostra comprensione.


Mots croisés de Man Ray


Twenty Down



Parole crociate ad a(g)nelli

sabato 17 ottobre 2009

Anagrammi manzoniani


Quel ramo del Lago di Como
col quale, o madre, mi dolgo,
quel dolce largo mai domo
dal quale, mi modero, colgo
melma agrodolce, qui lodo.
Gioca quell’amor del modo
qual greco Dedalo immolo:
mi godrò le acque dal molo.


Ogni riga è l’anagramma di quella precedente.

mercoledì 14 ottobre 2009

L’ingegner Gadda spiega il ciclo dell’azoto


Carlo Emilio Gadda (1893-1973) si laureò in ingegneria idraulica il 14 luglio del 1920 al Politecnico di Milano con una tesi sulle Turbine ad azione Pelton con due introduttori, voto 90/100. Negli Abbozzi autobiografici spiegherà di essere «stato condotto a far l’ingegnere dalla “passione” (è il caso di dirlo) di veder muratori a costruire e sterratori a tracciare canali e opere». In realtà, le ragioni della scelta della Facoltà dovettero essere un po’ diverse, se in un'intervista del 1968 al periodico «Prisma» Gadda ne addossò la responsabilità atta madre: «Lei pensava che io dovessi fare l'ingegnere perché i cugini avevano fatto gli ingegneri e avevano guadagnato dei soldi. Ma io, più che la matematica, amavo il latino, il greco e la filosofia». Erano infatti ingegneri il padre Giuseppe, lo zio di parte materna, l'illustre Ettore Conti, e altri due cugini.

Gadda esercitò la professione per varie società: dal ’20 al ’31 a Cagliari per la Società Elettrica Sarda, nel ’23 a Buenos Aires per la Compañia General de Fósforos, e dal ’25 per l’Ammonia Casale, con la quale iniziò una collaborazione che durò, pur con interruzioni e forme diverse, fino al 1940, anno in cui abbandonò definitivamente l’attività come ingegnere. Fu anche, per un breve periodo (1932-1934), reggente della Sezione Tecnologica dell’Ufficio Centrale dei Servizi Tecnici del Vaticano, incaricò che lasciò senza rimpianto e lamentando il mancato pagamento di una buona uscita e dell’ultimo stipendio. Negli stessi anni in cui prestava il lavoro professionale, “l’ingegnere” aveva già dato prova delle sue straordinarie doti di scrittore, attività che lo appagava assai di più e che rispondeva alla sua vocazione naturale. Nel 1924 si era iscritto alla facoltà di Filosofia, dove superò tutti gli esami senza mai discutere la tesi. Nel 1926 iniziò la sua collaborazione alla rivista fiorentina Solaria, presso le cui edizioni pubblicò nel 1931 una raccolta di racconti e prose varie intitolata La Madonna dei filosofi. La sua seconda raccolta di racconti, Il castello di Udine, pubblicata tre anni dopo, gli valse il premio Bagutta. Dopo la morte della madre nel 1936, cominciò a scrivere La cognizione del dolore, pubblicato successivamente tra il 1938 e il 1941.

Gadda fu anche autore in questo periodo di una serie di ventiquattro articoli di divulgazione tecnico-scientifica, apparsi tra il ’21 e il ’56 (ma concentrati soprattutto negli anni ’30), in riviste come La Perseveranza, l’Ambrosiano, La Gazzetta del popolo. Quasi tutti sono stati raccolti e riproposti in un bel volume intitolato Azoto e altri scritti di divulgazione scientifica, curato da Vanni Scheiwiller e Andrea Silvestri con Dante Isella per la Libri Scheiwiller, Milano, 1986, nell’ambito del Progetto Cultura della Montedison. I temi trattati, sempre con scrupolo e precisione, sono assai vari: elettrotecnica, chimica industriale, geologia, idraulica, meccanica, metallurgia.

