lunedì 14 maggio 2018

La geometria, destino e lessico famigliare dei Castelnuovo


Lo scrittore Enrico Castelnuovo (1839 – 1915), di famiglia borghese di origine ebraica, laico, di sentimenti risorgimentali, nel 1865 si sposò con la cugina Emma Levi. Dal matrimonio nacquero Guido, che sarebbe diventato un grande matematico, e Bice, che coltivò invece la pittura. Guido, grande geometra algebrico e statistico, avrebbe poi dato il nome della madre alla quinta figlia Emma, anche lei matematica e, soprattutto, insegnante e grande pedagogista. Dopo un’esperienza in un’azienda commerciale veneziana, Enrico divenne collaboratore e poi direttore del quotidiano veneziano La Stampa, di tendenza conservatrice. Nel 1872, cessata la pubblicazione della Stampa, entrò alla Scuola superiore di commercio di Venezia dove rimase prima come insegnante e infine come direttore, fino al 1914, quando si dimise per raggiunti limiti di età.

Enrico Castelnuovo fu autore di racconti, in cui osservò la vita di provincia, soprattutto veneziana, che ritrasse con curiosità e affettuosa ironia, secondo il gusto di un certo realismo minore, e di romanzi, dove oscillò tra una vena vivace, ma superficiale, e il tentativo di studiare i drammi interiori di personaggi più complessi. Dai romanzi emerge abbastanza chiara la posizione ideologica dello scrittore, attratto dalla cultura positivistica e fedele a un ideale di Stato laico e liberale. Fiducioso in un ordinato progresso civile che non sconvolgesse i valori tradizionali, guardava con amarezza l’Italia a cavallo tra i due secoli, che gli appariva dominata dai compromessi e dalla corruzione del trasformismo della nuova aristocrazia finanziaria e affaristica, che emarginava progressivamente la vecchia classe dirigente risorgimentale. Scrittore di non eccelso talento, non seppe mai separarsi da uno scontato moralismo, che si manifestava facilmente in una monotona retorica dei sentimenti. Proprio in alcuni suoi romanzi, tuttavia, si trovano interessanti ritratti del costume e degli atteggiamenti ideologici della società italiana della fine dell'Ottocento, di cui registrava i mutamenti con il senso di osservazione di un giornalista.

In una raccolta, Sorrisi e lagrime, pubblicata nel 1886, troviamo questo racconto di argomento matematico del padre di Guido, che nello stesso anno si laureava a Padova, e nonno di Emma. La qualità letteraria non è eccelsa, ma lo propongo, dopo averlo visto rilanciato e tradotto in francese su Images des Mathématiques, come interessante documento autobiografico del destino (e del lessico famigliare) di una grande famiglia del panorama culturale italiano.


IL TEOREMA DI PITAGORA

— Il teorema di Pitagora! — disse con una cert'aria di canzonatura il professore Roveni, spiegando un bigliettino ch'io avevo estratto molto delicatamente da un'urna posta sulla cattedra. Poi egli mostro il bigliettino al signor Commissario governativo che gli stava a fianco e gli sussurrò qualche parola all'orecchio. Finalmente consegnò a me quel pezzo di carta affinché potessi leggervi co' miei proprii occhi il titolo del quesito.
— Vada alla tavola nera, — soggiunse il professore con una fregatina di mani.
Il candidato che mi aveva preceduto nell'ardua prova e che se l'era cavata alla meno peggio, usci dalla scuola in punta di piedi, e aprendo la porta fasciò entrare nell'aula una lunga striscia luminosa, in quella striscia luminosa che guizzò sulla parete e sul pavimento io ebbi la soddisfazione di veder la mia ombra.
La porta si richiuse e una mezza oscurità tornò ad avvolgere la stanza. Bisogna notare ch'era una giornata affannosa d'agosto e che le grosse tende di canovaccio bleu erano un debole riparo contro i raggi ardenti del sole, cosicché s'erano anche rabbattute le imposte. Il po' di luce che rimaneva, andava a concentrarsi sulla cattedra e sulla lavagna. Per rischiarare la mia disfatta ce n'era sempre abbastanza.
— Vada alla tavola nera e tracci la figura, — ripeté il professore Roveni che s'era accorto delle mie esitazioni.
Tracciar la figura era la sola cosa che sapevo, onde presi un pezzo di gesso e mi accinsi coscienziosamente all'opera. Non avevo fretta; quanto più tempo impiegavo in questa parte grafica, tanto meno ne restava per la parte orale.


