martedì 30 luglio 2013

Ritorno a Ogden Nash: Il pedante

The Purist 
I give you now Professor Twist, 
A conscientious scientist, 
Trustees exclaimed, "He never bungles!" 
And sent him off to distant jungles. 
Camped on a tropic riverside, 
One day he missed his loving bride. 
She had, the guide informed him later, 
Been eaten by an alligator. 
Professor Twist could not but smile. 
"You mean," he said, "a crocodile." 


Il pedante
Vi presento ora il professor Lombroso, 
uno scienziato preciso e rigoroso, 
in facoltà dicevano “Mai s’imbrana!” 
e lo spedirono nella giungla più lontana. 
Accampato lungo una riva frondosa, 
un giorno perse la sua amata sposa. 
Era stata, riferirono con terrore, 
mangiata da un grosso alligatore. 
Il professore non frenò il cavillo: 
“Intendete”, disse, “un coccodrillo”. 

(Ogden Nash, mio adattamento di oggi)

domenica 28 luglio 2013

Questo è il titolo di questo racconto

“Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso” (This Is the Title of This Story, Which Is Also Found Several Times in the Story Itself, qui l’originale) è una storia del 1982 dello scrittore e sinologo David J. Moser, interamente composta da frasi auto-referenziali. Douglas Hofstadter la pubblicò nella rubrica Metamagical Themas che allora curava sullo Scientific American. Il racconto, deliziosamente noioso, fu in seguito ripubblicato nell'eclettica raccolta Metamagical Themas (1985) in cui Hofstadter radunò gli articoli della sua rubrica.

Mi sono divertito a tradurre il racconto e, grazie ai buoni uffici e alla cortesia di Maurizio Codogno (che conosce Hofstadter e ha tradotto e curato l'edizione di alcune sue opere) ho ottenuto l’indirizzo di Moser e gli ho scritto chiedendogli il permesso di pubblicarla qui sul blog. Molto gentilmente egli ha acconsentito e, a quanto pare, ha apprezzato la mia versione. Eccola.

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso 

Questa è la prima frase di questo racconto. Questa è la seconda frase. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questa frase si interroga sul valore intrinseco delle prime due frasi. Questa frase serve a informarvi, se non lo avete ancora capito, che questo è un racconto auto-referenziale, cioè un racconto che contiene frasi che si riferiscono alla loro stessa struttura e funzione. Questa è una frase che fornisce una chiusura al primo paragrafo. 

Questa è la prima frase di un nuovo paragrafo in un racconto auto-referenziale. Questa frase vi presenta il protagonista del racconto, un ragazzino di nome Billy. Questa frase vi racconta che Billy è biondo e con gli occhi azzurri e americano e dodicenne e che sta strangolando sua madre. Questa frase osserva la natura involuta della forma narrativa auto-referenziale mentre riconosce il bizzarro e giocoso distacco che consente allo scrittore. Come per illustrare il senso dell’ultima frase, questa frase ci ricorda, senza voler fare gli spiritosi, che i bambini sono un prezioso dono di Dio e che il mondo è un posto migliore quando è benedetto dalle gioie e dai piaceri senza pari che essi vi portano. 

Questa frase descrive gli occhi al'’infuori e la lingua penzoloni della madre di Billy e si riferisce agli sgradevoli rumori di asfissia e strozzamento che sta facendo. Questa frase fa la constatazione che sono tempi incerti e difficili, e che le relazioni, anche quelle che appaiono ben radicate e permanenti, hanno proprio la tendenza a rompersi. 

Presenta, in questo paragrafo, l’espediente dei frammenti di frase. Un frammento di frase. Un altro. Bell’espediente. Sarà usato più tardi. 

Questa è in realtà l’ultima frase del racconto, ma è stata messa qui per errore. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Quando Gregor Samsa si svegliò un mattino da sogni agitati, si trovò nel suo letto trasformato in un enorme insetto. Questa frase vi informa che la frase precedente proviene interamente da un’altra storia (una molto migliore, si noti).e non ha per nulla posto in questo tipo di racconto. Nonostante le affermazioni della frase precedente, questa frase si sente costretta a informarvi che il racconto che state leggendo è davvero “La metamorfosi” di Franz Kafka, e che la frase cui si riferisce la frase precedente è l’unica frase che in effetti non appartiene a questo racconto. Questa frase contraddice la frase precedente informando il lettore (povero, confuso tapino) che questo brano letterario è in effetti la Dichiarazione d’Indipendenza, ma che l’autore, in una manifestazione di estrema negligenza (se non di malizioso sabotaggio) ha finora omesso di inserire anche una sola frase di quel documento entusiasmante, sebbene si sia degnato di utilizzarne un piccolo frammento, cioè “Quando nel corso degli eventi umani”, inserito tra virgolette presso la fine della frase. Mostrando una sottile consapevolezza della noia e dell’ostilità totale del lettore medio riguardo ai giochi concettuali senza scopo in cui si indulgeva nelle precedenti frasi, questa frase ci riporta finalmente allo scenario del racconto, facendo la domanda “Perché Billy sta strangolando sua madre?” Questa frase cerca di gettare una qualche luce sulla domanda posta dalla frase precedente, ma non lo fa. Questa frase, invece, ci riesce, in quanto suggerisce una possibile relazione incestuosa tra Billy e sua madre e allude alle complicazioni freudiane del caso, che ogni lettore accorto coglierà immediatamente. Incesto. Il tabù indicibile. Il divieto universale. Incesto. E si notano i frammenti di frase? Bell’espediente letterario. Sarà usato ancora più tardi. 

Questa è la prima frase di un nuovo paragrafo. Questa è l’ultima frase di un nuovo paragrafo. 

Questa frase può servire sia da inizio del paragrafo sia da fine, a seconda della sua posizione. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questa frase solleva una seria obiezione sull’intera classe di frasi auto-referenziali che si limitano a commentare la loro propria funzione o posizione all’interno del racconto (ad esempio le quattro frasi precedenti), sulla base che esse sono monotonamente prevedibili, imperdonabilmente auto-indulgenti, e servono soltanto a distrarre il lettore dal reale contenuto di questo racconto, che a questo punto sembra riguardare lo strangolamento e l’incesto e chissà quali altri deliziosi temi. Lo scopo di questa frase è di segnalare che la frase precedente, per quanto essa non faccia parte della classe delle frasi auto-referenziali che critica, tuttavia serve anche a distrarre il lettore dal reale contenuto di questo racconto, che in realtà riguarda l’inspiegabile trasformazione di Gregor Samsa in un enorme insetto (nonostante le esplicite obiezioni di altre frasi benintenzionate ma male informate). Questa frase può servire sia da inizio del paragrafo sia da fine, a seconda della sua posizione.

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questo è quasi il titolo del racconto, che si trova solo una volta nel racconto stesso. Questa frase sostiene con rammarico che fino a questo punto la modalità auto-referenziale di racconto ha avuto un effetto paralizzante sul reale progresso del racconto stesso – cioè queste frasi sono state talmente impegnate ad analizzare se stesse e il loro ruolo nel racconto che non hanno in generale compiuto la loro funzione di comunicatori di eventi e idee che si spera si uniscano in una trama, uno sviluppo dei personaggi, ecc. – in breve, la precisa raison d'être di una qualsiasi rispettabile, operosa frase nel bel mezzo di un brano di prosa convincente. Questa frase fa inoltre notare l’ovvia affinità tra l’intrico di queste frasi consapevoli della propria agonia e gli esseri umani afflitti in modo simile, e sottolinea gli analoghi effetti paralizzanti provocati dall'eccessivo e tormentato esame di coscienza. 


