venerdì 8 febbraio 2013

Il solido alieno

Jean P. Olyédre, la cui precoce morte su una tartana malese commosse tutto il mondo, descrive, nelle sue Memorie di nomade domestico, libro uscito postumo nel 1802, la visione di uno spaventoso solido che gli fu mostrato da uno sciamano in una capanna immersa nella foresta sassone. In quelle pagine la prosa dell’autore si fa insolitamente poco fluida, direi quasi zoppicante, e l’uso degli aggettivi contrasta in modo evidente con la pretesa obiettività scientifica delle sue descrizioni. 

Fatto prigioniero da un gruppo di contrabbandieri di pellicce, Olyédre viene condotto, dopo un penoso viaggio nella neve, verso un gruppo di baracche di legno e pelli ai piedi di una piccola altura. La geometria di quei rifugi sembra sconvolgere l’uomo di scienza, che si dice allucinato dalle loro forme inquietanti: raggelanti esaedri con tre coppie di facce rettangolari parallele. Dopo una notte trascorsa nel freddo intenso di uno di quei tuguri, riscaldato solo dalla misteriosa ossiriduzione esotermica di alcuni brandelli di alberi fatti precedentemente a pezzi con furia selvaggia, egli viene condotto sulla cima della collina, dove fa una delle esperienze più stravolgenti della sua vita. 

Spinto all’interno di un’agghiacciante piccola costruzione, la cui forma esotica sembra ottenuta ruotando un triangolo rettangolo intorno ad uno dei suoi cateti, Olyédre viene allacciato con un insolito insieme di fili intrecciati di fibre di canapa, straordinariamente capaci di sopportare sforzi di trazione. L’uomo che l’ha condotto lo assicura a un ingegnoso sedile, formato da un piano poggiante su quattro gambe e da una spalliera per poggiare la schiena, poi esce all'aria aperta. In quel momento tutto sembra girare attorno a Olyédre, che crede sia venuto il momento della sua fine, che teme possa essere atroce. 

Dopo alcuni minuti di attesa, dal buio angosciante che avvolge l’ambiente emerge un vecchio di età indefinibile, insolitamente agile per le fattezze decrepite del suo corpo, minato dagli anni e dalle fatiche di un’esistenza quasi bestiale. Reca con sé una fiaccola ottenuta da fili di stoppa ritorti tra loro e impregnati di resina, l’avvicina al prigioniero per osservarlo, si siede a sua volta e lo invita ad accettare un piccolo cilindro di carta sottile che avvolge dell’erba seccata tagliata finemente, destinato a essere fumato. Olyédre scuote la testa in segno di diniego, allora il vecchio gli parla in una lingua sconosciuta, caratterizzata da suoni gutturali, fischi, sibili e rantoli, quasi fosse stata concepita mescolando i versi di tutti gli animali della foresta. Nel suo discorso, l’uomo ripete spesso un suono, che Olyédre rende con “Kugel”. 

Improvvisamente, con suo grande sorpresa, il vecchio slega il prigioniero, lo solleva e lo porta verso un’apertura della parete, coperta da un rozzo telo. Il vecchio scosta la primitiva tenda e indica un oggetto posto al centro di un piccolo anfratto, indicando “Kugel! Kugel!” Ciò che vedono gli occhi di Olyédre non può essere descritto compiutamente con il linguaggio, perché va al di là del linguaggio stesso, della sua stessa natura di fatto umano. 

Con parole inappropriate, ma le uniche disponibili a un essere pensante e mortale, Olyédre accenna a un solido abominevole poggiato sul pavimento di terra battuta. Si tratta di un oggetto geometrico di pietra locale, in cui tutti i punti sono straordinariamente ad una distanza minore, o uguale a una distanza fissata, da un punto posto al suo centro. La superficie della cosa non presenta alcuna imperfezione, perfettamente liscia e con curvatura costante. Olyédre si sente mancare, le vertigini lo assalgono, si sente le gambe cedere, sviene per l’emozione. Rimane incosciente a lungo, di un sonno popolato di incubi e strani simboli vergati in un nefasto alfabeto che sembra provenire dagli abissi del tempo: V = 4/3πr3, S = 4πr2, S(x; r) = { y ∈ E | d(x,y) = r } . 

Lo ritrovano due taglialegna al limite del bosco, stordito, terrorizzato, ma ancora vivo e in grado di mettere per iscritto questa straordinaria avventura.

7 commenti:

  1. "si siede a sua volta e lo invita ad accettare un piccolo cilindro di carta sottile che avvolge dell’erba seccata tagliata finemente, destinato a essere fumato."

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  2. Pop, troppe canne... in quella foresta sassone, non si vedono le facce (della gente). Però mi ricorda una bieca faccenda di muche (o cavalli, secondo alcuni) sferici. Forse Olyedre era coinvolto?

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  3. Vuoi proprio dire che tutti i punti erano equidistanti dal centro? Dai, stavolta esageri...

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  4. nell'immagine c'è Coleridge, mio defunto marito

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  5. E' vero! Si tratta sicuramente di un errore del proto. Me ne scuso a nome di tutta la redazione. ;-)

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  6. ma questo proviene dall'unica copia di "Un Palantir descritto da me stesso" dell'oscuro H.P.L.J.R.R.T e da Olyédre plagiata e trascritta ante litteram nel suo "Memorie di nomade domestico"!
    Sei pazzo Popinga! leggila al contrario e bruciala subito, prima che qualcosa di innominabile cominci a grattare sotto il tuo letto!

    ciao, o forse adieu
    yop

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  7. Inizio a credere che questa storia in toto o in parte sia inventata. Laddove si dice "caratterizzata da suoni gutturali, fischi, sibili e rantoli, quasi fosse stata concepita mescolando i versi di tutti gli animali della foresta" evinciamo con chiarezza che P.Olyèdre aveva di fronte a sé il trisavolo del Trota, che infatti "va al di là [...] della sua stessa natura di fatto umano".
    Non è verosibile che cotale avo abbia potuto elaborare teorie o calcoli connessi con un solido di tali esoticamente mostruose proprietà.
    P.Nonimo

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