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martedì 6 settembre 2011

Perché di notte il cielo è buio?


Appena poche settimane dopo la stampa del Sidereus nuncius di Galileo, Keplero aveva già esaminato l’opera, che aveva ricevuto l'8 aprile 1610 dal poeta scozzese Thomas Seggett, amico di Galileo all'Università di Padova. Il 19 aprile, Keplero, senza nemmeno aver potuto verificare le scoperte annunziate nel libro, inoltrò allo scienziato italiano, tramite l'ambasciatore di Toscana, una lunga lettera di approvazione e commento. Essa fu poi pubblicata a Praga nei primi giorni di maggio del 1610, con notevoli varianti ed ampliamenti, con il titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo (un’edizione apparve a Firenze nello stesso anno, forse per interessamento dello stesso Galileo). Nella sua ampollosa prosa latina, assai diversa da quella elegante di Galileo, il polacco tedesco pose per primo, tra le quaranta pagine della sua lettera, una domanda apparentemente banale, soprattutto in quei tempi senza inquinamento luminoso: “Perché il cielo notturno è buio?”. Egli sapeva che la risposta altrettanto banale, e cioè “Perché di notte non c’è la luce del Sole” non è scontata.

Keplero era un convinto assertore della finitezza dell’universo. Egli utilizzò la domanda come argomento contro l’idea di un universo infinito con un numero infinito di stelle. Se l’universo fosse pieno di stelle come il nostro Sole e si estendesse senza fine, allora, sosteneva, “l’intera volta celeste sarebbe luminosa come il Sole (…) questo nostro mondo non appartiene a uno sciame indifferenziato di innumerevoli altri”. Se le stelle fossero infinite e disposte in ogni punto della volta celeste, allora il nostro sguardo dovrebbe incontrare in ogni caso le loro luci, sia di giorno che di notte.

L’osservazione di Keplero fu ripresa e discussa quando, verso la fine del XVII secolo, Newton espose il suo modello di universo infinito. Edmund Halley, amico e mentore di Newton, affrontò il problema in due brevi articoli pubblicati nel 1721. Nel primo, On the Infinity of the sphere of fix’d stars, sosteneva che solo un cosmo infinito poteva rimanere in equilibrio senza collassare a causa della gravità. Riguardo all’oscurità della notte, tentò di dare una risposta dicendo che la luminosità apparente di una stella è proporzionale al reciproco del quadrato della sua distanza: dimezzando la distanza di una stella, la sua luminosità apparente si quadruplica. Attraverso un “calcolo banale” trovò che la distanza angolare tra le stelle è proporzionale al reciproco della distanza: dimezzando la distanza delle stelle, si raddoppia la loro separazione apparente. Tutto corretto finché Halley si riferiva alla distanza angolare tra stelle uniformemente distribuite, ma tutto sbagliato quando deduceva che la differenza tra i due effetti (diminuzione della luminosità apparente in ragione del quadrato della distanza e diminuzione della distanza angolare in ragione della distanza) poteva spiegare l’oscurità del cielo. Forse rendendosi conto che l’argomentazione era poco chiara, Halley scrisse il secondo articolo, Of the number, order and light of the fix’d stars, offrendo la spiegazione alternativa che la luce delle stelle più lontane è così fioca da non poter contribuire all’illuminazione complessiva del cielo. Anche questa spiegazione di Halley tuttavia non regge a una semplice considerazione fisica: la luminosità d'irraggiamento, in un cosmo omogeneo e perfettamente trasparente, dipende esclusivamente dalla densità dei punti (le stelle) e dalla loro luminosità assoluta, non dalla loro distanza.


La questione fu riproposta nel 1744 anche dall’astronomo svizzero Jean-Philippe de Cheseaux, in una delle appendici al suo Traité de la Cométe, relativo alle osservazioni della cometa comparsa tra il dicembre 1743 e il marzo successivo. Il giovane astronomo, morto a soli 31anni nel 1751, calcolò che, assumendo per semplicità che le stelle abbiano tutte la stessa luminosità del Sole, sommando tutti i contributi per le infinite sfere concentriche di un universo infinitamente esteso, e considerando che la volta celeste è circa 180.000 volte più ampia che il disco solare apparente, si otterrebbe addirittura che la luce totale incidente sulla Terra dovrebbe essere almeno 90mila volte più intensa di quella solare, il che non è certo ciò che si osserva.