Lo scopo di questa frase (che può anche fare da paragrafo) è di immaginare che se la Dichiarazione d’Indipendenza fosse stata formulata e strutturata in modo così disattento e incoerente come questo racconto lo è stato finora, non si potrebbe dire in che tipo di scellerata società libertina vivremmo ora o in quali abissi di decadenza sarebbero sprofondati gli abitanti di questo paese, fino al punto di scrittori squilibrati e depravati che costruirebbero frasi sgraziate in modo irritante e inutilmente prolisso, che talvolta posseggono la discutibile se non totalmente sgradita qualità di riferirsi a se stesse e che talvolta diventano anche frasi coordinate malamente o esibiscono altri segni di sintassi imperdonabilmente approssimativa come ridondanze superflue non richieste che quasi certamente avrebbero effetti rischiosi per la condotta e la morale della nostra suggestionabile gioventù, portandola a commettere incesto o persino assassinio ed è forse questo il perché Billy sta strangolando sua madre, a causa di frasi proprio come questa, che non ha fini comprensibili o un chiaro scopo e termina appunto dovunque, anche a met 

Bizzarro. Un frammento di frase. Un altro frammento. Dodicenne. Questa è una frase che. Frammentata. E strangolando sua madre. Mi spiace, mi spiace. Bizzarro. Questo. Più frammenti, Ciò è. Frammenti. Il titolo di questo racconto, che. Biondo. Mi spiace, mi spiace. Frammento dopo fram-mento. Più difficile. Questa è una frase che. Frammenti. Accidenti buon espediente. 

Lo scopo di questa frase è triplice: (1) scusarsi per lo sfortunato e inesplicabile sbandamento esibito dal precedente paragrafo; (2) assicurare voi, lettore, che non capiterà di nuovo; e (3) ripetere il fatto che questi sono tempi incerti e difficili e che gli aspetti del linguaggio, anche quelli apparentemente stabili e profondamente radicati come la sintassi e il significato, si distruggono. Questa frase non aggiunge nulla di sostanziale alle opinioni della frase precedente, ma fornisce semplicemente un frase conclusiva a questo paragrafo, che altrimenti potrebbe non averne una. 

Questa frase, in un improvviso e coraggioso impeto di altruismo, prova ad abbandonare la modalità auto-referenziale, ma non ci riesce. Questa frase ci prova ancora, ma il tentativo è condannato in partenza.

Questa frase, in un ultimo disperato tentativo di infondere un qualche briciolo di trama a questo immoto brano di prosa, allude rapidamente agli irrequieti tentativi di occultamento di Billy, seguiti da un lirico, toccante, passaggio ben scritto, in cui Billy si riconcilia con suo padre (risolvendo così i subliminali conflitti freudiani palesi a qualsiasi lettore avveduto) e a una eccitante scena finale di inseguimento poliziesco durante il quale Billy viene casualmente colpito e ucciso da un poliziotto inesperto in preda al panico che per coincidenza si chiama anche lui Billy. Questa frase, sebbene sia sostanzialmente in completa sintonia con i lodevoli sforzi della precedente drammatica frase, ricorda al lettore che tali allusioni a una storia che, in effetti, non esiste ancora non sostituiscono affatto la realtà oggettiva e pertanto non salveranno l’autore (indolente e svogliato qual è) dal proverbiale vicolo cieco. 

Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo. 

Lo scopo. Di questo paragrafo. È di scusarsi. Per il suo ingiustificato uso. Di. Frammenti di frase. Scusate.

Lo scopo di questa frase è di scusarsi per i vani e sciocchi giochi da adolescente ai quali ci si è lasciati andare nei due precedenti paragrafi, e di esprimere rammarico da parte nostra, le frasi più mature, perché l’intero tono di questo racconto è tale da non poter sembrare di comunicare un semplice scenario, per quanto torbido. 

Questa frase desidera scusarsi per tutte le inutili scuse che si trovano in questo racconto (la presente inclusa), le quali, sebbene qui sistemate apparentemente a beneficio dei lettori più irritati, ritardano solamente in modo fastidiosamente ricorsivo la continuazione della trama oramai pressoché dimenticata. 

Questa frase sprizza punteggiatura alla notizia del tremendo significato dell'auto-riferimento applicato alle frasi, una pratica che potrebbe dimostrarsi un vero e proprio vaso di Pandora di potenziale caos, perché se una frase può riferirsi o alludere a se stessa, perché non una modesta proposizione subordinata, magari proprio questa proposizione? O questo frammento di frase? O tre parole? Due parole? Una

Forse è appropriato che questa frase ci ricordi gentilmente e senza alcuna traccia di compiacenza che questi sono tempi davvero difficili e incerti e che in generale le persone non sono abbastanza cortesi le une con le altre, e forse noi, esseri umani senzienti o frasi senzienti, dovremmo proprio sforzarci di più. Voglio dire, esiste una cosa come il libero arbitrio, ci deve essere, e questa frase ne è la prova! Né questa frase né tu, lettore, siete completamente disarmati di fronte a tutte le spietate forze all’opera nell’universo. Dovremmo stare piantati per terra, affrontare i fatti, prendere Madre Natura per la gola e sforzarci di più

Per la gola. Di più, di più, di più. 

Scusate. 

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. 

Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è. 

Scusate.



martedì 23 luglio 2013

Heavy meta

Strano destino quello della preposizione greca μετά (meta), che significava “dopo”, “a fianco di”, “con”, “stesso”, con variazioni di senso che dipendevano dalla declinazione della parola successiva. Dalla preposizione derivò il prefisso μετα-, più o meno con gli stessi significati.

Quando Andronico di Rodi, scolarca della ricostituita scuola peripatetica, pubblicò nel primo secolo a. C. una nuova edizione delle opere di Aristotele (quella che costituisce il Corpus Aristotelicum oggi noto), chiamò Metafisica una serie di scritti in cui il grande filosofo si occupava della natura degli enti fisici, tra i quali la divinità, in quanto esseri. Questi trattati furono chiamati τὰ μετὰ τὰ φυσικά (“ciò che viene dopo la Fisica”) per il semplice fatto che essi nella compilazione venivano dopo il libro dedicato alla Fisica. L’espressione venne però interpretata diversamente, come se il suo oggetto fosse “ciò che va oltre la fisica”, in quanto divino. Quel prefisso meta-, utilizzato da Andronico con un’accezione puramente locativa (post-), venne a significare un superamento, un’uscita da (trans-) per cui la metafisica divenne lo studio di ciò che va oltre le cose naturali, la scienza delle cose divine.

A Roma la parola “metafisica” arrivò con questo secondo significato, che divenne quello definitivo anche perché venne fatto proprio dal cristianesimo. Sul calco di metafisica si sono coniate nel Novecento moltissime parole, soprattutto in ambito scientifico, in cui il prefisso indica, di volta in volta, una trasformazione, un’evoluzione, uno sviluppo, una derivazione (“posteriorità, mutamento, trasformazione” secondo il Dizionario delle Scienze Fisiche Treccani del 2012). In chimica le cose sono leggermente diverse e più specifiche, ma non è il caso adesso di aggiungere troppa carne al fuoco.

