martedì 20 dicembre 2011

Fritz Haber, il maledetto


ResearchBlogging.orgLa galleria dei ritratti fotografici degli scienziati della Bassa Slesia che hanno vinto il premio Nobel, nel salone Śląski, proprio di fronte all’edificio principale dell’Università di Breslavia (oggi Wroclaw), è piuttosto eterodossa per gli standard consueti. Due degli scienziati ritratti guardano infatti il pubblico a testa in giù. Il primo è Philipp Lenard, lo scopritore dei raggi catodici, che i lettori di questo blog hanno già conosciuto come fiero oppositore di Einstein nel 1920, in seguito diventato il vate ispiratore della “fisica ariana” durante tutto il periodo del nazionalsocialismo. Il secondo è Fritz Haber, che inventò un metodo per sintetizzare l’ammoniaca e più tardi fu il paladino dell’uso dei gas tossici sui campi di battaglia della prima guerra mondiale.

Tra gli scienziati della galleria degli slesiani poche figure sono così controverse, complicate, tragiche come quella di Haber (1868–1934). Il chimico era stato insignito del Premio Nobel del 1918 per aver sviluppato prima della guerra un metodo per sintetizzare direttamente l’ammoniaca dai suoi elementi costituenti, l’idrogeno e l’azoto, ad alta pressione e temperatura.

Pochi anni dopo la sua scoperta, Fritz Haber mise il suo istituto a disposizione del governo tedesco e convinse lo Stato Maggiore a sperimentare e poi utilizzare l’uso di gas tossici mortali sui campi di battaglia della Grande Guerra. La nostra giusta indignazione non deve tuttavia ostacolare uno studio più approfondito e obiettivo del personaggio. E’ ciò che hanno fatto la giornalista Magda Dunikowska e Ludwik Turko, dell’Istituto di Fisica Teorica dell’Università di Wroclaw, nell’articolo Fritz Haber, the damned scientist, nel quale si osserva che la figura dello scienziato, diventato una leggenda nera, va studiata sia in ragione del suo indiscusso talento scientifico, sia perché la sua biografia è uno specchio nel quale si riflettono tutte le contraddizioni della sua epoca, nella quale gli scienziati cominciarono ad assumere quell’importante ruolo politico che hanno oggi.


Fritz Haber era nato a Breslavia (allora Breslau) da una famiglia di ebrei galiziani. Il padre era un imprenditore chimico, in una città che era un microcosmo in fermento: alla fine dell’Ottocento era un miscuglio di etnie, culture e religioni, sviluppatosi tra i poli di un’elegante cultura urbana e della fede nel potere della scienza. Il legame stretto e inedito tra i laboratori universitari di chimica, l’ufficio brevetti e l’immediata applicazione industriale delle scoperte appena realizzate favoriva lo sviluppo economico. In quel vivace ambiente scientifico non sfuggì, ad esempio, che la sintesi dell’ammoniaca consentiva la produzione di massa dei fertilizzanti ma anche quella degli esplosivi.

Fra il 1886 e il 1891, Haber studiò all'Università di Heidelberg con Robert Bunsen; in seguito si trasferì all'Università di Berlino nel gruppo di August W. Hoffmann e infine con Karl Liebermann. Haber era un convinto nazionalista, in un tempo in cui il nazionalismo era una virtù e un’attitudine degna di lode. Il mondo in cui era cresciuto ed educato considerava propri valori fondanti la disciplina, il patriottismo e il rispetto per l’esercito, instillati fin dalla più tenera età. Il sistema scolastico tedesco era di ottimo livello e il grande ruolo attribuito alla scienza poteva far sperare a studiosi e scienziati di giungere ai vertici della gerarchia sociale. In quel clima Haber, che si sentiva un vero tedesco, aveva deciso all’età di 24 anni di farsi battezzare in una chiesa luterana, rinnegando le sue ascendenze e, dicono i maligni, per facilitare la sua carriera scientifica, in una società che continuava a considerare gli ebrei con sospetto e un corpo estraneo alla nazione.

