lunedì 27 dicembre 2010

L’effetto Coriolis anticipato nell’Almagestum Novum del Riccioli

L'Almagestum novum, astronomiam veterem novamque complectens (1651) dell’astronomo gesuita ferrarese Giovanni Battista Riccioli (1598–1671) fu uno degli ultimi tentativi organizzati e sistematici di opporsi al sistema eliocentrico da parte delle gerarchie cattoliche. La sua redazione fu il frutto di un vero e proprio lavoro di squadra, coordinato dal Riccioli e dal suo allievo Francesco Maria Grimaldi (1618–1663), al quale presero parte diversi membri della Compagnia di Gesù. Il risultato fu un ponderoso trattato enciclopedico in due volumi, edito a Bologna, contenente una summa del sapere astronomico del tempo, con minuziose descrizioni delle osservazioni effettuate, sia dagli autori che da altri, e reperibili nella letteratura scientifica del tempo. Il trattato, il cui titolo fa riferimento all’Almagesto, l’opera fondamentale in cui l’astronomo alessandrino Tolomeo espose il suo sistema geocentrico alla metà del II secolo, è riccamente illustrato da schemi e arricchito di tabelle. Esso è noto soprattutto per gli studi sulla Luna e per le due mappe lunari disegnate dal Grimaldi, che mostrano (a) una panoramica del nostro satellite e delle sue fasi, (b) le aree interessate dalla librazione e la nomenclatura elaborata dal Riccioli, il quale assegnò 248 nomi di astronomi antichi e contemporanei ad altrettanti siti lunari (clic per ingrandire). La nomenclatura utilizzata è in gran parte quella ancor oggi adottata. Per questo loro lavoro, sia il Riccioli sia il Grimaldi sono ricordati con la dedica di due grandi crateri lunari.


In realtà, gran parte dell’opera discute gli argomenti pro e contro i diversi sistemi cosmologici che allora erano oggetto di dibattito (tolemaico, copernicano e tychonico) con il Riccioli che sembra sostenere un sistema misto geo–eliocentrico come quello di Tycho Brahe: l’antiporta del primo volume mostra le ipotesi eliocentrica e geo-eliocentrica pesate da graziose figure mitologiche, con la bilancia che pende decisamente verso la seconda. L’Almagestum Novum contiene infatti ben 77 argomenti contro il movimento della Terra sostenuto dal sistema copernicano. Essi comprendono obiezioni importanti derivati dalla fisica e dall’astronomia, che furono oggetto di studio anche dopo l’avvento della fisica newtoniana e che solo nel sistema newtoniano trovarono adeguata spiegazione. Essi costituiscono un’affascinante spaccato di storia della scienza in un periodo fecondo e importante.


Gli argomenti del Riccioli, finora reperibili in modo sparso e frammentario nella letteratura scientifica, sono state oggetto del recente lavoro dell’americano Christopher M. Graney, del Jefferson Community & Technical College di Louisville (Kentucky), che ne ha fornito un utile compendio e una rappresentazione schematica. Essi spaziano da obiezioni basate su esperimenti sulla caduta dei corpi, a osservazioni telescopiche delle stelle, a ragionamenti sulla semplicità del moto, o sull’azione del vento. Molti sono facilmente confutati dal buon senso, mentre altri possono essere ribattuti solo dopo accurata sperimentazione. È interessante notare come solo due su 77, tra l’altro di secondaria importanza, sono di natura completamente religiosa: al contrario, molti degli argomenti di Copernico facevano riferimento a spiegazioni di tipo fideistico, con un appello al potere divino.


La principale obiezione del Riccioli alla quale allora non si era in grado di rispondere riguarda l’azione sul moto dei corpi della Terra in quanto sistema di riferimento ruotante. Così Graney, che si è confrontato con le lunghe e spesso involute frasi del latino del gesuita, sintetizza l’argomento n. 3:

“Se la Terra avesse una rotazione giornaliera su se stessa, i gravi che cadono vicino all’Equatore avrebbero un moto fondamentalmente diverso da quello degli stessi corpi che cadono vicini ai poli in condizioni identiche”.

Questo argomento è poi rinforzato dai tre successivi, che prendono in considerazione anche il moto di rivoluzione annuale (argomento 4), il moto dei corpi leggeri che sembrano salire verso l’alto (argomento 5) e soprattutto dal n. 6:

“I gravi cadono verso la Terra lungo una linea che è retta e perpendicolare al terreno. Se sono lanciati perpendicolarmente verso l’alto, essi cadono sul luogo da dove sono stati lanciati. Se la Terra possedesse movimenti giornalieri e annuali, questi corpi cadrebbero lungo traiettorie curve”.

Si tratta del primo di diversi riferimenti a una forza che oggi chiamiamo di Coriolis, che non sarebbe stata osservata sperimentalmente sino al XIX secolo. Così, in modo abbastanza paradossale, una delle conseguenze intuitivamente più evidenti dei moti della Terra è sottolineata da uno studioso che negava questi moti.

La forza di Coriolis (più correttamente effetto Coriolis) è una forza apparente a cui risulta soggetto un corpo quando si osserva il suo moto da un sistema di riferimento che sia in moto circolare rispetto a un sistema di riferimento inerziale. Descritto per la prima volta in maniera dettagliata dal francese Gaspard Gustave de Coriolis nel 1835, l’effetto Coriolis, che ha le dimensioni di una forza, dipende, sia come intensità sia come direzione, dalla velocità del corpo in movimento rispetto al sistema di riferimento rotante. Si ritiene che esso causi la formazione dei sistemi ciclonici o anticiclonici nell'atmosfera, abbia un ruolo determinante nella direzione delle correnti oceaniche e abbia effetti non trascurabili in tutti i casi in cui un corpo sulla Terra si muova ad alta velocità su lunghi percorsi, come per esempio nel caso di proiettili o di missili a lunga gittata. Tuttavia l’effetto è molto più difficile da rilevare di quanto faccia supporre la sua trattazione matematica. Discutendo la debole risposta dei copernicani ai suoi argomenti, e cioè che il movimento rettilineo dei corpi è solo apparente, Riccioli, che aveva fatto esperimenti diretti facendo cadere dei corpi dalla cima alta circa 100 metri della Torre degli Asinelli di Bologna e aveva notato un piccolo ma innegabile spostamento dalla verticale, ribadisce che è l’evidenza sperimentale che deve essere considerata il fattore decisivo. Se non si può contare su questa evidenza, allora “sarà distrutta tutta la conoscenza fisica”. Si può notare come il Riccioli, pur con tutti i limiti e le idee preconcette che gli derivavano dall’essere un gesuita che si occupava di scienza, fosse assai più galileiano di molti suoi avversari, in un’epoca in cui molti “filosofi naturali” aveva accettato il sistema copernicano quasi senza discuterlo nelle sue implicazioni più sottili.