In campo matematico il prefisso cominciò a essere usato alla fine della grande discussione sui fondamenti e del tentativo di basare le matematiche su sistemi logico-formali. Le geometrie non-euclidee, alla metà dell’Ottocento, avevano portato all'abbandono del sogno cartesiano e kantiano dell'autoevidenza degli assiomi posti alla base della matematica, che diventava scienza di relazioni sintattiche fra simboli del suo linguaggio: la validità della deduzione matematica non dipende dal particolare significato che può essere associato ai termini o alle espressioni contenute nei postulati. In parole povere: non è fondamentale che esista davvero un lonfo, ma che un quadrato con tre lonfi per lato contenga davvero nove lonfi. Ciò che importa al matematico puro è la struttura delle affermazioni piuttosto che la natura particolare del loro contenuto: egli non si preoccupa se i postulati che ammette o le conclusioni che trae dai primi sono veri, ma se le conclusioni avanzate siano le conclusioni logiche necessarie delle ipotesi da cui è partito.

Una volta che non si suppone più la verità dei postulati, nasce il problema di come provare almeno la coerenza dei sistemi attraverso i quali facciamo le nostre deduzioni. Tutti i grandi matematici che, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, provarono, consci di quella che prese il nome di crisi dei fondamenti, a rifondare le matematiche su basi diverse (gli insiemi, la logica, le classi) si imbatterono però nel grande problema delle antinomie, cioè delle contraddizioni interne: il fatto di arrivare, partendo dalle stesse premesse, a conclusioni logiche opposte. Per un motivo o per l’altro, capitava di dover ammettere che un lonfo barigatta e contemporaneamente non lo fa.

Si arrivò almeno a concordare su che cosa sia un sistema formale, cioè un sistema simbolico senza interpretazione (chissene se un lonfo esiste davvero), con una sintassi (le regole di combinazione dei simboli) definita in un modo rigoroso, sul quale è definita una relazione di deducibilità in termini puramente sintattici (deve essere possibile ricavare delle conclusioni facendo ricorso esclusivamente alle regole sintattiche interne al sistema). Le principali proprietà di un sistema formale sono:
a) la consistenza, o coerenza: un linguaggio formale è consistente se non contiene formule contraddittorie, cioè non capita che una delle sue formule e la sua negazione siano costruibili o dimostrabili al suo interno;
b) la completezza: è la proprietà per cui tale sistema è sufficiente per decidere di ogni proposizione correttamente costruita e/o formulata a partire dalle proposizioni-base di quel linguaggio. Detto in altro modo, un sistema è completo quando è possibile dimostrare al suo interno ogni formula dimostrabile, oppure la sua negazione;
c) la decidibilità: un enunciato formulabile in un dato sistema formale è decidibile se è dimostrabile come vero o falso all'interno di tale sistema. Se non è così, succede ciò che descrissi tempo fa in questo limerick:

In un vecchio libro, una certa sera
lessi una frase che passò leggera:
“Una fata mi ha giurato
che il loro mondo è inventato”
che, se è vera, è falsa e, se è falsa, è vera.


Ancor prima che Kurt Gödel dimostrasse nel 1931 che è impossibile per un sistema formale coerente come l’aritmetica dimostrare la propria coerenza, si arrivò a parlare di metamatematica e metalogica, cioè di teorie che studino il funzionamento della matematica e della logica superandole, trascendendole. Così, mentre la logica studia il modo in cui i sistemi logici possono essere usati per costruire argomenti validi e corretti, la metalogica studia le proprietà dei sistemi logici stessi. Analogamente, la metamatematica è lo studio della matematica mediante metodi matematici: questo studio produce metateorie, che sono teorie matematiche su altre teorie matematiche. Un'immagine significativa di tutti questi meta- è il simbolo dell’ouroburos, il serpente che si morde la coda (invece non sappiamo se esiste tra i lonfi una simile abitudine).

L’Oxford Dictionary, attento a registrare tutto ciò che capita alla lingua inglese, annota per la prima volta il termine metamathematics nel 1929, ma il concetto era già presente nei lavori del grande matematico tedesco David Hilbert, colui che già nel 1900 aveva enunciato tra le grandi sfide del secolo incipiente proprio la dimostrazione che gli assiomi dell’aritmetica sono coerenti e che, intorno agli anni ‘20, con il suo Programma, aveva tentato di formalizzare tutte le teorie matematiche esistenti attraverso un insieme finito di assiomi, e dimostrare che questi assiomi non conducevano a contraddizioni, per esempio che la proposizione A e la sua negazione non-A siano entrambi teoremi. Già ho detto che il sogno di Hilbert fu frustrato da Gödel, ma fu proprio il meta- che consentì di superare certe difficoltà: si trovarono strade diverse, e la ricerca continua ancor oggi.

Nel 1937 Willard Quine utilizzò per primo il termine metateorema nell’articolo Logic Based on Inclusion and Abstraction, per indicare “un X che riguarda X”, cioè l’equivalenza di strutture logiche (la metafisica, al contrario, va oltre la fisica, ma non ha la sua stessa struttura, è “un Y che riguarda X”). Così formulato da Quine, l’ouroboros di cui ho parlato può essere visto in termini di autoreferenza, con tutte le conseguenze, anche ludiche, di cui mi sono occupato in un precedente articolo.

Quine è infatti ampiamente citato nelle opere di Douglas Hofstadter, che, nel suo Gödel, Escher, Bach (1979) e nel successivo Metamagical Themas, ha reso popolare il nostro meta. Hofstadter addirittura lo usa come aggettivo, o come preposizione (“going meta”, così come esiste “going to”, per indicare che si porta la discussione su un altro livello di astrazione). Grazie a Hofstadter, e al successo del suo bellissimo testo, oramai il prefisso meta- è diventato di uso comune, soprattutto per indicare autoreferenze o quel tipo di cortocircuiti logici che gli anglosassoni chiamano strange loops

Oggi esistono persino i meta-jokes, o meta-barzellette, battute autoreferenziali, o che si riferiscono ad altre battute, come quella di un italiano, un francese e un americano che entrano in un bar e il barista chiede: “Che cos'è, una barzelletta?”.

sabato 20 luglio 2013

Prontuario di clinica letteraria

ad uso degli specializzandi in medicina editoriale


La conoscenza delle sindromi letterarie più comuni è un requisito indispensabile per gli operatori clinici impiegati in strutture pubbliche o private per la cura degli scrittori compulsivi o semplicemente inetti, come ad esempio nelle case di tolleranza letteraria. Questo breve articolo è un invito all'istituzione di un prontuario clinico, con alcuni esempi considerati tra i più significativi.