E colui che avrebbe scritto L’Adalgisa (1944) e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) non si smentisce anche in questi testi. In L’Azoto (1932), l’uomo è per Gadda «un inguaribile falsificatore, un ingegnere inguaribile», mentre in Pane e chimica sintetica (1937) egli «tenta di riscattarsi dallo stato di indigenza e di angoscia dove lo han collocato il cùmulo dei pigri destini o la distorsione dei repentini cataclismi. E batte l’antico ferro e incide la terra perenne: per sfamarsi, per dominare». Ne La centrale di Cornigliano (1953) testimonia gli imponenti lavori decennali per «allargare la sottile striscia di riviera (…) tra le pendici imminenti del monte e l’inanità opaca del mare», per «distendervi i treni dei laminatoi, le torri degli altiforni, le scatole nere della cokeria (…) i ponti e i viadotti del rifornimento alto».

Gadda giudica «le operazioni della tecnica non già come illecite contraffazioni della natura, ma come ritrovati dello studio e del coraggio dedàleo, a cui l’artefice pervenga sotto lo stimolo di vitali esigenze, di angosciose necessità. Prigioniero nell’isola del destino, egli attua la evasione eroica» (sempre in Pane e chimica sintetica). In Azoto atmosferico tramutato in pane (1937), originariamente pubblicato sulla «Gazzetta del Popolo», lo scrittore, nei panni confortevoli del divulgatore, con qualche concessione alle parole d’ordine del regime, dopo aver illustrato il ciclo dell’azoto, spiega lo sforzo del «demiurgo autarchico» di «sopperire alla nostra agricoltura quel tanto di azoto che il ciclo naturale non arriva a immettere naturalmente nel terreno». Si tratta dell’industria dei fertilizzanti, che passa dalla produzione dell’ammoniaca sintetica o del carburo di calcio e della calciocianammide. Riproduco la parte dell’articolo che illustra l’importante ciclo chimico-fisico-biologico:


Fabbricare l'azoto non si può dire, poiché esso è nell'aria che respiriamo. Si dice invece fissare l'azoto, cioè captarlo dall'aria, unirlo ad altri elementi di natura, preparare dei sali azotati da spargere sui coltivi: già le radici del frumento lavorano, lavorano, nel buio della terra, ad assorbire dalla terra i composti azotati; perché anche domani il popolo vittorioso e rude possa deglutire il suo pane.

I chimici, i biologi chiamano ciclo o circolo dell'azoto il trapasso dell'azoto dall'atmosfera alla sostanza vivente delle piante, degli animali: il suo ritorno nell'atmosfera. Quali ne sono le cause?

Sotto l'azione di scariche elettriche atmosferiche (scariche oscure), l'ossigeno e l'azoto dell'aria si combinano in ossido di azoto, che, raggiunto dalle acque di pioggia, da luogo ad acido nitroso. Altro acido nitroso è procurato al terreno per l'opera dei bacteri nitrosi, dèmoni microscopici del sottoterra, scoperti da Winogradski nel 1891. Essi fabbricano acido nitroso ricavandolo dall'ammoniaca e dai composti ammoniacali; che sono tra i proventi della dissociazione organica, della putrefazione.

Una seconda categoria di bacteri, chiamati bacteri nitrici, trasforma l'acido nitroso in acido nitrico. Questo, diluito nell'acqua di circolo, al contatto delle «basi» del terreno da i sali nitrici, o nitrati, di cui le radici delle piante son ghiotte. Ecco le biade dei campi di Pansampognante, ecco il pane, la vita. Le sostanze albuminose degli steli e del seme, gli amino-acidi, il glùtine, contengono azoto e lo trasferiscono nell'organismo i ligli animali.

La morte degli animali e delle piante, le foglie che si spiccano e si dissolvono nell'autunno, riportano l'azoto al terreno, e la vita stessa lo restituisce man mano al circolo, per i prodotti della espirazione, del sudore, della escrezione.