Alla fine del XIX secolo, lo sviluppo industriale in Europa aveva raggiunto livelli mai conseguiti e insperati solo cinquant’anni prima, e la ricerca di nuovi mercati aveva acuito le storiche rivalità tra i grandi stati europei. Assieme agli interessi sempre più contrastanti e alle ambizioni territoriali delle grandi potenze, il patriottismo era degenerato in un ostinato nazionalismo: all’amore per la patria si affiancava l’odio per lo straniero, in ogni settore della vita sociale, con una crescente minaccia di guerra. Il relativamente giovane Kaiserreich, l’Impero Tedesco che pochi decenni prima aveva riunificato la Germania per la prima volta dopo la Guerra dei Trent’Anni, premeva vigorosamente per guadagnare importanza nello spazio una volta diviso tra le tradizionali potenze coloniali europee, la Francia e l’Inghilterra.

Allo sviluppo economico si accompagnò lo sviluppo demografico e l’aumento dell’aspettativa di vita, che, come aveva già previsto Malthus all’inizio del secolo, aumentava il numero di bocche da sfamare e poneva il serio problema di nutrire tutta la popolazione. Al contrario dell’industria, l’agricoltura aveva fatto pochi progressi e la produzione di cibo, dipendente dai capricci del tempo e da terre coltivate in modo intensivo e impoverite da secoli di sfruttamento, incominciava a non riuscire a soddisfare la domanda crescente. Le importazioni di cereali dall’America e dalla Russia coprivano solo una piccola percentuale del bisogno e comportavano costi crescenti, particolarmente per un paese, come la Germania, che non aveva un impero coloniale. Non c’era alternativa all’autosufficienza, ma i fertilizzanti tradizionali, assicurati dai depositi cileni di nitrati e dalle riserve di guano sudamericano erano pressoché esauriti. L’unica soluzione era sviluppare nuovi metodi per produrre i fertilizzanti fissando l’azoto atmosferico. Diversi tentativi di fissare l’azoto atmosferico erano stati intrapresi in diverse parti del mondo, tutti più o meno falliti oppure troppo dispendiosi.

Nella corsa per la ricerca di nuovi fertilizzanti, l’industria chimica tedesca partiva da una posizione di vantaggio, acquisita sin dai tempi di Kekulé, che si manifestava nel gran numero di brevetti, come ad esempio quello per la produzione dell’alizarina sintetica, ad opera di Liebermann, utilizzata come colorante rosso nell’industria tessile, che in quindici anni aveva portato sul lastrico i coltivatori della Francia meridionale di Rubia Tinctorum dalle cui radici si estraeva quella naturale.

La carriera di Fritz Haber come scienziato, che iniziò con lo sviluppo di un metodo industriale per la sintesi dell’ammoniaca, fu possibile proprio a causa dello sviluppo delle istituzioni dello stato tedesco. Nel 1905 egli pubblicò Thermodynamik technischer Gasreaktionen (La termodinamica delle reazioni dei gas tecnici), opera più interessata all’applicazione industriale della chimica che ai suoi aspetti teorici. Nel testo Haber inserì i risultati dei suoi studi sull’equazione all’equilibrio dell’ammoniaca:

N2(g) + 3 H2(g) ⇌ 2 NH3(g) + ΔH

A 1000 °C, in presenza di un catalizzatore, si producevano piccole quantità di ammoniaca a partire dal diazoto (biossido di azoto) e dal diidrogeno (idrogeno molecolare) gassosi. Questi risultati lo incoraggiarono a proseguire la ricerca. Pertanto, nel 1907, in seguito a una rivalità scientifica con il suo futuro successore al premio Nobel, Walther Nernst, la fissazione dell’azoto divenne una priorità. Qualche anno più tardi, approfittando dei risultati pubblicati da Nernst sull’equilibrio chimico dell’ammoniaca, ed essendosi nel frattempo familiarizzato con i processi chimici a pressioni elevate e con un metodo per la liquefazione dell’aria, Haber giunse a sviluppare un nuovo procedimento.

Egli non aveva informazioni precise sui valori da imporre al sistema, tuttavia, al termine della sua ricerca, poté stabilire che un sistema efficace di produzione dell’ammoniaca doveva:
• Funzionare ad alta pressione (dell’ordine dei 20 Mpa);
• Utilizzare uno o più catalizzatori per accelerare la sintesi dell’ammoniaca;
• Funzionare a temperatura elevata (tra 500 e 600 °C) per ottenere il miglior rendimento in presenza del catalizzatore;
Poiché circa il 5% delle molecole di N2(g) e di H2(g) reagiscono a ciascun passaggio nel reattore chimico:
         • separare l’ammoniaca dalle altre molecole per liquefazione;
         • estrarre continuamente l’ammoniaca;
         • immettere di nuovo nel reattore le molecole di N2(g) e di H2(g) che non hanno reagito;
• Riciclare il calore prodotto.