Bulemia (gr. Βουλή): mania degli scrittori di voler dare consigli di scrittura. Lo scrittore bulemico avverte l’irrefrenabile impulso di dare ricette sul bello scrivere in ogni occasione, salvo poi smentirle, rigettarle, in quella successiva, Al di là di epoche, stili, correnti letterarie o biografie personali, si può sostenere che esistono due tipi di scrittori: quelli che danno consigli su come scrivere e quelli che si fanno giustamente i fatti loro. Gli uni sono convinti di poter dire qualsiasi cosa sulla poesia, sul racconto, sul romanzo, e così via, solo perché hanno avuto la fortuna di imbattersi in un editore compiacente. Gli altri invece non sono mai stati pubblicati, forse perché il loro anonimato deriva dall'inesistenza: l’insieme degli scrittori che non danno consigli è infatti da sempre inesorabilmente vuoto.

Colpo dello Strega: improvvisa e dolorosissima mialgia dorsale che colpisce i favoriti di un premio letterario che poi non lo vincono. Anche scrittori apparentemente indifferenti alle glorie editoriali e mondane ne soffrono. Si narra che al Campiello del 1994, all'annuncio della vittoria di Antonio Tabucchi con Sostiene Pereira, ben due finalisti si accasciarono al suolo colpiti da acuti dolori dorsali. Il c. d. s. si cura con il riposo e una dieta a base di letture di scrittori che ottennero soltanto riconoscimenti postumi. Nel 2012 la sconfitta allo Strega di G. C. causò un c. d. s. così forte al punto che si temette potesse smettere di scrivere. Purtroppo invano.

Displagia (lat. plagium): anormale sviluppo stilistico e lessicale in un testo letterario, consistente in genere in una evidente ripetizione, letterale o in parafrasi, di frasi o concetti di altri autori. Se la ripetizione è smaccatamente evidente si è in presenza di una neoplagia. Non sempre la diagnosi di d. è agevole, anche perché c’è chi ritiene che la storia del pensiero sia oramai così lunga che è stato scritto tutto, pertanto i nuovi autori non possono far altro che ripetere l’esistente, magari con le stesse parole. Per questo motivo non necessariamente la d. è indice di dolo: esistono prove accertate di totale identificazione con un autore da parte di un altro autore. Il caso più noto di questo accidente letterario è quello del francese Pierre Menard, che, nel primo dopoguerra, non volle rifare il Don Chisciotte, né adattarlo all’epoca contemporanea, ma volle identificarsi totalmente con Cervantes e riscrivere parola per parola il Don Chisciotte senza peraltro copiarlo.

È stato inoltre rilevato da recenti studi clinici francesi che il fenomeno si può manifestare percorrendo all'inverso la freccia del tempo; si tratta della cosiddetta displagia per anticipazione, nella quale l’autore che ripete un’opera è vissuto o ha operato precedentemente all'autore considerato l’ispiratore.

Un esempio di questo caso è fornito dall'opera di Arnaldo Biserani (1905-1963), che è stato uno dei più grandi poeti e pittori inventati del ‘900. Esponente di spicco dell’avanguardia romagnola, ha per certi versi anticipato le tematiche e gli stili della beat generation e del gruppo ’63, ma impregnati dello spirito solare della sua terra. Questa sua Maiali nell’alba (1952) è stata da alcuni accostata alla nota Urlo di Allen Ginsberg, che è tuttavia di tre anni posteriore:

Sono andato con la macchina nuova 
all'allevamento dei maiali del Donnini 
su fino a Mirandola, e li ho visti. 
Ho visto le bestie migliori 
della mia generazione 
distrutte dalla follia, ingrassate, nude, 
trascinarsi nei recinti negri all'alba 
in cerca di un sollievo astioso, 
un pastone nel truogolo celeste, 
nella dinamo stellata nel meccanismo 
della notte. Con gli occhi vuoti 
sedevano grugnendo nell'oscurità 
chiedendosi il perché e il come 
di una vita vissuta per diventare 
costine e salami, prosciutti e ciccioli, 
per i Biserani come me, angeli 
sterminatori dell’Apocalisse suina. 

In Milano (1959) qualcuno ha visto echi del Pagliarani di La ragazza Carla:

A Milano in un lungo inverno scuro, quando il sole è cosa di Romagna, 
incontro la cassoela untuosa, le puntine, le cotenne, i salamini 
nella verza accogliente come una vagina innamorata; alla sera mi portano
in un ristorante di pesce a Lambrate, nella sera metallica e nebbiosa 
di treni e di tram e gente che si aggira insonnolita e gelida 
e trovo nel menù il rombo di nuovo, e le sue forme regolari 
e schiacciate di pesce geometrico, con la superficie prodotto 
delle diagonali, quattro lati, paralleli due a due, ingobbiti 
dalla pressione dell’acqua, ma io ordino un gran fritto misto, 
che dicono che qui è più fresco che al porto di Rimini, 
può darsi ma non lo sanno fare e sa di bombolone riscaldato, 
allora prendiamo la macchina e andiamo a bere un digestivo 
in centro, dove i camerieri hanno più puzza sotto il naso 
dei clienti ricchi, industriali e negozianti con il gozzo 
da macellaio che ordinano vischi d’annata per loro e le due-tre
puttane che li accompagnano fumando Muratti e Mercedes. 
Usciamo sotto le colonne e la nebbia è sparita, tira aria di neve, 
allora ci congediamo e ci diamo appuntamento per la mostra 
di Fontana l’indomani, e io sono contento, tra i primi fiocchi 
illuminati dai fanali, di tornare al caldo, mettermi in pigiama, 
e sedermi sul water che mi scappa anche da cagare. 

Labirintite s. f. sing. (gr. λαβύρινθος): sindrome letteraria che colpisce gli imitatori scadenti di Jorge Luis Borges. Lo scrittore labirintitico soffre di mancanza di equilibrio, pertanto utilizza uno stile letterario ricco di riferimenti culturali, vagamente arcano, quando non ce n’è assolutamente bisogno. Fa inoltre un eccessivo uso di metafore, quali quella del labirinto o della biblioteca, di frequente derivanti dai concetti della matematica del Novecento. Il labirintitico utilizza concetti arditi per fatti banali, spesso facendo riferimento a testi inesistenti.

Un esempio di scrittore colpito da questa malattia è il parmigiano Secondo Barezzi (1968), indeciso tra il minimalismo delle sue storie e lo stile inutilmente erudito:

“Tra gli intricati scaffali della Ipercoop, nel reparto Frutta e Verdura, con i prodotti esposti con meticoloso ordine su banconi che ricordano una tassellatura universale dell’orticoltura, Paolo Barani indossò il guanto di plastica trasparente e prese in mano una cipolla. Ricordò che nella Biblioteca Universitaria di Bologna esiste una copia dell’Erbarium Alchemicum del Sangalli su cui, di fianco a una rappresentazione a colori del comune bulbo, una mano coeva scrisse che gli strati della cipolla sono indefiniti e tuttavia non infiniti. Vide la propria immagine riflessa nella parete a specchio, aborrendola come la propria paternità recente. Prese un mazzo di cipolle, lo infilò nel sacchetto e lo pesò sulla bilancia. Schiacciò poi il tasto corrispondente al prodotto, come aveva fatto migliaia di volte nell’interminabile Conad della lontana e ineffabile Fidenza. Appiccicò l’etichetta sul sacchetto, lo ripose nel carrello, le cui ruote disegnavano con il movimento immaginarie e dolorose cicloidi. Passò nel reparto Salumeria e si sentì come Martin Fierro ai confini dell’Uruguay”.