Ora il compito del demiurgo autarchico, in fatto di azoto, è quello di sopperire alla nostra agricoltura quel tanto di azoto che il ciclo naturale non arriva a immettere naturalmente nel terreno. L'industria umana percorre, in rincalzo alla natura, questo arco del ciclo: dall'aria al terreno. E lo percorre lungo alcune sue strade sicure, se non facili, e solo da pochi decenni esplorate: o da pochi anni tracciate.

lunedì 12 ottobre 2009

La scienza dilettevole (2)

La trisezione dell'angolo

Ecco una specie di squadra facile a costruirsi, che vi permetterà di dividere un angolo qualsiasi in tre parti eguali.

Essa è formata d'una tavoletta ritagliata nel modo seguente:

I lati A D e A E sono ad angolo retto e la parte A C B O è costituita da un semicircolo il cui raggio O A o B O è eguale a A E e la cui circonferenza è tangente al punto A nel lato A D. I punti A e O sono segnati sulla squadra per mezzo di due piccoli intagli.

Si tratta dunque di dividere in tre parti eguali un angolo qualunque X S Y? Collochiamo la nostra squadra in modo che il suo lato A D passi per la sommità S dell'angolo, che l'estremità E della squadra si trovi sul lato S X, e che l'arco di circolo A C B sia tangente all'altro lato S Y dell'angolo. Tracciamo colla matita la linea S A lungo quel lato della squadra; segniamo sulla carta il punto O, al luogo dell'intaglio; togliamo la nostra squadra e congiungiamo il punto S al punto O. Nulla di più semplice, non è vero, che il tracciare quelle due linee? Ebbene! noi non abbiamo fatto altro che dividere il nostro angolo in tre parti eguali. Per dimostrarlo, bastano le più elementari nozioni di geometria. I due angoli X S A, A S O sono eguali, come facenti parte di due triangoli eguali E S A, A S O che sono rettangoli in A, hanno un lato comune S A e due lati eguali AE e AO. I due angoli A S O, O S Y sono eguali, siccome formati dalle due tangenti S A e S Y condotte dal punto S al circolo, e dal lato comune S O che congiunge il punto S al centro di quel circolo. I tre angoli E S A, A S O e O S Y sono dunque eguali, ed è quanto occorreva dimostrare.

Si può fabbricare la squadra con un foglio di cartone, mettendo soltanto molta cura nel tagliar fuori la parte circolare.

Proseguo con l’illustrazione di alcune perle de La scienza dilettevole di Tom Tit, pubblicata da Sonzogno dopo il 1890, di cui ho parlato proprio ieri. Questa volta l’argomento è stato sollecitato dalle righe di chiusura di un articolo dei Rudi Matematici, che mostrano proprio questo aggeggio a forma di zappa. Sottolineo come Tit, più attento alla praticità dello strumento, abbia previsto anche un foro per poterlo appendere...

domenica 11 ottobre 2009

La scienza dilettevole (1)


I fiammiferi ghiotti

Allorché si chiamano i fanciulli per lavar loro la faccia, molti d'essi non manifestano, per questa operazione, verun entusiasmo, e alcuni, anzi, se la svignano o si nascondono alla vista del sapone e della catinella. Ma quando presentiate loro un pezzetto di zucchero, ecco che li vedete accorrere tutti volonterosi e presto.

L'esperienza seguente vi permetterà di mostrar loro che essi non sono soli ad operare in quel modo, e che anche i fiammiferi seguono il loro cattivo esempio!

Vi è facile di convincerli mettendo alcuni fiammiferi sull'acqua contenuta nella catinella.

Disponeteli a foggia di stella, gli uni accosto agli altri, e, nel centro di quella stella, immergete nell'acqua un pezzettino di sapone tagliato a punta, che vedrete tutti i vostri fiammiferi andarsene via issofatto, allontanandosi bruscamente come se il sapone facesse loro orrore.

