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martedì 22 maggio 2012

Sapere e agire: il Dizionario dell’ambiente


Ho trasferito con lo scanner la copertina della mia copia originale, segnata dal tempo e dall’uso. Questo libro ha infatti 32 anni, e per molti aspetti li dimostra anche nei contenuti, ma posso proprio dire che ha segnato la mia visione della scienza e del suo ruolo nella società. 

Era il 1980, alla conclusione di un decennio contraddittorio e confuso, segnato dalle stragi di Stato e dal terrorismo, ma anche da grandi conquiste nel campo dei diritti civili e dei lavoratori. Un decennio in cui si sviluppò finalmente anche in Italia una generale presa di coscienza dei problemi legati all’ambiente, alla gestione del territorio, all’igiene e alla sicurezza sui luoghi di lavoro. 

Il mio percorso di maturazione in quegli anni è segnato da letture e avvenimenti. Ne elenco alcuni, andando a memoria, magari con qualche errore cronologico: il rapporto del Club di Roma sui Limiti dello Sviluppo, letto quando ancora ero al Liceo, la crisi energetica del 1973 e l’inverno delle domeniche a piedi, la scelta di iscrivermi a Scienze Geologiche nell’illusione che a breve ci sarebbe stato un interesse pubblico per la difesa del territorio e la prevenzione delle catastrofi naturali (e infatti ho finito per fare l’insegnante), il terremoto del Friuli nel maggio 1976, il disastro dell’ICMESA a Seveso nel luglio successivo, la lettura de L’imbroglio ecologico di Dario Paccino (uscito nel 1971, ma conobbi il libro solo qualche anno più tardi), che metteva in guardia in chiave marxista dagli eccessi e le ingenuità di un certo ambientalismo che si sarebbero puntualmente verificati in seguito, l’incidente alla centrale americana di Three Miles Island (1979) e la nascita del movimento contro il nucleare civile. Insomma, scienza e ambiente, ma anche voglia di partecipare attivamente alla società, pensando globalmente e agendo localmente prima che queste parole diventassero un famoso slogan. 


Comprare il Dizionario dell’ambiente (Editori Riuniti), curato da Roberto Boltri e Antonio Levy, e spendere le diecimila lire che costava nei primi mesi dell’81 fu una scelta direi quasi inevitabile e ampiamente vantaggiosa. Il testo era concepito come un manuale di divulgazione e di intervento, con 135 voci riguardanti l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, i luoghi di lavoro, l’assetto idrogeologico e la gestione del territorio, l’alimentazione, i problemi demografici, l’energia. Per la sua natura interdisciplinare, il Dizionario fu compilato da una ventina di specialisti provenienti dal mondo dell’università e della ricerca pubblica e privata. Lo scopo degli autori era quello di fornire strumenti di conoscenza scientifici e normativi affinché il lettore potesse intervenire con una certa competenza all’interno del proprio territorio, dei luoghi di lavoro, nelle associazioni, nel sindacato, nelle amministrazioni pubbliche, ovunque se ne ravvisasse la necessità. Il linguaggio scientificamente rigoroso e tuttavia semplice risultava comprensibile anche a chi non possedeva una grande cultura scientifica; il gioco dei rimandi tipico di un’opera a carattere enciclopedico favoriva gli approfondimenti e anticipava la struttura degli ipertesti. 

Meglio delle mie parole possono valere quelle dell’introduzione firmata dai due curatori, di cui riporto la prima parte: 

Da alcuni anni anche nel nostro paese si stanno sviluppando un interesse ed una partecipazione crescenti attorno ai problemi della tutela ambientale e dell'uso delle risorse; interesse e partecipazione che possono avere motivazioni e finalità diverse: esigenze professionali, necessità di espletare con competenza ruoli amministrativi, desiderio di dare risposte pertinenti a «curiosità» scientifiche, o anche di uniformarsi a mode culturali, nelle quali non di rado rischia di cadere la questione ambientale attraverso i mass-media. Tuttavia, sottesa a ciascuna di tali motivazioni, crediamo prevalga la convinzione che nel rapporto uomo-ambiente si manifestino le tensioni e le contraddizioni di un sistema economico che non ha esitato a stravolgere equilibri ambientali ed a sacrificare i diritti degli uomini in nome delle regole dell'accumulazione e del profitto individuali. 

