martedì 30 dicembre 2014

Mostrare l'indicibile, oltre i limiti del linguaggio

"Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un'illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell'Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell'universo. Vidi il popoloso mare, vidi l'alba e la sera, vidi le moltitudini d'America, vidi un'argentea ragnatela al centro d'una nera piramide, (…), vidi in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione inglese di Plinio, quella di Philemon Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi del fatto che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, (…), vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell'amore e la modificazione della morte, vidi l'Aleph, da tutti i punti, vidi nell'Aleph la terra e nella terra di nuovo l'Aleph e nell'Aleph la terra (…) e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l'oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l'inconcepibile universo." (1) 

Jorge Luis Borges, prima d'iniziare la descrizione della visione dell’Aleph, fa dire queste parole al protagonista, che potrebbe essere lui stesso: "Comincia qui la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui esercizio presuppone un passato condiviso dagli interlocutori; come trasmette agli altri l'infinito Aleph che la mia tremula memoria a stento capta? (…) Ciò che videro i miei occhi fu simultaneo; quello che trascriverò, è successivo, perché lo è il linguaggio." 


Secondo Ludwig Wittgenstein (2), ciò che è indicibile, che non può essere espresso con le parole, risiede al fondamento stesso del linguaggio. Bisogna distinguere, infatti, ciò "che si dice", da "ciò che si mostra", l'indicibile. Mentre "ciò che si dice" riguarda il campo della scienza, che tratta i fenomeni descrivibili con il linguaggio (magari formale e simbolico), "ciò che si mostra" riguarda invece il fatto che non può essere espresso, in ultima analisi il fatto del linguaggio stesso. Il filosofo austriaco sembra frustrare ogni tentativo di studio su ciò che non si può esprimere con le parole: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (3). Prima di lui, Nietzsche aveva avvertito meno apoditticamente che “la parola è pericolosa, e raramente è giusta. Quante cose non si devono dire! E le opinioni filosofiche e religiose appartengono proprio ai pudendis [le cose di cui ci si vergogna]. Sono le radici del nostro pensiero e della nostra volontà: perciò bisogna che non siano esposte alla luce brutale (…) (4). L'oggetto della ricerca sui fondamenti è esattamente ciò che non può essere descritto con il linguaggio e che, pertanto, coinvolge il linguaggio stesso. 

L’esperienza del sacro, ad esempio, tipica dei mistici d’ogni tradizione religiosa, costringe ad oscillare tra il non-senso di parole che si rivelano ambigue e folli e il silenzio, un silenzio che non è reticenza, ma consapevolezza che il linguaggio non è all’altezza dell’oggetto da descrivere. Ecco perché nel silenzio o nella follia risiede l’essenza della mistica, dell'esperienza del divino. Ci si deve allora rassegnare ad uno studio del sacro per difetto o per negazione, e ritirarsi silenziosamente per contemplare ciò che si mostra? Si è davvero costretti al suicidio linguistico di fronte all’ineffabilità del numinoso, del Totalmente Altro (5)? O bisogna affidarlo ai bla-bla dei sedicenti professionisti per volontà divina? Forse non è così, se si rinuncia alla pretesa di definirlo.


Certamente tutti abbiamo un’idea del significato di parole come punto, linea, angolo, poiché capita d'impiegarle quotidianamente. Eppure, leggendo gli Elementi di Euclide, che costituiscono la base della geometria classica, le definizioni giungono inattese e inquietanti: "un punto è ciò che non ha parti", "la linea è lunghezza senza larghezza". Chiunque avrebbe ragione di chiedersi se frasi come queste possono essere comprese, perché ci si trova ai limiti delle possibilità del linguaggio, alle soglie del non-senso. Volendo insegnare a un bambino il significato di queste parole, non cercheremo certamente di introdurre il concetto di punto o di linea tentando di dire che cosa sono. Non diremo che il punto è "ciò che non ha parti" o che la linea è "lunghezza senza larghezza", invitandolo poi a disegnare qualcosa privo di parti o qualcosa che è lungo, ma non è largo. Mostreremo invece un punto o una linea, dicendo "è così". Poi, dopo aver ripetuto in vari modi queste operazioni, inviteremo il bambino a disegnare una linea o un punto, esprimendo approvazione o disapprovazione fino a che si potrà essere ragionevolmente certi che il concetto è stato compreso. Ciò che avremo messo in opera, l'insieme di pratiche nelle quali le parole sono integrate da gesti, comportamenti, raccomandazioni, atti mimetici, rimproveri, è un insegnamento ostensivo (ostendere significa "mostrare"), nel quale non si usa la definizione verbale. (6) 

Ogni volta che, per spiegare un concetto, si dice che “è così”, si tocca il fondamento. La spiegazione è tautologica (tautos significa “lo stesso”), fa riferimento solo a se stessa. Manca, infatti, un sistema di riferimento, manca un prima. Un fondamento può essere spiegato solo da se stesso, perché le parole rischiano d'apparire folli. Il punto e la linea sono i fondamenti della geometria e possono essere solo mostrati, oppure definiti attraverso frasi enigmatiche e oscure, quasi oracolari, come quelle di Euclide. Analogamente, gli assiomi fondanti qualsiasi sistema matematico e logico (quelli ad esempio alla base dei Grundlagen di Frege o dei Principia di Peano, o delle opere di tutti coloro che si occuparono del problema dei fondamenti della matematica) possono essere mostrati, non dimostrati. Un fondamento non potrà essere spiegato che da se stesso, perché “è così”. L’indicibile che sta al fondamento può solo essere mostrato, oppure avvicinato in modo indiretto. 