Si tratta ora di riavvicinarli, e a tal uopo occorre valersi del mezzo da me indicato più sopra per richiamare i piccoli fuggiaschi: presentate loro un pezzetto di zucchero che voi immollate nell'acqua, e vedrete tutti i vostri solfanelli precipitarvisi sopra rapidamente (1). Potete sostituire ai fiammiferi dei pezzettini di legno che abbiano la forma di pesciolini, affine di rendere l'esperienza più attraente.

(1) Tutto avviene alla superficie dei liquidi come se fossero ricoperti d'una membrana elastica esilissima, la cui forza di contrazione varia colla natura del liquido.

Il pezzo di sapone, sciogliendosi in mezzo ai fiammiferi diminuisce l'elasticità della membrana interna e i fiammiferi cedono alla trazione esterna. Si ha in ciò un fenomeno di capillarità che dimostra l'esistenza di ciò che si chiama in fisica la tensione superficiale dei liquidi, su cui non possiamo qui insistere.

L'ascensione dell'acqua nello zucchero determina una corrente che va dagli orli della catinella verso lo zucchero; e questa corrente riconduce i fiammiferi in mezzo alla catinella.

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La scienza dilettevole di Tom Tit, pseudonimo di A. Good, fu tradotta e pubblicata a dispense poi raccolte in volume dall'editore milanese Sonzogno dopo il 1890.

Come analoghe opere di divulgazione per la gioventù (…), tutte figlie delle famose Ricreazioni matematiche e fisiche del matematico seicentesco Ozanam, essa raccoglie 206 esperimenti scientifici di fisica e di geometria pratica, introdotti e illustrati dalle vignette di Louis Poyet.

Delineate con la perentoria minuzia e l'ipnotica persistenza che hanno le sequenze di immagini dei cataloghi di vendita per corrispondenza, queste vignette si affacciano su un universo domestico ed ebdomadario nel quale, turaccioli di sughero, chiavi, monete, temperini, bicchieri di cristallo, tazzine di porcellana decorata, bottiglie a molti usi e zolfanelli ubbidienti come soldatini, mimano, in vertiginosi e promiscui bilanciamenti, l'auspicato equilibrio fra progresso scientifico e sociale.

Esplicitata dalla suggestiva quanto delirante gratuità di taluni esperimenti, nonostante la complessiva opzione pedagogica che risulta dalla somma delle nozioni scientifiche impartite nel testo, la parentela che questi «esperimenti scientifici» hanno con la prestidigitazione, è teatralmente confermata in ambito iconografico. Nelle illustrazioni, infatti, l'insistita decontestualizzazione degli oggetti, che includono il demiurgico e onnipresente mezzo avambraccio con la mano che sporge dal polsino candido, è favorita dalla tecnica incisoria che ne amplifica gli effetti stranianti o irresistibilmente umoristici nel contrasto fra la secchezza di una incisione giocata su sapienti invenzioni di luce che accentuando i bianchi e neri sembra anticipare soluzioni Pop, e la ricorrente spia di un décor fine secolo.

(...) Monumento a un'ingegnosità casalinga e a buon mercato che doveva intrattenere ammaestrando, la realizzazione dei suoi pirotecnici esperimenti richiede tuttavia una manualità sofisticata, più da adulto specializzato che da ragazzo, così da indurre ragionevolmente a pensare che, anche all'epoca, il Tom Tit non andasse assunto come concreta proposta operativa, ma come propedeutico baedeker a un utopico «paese della scienza ».