Logotomia, s. f. sing (gr. λόγος e τομή): intervento editoriale d’urgenza per salvare ciò che si può dell’opera letteraria di autori eccessivamente verbosi e barocchi. La l. consiste nell'eliminazione di parole, incisi, frasi, periodi, capitoli considerati non necessari o dannosi, la cui presenza è considerata alla stregua di un arto cancrenoso. Si consideri ad esempio il seguente brano:

“Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero. Sì, un buco nero che attira tutto a sé e non restituisce niente. Tutto, nel buco nero, viene attratto e non esce più: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero in cui finiscono danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza e amore si chiama Camorra. La Camorra è il buco nero della Campania, un oggetto che chiude, che imprigiona, e quindi non è aperto, non libera. Girando vorticosamente su stesso, il buco nero che si chiama Camorra è la maledizione della Campania. Terribile. Insaziabile. La Camorra è terribile, insaziabile, un buco nero nel cuore della Campania.” 

Un intervento di logotomia leggera porterebbe al seguente risultato: “Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero che attira tutto a sé e non restituisce niente. Tutto, nel buco nero, viene attratto e non esce più: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero si chiama Camorra. La Camorra è un oggetto che chiude, che imprigiona. Girando vorticosamente su stesso, il buco nero è la maledizione della Campania. Terribile. Insaziabile. un buco nero nel cuore della Campania.”

Un editore più severo, o più pietoso, attuerebbe questo ulteriore intervento logotomico: “Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero che attira tutto a sé: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero si chiama Camorra. Terribile. Insaziabile.” .

Omeropatia, s. f. sing. (gr. ‘Ομηρος e πάθος): teoria letteraria secondo la quale è sufficiente inserire una parola tratta dall'Iliade o dall'Odissea per fare di un testo qualsiasi un’opera degna di essere letta. Se, ad esempio, si inserisce ίππος (cavallo) ogni diecimila parole scritte da Baricco, si dirà che il racconto è una preparazione omeropatica di grado 4 applicata a Baricco, dove la cifra indica l’esponente negativo della diluizione della parola omerica (1/10.000 = 10−4). I sostenitori dell’omeropatia pensano che la parola omerica inserita sia in grado di modificare il campo testuale, trasferendo ad esso le sue proprietà vibrazionali benefiche. Per alcuni autori sono necessarie elevate concentrazioni di parole omeriche, per cui il testo rischia di contenerne troppe, rendendolo poco agevole la lettura. Gli omeropati considerano indispensabili diluizioni 2 o 3 (1/100 o 1/1.000) per autori come Tamaro o Faletti.


giovedì 18 luglio 2013

Modesta proposta per l’istituzione di case di tolleranza letteraria


Queste note sono ispirate dal trattatello scritto nel 1724 da Bernard de Mandeville, che ha per titolo A modest defence of public stews, or, an Essay upon Whoring, as it is now practiced in these Kingdoms (Modesta difesa delle pubbliche case di piacere). Nella prima metà del Settecento a Londra le prostitute erano più di cinquantamila e il diffondersi delle malattie veneree aveva spinto i benpensanti delle classi dirigenti a discutere e poi far approvare una legge severa che dichiarava reato la prostituzione, nella speranza di porre un freno al vizio e alla licenziosità. Per contrastare l'ondata proibizionista, consapevole delle ricadute sociali e sanitarie del fenomeno, Mandeville, "per fronteggiare le cattive conseguenze dell'irreprimibile vizio", propose l'apertura di Pubblici Bordelli, per garantire efficienza e buona organizzazione, tutelati alla stregua di Istituti di Servizio Pubblico. 

Chiunque abbia conoscenza del mondo letterario italiano, soprattutto dopo che la tecnica ha messo a disposizione strumenti sempre più raffinati per la scrittura, la redazione, la pubblicazione dei libri, al punto che ciascuno può essere editore di se stesso, non può ignorare che il vizio di scrivere e pubblicare ha raggiunto nel nostro paese livelli insostenibili, con grave danno per l’intelligenza pubblica e per i pochi autori meritevoli. È altrettanto chiaro che una legge di censura per controllare questa preoccupante epidemia di parole fuori controllo sarebbe considerata illiberale e solleverebbe le proteste di tutto il mondo. Nasce così l’idea, modesta e per ora solo sussurrata, che "per fronteggiare le cattive conseguenze dell'irreprimibile vizio", si istituiscano Case di Tolleranza Letteraria (CTL), dove gli aspiranti scrittori possano coltivare la loro lussuria verbale con l’assistenza di personale qualificato e sotto il controllo dello Stato. Questa attività sarebbe inoltre autofinanziata e non graverebbe sulle già esauste casse dell’erario. Una volta entrato nella Casa, l’aspirante scrittore potrà infatti non solo scegliere il/la consulente che più gli aggrada, ma anche il tipo di prestazione e la durata, pagando secondo un tariffario esposto in bella vista. 


Il personale di questi luoghi di piacere dovrà essere pronto a soddisfare ogni tipo di richiesta, dal saggio politico alla poesia epica, dall’autobiografia al romanzo di formazione. I consulenti dovranno inoltre conoscere le principali patologie letterarie manifestate dalla clientela, in modo da intraprendere, dopo accurata anamnesi e diagnosi, la terapia più indicata. L’ammissione del personale delle CTL sarà regolata da un apposito regolamento e previa l’iscrizione a un Albo Professionale, cui si accederà per titoli ed esami.

martedì 16 luglio 2013

Macheronea


Ebete sguardo, quam sus ad macello latum, 
ait padanus candidam smerdazzando togam 
verba ab odio contra forestos accensa, 
qui quomodo exhibent stercora terreantur.

Cun la facia de ciula, tant 'me un nimal menà al macel,
dis el padan, intant che l'impieniss  la toga de merda,
parol che nassen de l'odji cuntra i furestè,
che fan ved in che manera i struns i gan pagura.

venerdì 12 luglio 2013

La riforma geometrica di Leopold Hugo

Disegno preparatorio per il medaglione esposto al Salon
Leopold Armand Hugo era nato nel 1828 dal conte Abel Joseph, fratello maggiore del famoso Victor e da Louise Duvidal de Montferrier, artista e pittrice. Lavorò come funzionario del Ministero dei Lavori pubblici, ma dimostrò sempre una grande attitudine per gli studi, prima storici sulle antichità galliche e poi scientifici, sempre con scarsa fortuna. Sulle orme della madre, artista e pittrice, si dilettava anche con la pittura e la scultura, con discreti risultati: un suo medaglione fu esposto al Salon del 1874 e un marmo, Electryon, genio dell'elettricità terrestre a quello del 1877, quando ormai, c’è da precisarlo, l’accesso delle opere all’esposizione era quasi libero. 

Me ne occupo perché nel 1867 scoprì, o meglio inventò, i cristalloidi a direttrice circolare, solidi regolari il cui nome non va confuso con quello che oggi designa le soluzioni acquose di sostanze idrosolubili capaci di diffondersi attraverso una membrana semipermeabile. I cristalloidi di Leopold Hugo, descritti in Les cristalloides à directrice circulaire, erano ad esempio l'equidomoide a base quadrata (già considerato da Archimede con il banale nome di piramide), l’equitremoide, utile per la misura del tempo se riempito di sabbia fine, e l’equidomoide a base circolare, che altro non è che la comune sfera.