La domanda di Keplero prende oggi il nome di “Paradosso di Olbers”, dal nome dell’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers, che lo espose nel 1826, anche se egli, come si è visto, non fu affatto il primo ad enunciarlo. La sua domanda “come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l'infinità di stelle presenti nell'universo?” supponeva alcune caratteristiche dell’universo che la cosmologia del suo tempo, sulla scorta del sistema di Newton, dava per scontate: l’universo è infinito (la sua estensione spaziale non ha limiti), eterno (esiste da sempre), immutabile (non si evolve e non si è evoluto verso condizioni differenti da quelle che osserviamo), omogeneo e isotropo (in esso le stelle sono distribuite più o meno uniformemente). Dato che le stelle sono distribuite in modo uniforme e sono in numero infinito, la loro luce dovrebbe brillare in tutto il cielo, rendendo indistinguibile persino la luce del Sole. Olbers, come Cheseaux e altri prima di lui, pensava che una qualche forma di polvere o gas interstellare intercettasse la luce delle stelle prima del suo arrivo sul nostro pianeta, ma ignorava che l’energia assorbita dalle particelle di materia le avrebbe in questo caso scaldate fino a renderle a loro volta incandescenti e sorgenti di energia radiante, magari di lunghezza d’onda differente. Insomma, il paradosso di Olbers era una sfida per l’infinità, l’immutabilità e l’omogeneità dell’universo.

Fu proprio l’omogeneità dell’universo la prima qualità che fu messa in discussione. Il progredire delle tecniche di osservazione mise in luce che le stelle non sono distribuite in modo uniforme, ma appartengono a sistemi che oggi sappiamo essere le galassie, che a loro volta possono appartenere a sistemi più grandi, come era già stato intuito da Kant. Nel 1848 William Herschel, recensendo il volume Kosmos di Alexander Von Humboldt, accennò alla possibilità di una struttura gerarchica dei corpi celesti come possibile soluzione al paradosso del cielo notturno. Anche se le stelle sono infinite non necessariamente il cielo deve essere luminoso in ogni punto nel modo prospettato da Olbers. La disposizione disomogenea dei corpi celesti lascia grandi spazi vuoti che noi vediamo bui.

Curiosamente, una moderna soluzione del paradosso non fu proposta da uno scienziato, ma da uno scrittore che aveva dichiarato di non amare la scienza, pur avendo una discreta conoscenza dell'astronomia della sua epoca. Nel 1848, infatti, Edgar Allan Poe pubblicò Eureka, visionario, metafisico e stravagante “poema in prosa” in cui abbondano riferimenti diretti e indiretti alle opere di alcuni tra i principali astronomi del XIX secolo (l’opera è dedicata proprio ad Alexander Von Humboldt). Poe attribuiva la nascita dell'universo alla frammentazione di una particella primitiva; una volta esauritasi l'azione della forza repulsiva iniziale, gli atomi diffusi nello spazio avrebbero cominciato ad attrarsi reciprocamente e a formare le stelle e i sistemi stellari. L'insieme di questi sistemi stellari, ciascuno dei quali è, in termini moderni, una galassia, sarebbe destinato a collassare in futuro a causa della gravità e a tornare all'unità primordiale, in una sorta di “respiro di Dio”, alternarsi di espansione e contrazione. Egli giudicava “insostenibile e tuttavia così pertinacemente seguita” l’idea che l’universo sia illimitato, e che “l’osservazione ci dimostra che c’è certamente, in numerose direzioni attorno a noi se non in tutte, un limite positivo, o, almeno, non ci fornisce alcuna prova per pensare altrimenti”. Proseguiva poi con il periodo che più ci interessa, illustrando il paradosso di Olbers e proponendo una sua spiegazione davvero anticipatoria: “Se la successione delle stelle fosse senza fine, allora il fondo del cielo si presenterebbe come una luminosità uniforme, come quella mostrata dalla Galassia [la Via Lattea, ndr], dato che non ci sarebbe assolutamente alcun punto, in tutto il cielo, nel quale non esisterebbe una stella. La sola maniera, perciò, con la quale, in questo stato di cose, potremmo comprendere i vuoti che i nostri telescopi trovano in innumerevoli direzioni, sarebbe supporre che la distanza del fondo invisibile sia così immensa che nessun raggio proveniente da esso ha potuto finora raggiungerci”. L’universo non è eterno, non è infinito, i corpi celesti si evolvono e la luce delle stelle più lontane non ha ancora avuto il tempo di raggiungere la Terra: quasi profetico, se non ci fosse il sospetto che sia casuale.