Per controllare i problemi legati alle alte pressioni, Haber si avvalse del talento del giovane chimico-fisico inglese Robert Le Rossignol, che progettò le apparecchiature necessarie alla riuscita del processo. All’inizio del 1909 Haber scoprì che l’osmio poteva servire da catalizzatore. Nell’equazione chimica precedente, la reazione diretta è esotermica. Il calore prodotto può essere utilizzato per riscaldare i reagenti prima che entrino nel reattore. Nel marzo del 1909 Haber dimostrò ai suoi colleghi di laboratorio di aver trovato un procedimento capace di fissare l’azoto atmosferico in quantità sufficiente a poter prevedere un suo utilizzo industriale. Ne informò subito la BASF, ma la prima reazione del direttore della ricerca, August Bernthesen, fu scettica. Egli riteneva che nessun apparato industriale potesse sopportare a lungo pressioni e temperature così elevate. Inoltre, il potere catalitico dell’osmio poteva ridursi con l’uso, rendendo necessaria una sua periodica sostituzione, fatto negativo in ragione della sua poca abbondanza.

Intervenne allora il chimico, professore universitario e ricercatore della BASF Karl Engler, che scrisse al presidente della BASF convincendolo a una visita nel laboratorio di Haber assieme a Bernthesen e a Karl Bosch. Quest’ultimo si era in precedenza occupato di metallurgia, ma da anni lavorava sulla fissazione dell’azoto senza aver ottenuto risultati significativi. Bosch, particolarmente a causa dell’economicità del procedimento di Haber, fu decisivo nel convincere il presidente a sperimentare il processo. Nel luglio successivo la società, dopo che Haber e Bosch avevano ottenuto i primi millilitri di ammoniaca a partire dall’azoto atmosferico, decise di industrializzare il processo, indirizzando la ricerca verso un catalizzatore più affidabile.

La storia successiva del processo e dei miglioramenti che lo resero sempre più vantaggioso è da attribuire più a Bosch che ad Haber. Le squadre di ricercatori della BASF furono supervisionate da Bosch e riuscirono nel 1913 a trovare nel ferro il catalizzatore ideale e poco costoso. Fu sempre Bosch a dirigere i lavori delle prime grandi installazioni industriali per la produzione di ammoniaca con il metodo che da allora prese il nome di entrambi. Bosch avrebbe ottenuto nel 1931 il premio Nobel per le sue ricerche sulla chimica delle alte pressioni.


Haber ottenne dal successo del suo metodo onori accademici e un prestigio indiscutibile. Ma nubi fosche si stavano addensando sull’Europa e il vulcano che aveva accumulato energia per decenni esplose nell’agosto 1914, per il motivo piuttosto banale che un esaltato nazionalista serbo aveva ucciso il 28 luglio a Sarajevo l’erede al trono dell’Impero di Austria-Ungheria.

Ben presto ci si accorse che quella che doveva essere una Blitzkrieg era in realtà un massacro infinito di uomini impantanati in trincee fangose, reclusi dal filo spinato, esposti al tiro dei cannoni e delle mitragliatrici. La Germania, che era entrata in guerra con il piglio della giovane potenza che reclamava il suo posto nella storia, si ritrovò con il passare dei mesi sull’orlo del disastro. Le scorte e la capacità produttiva di munizioni, programmati dallo Stato Maggiore tedesco per un breve conflitto, si stavano rivelando totalmente inadeguati. Già dalla fine di settembre l’embargo navale inglese aveva fermato le importazioni del salnitro cileno utilizzato per la produzione di esplosivi. Fu subito formato un gruppo di esperti per trovare la maniera di uscire dalla trappola tecnologica nella quale si era andato a ficcare il Kaiserreich che combatteva su due fronti: a ovest con i franco-inglesi e a est con i russi. Del gruppo faceva parte Haber, che era diventato direttore dell’Istituto Kaiser Wilhelm, un organismo il cui scopo primario era di competere con gli istituti americani di ricerca. Il chimico divenne intimo dei membri del governo e si dimostrò subito un brillante scienziato e abile organizzatore, con un talento naturale per coordinare squadre di tecnici e ricercatori.