Scriveva nell’avvertenza: “Con il nome di Teoria dei Cristalloidi ho designato una teoria generale dei solidi geometrici basata sulla considerazione di solidi poligonali e sulla scomposizione razionale dei solidi, sia antichi sia nuovi, in pennacchi di superficie cilindrica e sezione triangolare. (…) I cristalloidi poligonali sono, a mio parere, le forme primordiali dei solidi di rotazione; nel presente studio geometrico tratterò principalmente dei cristalloidi a direttrice circolare (…), ma la sfera non vi figura che in un corollario" (…). 

La Proposizione 1 descrive bene il tenore dell’intera opera: “La superficie costruita in un angolo diedro, su una porzione di poligono regolare ABCD tracciata in una delle facce dell’angolo, con il diametro FG che coincide con lo spigolo dell’angolo, ha come misura la proiezione MQ del perimetro ABCD sul diametro FG, moltiplicato per la tangente costruita su un raggio uguale a quello del cerchio inscritto nel poligono, e per un angolo α corrispondente all’angolo diedro di partenza”

Nel 1874 riassunse la sua riforma della geometria descrittiva nelle 19 pagine di Une réforme géométrique: introd. à la géométrie descript. des cristalloïdes. Di questo ardito e originale seguace di Monge si è interessato Raymond Queneau nell’appendice a Figli del limo dedicata a una rassegna dei folli letterari, assieme ai quadratori del cerchio e ai trisettori dell’angolo. 

Nonostante lo scetticismo generale degli esperti, nel 1875 Hugo diede alle stampe la Géométrie hugodomoidale, anhellénique, mais philosophique et architectonique, preceduta giudiziosamente da un’Avvertenza in cui sosteneva: «Mi sono visto costretto ad accentuare al massimo l'originalità della forma nelle mie successive produzioni per imprimere, almeno a grandi linee, la mia piccola teoria nella memoria dei lettori. Continuerò a fare così anche in futuro, per tentare di abbreviare il periodo di noviziato che è costretta a superare ogni ardita novità (e nessuna è più ardita della teoria dell'equidomoide, il domatore delle sfere, sphaerarum domitor) prima di arrivare a una giusta notorietà, soprattutto quando l'innovazione ha la prerogativa di rimandare anche i più dotti a scuola perché riprende semplicemente le cose ab ovo». Rovesciando l’edificio della geometria per costruirne uno più nuovo e bello sulle sue macerie, la Scuola hugodomoidale, «la Scuola romantica della geometria», Leopold non risparmiava alcun concetto o figura esistente, sostenendo che «La sfera non ha che da sgonfiarsi... o da rassegnarsi al ruolo di equidomoide limite». Sicuro della vittoria finale, minacciava che non avrebbe fatto prigionieri: «Analista! rendi omaggio alla verità, altrimenti l'equidomoide vendicatore verrà a pesare di notte sul tuo petto ansioso»



Un piccolo ritratto conserva le fattezze di Leopold Armand: aveva la pappagorgia degli Hugo, anche se era più magro del padre e meno furbo dello zio scrittore, che la copriva con una bella barba. Nel 1855 aveva sposato a Versailles Marie-Jeanne Solliers, di sette anni più giovane, che l’anno successivo gli diede la figlia Marie Zoé. Fu l’unica discendente, perché i molteplici interessi di Leopold lo allontanarono progressivamente dalla moglie fino a quando, nel 1885, i due si lasciarono approfittando della recente reintroduzione del divorzio in Francia. Troppo preso dal proprio genio, poco modesto al punto di chiamare la nuova geometria hugodomoidale con il proprio nome, era anche innamorato delle parole bizzarre che inventava e che costellano i suoi scritti e i loro titoli. 

Sempre nel 1875 pubblicò la monografia Le Valhalla des sciences pures et appliquées, in cui proponeva di insediare un museo e mausoleo delle Scienze in un’ala del castello di Blois, al cui ingresso si sarebbe dovuta collocare una grande statua di Denis Papin, enfant du pays.


Assai interessanti sono le tre appendici. Nella prima, Hugo contesta la concezione di Auguste Comte secondo la quale è possibile classificare le scienze secondo il loro grado di complessità. Per Hugo non ha senso stabilire gerarchie. Egli scrive che “L’interesse filosofico delle scienze matematiche è di andare incontro alle scienze naturali. Non c’è nulla che assomigli a una subordinazione di qualche scienza”. La seconda appendice è dedicata alle orbite planetarie (curiosamente chiamate ovhélites). L’autore sottolinea come le recenti scoperte astronomiche hanno rivelato il movimento del sistema solare nello spazio, pertanto le traiettorie orbitali non giacciono su un piano. L’orbita è invece una curva elicoidale con una proiezione ovale o ellittica, da cui il nome ov-hél-ite. Hugo detta anche il seguente teorema: “Le oveliti planetarie sono tracciate su cilindri a sezione retta ellittica (salvo perturbazioni) o almeno ovale. Una delle linee focali delle suddette oveliti è comune; questa linea è la traiettoria solare”. La terza e ultima appendice, Base scientifique de la numération décimale, è sicuramente la più bizzarra. Scrive Leopold: “Propongo oggi di utilizzare una delle più antiche e più curiose teorie della geometria, rimasta finora inutilizzata, per stabilire un legame tra la geometria e l’aritmetica, attribuendo come base a quest’ultima scienza un numero assoluto ed eterno. Pitagora aveva trattato i cinque solidi regolari cui ha dato il nome, Cauchy e Poinsot hanno aggiunto a questi quattro poliedri stellati. “Aggiungendo a mia volta la sfera (che è il regolare infinitoidico), posso costruire geometricamente il numero insuperabile di DIECI”. Esiste così una somiglianza tra le nove cifre e lo zero da una parte e i nove poliedri e la sfera dall’altro. Inoltre, particolare curioso, tra questi ci sono cinque primi così come ci sono cinque solidi convessi regolari. Ecco quindi “la conception philosophique et vraiment scientifique du nombre fundamental DIX.”

Lettera di Leopold Hugo alla figlia, con disegni

Hugo replicò le sue concezioni astronomiche pubblicando nel 1876 un Essai sur la cinématique celeste: Astronomie géométrique; ou, Breves considérations sur la nouvelle théorie des ovhélites, contenente la nuova teoria delle oveliti. L’anno successivo tornò al suo sistema di numerazione con La théorie hugodécimale ou la base scientifique et definitive de l'arithmo-logistique universelle. Queneau descrive il suo contenuto: “(…) un'Enciclica supremolamasica, un'evocazione cinotibetana, la geometria panimmaginaria a 1/m dimensioni, l'aritmetica a 1/m cifre, un Decreto presidenziale ecumenico relativo alla base hugodefinitiva della numerazione decimale”. Con l’abilità di un comunicatore, o di un titolista, era consapevole delle sue esagerazioni verbali: «Nel mio isolamento di semplice filosofo, sarò costretto a usare le combinazioni più strane e a colpire l'attenzione del lettore con la stessa singolarità della mia esposizione»

Fu probabilmente la sua ultima opera, a compimento di due lustri di grafomania compulsiva, perché non si ha traccia di pubblicazioni di Léopold Hugo successive a questa data, nonostante sia morto soltanto il 19 aprile 1895. Fu sepolto nel cimitero parigino di Montparnasse.