In effetti, William Thompson, Lord Kelvin, nel 1901 analizzò dal punto di vista quantitativo il legame tra la parte di cielo coperta di stelle e la sua luminosità relativa, concludendo che per avere un cielo continuamente brillante come la superficie del Sole, sarebbe necessario considerare tutta la luminosità stellare fino una distanza talmente elevata da non poter essere stata percorsa dalla luce, che viaggia a una velocità finita.

I calcoli più recenti, effettuati dal cosmologo americano Edward Harrison nel 1964, hanno confermato la sostanziale validità del ragionamento di Kelvin (e di Poe): gli oggetti più lontani distano da noi circa 13,7 miliardi di anni-luce (è l’età del Big-Bang), mentre un cielo completamente luminoso richiederebbe l’apporto della radiazione di tutti gli oggetti celesti fino a 3 milioni di miliardi di anni-luce di distanza! Ciò significa che se anche tutta la materia presente nell’universo si trasformasse in energia secondo la relazione di Einstein, il cielo notturno sarebbe solo un po’ più luminoso di quanto appare oggi. Il fatto che l’universo si espande, e l’energia che ci arriva delle galassie e dalle loro stelle è sensibilmente indebolita dal redshift man mano che la loro distanza aumenta, contribuisce in modo poco significativo al buio notturno.

La realtà è che l’universo è troppo giovane e non contiene abbastanza materia-energia per illuminare il cielo anche di notte.


13 commenti:

  1. Io avrei un po' più di fiducia nelle intuizioni anche se casuali (o forse non solo casuali) degli artisti, anche se pochi scienziati hanno l'umiltà di prenderle in considerazione. Non si sa se questo impedisca qualche scoperta o la ritardi solo, di certo impedisce l'accordo tra le due culture. Bell'esempio di storia della scienza.

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    1. scommetto che tu, paopasc, ti definisci e ti senti "un artista"...

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  2. Solo una piccola osservazione, assolutamente marginale: Kepler è tedesco, non polacco, nato a Weil der Stadt, Stuttgard.

    Poi sull'argomento c'è il meraviglioso libro di A. Balbi, Il buio oltre le stelle. Fondamentale.

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  3. Possente la metafora di Poe sul "respiro di Dio". Il cielo di notte è buio affinché lo spettacolo delle stelle possa sempre ricordare all'uomo di non essere al centro dell'universo. Naturalmente, non essendo l'uomo al centro dell'universo, lo spettacolo delle stelle gli è visibile del tutto casualmente e nell'indifferenza cosmica generale.

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  4. Popinga, quando tu hai detto che il sole non c'entra niente, io già mi ero persa e non c'avevo capito niente, e allora ho cercato.
    Ho trovato questo, qui = http://ulisse.sissa.it/chiediAUlisse/domanda/2006/Ucau060729d001

    Per essere precisi, dobbiamo considerare che il cielo è scuro anche di giorno, quando viene osservato al di fuori dell'atmosfera terrestre. Di giorno, infatti, l'atmosfera diffonde in tutte le direzioni la luce del Sole che la colpisce e questo rende il cielo luminoso, mentre di notte l'atmosfera non viene illuminata dal Sole ed il cielo appare scuro. Gli astronauti in orbita intorno alla Terra fuori atmosfera non sono però interessati da questo effetto e vedono sempre il cielo scuro.
    Quindi la domanda di fondo corretta è: "Perché il cielo è scuro?"