Ma il professore non era uomo da secondare il mio innocente artifizio.
— Si spicci, — egli mi disse. — Non deve mica disegnare una Madonna di Raffaello.
Bisognò finire.
— Metta le lettere adesso.... Presto, non faccia un saggio di calligrafia. Perché scancella quel G?
— Per non confonderlo col C che ho fatto prima. Lo sostituisco con un H.
— Che delicato pensiero! — osservò il Roveni con la sua solita ironia. — Ha terminato?
— Sissignore. — E soggiunsi fra me e me: — Pur troppo.
— Via, perché sta lì incantato? Enunci il teorema.
Qui cominciavano le dolenti note. I veri termini del quesito mi erano sfuggiti di mente.
— In un triangolo, — cominciai balbettando.
— Avanti.
Mi feci coraggio e dissi quello che sapevo:
— In un triangolo... il quadrato dell'ipotenusa è uguale ai quadrati dei due cateti.
— In qualunque triangolo?
— No, no, — suggerì un'anima pietosa dietro a me.
— Nossignore, — diss'io.
— Si spieghi; in che triangolo?
— Un triangolo rettangolo. — sussurrò la voce di prima.
— In un triangolo rettangolo, — ripetei come un pappagallo.
— Silenzio lì di dietro, — urlò il professore.
E poi continuò rivolgendosi a me: — Sicché, secondo lei, quel quadrato grande è uguale a ciascheduno di quei quadrati piccoli?
Diamine, la cosa era assurda. Ma ebbi una buona ispirazione:
— Nossignore: a tutti e due uniti insieme.
— Alla somma, dunque; dica alla somma, e dica equivalente, non uguale. Adesso dimostri.
Io sudavo, ma ad onta del caldo tropicale, il mio sudore era gelato; guardavo inebetito il triangolo rettangolo, il quadrato dell'ipotenusa e i suoi due rampolli, passavo il gesso da una mano all'altra e non dicevo nulla per la gran ragione che non avevo nulla da dire.
Nessuno suggeriva più. Nell'aula si sarebbe sentita volare una mosca. Il professore Roveni fissava sopra di me i suoi occhietti grigi in cui brillava una gioia maligna, il signor Commissario governativo prendeva qualche appunto sopra un foglio di carta. A un tratto questo rispettabile personaggio si raschiò in gola e il professore Roveni disse nel modo più insinuante. — Ebbene?
Io non risposi.
Invece di rimandarmi addirittura pei fatti miei, il professore volle imitare il gatto che giuoca col sorcio prima di sbranarlo.
— Come? — egli soggiunse. — Forse ella cerca una soluzione nuova. Non dico che non si possa trovarla, ma noi altri ci contentiamo d'una delle vecchie. Andiamo; non si ricorda che deve prolungare i due lati DE e MF finché s'incontrino? Li prolunghi; coraggio!
Io feci macchinalmente quello che m'era indicato. La figura s'ingigantiva e mi pesava sullo stomaco come un masso ciclopico.
— Metta una lettera al punto d'incontro, un N. Cosi. E adesso?
lo restavo zitto.
— Non le pare necessario di abbassare una linea da N per A fino alla base del quadrato BHIC?
A me non pareva necessario niente affatto: nondimeno ubbidii.
— E poi dovrà ben prolungare anche i due lati BH e IC.
Auff! Non ne potevo più.
-- Ormai, — ripigliò il professore, — la dimostrazione la sa fare anche un bambino di due anni. Non ha nulla da osservare circa i due triangoli BAC e NAF?
Poiché tacendo non facevo che prolungare il mio supplizio, risposi laconicamente. — Nulla.
— In altri termini ella non sa proprio nulla?
— Mi pare che dovrebb'essersene accorto da un pezzo, — osservai con una calma degna di Socrate.