lunedì 8 luglio 2013

Il novissimo Barozzi della lingua italiana – Agg. 1/2013


cicciottenne, s m. e f. sing [lat. cicciam e teneo]: nuovo elettore sovrappeso; est: adolescente obeso. “Per il corso frotte di cicciottenni che mangiano gelati” (Franchi, 2011) 

Dasein, s. m. indecl. [dal ted. Das, “il pongo” e Ein, “uno”]: termine filosofico dal significato malleabile e adattabile al contesto, utilissimo per chi voglia spacciarsi per colto, spesso associandolo ad altre parole come Zeitgeist o Aufklärung. “In quel tramonto Fabrizio vide tutto il Dasein della sua angoscia”, oppure “Chi fa Dasein fa per tre” (Popinga, 2013)

feromoni, s. m. pl. (laz. fero e lat. homo): grandi uomini metallici fabbricati a Roma, cyborg borgatari, protagonisti del romanzo utopico “L’omo de fero”, in cui una razza di coatti dai superpoteri conquista il mondo e rende obbligatori la canottiera e lo stereo a tutto volume. “Le donne della borgata sentivano irresistibile il potere dei feromoni, desiderando l’accoppiamento” (Barozzi, 2013) 

ginosofista, s. m. sing. [dimin. Gino e gr. σοφία]: cugino che ha studiato, portato ad esempio in tutta la famiglia e perciò odiato. “Lo vide nudo in spiaggia e finalmente poté prendere in giro quel ginosofista” (Barozzi, 2012) 

proctossido, s. m. sing [gr. προκτος e οξύς]: composto chimico originato dalla presenza di ossigeno nell’intestino, che fuoriesce dall’orifizio anale. Es.: il proctossido d’azoto, gas intestinale dagli effetti esilaranti e anestetici. “Quando Pierino produce il proctossido, tutta la classe si mette a ridere” (Barozzi, 2012) 

Scuola Radon Elettrica (Scu.R.E.), s. m.: noto istituto professionale per corrispondenza che prepara tecnici rabdomanti e previsori di terremoti. L’istituto è in attesa di parificazione da parte del MIUR (Giuliani, 2009)

giovedì 4 luglio 2013

Trasgredire le frontiere: note matematiche per tromboni filosofici


«I filosofi, muovendosi in mezzo al concetto di infinito senza l'esperienza e le 
precauzioni dei matematici, sono come navi immerse nella nebbia in un mare 
pieno di scogli pericolosi, e ciononostante felicemente ignari del pericolo» 
(Max Born, 1954, citato da Enrico Bellone) 

Nella primavera del 1996 il fisico americano Alan Sokal mandò alla rivista Social Text un lungo articolo dal curioso titolo Trasgredire le frontiere: verso un'ermeneutica trasformativa della gravità quantistica, che fu subito pubblicato benché fosse costellato di assurdità inserite di proposito nello stile strutturalista che piaceva ai curatori. La tesi del paper era che i settori più avanzati della fisica e della matematica confermano le tesi post-moderniste di autori come Lacan, Lyotard, Kristeva, Baudrillard, (e, più tardi, anche di Guattari, Derrida e Deleuze). Nell'articolo, Sokal attaccava “il dogma imposto da una lunga egemonia successiva al secolo dei Lumi, dal punto di vista intellettuale occidentale” che esiste un mondo esterno governato da leggi di natura che noi possiamo comprendere in modo imperfetto utilizzando il metodo scientifico. Egli sosteneva al contrario che la “realtà fisica (...) è in fondo una costruzione sociale e linguistica”

La nozione di struttura, elaborata dopo una lunga gestazione negli anni ‘60, nasceva in campo linguistico e si estese poi alla critica artistica e letteraria e infine alla psicanalisi e alle scienze sociali. Secondo gli strutturalisti, la realtà è un insieme organico scomponibile in elementi e unità, il cui valore funzionale è determinato dall'insieme dei rapporti fra ogni singolo livello e tutti gli altri. Scompariva l’oggetto dell’indagine, o, meglio, diventava invisibile, mentre ci si concentrava sulla rete di relazioni stabilita al suo interno o tra esso e altri oggetti, di cui si studiavano gli effetti. Fu ben presto evidente che la matematica, non più vista come scienza della rigida razionalità, poteva essere avvicinata alle scienze umane, in quanto anch'essa scienza della struttura, della relazione, dell’astrazione dalla realtà materiale. Si celebrò allora il matrimonio tra scienze umane e scienze matematiche (preceduto a dir la verità da un lungo fidanzamento con la statistica), unione feconda tanto di nuove potenzialità quanto, soprattutto, di equivoci. La matematica e la fisica moderne venivano ora viste come uno strumento ulteriore a disposizioni delle discipline dell’uomo. Fu, soprattutto in Francia, un’epoca di grande fervore intellettuale e di scoperte, di entusiasmi improvvisi, in cui si coniugavano liberamente la topologia con la psicanalisi, il Tao con la fisica quantistica, le geometrie non euclidee e quelle pluridimensionali, spesso confuse tra loro, con il femminismo, il trotzkismo o il teatro d’avanguardia.

Tra i concetti matematici preferiti di questa ubriacatura intellettuale c’erano quelli che, allo sguardo poco esperto degli umanisti, mettevano in discussione la linearità della conoscenza. Nacque una vera e propria infatuazione per oggetti come il nastro di Möbius, la bottiglia di Klein, il cross-cap (berretto incrociato), per teoremi come quello d’incompletezza di Gödel, e, in campo fisico, per la meccanica quantistica, in particolare per l’indeterminazione di Heisenberg. Si trattava di figure e concetti bizzarri, di cui si coglieva non il valore reale, espresso in linguaggio formale e non equivoco, ma quello estetico e metaforico, in cui la matematica e la fisica diventavano oggetto di gioco narrativo. Successe a questi concetti ciò che era accaduto negli anni ‘30 alle superfici algebriche, diventate oggetto di ispirazione per alcune correnti artistiche ma mai considerate al di là del loro valore estetico.


Il controverso psicologo e filosofo Jacques Lacan si faceva costruire modellini di tori e di nastri di Möbius per studiarvi gli effetti topologici di tagli e suture. Il nastro di Möbius, costituito da una sola superficie con un solo bordo, era il paradigma di quel rapporto tra esteriorità e interiorità che il soggetto lacaniano riconosceva non definito e privo di un confine certo tra esterno e interno, tra coscienza e inconscio. 