Lo spostamento legato all’effetto Coriolis ritorna nel testo del Riccioli in altre argomentazioni, alcune delle quali in verità piuttosto deboli, come riconosce lo stesso autore. Così si trova nell’esperimento mentale dell’argomento n. 10 (“Immaginiamo un grosso peso lasciato cadere dall’alto che svolge una catena durante la caduta. Se l’ipotesi copernicana è corretta, la catena non disegnerà una linea diritta verso la Terra, ma sarò curvata verso oriente”). Ritorna con forza invece nell’argomento 17:

“Una palla di cannone lanciata in direzione del piano del meridiano (diretta verso nord o verso sud) seguirà una traiettoria diversa se il cannone è più vicino ai poli che se è più vicino all’equatore, a causa della minore velocità del terreno vicino ai poli. Ma ciò è contrario all’esperimento di Tycho”.

Riccioli aggiunge che l’unica risposta a questo argomento è che forse quell’esperimento in realtà non è mai stato eseguito (non sempre l’astronomo danese era considerato completamente affidabile nella descrizione dei suoi esperimenti). Tuttavia, sostiene il Riccioli, l’esperimento è possibile e l’effetto di deflessione potrà essere rilevato se i moti coinvolti sono sufficientemente violenti (cioè, se si dispone di artiglieria di grande potenza).

L’argomento 18 è solo in apparenza simile al precedente:

“Se la Terra ruota su se stessa, la palla di un cannone diretta verso un obiettivo posto a ovest colpirà sotto il bersaglio, mentre la palla di un cannone diretta verso un obiettivo posto a est colpirà sopra il bersaglio. Ma ciò è contrario all’esperienza”.

Questo argomento riguarda i cambi di direzione dovuti al moto di rotazione della Terra: la linea che va dalla bocca di un cannone al bersaglio cambia intanto che la Terra gira, mentre la traiettoria della palla in volo non lo fa, con i risultati descritti dal Riccioli. Nella pagina in cui viene esposto l’argomento viene illustrato un cannone con la bocca in A spara verso un bersaglio posto a Est (B) e uno a Nord (E), equidistanti da A. Mentre la palla del cannone (I e F) è in volo, la rotazione della Terra porta la bocca del cannone in C, il bersaglio orientale in D e quello settentrionale in N (clic per ingrandire).


Si tratta di un argomento assai vicino a quelli esposti in precedenza, che implica un effetto come quello Coriolis. Di questa materia si era occupato anche Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, sostenendo che l’effetto sarebbe stato di circa un pollice di deviazione per una gittata di 500 cubiti, troppo piccolo da misurare, essendo la precisione di un cannone a quella distanza assai minore (circa un cubito). Ma, nota il Riccioli, il movimento della Terra, se esistesse, dovrebbe essere plausibilmente rilevabile da questa sorta di esperimento.

La figura mostra lo schema di un semplice calcolo dell’effetto Coriolis soprascritto all’illustrazione dell’Almagestum Novum. Le linee colorate mostrano i percorsi del cannone in un sistema di riferimento ruotante mentre spara un proiettile in direzione dell’asse di rotazione. La linea blu è il percorso della bocca del cannone, quella rossa è il percorso della palla, quella verde è il percorso della palla vista dal cannone. La scala dello schema è stata adattata all’illustrazione, e la distanza dall’asse di rotazione è stata disegnata in modo da accordare la linea rossa e la curva AKF. Tuttavia, si noti la deflessione verso destra (verso Est) del proiettile osservata dal cannone, come descritto da Riccioli e Grimaldi.

Gli ultimi due argomenti che coinvolgono una sorta di effetto Coriolis sono il 19 e il 20. Nel 19 (“Se la Terra ruotasse, la gittata di una palla di cannone sarebbe minore se fosse lanciata verso il polo del mondo che se lanciata verso est o verso ovest. Ma ciò è contrario all’esperienza”), Riccioli cita l’opera di Grimaldi e invita il lettore ad altre parti dell’Almagestum Novum per i dettagli. L’argomento 20 (“Se la Terra ruotasse, la gittata di una palla di cannone sarebbe minore se fosse lanciata verso ovest che se lanciata verso est. Ma ciò è contrario agli esperimenti.”) è una variazione del n.18.

Gli argomenti riguardanti il moto di oggetti rispetto a un sistema di riferimento che ruota, che Giovanni Battista Riccioli intendeva negare, non sono gli unici che misero in difficoltà i copernicani. Discutendo della grandezza e della distanza delle stelle fisse, ad esempio, egli mise in discussione la precisione delle osservazioni telescopiche delle stelle con argomenti che sarebbero stati spiegati solo con la prima misura del parallasse stellare, fatta nel 1838 da Friedrich Wilhelm Bessel. Tuttavia, come ha fatto notare Owen Gingerich (Cercando Dio nell’Universo, Lindau, Torino, 2007), l’accettazione definitiva dell’ipotesi copernicana non si dovette a singole “prove” sperimentali come la scoperta delle fasi di Venere o delle lune di Giove: queste avrebbero potuto essere incorporate nell’ipotesi geocentrica di Tycho Brahe abbastanza facilmente. Fu piuttosto lo sviluppo da parte di Newton di un sistema teorico coerente che diede ragione a Copernico e non a Tycho, che convinse gli astronomi dell’eliocentrismo, anche in assenza di alcune prove sperimentali. Gingerich sostiene che gli scienziati non ballarono per strada o tennero grandi celebrazioni quando nel 1838 Bessel misurò la parallasse annuale, o nel 1851 quando il pendolo di Foucault dimostrò chiaramente che la Terra era un sistema di riferimento ruotante: la materia era già stata stabilita definitivamente da Newton.

ResearchBlogging.org
Riferimenti:

Per il suo studio Graney fa riferimento all’edizione Almagestum novum pubblicata online dall’ETH Bibliotek Zürich dell’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia.

Christopher M. Graney (2010). Giovanni Battista Riccioli's Seventy-Seven Arguments Against the Motion of the Earth: An English Rendition of Almagestum Novum Part II, Book 9, Section 4, Chapter 34, Pages 472-7 arXiv arXiv: 1011.3778v1

Christopher M. Graney (2010). The Coriolis Effect Apparently Described in Giovanni Battista Riccioli's
Arguments Against the Motion of the Earth: An English Rendition of Almagestum Novum Part II, Book 9, Section 4, Chapter 21, Pages 425, 426-7 ArXiv arXiv: 1012.3642v1


sabato 25 dicembre 2010

Combinazioni presso la chiusa



Lenta va la barchetta
sul placido canale.

Avanza senza fretta
nella nebbia autunnale.

Trasporta una cassetta
che arriverà a Natale.

Un uomo intanto aspetta
davanti al bar centrale.

Fuma una sigaretta
sbuffando sul giornale.

Ordina un’anisetta
con tono informale.