— Ma bravo, bravissimo; la prende su questo tono? E non sa nemmeno che il teorema di Pitagora è chiamato anche il ponte degli asinelli perché sono appunto gli asini quelli che non lo passano?... Se ne vada pure. Capisce bene che ha perduto l'esame. Cosi imparerà a leggere il Don Chisciotte o a disegnare dei gatti durante le mie lezioni.
Il Commissario governativo fiutò una presa di tabacco; io deposi il gesso e la cimossa, e uscii maestosamente dall'aula fra le risatine soffocate de' miei condiscepoli.
Tre quattro camerati che avevan già fatto l'esame con un successo poco più brillante del mio m'aspettavano fuori.
— Fiasco dunque?
Fiaschissimo, — risposi pavoneggiandomi con nobile orgoglio, E soggiunsi: — L'ho sempre detto che la matematica non è fatta che pegli sgobboni.
— S'intende, — esclamò uno de' miei emuli.
— E che quesito t'era toccato? — chiese un altro.
— Il teorema di Pitagora. che può importare a me che il quadrato dell'ipotenusa sia o non sia uguale alla somma dei quadrati de' due cateti? — Ma non può importare né a te, né a me, né a nessuno al mondo, — incalzò un terzo con la petulanza d'un ignorante di quattordici anni. — E poi, se è uguale, perché hanno bisogno di sentirselo a ripetere? E se non è, perché ci seccano?
— Credetelo pure, amici miei, — diss'io riassumendo la discussione con la prosopopea d'un uomo di grande
esperienza, — credetelo pure; tutto il sistema dell'istruzione è sbagliato, e finché ci saranno i Tedeschi l'andrà sempre così.
Persuasi che la nostra caduta fosse una protesta contro il dominio straniero e una prova d'ingegno vivace ed originale, ci avviammo a casa, ove per conto mio, lo confesso, sentii sbollire alquanto il primo entusiasmo.
Quell'esame così ignominiosamente perduto ebbe una grande influenza sul mio avvenire. Poiché non c'era verso ch'io capissi la matematica, si decise quel giorno stesso in famiglia di farmi interrompere il corso teorico. D'altra parte le mie condizioni domestiche non mi permettevano di ricominciar da capo gli studi in ginnasio. Bisognava assolutamente ch'io entrassi nella vita pratica, ch'io mi mettessi in grado di guadagnar presto qualche cosa.
Era il partito più ragionevole che si potesse prendere, e io non avevo alcun diritto di oppormivi; tuttavia, lo confesso, ne fui profondamente contristato. La mia avversione alle matematiche non si estendeva alle altre materie d'insegnamento nelle quali facevo anzi un discreto profitto; e poi amavo la scuola. Amavo i suoi chiostri severi che noi ragazzi empivamo di vita e d'allegria, amavo le sue panche di legno intagliate dai nostri temperini, amavo persino la sua tavola nera ch'era stata testimonio della mia irreparabile disfatta.
E me la prendevo col teorema di Pitagora. Con un altro quesito, chi sa? avrei potuto connettere qualche frase, avrei potuto uscirne pel rotto della cuffia, come negli anni scorsi. Ma doveva proprio capitarmi quello lì!
Me ne sognai tutta la notte. Vedevo sempre quel terribile quadrato con quel suo triangolo sovrapposto da cui sbocciavano, volgendo l'uno a destra l'altro a sinistra, due quadratini minori. Poi vedevo un intreccio di linee, una gran confusione di lettere maiuscole e sentivo martellarmi nella testa: BAC = NAF; RNAB=DEAB.

