Ernesto Ragazzoni era un poeta che aspirava a non scrivere nulla, a possedere una biblioteca di libri non scritti da sfogliare comodamente nella sua mente. E che dire allora dei poeti che hanno invece lasciato opere, spesso di pregevole fattura, pur non essendo mai esistiti? Sì, perché la letteratura è anche questo, la possibilità che un componimento in versi nasca da un padre non identificabile attraverso una biografia reale. Sto parlando di poeti inesistenti, per i quali la pagina bianca non è quella di un’opera in versi, che è qui, davanti ai nostri occhi, ma è la pagina della loro esistenza, che qualcuno si è divertito a compilare con abbondanza di particolari oppure con pochi, vaghi, cenni, o, ancora, lasciando al lettore il gusto o l’onere di immaginare una vita dietro quelle righe.
Di un poeta misconosciuto e, lui davvero, maledetto, si è occupato Honoré de Balzac ne Le illusioni perdute, Rizzoli, Milano, 1999. Si tratta di Lucien Chardon de Rubempré, giovane autore della raccolta di sonetti sui fiori dal titolo Margherite. Il manoscritto fu acquistato dall’editore parigino Dauriat, che, tuttavia, non lo pubblicò mai. L’autore fu trascurato per il suo stile petrarchesco: le sue immagini risultavano incomprensibili od obsolete in un’epoca dominata dal positivismo. Tornò nella natia Angoulême, più povero di quando era partito, dopo aver rovinato anche la sua famiglia. Di de Rubempré riporto il secondo e il cinquantesimo sonetto. Qualcuno ha voluto attribuire quest’ultimo a Théophile Gautier:
La Margherita
Sono la margherita, ed ero la più bella
Dei fiori screziati nel prato vellutato.
Felice, mi si cercava solo per la mia beltà,
E lusingavo di un'aurora eterna la mia età.
Ahimè! una virtù nuova, nonostante me
Ha versato sulla mia fronte la sua chiarezza fatale;
la sorte mi ha condannata al dono della verità,
E soffro e muoio: la scienza è mortale.
Non ho più silenzio, non ho più riposo;
L'amore, con due parole, l'avvenire mi ha strappato.
Lacera il mio cuore per leggervi che è amato.
Sono il solo fiore che si getta senza rimpianto:
Si spoglia la mia fronte del suo diadema bianco,
E resta schiacciato quando il mio segreto ho rivelato.
Il tulipano
Io, io sono il tulipano, d'Olanda il fiore;
E tale è la mia bellezza che il Fiammingo avaro
Un mio bulbo più di un diamante paga caro,
Se sono dritto, grande e di un bel colore.
La mia aria è feudale, e come una Iolanda
Nella sua gonna a ricchi piegoni,
Porto su me dipinti blasoni;
Argento, oro e porpora a banda;
II divino giardiniere ha filato con le sue mani
Raggi di sole e porpora di sovrani
Per farmi un vestito dalla trama dolce e fina.
Nessun fiore del giardino eguaglia il mio splendore,
Ma la natura, ahimè!, non ha versato odore
Nel mio calice fatto come un vaso di Cina.
Uno dei poeti inesistenti più noti e prolifici è senza dubbio l’inglese Randolph Henry Ash (? – 1889), di cui parla Antonia S. Byatt in Possessione. Una storia romantica, Mondadori, Milano, 1999. L’intera vicenda del romanzo, una duplice storia d’amore, ruota intorno alla vita di questo poeta vittoriano, alle sue poesie e alla sua corrispondenza con Christabel LaMotte, anch’ella poetessa, con la quale ebbe un tormentato e clandestino amore culminato nella nascita di un figlio illegittimo.
Le poesie di Ash rivelano la possessione (presa di possesso), l’assimilazione di idee e immagini poetiche altrui e l’imitazione delle voci di altre culture e periodi, particolarmente della mitologia scandinava. Il suo stile ricalca gli accenti di poeti vittoriani come Robert Browning e, in misura minore, Tennyson, Matthew Arnold, Swinburne, e Dante Gabriel Rossetti. Ash ha pubblicato Ragnarök (1840), poema ateo e drammaticamente disperato, i versi intensi raccolti in Dèi, uomini ed eroi (1856), il lungo poema Il giardino di Proserpina (1861), meditazione sui miti della resurrezione, il poema Mummy Possest (1863), il cui titolo è una citazione di John Donne, tremendo attacco al mondo dei medium dai toni misogini:
Prendi la sfera di cristallo, dolce Geraldine.
Scrutane la superficie. Osserva come sinistra e destra,
sopra, sotto, si rovesciano in essa
e nel suo centro riluce uno spazio
come un mondo sommerso con fiamme che guizzano in basso,
questa stanza in miniatura, capovolta.
Guarda attentamente, e vedrai agitarsi
sotto i veli la visione spiritica, vedrai
ciò che non è qui, ma viene da oltre il confine.
(…)
Non sai che noi Donne non abbiamo Potere
nel freddo mondo degli oggetti governato dalla Ragione,
ove tutto è misurato e meccanico?
Là siamo ornamento, balocchi, proprietà,
fiori recisi catturati in vaso,
per splendere un giorno e poi morire. Ma vedi,
in questa stanza segreta, cinta da tende
di vaga morbidezza, fiocamente rischiarata
da barlumi e guizzi, ove ogni forma
è indistinta, ogni suono ambiguo,
qui abbiamo Potere, qui l'Irrazionale,
l'Intuizione delle Potenze Invisibili
parla ai nostri nervi di donna, fili galvanici
che raccolgono, interpretano e trasmettono
Forze invisibili e la loro Volontà nascosta.