(dalla prefazione di Paola Pallottino alla ristampa dell’opera, pubblicata nella collana “Le strenne del bibliofilo” da Longanesi & C., Milano, 1982. L’ho comprato oggi alla manifestazione Vecchi libri in piazza, che si tiene ogni seconda domenica del mese, da settembre a giugno, nei dintorni di Piazza Diaz a Milano: tornerò a utilizzarlo per sottoporre al lettore qualcuno degli esperimenti più divertenti)

giovedì 8 ottobre 2009

Gli immaginari di Törless


Nel 1906 fu pubblicato il primo romanzo di Robert Musil (1880-1942), I turbamenti del giovane Törless. Musil aveva 26 anni e studiava filosofia e psicologia sperimentale a Berlino dopo essersi precedentemente laureato in ingegneria a Brno, seguendo le tradizioni famigliari. Scrisse il romanzo, come più tardi avrebbe scritto, per colmare i vuoti di noia cui lo induceva l’attività tecnica. La vicenda narrata si svolge in prevalenza all’interno di un collegio militare, dove, accanto alla descrizione di un clima di violenze psicologiche e fisiche tra compagni, si assiste alla crisi esistenziale del protagonista, cui l’autore ha attribuito alcuni elementi autobiografici. I turbamenti di Törless sono sessuali, morali e intellettuali. Tra questi ultimi c’è il rapporto con alcuni concetti matematici. Egli si interroga sulla nozione di infinito e si inquieta a causa dei numeri immaginari. Lo spirito giovanile di Törless, in cerca di certezze, non è in grado di comprendere come, partendo da cifre “solidissime”, reali, per arrivare ad altre simili, si debba passare per “qualcosa che non esiste”:

Durante la lezione di matematica, a Törless venne un'idea improvvisa.
Negli ultimi giorni, aveva seguito con interesse particolare le lezioni, perché pensava: «Se questa deve essere davvero la preparazione alla vita, come dicono loro, dovrà contenere almeno qualche cenno intorno a quello che sto cercando ».
Pensava alla matematica, perché aveva ancora in mente quei pensieri sulla natura dell'infinito.
L'idea gli era balenata a metà lezione. Appena finita l'ora, sedette accanto a Beineberg, l'unico con cui potesse discorrere di certe cose.
« Hai capito tutto? »
« Cosa? »
« La storia dei numeri immaginari. »
« Sì. Che c'è di difficile? Basta pensare che l'unità di calcolo è data dalla radice quadrata di meno uno. »
« È questo il punto. Quell'unità, non esiste. Ogni numero, positivo o negativo, elevato a quadrato, da qualcosa di positivo. Quindi non ci può essere un numero reale che sia la radice quadrata di qualcosa di negativo. »
« Giusto. Ma perché non si dovrebbe provare a estrarre una radice quadrata anche da un numero negativo? Il numero negativo, naturalmente, non può produrre nessun valore reale, per questo si dice che il risultato è immaginario. È come se uno dicesse: qui si sedeva sempre una persona, mettiamo la seggiola al solito posto; anche se la persona è morta, facciamo come se dovesse venire. »
« Ma come, quando si sa con sicurezza, con sicurezza matematica, che è impossibile? »
« Si fa lo stesso, come se non fosse così. Un risultato, ci sarà sempre. E non è lo stesso, coi numeri irrazionali? Una divisione che non finisce mai, una frazione di cui mai, mai e poi mai riesci a stabilire il valore, per quanto a lungo calcoli. E cosa s'intende, secondo te, quando si dice che due linee parallele si debbono intersecare, all'infinito? Io credo che, se uno badasse troppo al sottile, la matematica non esisterebbe. »
« Hai ragione. Anche a considerarla così, è già buffa abbastanza. Ma lo strano è proprio che, nonostante tutto, si possono eseguire calcoli reali con questi valori immaginari o impossibili, che alla fine si ottiene un risultato concreto! »
« Vuoi dire che i fattori immaginari, durante l'operazione, s'annullano a vicenda, perché il risultato sia possibile. »
« Sì, sì, lo so anch'io. Ma, nonostante tutto, la faccenda non ha lo stesso qualcosa di strano? Come posso spiegarmi? Pensa dunque: in una data operazione, cominci con numeri solidissimi, che possono rappresentare metri o pesi o qualunque altra cosa concreta, insomma, con numeri reali. Alla fine del calcolo, ritrovi numeri reali. Ma i due gruppi sono legati da qualcosa che non esiste. Non è come un ponte che ha solo i piloni delle estremità e che noi, tuttavia, traversiamo come se fosse intero? Per me, un calcolo simile ha del trucco, come se un pezzo di strada andasse Dio sa dove. Quello che più mi sgomenta, è la forza che possiede, capace di reggerti e di farti arrivare dall'altra parte. »
Beineberg ghignò: « Parli quasi come il cappellano: "Vedi una mela? Sono le onde luminose, l'occhio, eccetera. Se tendi la mano per rubarla, sono i muscoli e i nervi che mettono la mano in movimento. Ma tra la mela e la mano, è un terzo elemento, che fa nascere una dall'altra, e tale elemento è l'anima immortale, che in quell'operazione commise peccato... Sì, ciò vuoi dire che nessuna vostra azione è spiegabile senza l'anima, che suona su di voi come sui tasti d'un piano..." ». E imitò le cadenze con cui il catechista era solito esporre la vecchia immagine. « Ma debbo dire che tutta questa storia m'interessa poco. »
« Pensavo che dovesse interessare proprio una persona come te, perché, se essa è davvero così inspiegabile, sarebbe quasi una conferma della tua fede. »
« E perché non potrebbe essere inspiegabile? Non è detto che, in questo caso, gli inventori della matematica non abbiano inciampato sui loro piedi. Perché, dopo tutto, quello che si trova oltre i limiti dell'intelletto non avrebbe potuto fare questo tiro allo stesso intelletto? Ma non voglio mescolarmi in simili faccende che, del resto, non fanno approdare a nulla. »