Ci volle un bel pezzo prima ch'io fossi liberato da questo incubo, prima che Pitagora e i suoi tre quadrati mi uscissero dalla mente. Alla lunga però, il tempo, che con la sua spugna scancella tante cose dal libro della memoria, vi aveva scancellato anche questa, quando poche settimane fa la malaugurata figura mi apparve inopinatamente in un quaderno di mio figlio.
-— Questa maledizione si trasmette dunque anche ai miei discendenti! — esclamai. — Povero ragazzo! E se anche a lui il teorema di Pitagora fosse fatale come fu fatale a me?
Volli interrogarlo al suo ritorno dalla scuola.
— Dunque, — incominciai con gravità, — siete già arrivati con la vostra geometria al teorema di Pitagora?
— Sì, babbo, — egli mi rispose con disinvoltura.
— Teorema difficile, — soggiunsi tentennando la testa.
— Ti pare? — egli chiese sorridendo.
— Vorresti far il gradasso e darmi a credere che a te par facile?
— Sicuro che mi par facile.
— Sarei curioso un po' di vederti alla prova, — mi scappò detto involontariamente. È inutile, io non posso soffrire le spacconate.
— Subito, — disse il baldanzoso giovinetto, E alle parole seguirono i fatti. Egli prese un foglio di carta e un lapis e tracciò rapidamente la cabalistica figura.
— In quanto a dimostrazioni, — egli ripigliò, — non c'è che l'imbarazzo della scelta. A te fa lo stesso l'una l'altra?
— Sì, — risposi macchinalmente. E infatti non poteva a meno di farmi lo stesso. Fossero state anche cento quelle dimostrazioni, ero certo che non ne avrei capita nessuna.
— Allora scegliamo quella ch'è più comune, — proseguì il mio matematico.
Ciò detto, egli abbassò e prolungò le linee che il professor Roveni di buona memoria mi aveva fatto abbassare e prolungare ventisett'anni prima, e con l'accento della più schietta convinzione si accinse a provarmi che il triangolo BAC era uguale al triangolo NAF, e che il rombo RHAB era come un pomo spartito col quadrato DEAB e che tante altre cose erano uguali fra loro, onde ne veniva di natural conseguenza che il quadrato BHIC era equivalente alla somma dei due quadrati CAFM e DEAB.
— E adesso, — disse mio figlio quand'ebbe terminato il suo sproloquio, — possiamo, se vuoi, arrivare all’identica conclusione per un'altra strada.
— Per carità! — esclamai atterrito. — Poiché siamo arrivati, riposiamoci dalle fatiche del viaggio.
— Ma io non sono punto stanco.
Nemmeno stanco! Quel ragazzo lì era dunque un Newton in erba! E si discorre del principio d'eredità!
— Suppongo che in matematica sarai il primo della classe, — io gli dissi compreso d'un certo timore riverenziale.
— No, no, — egli rispose. — Ce ne sono due che valgono meglio di me. E poi tu sai benissimo che ad eccezione degli asini, il teorema di Pitagora lo capiscono tutti.
Ad eccezione degli asini! Dopo ventisett'anni sentivo dalla bocca di mio figlio quasi le identiche parole che avevo sentite dal professor Roveni il giorno memorabile del mio esame. E questa volta c'era anche la feroce ironia del tu sai benissimo.
Volli salvare il decoro e soggiunsi in gran furia:
— Lo so, lo so. Avevo detto per ischerzo. Guai a insuperbirsi per così poco!
Ma intanto il mio Newton s'era pentito di quella sua sentenza troppo recisa.
— Del resto, — egli ripigliò con qualche imbarazzo, — ci sono di quelli che non istanno mai attenti, e allora... anche se non sono asini... sfido io...
Mi parve che mi fosse offerta una tavola di salvamento, e in uno slancio di sincerità:
— Dev'essere così, — dissi. — Non sarò mai stato attento.
— Come?... Tu? — proruppe il ragazzo arrossendo fino alla radice dei capelli. — Eppure scommetterei che, in fondo in fondo, egli aveva una gran voglia di ridere.
Io gli misi una mano sulla bocca:
— Zitto, non approfondiamo le indagini.
Ebbene, il teorema di Pitagora mi ha costato, come si vede, una nuova e gravissima umiliazione. Ad onta di ciò, io non gli serbo più l'antico rancore. Confidenza tra lui e me non ce ne sarà mai, ma io lo considero quale un amico di famiglia a cui non è lecito usare alcun sgarbo, nemmeno s'egli ci è personalmente antipatico.

Enrico Castelnuovo, SORRISI E LAGRIME. Nuovi Racconti, Terza edizione. Milano, Fratelli Treves Editori, 1886

Nessun commento:

Posta un commento