Questa mia poesiola fatta da 6 distici evoca atmosfere simenoniane (un Simenon bambino, direi) e non comunica grandi scoperte del pensiero. E' tuttavia concepita in modo da poter:
- sostituire tra di loro sia i versi A sia i versi B, con qualche effetto surreale;
- essere ridotta a un numero inferiore di distici per creare poesie più corte,
per un totale di qualche migliaio di combinazioni diverse. Un infimo tentativo di ispirarmi ai Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau.

sabato 18 dicembre 2010

Sonetto oulipiano fior da fiore


Il sonetto che segue è costruito prendendo in prestito i versi da alcuni di quelli che costituiscono la raccolta Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna, Feltrinelli, 2010, che Gianni Celati attribuisce al veneziano Attilio Vecchiatto. Il procedimento adottato, di derivazione oulipiana, consiste nel fare un inventario delle rime presenti nell’intera raccolta, scegliere i sonetti con i versi che presentano le stesse rime (in questo caso –ato e –one per le quartine e –ento per il distico finale), e infine considerare i versi che, avvicinati con una opportuna punteggiatura, possono dare un senso alla poesia, che costituisce l’insieme intersezione degli insiemi formati dai singoli sonetti. Il numero alla fine di ogni riga è il numero d’ordine della singola opera all’interno della raccolta da cui è stato preso il verso.

Il metodo consente di ottenere una composizione che costituisce un compendio della raccolta di versi di un autore, mantenendone il più possibile il senso complessivo, la musicalità e lo stile. Può essere adottato con buoni risultati per sostituire un’antologia, in questi anni in cui il tempo a disposizione del lettore medio è davvero poco. Mi riprometto comunque di ritornare sull’argomento.

Se in vita mia quasi sempre ho sbagliato

Se in vita mia quasi sempre ho sbagliato (25)
solo di tenebre posso dar lezione, (6)
e di vergogne da togliere il fiato (1)
in cui la luce d’amor si fa visione. (30)

In questo albergo un tempo ho soggiornato (18)
all’apparecchio di televisione (12)
voi non sentite com’è congelato? (4)
Badalucco ha parlato a profusione. (40)

Nessun può più uscir dal seminato (38)
ma rende omaggio al nostro tenebrone, (7)
satollo del denaro guadagnato: (48)
una mortale umana condizione. (6)

Noi siamo spore perse in spargimento, (17)
ma la nostra casa sta tra il nulla e il vento. (13)

martedì 14 dicembre 2010

Piccola antologia dei poeti inesistenti (11): Attilio Vecchiatto

Come racconta Gianni Celati nell’antologia commentata che gli ha dedicato (Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna, Feltrinelli, 2010), l’attore veneziano Attilio Vecchiatto (1910–1993) ha vissuto un’esistenza errabonda e movimentata, in cui ha sperimentato l’esilio, i trionfi nei più grandi teatri sudamericani, il rapimento da parte dei guerriglieri colombiani, la bohéme del teatro sperimentale nel Bronx, gli allestimenti scespiriani con attori anziani e marionette ventriloque, il successo parigino tra gli intellettuali, l’invidia e l’ostilità di Dario Fo, la miseria nera degli ultimi anni italiani vissuti con la moglie Carlotta su e giù per la penisola, la prigione, la rinfrescante parentesi campana, la fine in una locanda veneziana per un colpo apoplettico.

13. Nos cui mundus est patria

Viaggiando fu l’albergo il mio castello
o un rifugio o un giaciglio di fortuna,
una capanna in Colombia o un bordello,
oppure in Venezuela il chiar di luna.

Mai ebbi casa né ebbi quel rovello:
niente da dire “mio” in cosa alcuna,
da un posto all’altro avendo nel cervello
l’idea che il mondo fosse la mia cuna.

Brontolava la moglie al ritornello
del nido necessario a far fortuna,
per non migrare sempre a mo’ d’uccello
e aver la casa che gli affetti aduna.

Hai ragione Carlotta, cuore attento,
ma la nostra casa sta tra il nulla e il vento.

Autore di poesie sin dagli anni ’30, quando si trovò a vivere in Argentina, Vecchiatto era già stato scoperto da Celati, che gli aveva già dedicato un testo in ricordo del suo ultimo spettacolo teatrale (Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, Feltrinelli, 1996). Egli aveva continuato a scrivere anche negli ultimi anni di vita, durante i quali spesso si guadagnava da vivere declamando versi e vendendone per strada le fotocopie. Il ritrovamento del grosso quaderno di sonetti in gran parte inediti, avvenuto qualche anno fa in un cassetto dell’ultima sua provvisoria dimora in una stanza della locanda di Sandon dal Fosso in cui morì, ha consentito la pubblicazione delle ultime opere di questo poeta straordinario, lucido e sfortunato.

1. Il viaggiatore torna in patria. Scritto in un caffé di Roma, tre mesi dopo il ritorno in Italia

Torna da vecchio in patria il viaggiatore
e guarda il suo paese ritrovato,
ora inospite, triviale, deturpato,
in mano a furbi senza alcun pudore:

fogna di massa, paese d’orrore
e di vergogne da togliere il fiato,
con quei somari del televisore
che fan del più fetente il più quotato.

Con chi scambiare idee in tal squallore,
dove impera il maramaldo unto e beato?
Cosa fare in balia d’un truffatore
che aizza tutto il popolo intronato?

Che dire? È in fogne, fango e brulicame
che fa carriera il Badalucco infame.


34. Sulla dittatura del nuovo

Hanno ficcato in testa a tutti quanti
che il nuovo sempre sia cosa migliore,
e in massa vedi ovunque gli zelanti
vestire i panni dell’adoratore

d’ogni gadget ch’è nuovo e un po’ più avanti
rispetto al nuovo delle sue passate ore,
con nuove macchinette elettrizzanti
esibite come titoli d’onore.

Il Badalucco la dà da bere a tanti
che non resta in giro un onesto obiettore:
tutti si inchinano ai nuovi fabbricanti
e il nuovo diventa la religion maggiore.

Questa è la vita come target aziendale:
e qui finisce il mio sonetto, bene o male.

Si tratta di sonetti formati da versi endecasillabi con schema ABAB ABAB ABAB CC (tre quartine a rime alterne e distico finale a rima baciata), talvolta caudati, secondo una metrica non molto comune. Essi, secondo il Celati, «parlano del vivere e del morire, dell’amore e del disamore, della nostra cecità e della luce immaginativa, della vita terrestre e della vocazione teatrale che ci guida attraverso il buio della mente. Ma soprattutto parlano d’una “Italia trista”, che non sa cosa sia vergogna, e dell’ottimismo obbligatorio più bigotto, della vita come target aziendale, dell’opulenza come insolenza, dell’italicismo come stupidità di comodo, e dell’ineluttabile ansia prodotta dal “borghese comfort della malora” (parole di Vecchiatto)».

9. Consuma, consuma e andrai in paradiso

Consuma, consuma e andrai in paradiso,
con tutti gli attori e la bella gente
che qui in terra hanno messo su il sorriso
di chi ha la fama dell’uomo vincente.

Continua a consumare e fai buon viso
a fregature, debiti e al demente
obbligo di star sempre sull’avviso,
perché del nuovo non ti sfugga niente.