La sfera degli interessi matematici di Musil era estremamente vasta e articolata, andando dalla teoria dei numeri di Peano alla relazione tra logica e matematica. Per lo scrittore austriaco gli esploratori dello spirito del XX secolo sono gli scienziati quanto e forse di più dei filosofi e degli artisti: “Tutta l’audacia intellettuale risiede oggi nelle Scienze esatte. Non è da Goethe, Hebbel o Hölderlin che impariamo, ma da Mach, Lotentz, Einstein, Minkowski, de Couturat, Russell e Peano”.

In un saggio del 1911, L’uomo matematico, Musil fa un’interessante riflessione sul lavoro del matematico “analogia dell’uomo spirituale dell’avvenire”, con parole che collocano l’autore de L’uomo senza qualità in una posizione unica all’interno del panorama letterario europeo:

La matematica è un'ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili. Anche i filologi si dedicano spesso ad attività nelle quali essi per primi non intravedono il minimo utile, e i collezionisti di francobolli o di cravatte ancora peggio. Ma questi sono passatempi inoffensivi, ben lontani dalle cose serie della vita. La matematica, invece, proprio in esse abbraccia alcune delle avventure più appassionanti e incisive dell'esistenza umana. Alleghiamo un piccolo esempio. Si può dire che in pratica tutta la nostra vita dipenda dai risultati di questa scienza, a essa ormai piuttosto indifferenti. Grazie alla matematica cuociamo il nostro pane, costruiamo le nostre case e facciamo andare avanti i nostri mezzi di locomozione. Prescindendo dai pochi mobili, dagli abiti e dalle calzature fatte a mano, nonché dai bambini, tutto ciò che abbiamo è ottenuto attraverso calcoli matematici. Tutto ciò che esiste intorno a noi, che si muove, corre o se in sta immobile, non soltanto sarebbe incomprensibile senza la matematica ma è effettivamente nato dalla matematica, e ne è sostenuto nella realtà concreta della propria esistenza. I pionieri della matematica ricavarono da certi principi delle idee utilizzabili. Da quelle idee nacquero deduzioni, tipi di calcolo, risultati. I fisici ci misero su le mani e ne ricavarono nuovi risultati. Alla fine arrivarono i tecnici, accontentandosi spesso di questi risultati, ci fecero su dei nuovi calcoli e crearono le macchine. Ma a un tratto, quando ogni cosa era stata realizzata per il meglio, saltan su i matematici - quelli che si lambiccano il cervello più vicino alle fondamenta - e si accorgono che nelle basi di tutta la faccenda c'è qualcosa che non torna. Proprio così, i matematici guardarono giù al fondo e videro che tutto l'edificio è sospeso in aria. Eppure le macchine funzionano! Insomma, siamo costretti ad ammettere che la nostra esistenza è un pallido fantasma. Noi la viviamo, ma soltanto sulla base di un errore; senza di esso non esisterebbe. Solo il matematico, oggigiorno, può provare sensazioni così fantastiche.