    In effetti, io avevo sempre immaginato gli astronauti "in gita" di notte e i ricordi dei loro viaggi per me erano sempre al buio, "notturni", infatti. Io non ci avevo proprio mai pensato, che ovviamente loro fanno gite intorno a noi anche di giorno, è che per loro è sempre "notte", è sempre buio.
    Insomma, nello spazio non ci si abbronza mai! Scusa che ho scritto delle stupidate, ma è che sono gli ultimi giorni che mi sento leggermente sciarmant(e) per via dell'amica melanina, ecco. Tutta me stessa mi appare benino sai: sarà proprio una questione di...atmosfera.
    E comunque ho riflettuto sul tuo finale: io sto accumulando tanta di quella materia/energia, che mi sto trasformando in una torcia umana, altro che Donna Invisibile! (non azzecco mai il personaggio giusto).

    B

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    1. il paradosso del buio cielo notturno è estendibile, per renderti chiaro di cosa si tratta, se lo chiamiamo: "il paradosso del cielo nero al di fuori dell'atmosfera: esso dovrebbe essere ampiamente e diffusamente e omogeneamente illuminato, vista l'infinità di stelle etc etc"
      ciao,
      Giorgio Labarbuta

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  5. Finalmente, Popinga!
    Finalmente qualcuno ha il coraggio di affermare che questo sgomentante universo che ci circonda è in verità giovane, piccolo e vuoto!
    Finalmente possiamo rivalutare quel chilo e mezzo di roba che sta dietro i nostri occhi.

    Hai mai letto “Imagine” di Frederic Brown?
    …....................
    Imagine ghosts, gods and devils.
    Imagine hells and heavens, cities floating in the sky and cities sunken in the sea.
    Unicorns and centaurs. Witches, warlocks, jinns and banshees.
    Angels and harpies. Charms and incantations. Elementals, familiars, demons.
    Easy to imagine, all of those things: mankind has been imagining them for thousands of years.

    Imagine spaceships and the future.
    Easy to imagine: the future is really coming and there'll be spaceships in it.

    Is there then anything that's hard to imagine?
    Of course there is.

    Imagine a piece of matter and yourself inside it, yourself aware, thinking and therefore knowing you exist, able to move that piece of matter that you are in, to make it sleep or wake, make love or walk uphill.
    Imagine a universe - infinite or not, as you wish to picture it - with a billion, billion, billion suns in it.
    Imagine a blob of mud whirling madly around one of those suns.
    Imagine yourself standing on that blob of mud, whirling with it, whirling through time and space to an unknown destination.

    Imagine! Fredric Brown (1955)
    …...........................................
    Siccome mastico male l'inglese lo lessi la prima volta mezzo secolo fa nella traduzione di Fruttero e Lucentini (e ancora lo ricordo rabbrividendo) nella seconda edizione di “Le meraviglie del possibile. Il secondo libro della fantascienza”.

    Grazie per questo post e grazie per averlo chiuso con l'austera malinconia di Magritte.

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  6. Un +1 al Dentista di Provincia

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  7. E meno male che l'universo é così giovane e non illumina il cielo anche di notte, altrimenti non avrebbe avuto alcun senso ascoltare Chet Baker...

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  8. Anonymous, il tuo commento sembra una citazione di Rayuela (Il gioco del mondo), il capolavoro di Julio Cortàzar!

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  9. Grazie Marco, non lo conoscevo e cercherò di procurarmene una copia :))

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  10. Non capisco come non regga la spiegazione che stelle molto lontane non abbiano sufficiente energia di irraggiamento per raggiungerci. Altrimenti perché la NASA manderebbe telescopi nello spazio per osservare stelle troppo deboli da essere osservate dalla terra?

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