Fai (come Badalucco) del tuo riso
uno stampo cosmetico lucente;
poi altre operazioni e un nuovo viso,
ti faranno un manichino appariscente.

Ma cadrai presto, sgonfio da far pietà,
nel baratro dell’umana nullità.


Sullo sfondo aleggia la figura del Badalucco, “categoria dello spirito” secondo il Vecchiatto, personaggio capace di portare tutti gli italiani nel buio più profondo di un ebete conformismo. L’opera non a caso è introdotta da una frase di Giordano Bruno che si ripete nell’esergo di ciascuna delle sue cinque parti (“puntate”): “Umbrarum fluctu terras mergente…”, che ben descrive non solamente il sentimento dell’autore, ma la situazione attuale dell’umanità: «È l’idea di un’oscurità in cui gli uomini vivono, come un grande mare di ombre che sommergono tutti i continenti piombando le menti degli uomini in una cecità molto difficile da superare». Alcuni hanno visto il Badalucco incarnato in un noto personaggio dell’economia e della politica, che negli ultimi lustri ha plasmato l’Italia a propria immagine e somiglianza, e che il lettore accorto saprà individuare. Ma forse è più corretto pensare che oramai il Badalucco è in ciascuno di noi e che ciascuno di noi è partecipe di un ineluttabile Badalucco universale, senza speranza di riscatto.

7. Seconda lezione di tenebre

Di tenebre si tace e chi ne parla
è dal consorzio civile isolato,
perché ogni tizio un po’ civilizzato
deve sempre mostrar con la sua ciarla

che sa dov’è la luce. E trascinato
dai discorsi degli altri (che poi a farla,
la luce, ci pensan poco) può darla
come un dato di fatto assicurato.

Dopo di che, ogni furbo che straparla,
con nuovi lumi oscuri come il fato,
succhierà soldi al tizio costernato
dal timore del buio che lo tarla.

Vecchiatto non vuol certo aver ragione,
ma rende omaggio al nostro tenebrone.

31. Ars moriendi. Scritto in un ospedale veneziano, in un momento di riflessione acuta, ma non depressiva

Dove il demone disumano impera
e travestito ormai da buon borghese
la belva finanziaria e menzognera
elegge a dio il denaro d’un paese,

di morire in pace ormai nessuno spera,
perché fino all’ultimo ha pretese
che il denaro lo salvi dalla fiera
morsa del nulla che sempre lo attese.

Ma tu Carlotta cara, amica vera,
ascolta Attilio che non può far spese
per curarsi la salute e che dispera
di sopravvivere ancora per un mese.

Sappi che lui non muore disperato,
a differenza del borghese infrollato.

NOTA. “Borghese infrollato” = reso frolle dagli agi. È l’infrollimento del borghese che vuole ogni comodità - ognuno per sé, a casa sua, etc.

mercoledì 8 dicembre 2010

L’Alfabeto apocalittico di Edoardo Sanguineti

Il 9 dicembre 1930, ottant’anni fa domani, nasceva a Genova Edoardo Sanguineti, il grande poeta e ludolinguista (ma anche romanziere e critico), morto nel maggio di quest’anno. Lo voglio ricordare proponendo una sua opera che ne testimonia il talento linguistico e la vena ludica (egli era anche il presidente onorario dell’Oplepo, la filiazione italiana dell’Oulipo di Queneau, Perec e Roubaud) .

L’Alfabeto apocalittico fu scritto nel 1982 e consiste in una serie di 21 ottave, una per ogni lettera dell’alfabeto italiano. Il rimpianto editore d’arte Galleria Rizzardi ne pubblicò nel 1984 una preziosa versione In-8º (27×17 cm) di 32 pagine, stampata in Milano da Giorgio Upiglio in 99 più XV esemplari, con ventuno capilettera e un’acquaforte acquatinta a colori numerata e firmata da Enrico Baj. La ripropongo qui di seguito, sperando di non violare diritti che comunque non mi appartengono.












La collaborazione con Baj era il frutto di un’amicizia di lunga data: io due si erano conosciuti nei primi anni ’50 a Torino, quando Sanguineti era ancora studente di Lettere e stava scrivendo la sua prima raccolta, Laborintus. Con Baj avrebbe poi pubblicato nel 1995 anche Malebolge 1994/1995 o del malgoverno. Da Berluskaiser a Berluscaos, il cui titolo rivela il comune impegno politico e la precoce, anche se non profetica, analisi del fenomeno Berlusconi. In coda affido allo stesso Sanguineti la lettura dei versi dedicati alla lettera N.


martedì 7 dicembre 2010

Un infruttuoso auto–trattamento di un caso di “Blocco dello scrittore”


Lo studio che presento è comparso sul Journal of Applied Behaviour Analysis n. 3 (autunno 1974). Parti di questo articolo non furono presentate all’81° Convenzione Annuale dell’American Psychological Association, tenutasi il 30 agosto 1973 a Montreal, Canada. Il suo autore, Dennis Upper, un phD di Yale, allora alla Behaviour Therapy Unit, Veterans Administration Hospital, Brockton, Massachusetts, fornisce uno dei migliori esempi di utilizzo ‘patafisico di una pubblicazione scientifica e contiene l’insegnamento che la scienza procede per tentativi ed errori, tramite successi e fallimenti. Anche di questi ultimi bisogna dar conto. Upper lo fa con grande onestà intellettuale, comunicando con una pagina bianca di non essere riuscito a vincere il proprio terrore della pagina bianca. Un terrore che più tardi Upper avrebbe vinto, visto che è uno dei più prolifici psicologi clinici americani sul piano scientifico e divulgativo. Nel 2007 ha pubblicato un’autobiografia professionale, Long Story Short: A Memoir, e le sue poesie e suoi racconti sono comparsi in più di quindici giornali letterari.

Il paper è stato successivamente citato in A Multisite Cross-Cultural Replication of Unsuccessful Self-Treatment of Writer's Block di Robert Didden, Jeff Sigafoos, Mark F. O'Reilly, Giulio E. Lancioni, e Peter Sturmey, J. Appl Behav Anal. 2007 Winter; 40(4), a dimostrazione che l’approccio ‘patafisico trova negli Stati Uniti uno dei suoi terreni più fertili. Scrive l’editor Patrick C. Friman: «I was reminded of a remark often attributed to Mark Twain, “I am sorry I wrote such a long letter, I did not have time to write a shorter one.”».

venerdì 26 novembre 2010

Poliedri e disposizione di punti sulla sfera

I  poliedri, in particolare i solidi platonici, sono oggetto di interesse dei geometri da più di duemila anni. Anche lo studio delle possibili applicazioni di queste figure è assai antico: Platone era così affascinato dalle forme perfette dei cinque solidi regolari che nel suo dialogo Timeo li associò a quelli che, ai suoi tempi, erano ritenuti gli elementi di base del mondo, vale a dire, la terra, il fuoco, l’aria l’acqua e l’etere. L'interesse per i solidi platonici fu assai vivo tra i matematici e gli artisti rinascimentali: ne studiarono le proprietà Piero della Francesca, Luca Pacioli (il suo De Divina Proportione fu illustrato con i celebri disegni di poliedri eseguiti da Leonardo), Niccolò Tartaglia e Rafael Bombelli.