sabato 3 ottobre 2009

Il neutrino di Updike


Cosmic Gall

Neutrinos, they are very small.
They have no charge and have no mass
And do not interact at all.
The earth is just a silly ball
To them, through which they simply pass,
Like dustmaids down a drafty hall
Or photons through a sheet of glass.
They snub the most exquisite gas,
Ignore the most substantial wall,
Cold shoulder steel and sounding brass,
Insult the stallion in his stall,
And scorning barriers of class,
Infiltrate you and me! Like tall
and painless guillotines, they fall
Down through our heads into the grass.
At night, they enter at Nepal
and pierce the lover and his lass
From underneath the bed - you call
It wonderful; I call it crass.


John Updike, Telephone Poles and Other Poems, Knopf, 1960

Sfacciataggine cosmica

I neutrini, loro sono proprio piccoli:
non hanno carica e nemmeno massa
e non interagiscono per niente.
La Terra è nient’altro che una insulsa palla
per loro, che semplicemente ci passano attraverso
come donne delle pulizie in una sala piena di spifferi
o fotoni attraverso una lastra di vetro.
Essi snobbano i gas più sottili,
ignorano la più solida parete,
l’acciaio tenace e l’ottone sonoro,
insultano lo stallone nella sua stalla,
e, disdegnando le barriere di classe,
si infiltrano in te e me! Come alte
e indolori ghigliottine, cadono
attraverso le nostre teste giù nell’erba.
Di notte entrano nel Nepal
e perforano l’amante e la sua amata
da sotto il letto – per voi
è meraviglioso; per me è stupido.

L’americano John Updike (1932 - 2009) è stato autore di romanzi, racconti, poesie e saggi critici sull’arte e la letteratura. La sua fama è dovuta soprattutto alla tetralogia imperniata sul personaggio di Harry «Coniglio» Angstrom, un campione di pallacanestro che all’improvviso decide di cambiare vita per recuperare il sapore della giovinezza e affrontare il mondo con spirito più autentico. La serie, vero affresco di trent’anni di storia sociale della middle-class americana, comprende Coniglio Corri (1960), Coniglio ritorna (1971), Coniglio è ricco (1981) e Coniglio riposa (1990), oltre al racconto breve Rabbit Remembered. Updike è considerato uno dei principali narratori americani della sua generazione, senz’altro il più letto e il più premiato. Il suo stile ricco di metafore e dal linguaggio elaborato è stato paragonato a quello di Proust e Nabokov. La sua poesia è caratterizzata da quella che qualcuno ha definito “giocosa serietà” (notiamo qui le rime solo in -ass e in -all).

Quando Updike scrisse Cosmic Gall, il Modello Standard dominava incontrastato tra i fisici e l’oscillazione del neutrino era sconosciuta. Previsto da Wolfgang Pauli nel 1930, battezzato da Fermi, il neutrino era considerato una particella priva di massa e assolutamente inerte. Oggi sappiamo che i neutrini hanno una massa, per quanto infinitesima, e partecipano alle interazioni tra le particelle più grandi. Vero è tuttavia che si tratta di particelle assai poco rispettose della privacy e dell’intimità.