Questo è il nostro mondo negativo, dove l'Invisibile,
l'Inudito, Impalpabile e Sconfinato
parla a e attraverso di noi - siamo noi che sentiamo,
le nostre nature vibrano della loro forza.
Vieni in questo mondo rovesciato, Geraldine,
dove il potere scorre verso l'alto, come nella sfera,
dove la sinistra è destra, le lancette ruotano al contrario,
e le donne siedono in trono e indossano la toga,
e ghirlande di rose profumate e corone,
e gioielli tra i capelli, sardonice,
pietra di luna, rubini e perle,
pietre reali, di un mondo in cui siamo sacerdotesse
e Regine potenti, e tutto è pervaso dal nostro Volere.
Tutti i maghi hanno usato stratagemmi. Non siamo
nulla di più o di meno di tutti i Grandi Sacerdoti
che trattennero le masse nella fede esibendo
fuochi d'artificio e magie per impressionare
con simboli del fulgore divino quegli occhi ottusi
che dai nostri discorsi non caverebbero alcun senso.
Infine Swammerdam, dedicato all’entomologo olandese del ‘600 Jan Swammerdam, è una riflessione con echi miltoniani sul destino dell’uomo di fronte al progresso scientifico:
Cercai di conoscere le origini della vita.
Lo ritenevo legittimo. Forse che Dio
dandomi mani e occhi non mi aveva dotato dell'abilità
di creare il mio paziente manichino di rame
che teneva ferme le lenti, variamente curve,
su molecole viventi che imparai
a scrutare e poi esaltare
in scala sempre crescente
di ingrandimento o riduzione,
finché mi apparvero piani e connessioni
di crescente vertiginosa complessità?
Potevo sezionare l'occhio di un'efemera,
distendere la cornea di un moscerino e in essa vedere
rovesciato e moltiplicato
il campanile della Chiesa Nuova,
come tante capocchie di spillo, su cui nessun Angelo danzava.
L'ala di una farfalla squamata come cotta di maglia,
gli aguzzi uncini sulle zampe delle mosche –
vidi in questo nostro mondo un mondo nuovo –
mondo di miracoli, di verità
mostruoso e pullulante di vita insospettata.
L'acqua del bicchiere che mi accosti alle labbra
ci rivelerebbe, se avessi le mie lenti,
non la limpida chiarezza che pensiamo –
acqua pura – ma un'orda ribollente e tumultuosa
di microbi che dimenano code dragonesche
spinti da molle e spire e tentacoli capillari
come balene che solchino i mari del globo.
Il cristallo ottico è come una spada affilata.
Moltiplica il mondo, o lo divide –
vediamo i molti in uno, come qui,
e le fessure in quel che appariva piano,
scabri pozzi e crateri sulla pelle di una dama,
o peli e scaglie sui suoi capelli lucenti.
Più i Molti mi venivano rivelati
più mi affannavo nella caccia all'Uno –
Prima Materia, mutevole forma della Natura
sempre costante nelle sue metamorfosi.
Del terzo e ultimo poeta di questa prima parte si è occupato Roberto Bolaño in La letteratura nazista in America, Sellerio, Palermo, 1998, vero manuale letterario di scrittori e opere rigorosamente inventati, sul quale avrò modo di ritornare. Si tratta del venezuelano Franz Zwickau (1946–1971), che passò attraverso la vita e la letteratura come un turbine. Figlio di emigranti tedeschi, padroneggiò alla perfezione sia la lingua dei genitori sia la lingua della sua terra natale.
Pubblicò due libri di poesia. Il primo, Motociclisti (1965), è una raccolta di venticinque sonetti di stile e musicalità eterodossi incentrata su temi giovanili come la moto, gli amori disperati, il risveglio sessuale e la volontà di purezza. Il secondo, II figlio dei criminali di guerra (1967), è invece un libro raggelante, pieno di imprecazioni, maledizioni, bestemmie, incubi, che venne ovviamente ignorato se non malignamente occultato dalla critica. Alcune poesie sono memorabili, come Dialogo con Herman Goerìng all'Inferno, in cui il poeta, in sella alla moto nera dei suoi primi sonetti, arriva in un aerodromo abbandonato sulla costa venezuelana, in un posto chiamato Inferno, dove incontra l'ombra del maresciallo nazista, con cui parla di aviazione, vertigini, destino, case disabitate, coraggio, giustizia, morte. In Heimat l’autore descrive in una singolare mescolanza di spagnolo e tedesco le parti intime del suo corpo con una freddezza da medico legale che esegue un’autopsia.
Il figlio dei criminali di guerra, la lunga poesia che da il titolo al secondo libro, è un opera concitata e aberrante in cui Zwickau, che si rammarica di non essere nato venticinque anni prima, da libero sfogo alla sua inventiva verbale. In originali versi liberi l'autore descrive un'infanzia atroce, balla, canta, si masturba, fa sollevamento pesi, sogna una Berlino favolosa, recita Goethe, Jùnger, assume le voci di un montanaro alpino, di una contadina, di un carrista tedesco morto nelle Ardenne nel dicembre del 1944, di un giornalista statunitense a Norimberga.
Zwickau si schiantò con la sua moto quando non aveva ancora compiuto i venticinque anni. L’anno precedente aveva pubblicato il romanzo breve Camping Gattabuia (1970). Solo dopo la morte si venne a conoscenza delle poesie scritte in tedesco, Meine Kleine Gedichte, una raccolta di centocinquanta brevi liriche di ambientazione piuttosto bucolica.
(
continua)