Anche Keplero, nel Mysterium Cosmographicum (1597), immaginò un sistema solare come un complesso nidificato di solidi platonici, in cui i raggi delle sfere concentriche associate determinavano le orbite dei sei pianeti allora conosciuti: «La Terra è la sfera che misura tutte le altre. Circoscrivi ad essa un dodecaedro: la sfera che lo comprende sarà Marte. Circoscrivi a Marte un tetraedro: la sfera che lo comprende sarà Giove. Circoscrivi a Giove un cubo: la sfera che lo comprende sarà Saturno. Ora iscrivi alla Terra un icosaedro: la sfera iscritta ad essa sarà Venere. Iscrivi a Venere un ottaedro: la sfera iscritta ad essa sarà Mercurio. Hai la ragione del numero dei pianeti». Queste idee sono state superate da tempo, ma i poliedri, compresi i solidi platonici, hanno mantenuto una certa importanza nello studio di fenomeni anche in campi diversi dalla matematica, come la fisica, la chimica e la biologia.

Un solido platonico, o regolare, è un poliedro le cui facce sono poligoni regolari identici, con tutti gli angoli al vertice uguali. I cinque solidi platonici sono il tetraedro, l’ottaedro, il cubo, l’icosaedro e il dodecaedro. La tabella riporta per ciascuno di essi il numero di vertici, facce e spigoli.

Il tetraedro, l’ottaedro e l’icosaedro hanno tutti facce triangolari e costituiscono pertanto esempi di deltaedri. Un deltaedro è un poliedro con facce tutte costituite da triangoli, ed è regolare se tutti i triangoli sono equilateri. Esistono solo 8 deltaedri regolari convessi, e il numero dei loro vertici è compreso tra 4 e 12, con l’esclusione di 11. Il cubo ha facce quadrate e quelle del dodecaedro sono pentagoni regolari. Il tetraedro, il cubo e il dodecaedro sono poliedri trivalenti, che significa che in ogni vertice si incontrano esattamente tre spigoli.

Per ogni poliedro il numero di vertici V, facce F e spigoli S deve soddisfare la formula di Eulero, secondo la quale:
V + F − S = 2

Dato un poliedro è possibile costruire il suo duale, che è un poliedro in cui sono scambiati i posti dei vertici e dei centri delle facce. L’ottaedro e il cubo sono reciprocamente duali, così come lo sono l’icosaedro e il dodecaedro. Il duale del tetraedro è un altro tetraedro. Dalle definizioni fin qui date, risulta chiaro che il duale di un deltaedro è un poliedro trivalente.

Una prima interessante applicazione dei poliedri a campi esterni alla matematica riguarda la fisica, in particolare lo studio della disposizione di particelle puntiformi su una superficie sferica. Le particelle possiedono forze che interagiscono tra di loro e tendono a raggiungere stati d’equilibrio in cui si dispongono secondo i vertici di alcuni poliedri.

Il problema è spesso denominato problema di Thomson, perché fu formulato per la prima volta da J.J. Thomson, lo scopritore dell’elettrone, quando nel 1904 propose il suo modello atomico “a panettone”, secondo il quale l'atomo sarebbe stato costituito da una distribuzione di carica positiva diffusa, all'interno della quale erano inserite le cariche negative come i canditi in un panettone. Nel complesso l'atomo risultava elettricamente neutro. Il modello fu confutato dall'esperimento di Geiger e Marsden nel 1909, che spinse Ernest Rutherford nel 1911 a proporre un proprio modello alternativo, nel quale la carica positiva era concentrata in un nucleo.

Il problema di Thomson consiste infatti nel determinare la configurazione di minima energia, sulla superficie di una sfera unitaria, di n elettroni che respingono vicendevolmente con una forza data dalla legge di Coulomb. L’energia totale è data dalla sommatoria delle energie degli elettroni, che va minimizzata per ogni loro disposizione. Nel caso di due elettroni, la configurazione ottimale è ovviamente quella in cui essi si dispongono su due punti disposti agli antipodi. Per n = 3 la configurazione di minima energia è data da tre punti equidistanti su un cerchio massimo della sfera, quindi ai vertici di un triangolo equilatero. Nel caso di quattro punti, essi si dispongono sui vertici di un tetraedro regolare inscritto nella sfera. Per n = 6 la migliore soluzione è data dai vertici dell’ottaedro regolare inscritto, così come per n = 12 la configurazione di minima energia è data dai vertici dell’icosaedro regolare. Contrariamente alle aspettative, i vertici dei poliedri regolari non costituiscono sempre la configurazione di minima energia: le configurazioni più simmetriche non sono di per sé le soluzioni migliori. Per n = 8, ad esempio, non si ottengono i vertici di un cubo e per n = 20 non si ottiene un dodecaedro. Per tutti gli altri n fino a 200 la configurazione di minima energia globale è stata identificata rigorosamente solo con l’ausilio del computer, in quanto il problema presenta calcoli assai complessi, a causa della rapida crescita delle configurazioni minime locali all’aumentare di n, al punto che il problema di Thomson viene utilizzato per testare l’efficacia di nuovi algoritmi di calcolo. Un’ottima illustrazione dei poligoni che consentono le configurazioni minime di energia per diversi valori di n è fornita nella pagina web di Martin Trump.


Sebbene l’evidenza sperimentale abbia portato all’abbandono del modello atomico di Thomson, il suo problema ha da allora giocato un ruolo importante nello studio di altri modelli fisici. Tra questi le cosiddette bolle multi–elettroniche e l’ordinamento superficiale di gocce di metallo liquido confinate nelle trappole di Paul.

Gli elettroni al di sopra della superficie piatta dell’elio liquido sono soggetti a una forza attrattiva verso la superficie, ma sono ostacolati nel penetrarla da una barriera di potenziale di 1 eV. Essi allora formano una pellicola carica sulla superficie. Disponendo una griglia con potenziale positivo sotto la superficie si raggiungono alte densità. Esiste una densità critica di elettroni sopra la quale la superficie carica diventa instabile, e gli elettroni entrano nel volume dell’elio con la formazione di una bolla multielettronica (MEB). Queste bolle hanno raggi che vanno da decine di nanometri a qualche centinaio di micron e contengono da pochi fino a più di 108 elettroni. Tra di essi agiscono forze colombiane di repulsione, per le quali l’energia è minima quanto più sono distanti l’uno dall’altro, e la tensione superficiale, per la quale l’energia è funzione del raggio. Ne risulta una MEB sferica stabile quando queste forze si bilanciano e gli elettroni formano un gas bidimensionale sulla superficie interna della bolla: le configurazioni di energia minima sono altrettante soluzioni del problema di Thomson.