L’indicibile, se resta non definibile in se stesso, produce attorno a sé degli effetti che ne rivelano la presenza e che sono, loro sì, osservabili, un po’ come accade per i buchi neri, le singolarità astronomiche che non sono visibili direttamente, ma producono effetti gravitazionali ed elettromagnetici che sono rilevabili e consentono di dedurre la loro esistenza (7). E’ su questo limite tra “ciò che si mostra” e i suoi effetti “che si possono dire” che si trova il pensiero metaforico, un modello di conoscenza alla quale non ha accesso la logica lineare del linguaggio scientifico, ma che spesso viene utilizzata proprio nella divulgazione scientifica. La metafora è comunemente intesa come una figura retorica in cui si attribuisce volutamente a un'entità una qualità che non può avere (ad esempio: “una ridente cittadina”, in cui si associano significati appartenenti a campi diversi, come una designazione geografica e un atto tipicamente umano). Si può ricorrere a una metafora per un fine poetico, ma essa può servire anche per un fine pragmatico, perché può facilitare la comprensione di pensieri complessi, i quali non potrebbero essere comunicati direttamente se non mediante un enunciato la cui oscurità (o complessità) richiederebbe, da parte dell'ascoltatore, uno sforzo di comprensione assai oneroso (si pensi alle definizioni euclidee di punto e linea). In altri termini, la metafora consente di raggiungere, di portar fuori (meta-phoréin è "portar fuori"), l'altrimenti indicibile. 

Rimane il problema, difficile e fondamentale, per i filosofi, gli scienziati, i divulgatori, e persino per i poeti (che non hanno più il dio dentro di sé), di utilizzare correttamente lo strumento del pensiero metaforico e la sua capacità di fornire una conoscenza indiretta di ciò che va al di là dell'esperienza e dei limiti del linguaggio. Si tratta di una questione delicata, sulla quale è opportuno magari che ritorni in un’altra occasione. 


Note: 

(1) Jorge Luis Borges, L'Aleph, Feltrinelli, Milano, 1959.

(2) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1964. 

(3) Ibid., prop. 7: Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen. 

(4) Friedrich Nietsche, Epistolario 1865-1900, Einaudi, Torino, 1962.

(5) Rudolf Otto, Il sacro, Feltrinelli, Milano, 1992. Otto propone il termine numinoso (dal latino numen, "divinità, volontà divina, potenza degli déi, autorità"), cui attribuisce gli aspetti del mistero (mysterium, poiché “totalmente altro”), del terrificante (tremendum, in quanto prodigiosamente inquietante), della sovrappotenza (maiestas), ma anche del fascino e dell'attrazione (fascinum). Tutte queste categorie riflettono l’assoluta inaccessibilità del sacro alla comprensione concettuale: “Un Dio compreso non è più Dio”. Il numinoso sarebbe, a parere di Otto, un momento conoscitivo a priori, vale a dire stimolato solamente da impressioni dei sensi, senza interpretazioni e valutazioni. 

(6) Le considerazioni di tipo "geometrico" sono tratte dal libro di Giovanni Piana Numero e figura. Idee per una epistemologia della ripetizione, CUEM, Milano, 1999. 

 (7) Il paragone con i buchi neri è un esempio di pensiero metaforico.

4 commenti:

  1. Come diceva anche Agostino: «Melior est, quam verba, locutio».

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  2. http://www.network54.com/Forum/189191/thread/1280589230/last-1291308145/Perch%C3%A8+crediamo+di+essere,+nel+tempo,+sempre+noi+stessi-

    Caro Popinga,
    quella di cui sopra ,potrebbe esere una buona lettura per fine anno,anche in relazione al tuo prossimo approfondimento sull'argomento dell'indicibile (o trascendente?)
    Nel frattempo personalmente credo che noi (genere umano),siamo tutto sommato ancora molto giovani,rispetto all'universo mondo,per cui prima di sfidare il numero di Holderness e cioe' la possibilita'di esaurire i molti "pensieri"che il nostro cervello puo'affrontare nel "tempo"...in fondo forse siamo appena agli inizi di un percorso...
    Sempre che ,si permetta a noi stessi di farlo.
    E' questa e' una bella domanda di fine anno!

    caino

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  3. Che bello rileggerti ogni tanto, Popingone.

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  4. "Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l'essemplo basti / a cui esperienza grazia serba" (I, vv. 70-73)

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