Fritz Haber considerava un suo dovere aiutare la patria in guerra, soprattutto ora che era stato investito di importanti responsabilità. Il processo tecnologico che aveva sviluppato per la sintesi dell’ammoniaca poteva, con opportune modifiche e miglioramenti in accordo con la BASF, colmare la disparità di armamenti rispetto al nemico. Era tuttavia comune convinzione che, anche aumentando la potenza di fuoco dei fucili e dei cannoni e inviando nuove truppe al fronte, la guerra non poteva essere vinta in poco tempo. Haber si convinse che una vittoria rapida poteva essere ottenuta solo se alla guerra fosse stata data una nuova dimensione tecnologica, introducendo un elemento di shock e di terrore, spostando in avanti le tradizionali linee di pensiero dello Stato Maggiore. Tale shock doveva essere causato dall’uso di armi chimiche al fronte, in grado non solo di costringere alla fuga o invalidare le prime linee nemiche, ma tali da essere inarrestabili, il più possibile mortali e tali da consentire alle truppe tedesche, provviste di adeguate protezioni, un’avanzata su un tappeto di morti. Haber era convinto che tale feroce strategia avrebbe costretto il nemico a capitolare rapidamente, salvando così tante vite.


A Ypres, in Belgio, il 22 aprile 1915, Haber supervisionò di persona il primo attacco con gas di cloro (la famigerata iprite) contro le trincee francesi e inglesi. Otto giorni dopo questo episodio Clara Immerwahr, sua moglie e collega, una delle prime chimiche laureate dell’Impero, si suicidò per il rimorso e perché stanca di essere trattata da semplice assistente dal marito. Haber invece continuò i suoi esperimenti mortali, convinto che bisognava anticipare le analoghe ricerche del nemico per vincere la guerra. Questo fu il suo errore principale: la guerra proseguì per altri tre anni, con la morte in trincea di milioni di uomini. Le armi chimiche letali, usate da tutti i belligeranti, non sortirono l’effetto da lui voluto, e si rivelarono un’inutile atto di ferocia perché meno efficaci delle armi tradizionali sul piano militare. Il loro uso su entrambi i fronti e la scia di morte provocata dal loro utilizzo indiscriminato portarono dopo la guerra alla loro messa bando basata su una sorta di equilibrio del terrore. Il divieto fu violato solamente nel 1935-36 dalle truppe italiane durante l’aggressione fascista all’Etiopia, ultima sciagurata avventura coloniale di una nazione europea. Non più utilizzati sui campi di battaglia, i gas tossici avrebbero rivelato tutta la loro mortale efficacia nei campi di sterminio del Terzo Reich.

Giudicata con la sensibilità odierna, l’idea di Haber è senz’altro tale da provocare orrore e condanna. Essa inoltre andava apertamente contro la Convenzione dell’Aia sulle Leggi e i Comportamenti di Guerra Terrestre del 1899, che proibiva agli stati firmatari l’uso di gas asfissianti o lacrimogeni. C’è da dire tuttavia che la Francia aveva utilizzato proiettili di granate riempiti di gas urticanti già nel primo mese di guerra, ai quali la Germania aveva risposto in modo analogo. Haber è responsabile di aver infranto l’ultimo tabù sulle armi chimiche, perché aperto sostenitore dell’uso di gas mortali.

Non sarà sfuggita al lettore un’analogia tra l’idea di Haber e ciò che sarebbe successo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando un’inedita arma di distruzione di massa, la bomba a fissione nucleare, fu utilizzata per vincere le ultime resistenze del Giappone, per di più sulle popolazioni civili. Anche in quel caso si sarebbe trovata la giustificazione che un orrore così inedito, portando alla rapida capitolazione del nemico, avrebbe risparmiato numerose vite (soprattutto quelle delle forze americane nel caso si fosse dovuto invadere il Giappone). Forse la differenza tra lo sterminio chimico sul campo di battaglia e quello nucleare sulle città giapponesi risiede principalmente nel fatto che il secondo fu efficace e il primo non lo fu.

Fritz Haber aveva lavorato con determinazione e metodologia pienamente scientifica sui nuovi gas mortali, realizzando analisi dettagliate, curve sulla mortalità degli animali da laboratorio, studi sull’influenza delle differenti condizioni atmosferiche sull’uso in prima linea. Dal punto di vista “scientifico”, l’attacco di Ypres fu un successo, spingendo verso la prosecuzione della ricerca e lo sviluppo di nuove sostanze, anche da parte del nemico. Nell’autunno del 1915 fece il suo esordio sui campi di battaglia della guerra il fosgene, vera superstar tra le armi chimiche della Prima Guerra Mondiale, responsabile di più dell’80% dei morti causati da armi chimiche durante il conflitto. Questa volta i capiscuola furono i francesi, grazie all’inventiva di Victor Grignard, che aveva vinto il premio Nobel per la chimica nel 1912.