Una trappola ionica è invece una combinazione di campi elettrici o magnetici in grado di catturare ioni in una regione di un sistema sotto vuoto o in un tubo. Le trappole di ioni sono utilizzate in molte applicazioni scientifiche come la spettrometria di massa, la creazione di orologi atomici ad alta precisione, e sembra imminente il loro uso nei computer quantistici: la più comune trappola ionica è quella studiata da Wolfgang Paul, che gli valse il Premio Nobel per la fisica nel 1989. La posizione degli ioni all’interno del sistema è anch’essa studiata attraverso il problema di Thomson.

Un’ovvia estensione del problema di Thomson è di sostituire la legge di Coulomb con una più generale, in cui ad esempio sulla sfera si collochino non punti ma dei cerchi. In questo caso la generalizzazione corrisponde al cosiddetto problema di Tammes, che prende il nome dal botanico olandese che pose la questione nel 1930 in relazione allo studio dei pori sui granelli sferici di polline. In pratica si tratta di stabilire come impacchettare un dato numero di cerchi sulla superficie di una sfera, in modo tale da massimizzare la minima distanza tra di essi, il che è equivalente a chiedersi come riempire la superficie di una sfera con n cerchi identici in modo tale che il loro diametro sia il più grande possibile. Si ottengono di nuovo soluzioni con punti disposti sui vertici di poliedri, ma, forse sorprendentemente, per n ≥ 6 i risultati numerici indicano che l’unica configurazione che è una soluzione comune ai problemi di Thomson e di Tammes è la disposizione a icosaedro per n = 12.

Un ultimo caso di disposizione di punti sulla superficie di una sfera è costituito dal problema che fu posto per la prima volta nel 1943 dal matematico ungherese Fejes Toth, uno dei padri della geometria discreta, o geometria combinatoria. Il problema di Toth consiste nel disporre n punti su una sfera unitaria in modo da massimizzare la distanza minima tra ogni coppia di essi (che è come dire minimizzare l’energia). Questa distanza massima è stata chiamata raggio di copertura, e la configurazione prende il nome di codice sferico. Toth calcolò la distanza per sistemi composti da n = 3, 4, 6 e 12 punti, ma il problema generale non è stato tuttavia risolto.

Le generalizzazioni del problema di Thompson entrano in gioco, ad esempio, nel determinare le disposizioni delle unità proteiche che costituiscono gli involucri dei virus sferici, come ad esempio l’HIV, che si basa su un poliedro trivalente con simmetria icosaedrale. Altri campi d’indagine comprendono le disposizioni regolari delle particelle nei colloidosomi, proposti per l’incapsulamento di principi attivi come farmaci, nutrienti o cellule viventi, oppure la disposizione degli atomi di carbonio nei fullereni.

I colloidosomi sono microcapsule con involucri costituiti di particelle colloidali coagulate o parzialmente fuse. Le particelle si auto–assemblano sulla superficie delle goccioline delle sostanze contenute, in modo da minimizzare l’energia totale. Recentemente si è scoperto che le membrane dei colloidi offrono una grande capacità di controllare la permeabilità delle sostanze intrappolate. Il loro principale vantaggio è che la dimensione dei pori della membrana può essere variato, scegliendo particelle di dimensioni opportune e controllando il loro grado di fusione. In questo modo è possibile utilizzare le membrane dei colloidosomi come filtri selettivi per il rilascio o la ritenzione delle sostanze desiderate, che possono trovare numerose applicazioni nella progettazione di nuovi veicoli di somministrazione di nuovi farmaci e vaccini e per il lento rilascio di cosmetici e integratori alimentari.


I fullereni sono una classe particolarmente interessante di poliedri trivalenti che si ha quando le facce sono F ≥ 12. Essi sono composti da 12 pentagoni e F–12 esagoni. La proprietà trivalente considerata assieme alla formula di Eulero determina allora che il numero di spigoli e vertici è dato da V = 2F − 4 e S = 3F − 6. Il primo poliedro di tale tipo ha F = 12 facce pentagonali ed è il dodecaedro. Un interessante fullerene con simmetria icosaedrale si ha per F = 32, cioè per l’icosaedro troncato , che si può ottenere da un icosaedro “tagliando” ciascuno dei suoi 12 vertici, in modo da ottenere 12 pentagoni e 20 esagoni. Il numero dei fullereni combinatoriamente diversi aumenta rapidamente al crescere di F. Ad esempio, se per F = 12 l’unico fullerene è il dodeacaedro, per F = 22 ne esistono già 40. Una delle principali ricerche oggi in corso riguarda proprio la catalogazione e lo studio delle caratteristiche di tutti i possibili fullereni, così come prevedere, sulla base della minimizzazione dell’energia, quali si possano effettivamente trovare negli esperimenti. Il duale di un fullerene è un deltaedro nel quale 5 oppure 6 triangoli circondano un vertice (rispettivamente si parla di pentameri ed esameri). Chi volesse approfondire le conoscenze sulla geometria dei fullereni può fare riferimento alle pagine preparate da Slavik Jablan

I poliedri fullerenici sono divenuti di grande interesse negli anni recenti a causa della loro inaspettata comparsa nella chimica del carbonio. Il carbonio in natura può presentarsi in forme allotropiche molecolari diverse, come la grafite e il diamante, ma anche come fullereni. Si tratta di grandi molecole di forma approssimativamente sferica (denominate a volte buckyball, abbreviazione di buckminster-fullerene, con riferimento alle cupole geodetiche progettate dall'architetto Richard Buckminster Fuller), oppure cilindrica (buckytube).


La forma più frequente è quella sferoidale cava, come ad esempio nella fullerite, C60, la cui scoperta fu premiata con il Premio Nobel per la chimica nel 1996 a Kroto, Curl e Smalley. Gli atomi di carbonio si collocano ai vertici di un poliedro fullerenico, con i legami rappresentati dai suoi spigoli. Sebbene l’atomo di carbonio sia quadrivalente, il poliedro è trivalente, perché ogni atomo di carbonio è legato a due altri da un legame singolo e a un terzo da un legame doppio. La differenza di lunghezza tra i legami singolo e doppio è così piccola da essere trascurabile. Ad esempio, i 60 atomi nella fullerite sono collocati ai vertici di un icosaedro troncato. Altri fullereni sono comuni, come il C70, il C76e il C84. I fullereni sono stati individuati quest’anno anche nello spazio (in una nebulosa planetaria chiamata Tc1, a 6.500 anni luce dalla Terra) e in formazioni geologiche terrestri.