Perfidamente, Sokal riportava nell’articolo questa citazione da una conferenza tenuta da Lacan nel 1966:

“Questo diagramma [il nastro di Möbius] può essere considerato la base di un tipo di iscrizione essenziale all'origine, nel nodo che costituisce il soggetto. Ciò va molto al di là di ciò che si possa pensare inizialmente, perché si può cercare il tipo di superficie in grado di ricevere tali iscrizioni. Si può forse pensare che la sfera, antico simbolo della totalità, non sia adatta. Un toro, una bottiglia di Klein, una superficie rigata possono ricevere tale taglio. E questa diversità è molto importante, in quanto spiega molte cose sulla struttura del disagio mentale. Se si simboleggia il soggetto con questo taglio fondamentale, allo stesso modo si può mostrare che il taglio in un toro corrisponde al soggetto nevrotico, e uno su una superficie rigata a un altro tipo di disordine mentale”

Sembra abbastanza chiaro perché la lettura dei seminari di Lacan sia considerata unanimemente particolarmente ardua. Sempre a proposito del nastro di Möbius, Sokal avrebbe potuto essere ancor più cattivo. Lo fa in sue vece Andrea Pasquino, in Il teorema di Queneau. Il concetto matematico come struttura narrativa e investimento estetico (Liguori, 2003), riportando questo brano del filosofo Jean Baudrillard per fornire un esempio della gran confusione matematica sotto il cielo della postmodernità, dove l’oggetto matematico si confonde con il simbolo, il ragionamento deduttivo si fa analogia, la narrazione diventa mitologia, in una commistione di piani che sarebbe piaciuta al mistico esoterico Guénon, o ai surrealisti: 

“Non c’è topologia più bella di quella di Möbius per designare questa contiguità del vicino e del lontano, dell’interno e dell’esterno, dell’oggetto e del soggetto all'interno della stessa spirale, dove s’intrecciano sia lo schermo dei nostri calcolatori sia lo schermo mentale del nostro proprio cervello. E’ secondo lo stesso modello che l’informazione e la comunicazione tornano sempre su loro stesse in una circonvoluzione incestuosa, in una indistinzione superficiale del soggetto e dell’oggetto, dell’interno e dell’esterno della domanda e della risposta, dell’evento e dell’immagine, ecc. - che può risolversi solo chiudendo il cerchio, simulando la figura matematica dell’infinito” (da La trasparenza del male, Sugarco, Milano, 1991). 


Se Möbius e la topologia rappresentavano una realtà sempre più aggrovigliata su se stessa, Gödel forniva al bagaglio metaforico dei post-modernisti un’arma formidabile per mettere in dubbio il valore della nostra conoscenza del mondo attraverso il “determinismo” delle scienze esatte. Il teorema di incompletezza, al pari del principio di indeterminazione di Heisenberg, era citato continuamente per veicolare l’idea che la matematica potesse servire di supporto per significare non più il cosmos del rigore e dell’ordine, ma il chaos dell’indicibile e dell’incerto. La realtà diventava complessa, caotica, multidimensionale, persino “irrazionale”, e, non appena negli anni ‘70 fece la sua comparsa la geometria frattale, con le sue nozioni di ricorsività e autosimilitudine, subito entrò anch'essa nelle speculazioni pseudo-matematiche dei filosofi. 

Poco dopo la pubblicazione dell’articolo, Sokal denunciò la beffa su un'altra rivista, Lingua franca, provocando sia le violente reazioni da parte della cultura umanistica francese e dei suoi seguaci presenti nelle facoltà americane, sia anche l'approvazione di gran parte del mondo scientifico. Così spiegava: 

“In tutto l’articolo utilizzo dei concetti scientifici e matematici in una maniera che pochi scienziati e matematici possono prendere sul serio. Ad esempio, suggerisco che il “campo morfogenetico” - una curiosa idea new-age di Rupert Sheldrake - rappresenta una teoria superiore della gravità quantistica. Questa relazione è pura invenzione, e lo stesso Sheldrake non afferma nulla del genere. Io affermo che le speculazioni psicanalitiche di Lacan sono state confermate da lavori recenti nella teoria del campo quantistico. Persino dei lettori non specialisti avrebbero potuto domandarsi come questa diavolo di teoria del campo quantistico c’entri con la psicanalisi, è certo che il mio articolo non forniva alcun argomento ragionevole per sostenere questa relazione. 

Insomma, ho scritto intenzionalmente l’articolo in modo che ogni fisico o matematico competente (o uno studente di fisica o matematica) si rendesse conto che si trattava di una parodia. E’ chiaro che gli editori di Social Text non si sono posti il problema di pubblicare un articolo sulla fisica quantistica senza preoccuparsi di consultare un qualsiasi persona competente nel settore”. 

La conclusione che in molti trassero dalla vicenda fu che, siccome certa filosofia non si distingue dalla sua parodia, non è una cosa seria. Alla sua beffa Sokal fece seguire Imposture intellettuali (Garzanti, 1999): un libro scritto con Jean Bricmont, che mostrava con abbondanza di riferimenti come gran parte della filosofia postmoderna francese fosse colpevole di «manifesta ciarlataneria». 


Nel suo scherzo, Sokal era mosso da motivazioni serissime, essendo preoccupato dal fatto che quella cultura incoraggiasse il disinteresse per la realtà e per i contenuti concreti, soprattutto riguardo ai problemi sociali e politici che dovrebbero stare a cuore alla sinistra. Un tale disinteresse dipenderebbe proprio da quel «relativismo cognitivo» che ha spinto molti autori postmoderni a dichiarare che ogni cosa, e persino la stessa realtà fisica, non è nient'altro che una costruzione culturale o sociale. Ora, se ciò può essere di poca importanza per le scienze fisiche e matematiche, che comunque seguono paradigmi diversi, le "scienze umane" perdono invece ogni contatto con la realtà umana e sociale che vorrebbero indagare e magari cambiare. 

Secondo Sokal, uomo di tendenze politiche progressiste, il fatto che una rivista di sinistra come Social Text fosse cascata in un simile tranello non era episodico, ed era anche preoccupante. Questa tendenza al «relativismo cognitivo», con forti cedimenti alle pseudo-scienze e alle panzane di una certa cultura misticheggiante para- o pseudo- ambientalista stava diventando insopportabile, soprattutto perché caratterizzava molti intellettuali umanisti politicamente impegnati. Presa dalla vertigine strutturalista, la sinistra stava abbandonando le istanze di uguaglianza e l’approccio scientifico alla realtà, per inchinarsi al dominio dei parolai, i quali, ritenendo la realtà stessa una creazione del linguaggio, non riuscivano a vedere la spirale perversa di autoreferenza in cui si erano cacciati. Aprendo la strada allo scetticismo verso il sapere scientifico, queste correnti di pensiero hanno inoltre la responsabilità di aver restituito dignità al pensiero mitologico, alla marea new-age, al proliferare dei furbi di ogni risma che, sull'onda del favore popolare, propongono le loro ricette balzane spacciandole per “scienze alternative”. Personalmente condivido appieno queste preoccupazioni, con particolare riferimento a una certa sinistra italiana, tanto attenta a sondaggi o tirature, anche elettroniche, da dimenticare il ruolo trainante e formativo che devono avere gli intellettuali.

L’avvertimento di Sokal vale infatti soprattutto oggi, particolarmente osservando il panorama italiano (altro che francesi!), dove l’analfabetismo (non solo scientifico) raggiunge livelli impressionanti, sale la diffidenza verso la scienza e le sue istituzioni e si fanno strada timori infondati riguardanti i supposti pericoli derivanti dalla natura stessa della conoscenza scientifica. Questa situazione allarmante è stata messa in luce da Enrico Bellone, il compianto storico della scienza e grande divulgatore, in La scienza negata. Il caso italiano (Codice, 2005), che ha individuato precise responsabilità anche in molti intellettuali italiani, filosofi ma non solo. Il libro di Bellone merita tuttavia una trattazione più approfondita, perciò ne parlerò un’altra volta.