L’assegnazione del premio Nobel ad Haber nel 1918 per il suo metodo di sintesi dell’ammoniaca non mancò di sollevare indignate proteste in tutto il mondo, al punto che il premio gli fu consegnato solo l’anno successivo, ma la sua reazione aveva reso possibile la produzione su vasta scala di fertilizzanti artificiali per fornire ai campi di cerali l’azoto necessario. Per centinaia di milioni di persone nel mondo, la scoperta aveva allontanato lo spettro della fame, nel pieno rispetto dello spirito con il quale Alfred Nobel aveva istituito la sua prestigiosa onorificenza. Più che altro contò il fatto che il tedesco Haber ottenne l’onorificenza presentandosi a Stoccolma come rappresentante di un paese sconfitto.

Dopo la guerra, Haber tornò a dirigere l'Istituto di Fisica e Elettrochimica della Società Kaiser Wilhelm di Berlino, contribuendo alla ricerca sulle reazioni di combustione e sulla separazione per via elettrochimica dell'oro dall'acqua di mare. La sua leggenda nera è alimentata anche dal fatto che si interessò di pesticidi e mise a punto il procedimento per la sintesi dell'acido cianidrico, denominato commercialmente Zyklon B, che era originariamente destinato alla disinfestazione di pidocchi ed altri parassiti, e che fu successivamente utilizzato per assassinare i prigionieri nei campi di sterminio nazisti. Tuttavia Haber non ebbe nulla a che fare con l’uso che si fece più tardi delle sue scoperte, perché lo stato nazista non fu affatto riconoscente con l’illustre professore.

Dopo l’ascesa di Hitler al potere, il nazionalismo statale diventò nazionalismo etnico e razzismo. Haber nel 1933 divenne l’Ebreo Haber. Lasciata la Germania, si stabilì in Palestina e poi a Basilea, dove morì un anno più tardi. In una commemorazione semiclandestina tenutasi alla Società Kaiser Wilhelm, il cui Istituto di Chimica e Elettrochimica era stato diretto da Haber dal 1911 al 1933, un altro premio Nobel tedesco del 1918, Max Planck, sottolineò come senza la sintesi dell’ammoniaca la Germania avrebbe perso la guerra dopo pochi mesi, per ragioni economiche, mancanza di cibo, e militari, mancanza di munizioni. Planck tenne il suo discorso davanti a una platea di donne, le mogli dei professori. I mariti avevano preferito non esporsi, per “preservare i valori”.

Lo studio della controversa e, a suo modo, tragica figura di Fritz Haber offre numerosi spunti di riflessione. Egli fu figlio del suo tempo e delle idee che permeavano la cultura del suo paese. In quanto scienziato visse l’epoca in cui diventò chiaro che era quasi impossibile per un inventore fermarsi allo stadio di benefattore dell’umanità. Nessuna società può, e poteva allora, assicurare che una nuova tecnologia sia utilizzata solo per scopi umanitari. È pertanto difficile imputare a un inventore tutti gli usi che vengono fatti della sua invenzione. D’altra parte, la nostra umanità non consentirà mai che le questioni etiche vengano ignorate, sollevando la questione della responsabilità morale degli scienziati. Se Haber fu una sorta di dottor Faust del Novecento, la sua colpa principale è di essere stato il primo, ma non sicuramente l’unico.


Dunikowska M, & Turko L (2011). Fritz Haber: the damned scientist. Angewandte Chemie (International ed. in English), 50 (43), 10050-62 PMID: 21956893

3 commenti:

  1. E menomale che non gli è venuto in mente di trafficare con l'acido palmitico! :D

    Bellissima biografia, scorrevole e avvincente, complimenti davvero!

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  2. Perfetto, citato solo un mese fa in una lezione sulla tavola periodica in cui, teatralizzando, cercavo di assegnare un'identità storica agli elementi chimici (nella fattispecie cloro e un pochino di azoto)... ti "userò" come approfondimento.

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  3. @Gifh: concordo e... Prendo in prestito il commento, se me lo concedi! :-)

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