[La fonte principale ma non esclusiva di questo articolo è Polyhedra in Physics, Chemistry and Geometry di Michael Atiyah and Paul Sutcliffe, comparso sul Milan Journal of Mathematics vol. 71 (2003), 33–58 DOI 10.1007/s00032-003-0014-1].

lunedì 22 novembre 2010

Anna e il topolino


Anna Laetitia Barbauld, nata Aikin (1743–1825) è stata un’importante poetessa romantica inglese, saggista e autrice per bambini. La sua carriera letteraria fu abbastanza brillante, in un periodo in cui le scrittrici donne erano rare. Stimata docente nell’accademia privata fondata con il marito, Rochemont Barbauld, pastore protestante di origini ugonotte, fu un’innovativa scrittrice per l’infanzia e i suoi sussidiari stabilirono uno standard pedagogico per più di un secolo. I suoi saggi dimostrarono che anche le donne potevano impegnarsi pubblicamente in politica e fecero scuola. Ancor più importante, la sua poesia e i suoi testi di critica letteraria gettarono le basi per lo sviluppo del movimento romantico nel suo paese, invitando i poeti ad abbandonare le loro stanze e a vagare nei campi (“to wander about the fields”) e a cantare il mondo naturale, come poi avrebbero effettivamente fatto grandi talenti come Wordsworth ("I wander’d lonely as a cloud”) e Coleridge.

La sua carriera letteraria si interruppe bruscamente nel 1812 con la pubblicazione della poesia Eighteen Hundred and Eleven (“1811”) che condannava la partecipazione britannica alle guerre napoleoniche. Le feroci critiche ricevute la convinsero a non pubblicare più nulla per tutta la vita. Ancor più doloroso fu per lei il fatto che molti poeti romantici che aveva conosciuto e ispirato negli anni della Rivoluzione Francese le si fossero rivoltati contro, criticandola da posizioni conservatrici. A lungo dimenticata nel corso del XX secolo, la sua opera è stata rivalutata solo negli anni ’80, con il sorgere della critica letteraria femminista.


Anche il padre di Anna, John Aikin, era stato pastore protestante e illuminista e aveva fondato un’accademia privata che molto contribuì all’educazione, alla cultura e alle idee della figlia. Tra gli intellettuali che la Barbauld conobbe in quell’ambiente stimolante c’era il teologo e grande chimico Joseph Priestley (1733–1804), membro della Royal Society e scopritore dell'ossido di azoto, dell'anidride solforosa, dell'acido cloridrico, dell'ammoniaca e, soprattutto, dell'ossigeno, che ottenne nel 1774 riscaldando l'ossido rosso di mercurio. La scoperta di alcuni gas fu resa possibile da una nuova tecnica sperimentale ideata da Priestley stesso, che consistva nel raccoglierli nel mercurio anziché nell’acqua, dove gas come l'acido cloridrico e l'ammoniaca si sciolgono, sfuggendo all'osservazione. I risultati degli studi sui gas furono raccolti in Experiments and Observations on different Kinds of Air (“Esperimenti e osservazioni sulle diverse specie di aria”; sei volumi tra il 1774 e il 1786), in cui Priestley osserva con ragione che la scienza potrebbe distruggere “l’illegittima e usurpata autorità” e che il governo ha “ragione a tremare anche di fronte a una pompa d’aria o a un apparato elettrico” (quanto è lungimirante questa osservazione oggi in Italia!). Egli tuttavia non accettò mai l’idea di abbandonare la teoria del flogisto e di introdurre una nuova nomenclatura chimica basata su elementi e composti, come suggeriva di fare Lavoisier,


suoi studi sull’aria Priestley utilizzava una campana di vetro con la quale effettuava diversi esperimenti. Spesso collocava sotto la campana una bacinella d’acqua e un topolino, con o senza una pianta. Notò così che, quando il topolino era da solo all'interno della campana, moriva molto prima rispetto a quando vi era anche la pianta. Questo condusse Priestley a concludere che la pianta produceva una sostanza che allungava la vita al topolino. Questa sostanza, che egli chiamò “aria deflogistizzata”, la quale era "cinque o sei volte migliore che l’aria comune per lo scopo della respirazione, dell’accensione e, ritengo, per ogni altro uso della comune aria atmosferica", sarebbe poi stata chiamata ossigeno.

Negli anni in cui Priestley frequentava l’accademia del padre, Anna Barbauld gli faceva spesso da assistente. Nell’estate del 1767 fu colpita con dolore dalla sofferenza degli animali da laboratorio utilizzati dal chimico quando venivano privati dell’aria per respirare. Animalista in anticipo sui tempi, decise allora di scrivere una poesia, che troviamo nella sua prima raccolta, pubblicata a Londra nel 1773, per dar voce a uno dei topolini del laboratorio. Infilò il foglietto tra le sbarre della sua gabbia, per farla trovare a Priestley il mattino successivo. La intitolò The Mouse's Petition to Dr Priestley, Found in the Trap where he had been Confined all Night (“La petizione del topo al dottor Priestley, trovata nella gabbia in cui è stato rinchiuso tutta la notte”):

OH ! hear a pensive captive's prayer,
For liberty that sighs;
And never let thine heart be shut
Against the prisoner's cries.

For here forlorn and sad I sit,
Within the wiry Grate,
And tremble at th’ approaching Morn
Which brings impending fate.

If e'er thy breast with freedom glowed,
And spurn'd a tyrant's chain,
Let not thy strong oppressive force
A free-born mouse detain.

Oh ! do not stain with guiltless blood
Thy hospitable hearth;
Nor triumph that thy wiles betray'd
A prize so little worth.

The scatter’d gleanings of a feast
My scanty meals supply;
But if thine unrelenting heart
That slender boon deny,

The cheerful light, the Vital Air,
Are blessings widely given;
Let Nature's commoners enjoy
The common gifts of Heaven.

The well-taught philosophic mind
To all Compassion gives;
Casts round the world an Equal eye,
And feels for all that lives.

If mind, as ancient sages taught,
A never dying flame,
Still shifts thro' matter's varying forms,
In every form the same,

Beware, lest in the worm you crush
A brother's soul you find;
And tremble lest thy luckless hand
Dislodge a kindred mind.

Or, if this transient gleam of day
Be all of life we share,
Let pity plead within thy breast,
That little all to spare.

So may thy hospitable board
With health and peace be crown'd ;
And every charm of heartfelt ease
Beneath thy roof be found.

So when unseen destruction lurks,
Which men like mice may share,
May some kind angel clear thy path,
And break the hidden snare.


Oh! Ascolta la preghiera di un triste recluso
che si lamenta per la libertà;
e fa’ che il tuo cuore mai si chiuda
di fronte al pianto del prigioniero.

Perché qui desolato e triste siedo,
dentro la grata metallica,
e tremo all’avvicinarsi del Giorno,
che porta l’incombente fato.

Se mai il tuo petto arse di libertà
e disprezzò la catena del tiranno,
che la tua forza oppressiva e dura
mai rinchiuda un topo nato libero.

Oh! Non macchiare di sangue innocente
il tuo cuore ospitale;
né che un trionfo con l’inganno tradisca
un premio di cui non val la pena.

Le sparse briciole di una festa
il mio magro pasto assicura,
ma se il tuo cuore implacabile
quella modesta benedizione rifiuta,

l’allegra luce, l’Aria Vitale,
sono benedizioni ampiamente concesse;
lascia che i comuni figli della Natura
godano dei comuni doni del Paradiso.

