Nella raccolta di testi per l'infanzia When We Were Very Young (1924) di Alan Alexander Milne (1882-1956), famosa perché vi fece la sua prima comparsa il tenero orsetto Winnie the Pooh e per essere stata splendidamente illustrata dal talentuoso artista Ernest Howard Shepard, era contenuta la seguente poesia dalla bella sonorità:
The Three Foxes
Once upon a time there were three little foxes
Who didn’t wear stockings, and they didn’t wear sockses,
But they all had handkerchiefs to blow their noses,
And they kept their handkerchiefs in cardboard boxes.
And they lived in forest in three little houses,
And they didn’t wear coats, and they didn’t wear trousies.
They ran through the woods on their little bare tootsies,
And they played “Touch Last” with a family of mouses.
They didn’t go shopping in the High Street shopses,
But caught what they wanted in the woods and copses.
They all went fishing, and they caught three wormses,
They went out hunting, and they caught three wopses.
They went to a Fair, and they all won prizes −
Tree plum-puddingses and three mince-pieses.
They rode on elephants and swang on swingses,
And hit three coco-nuts at coco-nut shieses.
That’s all I know of three little foxes
Who kept their handkerchiefs in three little boxes.
They lived in the forest in three little houses,
But they didn’t wear coats and they didn’t wear trousies,
And they didn’t wear stockings and they didn’t wear sockses.
Questa è la traduzione letterale che ne dà Guido Almansi in L’estetica dell’osceno (Einaudi, 1974), tranne le quartine tra parentesi, che si è dimenticato e che ho tradotto io. Almansi sottolinea la funzione fondamentale dei plurali neologistici sockses per socks, trousies per trousers, mouses per mice, shopses per shops, wopses probabilmente per wasps, plum-puddingses per plum-puddings, mince-pieses per mince-pies, swingses per swings, shieses per shies, tutti nati per analogia fonetica con l’iniziale foxes:
C’erano una volta tre piccole volpi
che non adoperavano né calze né calzini,
ma tutte e tre avevano i loro fazzoletti per soffiarsi il naso,
e quei fazzoletti li tenevano in scatole di cartone.
[E vivevano nella foresta in tre piccole case,
e non indossavano né giacche né pantaloni.
Esse correvano tra i boschi sui loro piccoli piedini nudi
e giocavano a “Ce l’hai” con una famiglia di topi.]
Non andavano a fare le compere nei negozi del Corso,
ma prendevano ciò che volevano nelle foreste e nei boschetti.
Andarono tutte a pesca e presero tre vermi,
andarono tutte a caccia e presero tre vespe.
Andarono al Luna-Park, e vinsero tutte dei premi –
tre budini di prugne e tre pasticci canditi.
Salirono in groppa agli elefanti e dondolarono sulle altalene
e colpirono tre noci di cocco al baraccone del tiro a segno.
[È tutto ciò che so delle tre piccole volpi
che tenevano i loro fazzoletti in tre piccole scatole.
Vivevano nella foresta in tre piccole case,
ma non indossavano né giacche né pantaloni,
e non adoperavano né calze né calzini.]
La bella poesia per bambini di A. A. Milne costituisce, secondo Almansi, un esempio della tendenza della letteratura verso il maccheronico, cioè verso una lingua che abbia significato solo all’interno di un dato testo letterario: il testo comprende in sé sia il messaggio che il codice in cui il messaggio è trasmesso. “Il primo plurale stravagante, sockses, suggerito dalla rima, porta con sé nel testo della poesia tutto un sistema morfologico nuovo che si sovrappone alla lingua originaria, creando un modello di linguaggio maccheronico perfettamente autosufficiente e valido entro i limiti tipografici e semantici del testo”.
D’altra parte, la lingua di uno scrittore è sempre un atto di trasgressione. La sola cosa che può fare uno scrittore è distruggere la lingua esistente e ricrearla di nuovo. Solo i mediocri scrittori scrivono in italiano o in inglese: Sterne scrive in sternese, Stendhal in stendhalese, e persino l’”onestissimo” Manzoni ha scritto i Promessi Sposi in una lingua che non esisteva al di fuori del testo. Anche senza essere un rivoluzionario della lingua come Rabelais o Joyce, il bravo scrittore attua una ri-creazione e, perché no, una ricreazione della lingua che usa nel testo. Camilleri, aggiungo io, scrive in camillerese (che non è il siciliano!), una lingua che è difficile immaginare al di fuori di opere come ad esempio La scomparsa di Patò. Il più bell’album di De André non è in genovese, ma in una lingua inventata che del genovese conserva le sonorità e solo parte del lessico, ma amplia in modo sostanziale le capacità espressive.
Dante e Shakespeare hanno avuto la grande fortuna di nascere al momento giusto.
RispondiEliminaCome Mozart, cosa ci vuole a rifare tutto quello che ha fatto lui? (No, non sono geloso, per esempio adesso lo sto ascoltando).