La mente filosofica ben istruita
a tutto dona Compassione;
guarda il mondo con occhio giusto
e ha coscienza di tutto ciò che vive.

Se la mente, come spiegarono gli antichi saggi,
è una fiamma che mai si spegne,
passa attraverso le varie forme della materia,
in ogni forma la stessa,

stai attento, prima che nel verme che schiacci
trovi l’anima di un fratello
e trema perché la tua sfortunata mano
non scacci un’anima a te affine.

Oppure, se questo fugace barlume di giorno
è tutto ciò che della vita condividiamo,
lascia che la pietà implori il tuo cuore
di risparmiare quel piccolo tutto.

Così, che la tua tavola ospitale
sia coronata di pace e salute,
e ogni grazia di agio sincero
si possa trovare sotto il tuo tetto.

Così quando la distruzione non vista si apposta,
e gli uomini come i topi minaccia,
che qualche angelo gentile ti illumini il cammino
e riveli l’insidia celata.

L’idea che gli animali e tutte le forme di vita hanno il diritto ai “comuni doni del Paradiso” rappresenta il preannuncio dell’intero movimento ambientalista e delle questioni che esso oggi pone alla scienza e all’industria. Secondo me poteva nascere solo dal buon senso di una donna. 

venerdì 19 novembre 2010

Polemiche: un mistero del Pignagnoli

Non è la prima volta che ospito gli scritti di amici e conoscenti. È tuttavia la prima volta che cedo alle insistenze di un amico d’un amico, convinto che la tesi che sostiene possa far luce su un poco conosciuto mistero della biografia già di per sé misteriosa dello scrittore Learco Pignagnoli o che, almeno, possa dar vita a un dibattito che avvicini in qualche modo la verità. L’amico dell’amico è Alberto Podenzani, letterato e matematico autodidatta piacentino, la cui cospicua produzione poetica e scientifica giace finora sottovalutata nei cassetti delle principali case editrici italiane e straniere. La sua opera Quattro salti in padella ha ottenuto il secondo posto nella terza edizione del concorso di poesia “Natura e cultura gastronomica” di Tabiano Bagni. Ecco quanto mi invia Podenzani:


L’edizione in brossura del Nome della rosa appartenuta a Learco Pignagnoli riporta una dedica autografa che recita “A Learco P., l’imitatore di Padre Jorge”. La firma e la grafia non sono tuttavia quelle di Umberto Eco, che pare non abbia mai conosciuto lo scrittore e filosofo emiliano, ma quelle dello stesso Pignagnoli.

Bizzarra scelta quella di scrivere una dedica a se stessi su un libro della propria biblioteca, ancor più sorprendente quando ci si descrive come ammiratore del personaggio indubbiamente più odioso di una storia. Alcuni studiosi hanno avanzato ipotesi assai aleatorie, perché scarsamente suffragate da prove: L. Gandelli (1) ha invocato lo spirito scherzoso del Nostro, R. Ghini (2) si chiede se non si tratti di una burla di Paolo Albani o di Daniele Benati. L’unico critico disposto a considerare seriamente l’autodedica è stato G. Calabrò (3), del quale mi sembrano condivisibili le argomentazioni. Il noto esperto di letteratura opportunista inquadra la dedica in un periodo particolare della vita del Pignagnoli, e cioè la crisi che attraversò in seguito alla scomparsa dell’amico Luis Burgos, il bibliofilo antiquario argentino, di cui si occuparono occasionalmente gli organi di stampa alla fine del 1981. Burgos aveva fatto parlare di sé sostenendo di essere venuto in possesso di una copia cinquecentesca del secondo libro della Poetica di Aristotele, quello dedicato alla commedia, ritenuto fino ad allora inesistente o perduto, mettendosi così in contrasto con l’intero mondo accademico e suscitando un generale scetticismo se non un’aperta ostilità. Il Burgos, invece di mostrare pubblicamente la sua presunta straordinaria scoperta, si chiuse in un ostinato mutismo che mantenne fino alla sua scomparsa nel nulla, avvenuta dopo un paio di settimane.

Il Pignagnoli, che aveva aiutato l’amico nei primi mesi del suo esilio italiano dopo le persecuzioni subite dalla giunta militare al potere in Argentina, si affrettò a escludere qualsiasi implicazione politica nella sparizione del Burgos, sostenendo, senza scendere in particolari, che “Bisogna cercare nei libri la fine di un amante dei libri” e che “Burgos scompare e Moravia c’è ancora, che bel mondo del cazzo”. Fin qui il Calabrò, che conclude la sua ricostruzione lamentando il fatto che forse mai sapremo sollevare il velo di mistero che circonda la scomparsa del bibliofilo sudamericano e la sibillina affermazione del filosofo emiliano.

Dobbiamo oggi a Z. Bonino (4) una notizia apparentemente poco significativa che può invece aprire uno spiraglio nella vicenda. Nel novembre 1981 prese fuoco la Fiat Ritmo del Pignagnoli, parcheggiata davanti alla sua abitazione, in quello che sembrò un atto vandalico. Lo scrittore non volle tuttavia sporgere denuncia, limitandosi a dichiarare “Se penso alla comodità mi viene il nervoso, se penso all’estetica mi calmo”. Il Bonino ci informa inoltre che all’epoca lo scrittore era un accanito fumatore di MS Blu, al punto che chi lo ricorda nei primi anni ’80 lo descrive sempre con la sigaretta accesa in bocca. I sedili della vettura erano pieni di bruciature, il posacenere sempre pieno, l’abitacolo puzzolente di fumo.

L’ipotesi che credo di poter formulare nel limitato spazio che può concedermi Popinga è che il prezioso volume del Burgos si trovasse sulla Ritmo del Pignagnoli, dimenticato con leggerezza dallo stesso proprietario o dall’amico italiano che potrebbe averlo chiesto e ottenuto in prestito.

La vettura non prese fuoco per l’azione di teppisti, ma per un incidente dovuto a un mozzicone dimenticato acceso dal Pignagnoli. Egli si sarebbe reso responsabile dell’enorme perdita per l’amico e per l’intera umanità. In seguito a tale sciagura, il Burgos avrebbe deciso di scomparire per la vergogna di affrontare gli organi d’informazione, forse maturando anche l’idea del suicidio, lasciando al Nostro un inconfessabile rimorso, parzialmente accennato nell’insolita dedica a se stesso in cui si paragona al frate incendiario del romanzo di Eco.

Note:
(1) Luigi Gandelli, In cerca di L.P., ed. Fondazione Scoppiabigi, Reggio Emilia, 1990.
(2) Renato Ghini, Scrittori emiliani del nuovo millennio, Coop. Editrice Fidentina, Fidenza, 1995.
(3) Giuseppe Calabrò, Scrittori che inventano scrittori, in Il mattone, rivista quadrimestrale di critica letteraria, a. V, n. 3, 2006.
(4) Zeno Bonino, Pignagnoli come non é, fotocopie sparse, in L’Accalappiacani n. 5, articolo scartato.

Alberto Podenzani