La crisi energetica ha bruscamente destato la consapevolezza che le fonti tradizionali di energia (principalmente il petrolio) sono esauribili, e che quindi, da una parte, il loro sfruttamento non può essere attuato senza criteri di programmazione e di risparmio, e che, dall'altra, è necessario ed urgente sviluppare tecnologie in grado di utilizzare fonti alternative, che diano garanzie di sicurezza e di durata. Le tensioni internazionali; gli squilibri drammatici – in termini di reddito pro–capite (quando non addirittura della stessa possibilità di sopravvivenza) – tra paesi ad alto sviluppo industriale e paesi del cosiddetto Terzo mondo, produttori di ricchezze immense delle quali non godono il frutto; i ricorrenti eventi bellici nello scenario mediorientale, rivelano il nesso che intercorre tra sviluppo economico e industriale, disponibilità e utilizzazione di tecnologie e di risorse, e cooperazione tra i popoli. I legami tra processi demografici e programmazione urbanistica e territoriale; tra questi e l'uso produttivo del suolo in agricoltura ed il dissesto idrogeologico; tra l'impiego dei fertilizzanti e dei biocidi per le esigenze alimentari ed i fenomeni di inquinamento del suolo e delle acque, dovuti all'impiego di tali prodotti, sono ulteriori esempi delle strette relazioni esistenti tra attività umane, assetto ambientale, salute ed uso delle risorse. Alle tematiche dell'ambiente da molte parti si guarda con ottica del tutto differente. Ci riferiamo ad alcune proposte culturali, alle attese millenaristiche, ad un irrazionalismo emergente, tesi a leggere i fenomeni del degrado ambientale in chiave catastrofica, per cui irreale e velleitario risulterebbe ogni tentativo di intervento, e non resterebbe che l'attesa passiva del precipitare degli eventi, insistendo nell'attuale sfruttamento delle risorse e consentendo il permanere di già consolidati rapporti di dominio. Crediamo, viceversa, che oggi sia tempo di battersi contro due opposte tendenze, ambedue mistificanti e conservatrici: quella di una scienza totalizzante, che tutto risolve ed a tutto pone rimedio, in un processo auto-esaltante di interventi tecnologicamente raffinati, che ripropone la cultura dello spreco e della rapina delle risorse; e quella di una «natura» incontaminata, sede del Bene e della Libertà, che l'uomo e la sua scienza avrebbero irrimediabilmente intaccato, sicché l'unica arma in suo possesso — e cioè l'utilizzazione delle facoltà conoscitive — si rivolterebbe oggi contro di lui. (…)

Attraverso le lotte operaie per la tutela della salute negli ambienti di lavoro, per la prevenzione degli infortuni e per la riduzione dei rischi, si sta superando il concetto di monetarizzazione della salute ed è rifiutato il ruolo del lavoratore subalterno alla produzione e al profitto; è cresciuta la consapevolezza che le società umane si possano evolvere senza distruggere gli ambienti naturali e le risorse, non senza profondi mutamenti nei rapporti tra i popoli e l'innalzamento del livello di vita dei paesi emergenti. 


Gli interessi dell'intera collettività, considerati non soltanto nel breve periodo, ma estesi anche alle necessità delle generazioni future, devono essere difesi dalla classe lavoratrice, che più drammaticamente ha pagato e paga i costi collettivi e le conseguenze del degrado ambientale.

La classe lavoratrice dovrà perfezionare un progetto per l'ambiente, che scaturisca da un dibattito democratico, sensibile alle diverse esigenze e proposte ed in grado di superare ostacoli e contraddizioni; dovrà inoltre ampliare la propria cultura in materia ambientale, così da individuare i necessari livelli di gradualità, mediante i quali governare la trasformazione, e intrattenere con la scienza e la tecnologia un rapporto né subalterno né caratterizzato da una adesione acritica a miti neopositivistici. 

Scienza e tecnologia pongono già a disposizione strumenti e metodologie validi; hanno indicato ed indicano errori ancora reversibili; utilizzano indagini previsionali attendibili, ma le generazioni presenti devono essere garanti della scelta di indirizzi positivi. Tali considerazioni hanno condotto alla realizzazione di questo dizionario, assieme alla convinzione della necessità di tentare una sintesi delle problematiche diverse e delle discipline eterogenee, ed alla constatazione che un crescente numero di giovani, di lavoratori e strati sempre più ampi di popolazione, manifestano l'esigenza di appropriarsi degli strumenti conoscitivi riguardanti le tematiche ambientali. Il dizionario è quindi rivolto principalmente ai giovani, agli operatori delle strutture dell'igiene e della sanità pubblica ed agli amministratori degli enti locali, chiamati ad affrontare e risolvere i problemi ambientali. Certamente esso non costituisce un binario per specifiche scelte politiche; ci auguriamo tuttavia che rappresenti una guida ed uno strumento di consultazione — anche se in alcuni casi di carattere generale — per coloro che non possiedono una preparazione tecnica specialistica. 


Come si può leggere, molte idee degli autori sono state smentite dalla storia di questi trent’anni, anche perché molte cose non potevano essere previste. Ci sono state alcune grandi conquiste, come i due referendum sul nucleare e quello sull’acqua pubblica, il progredire di una legislazione e di una mentalità che hanno portato a sentenze esemplari come quella recentissima sulla Eternit di Casale Monferrato, ma accanto ad esse, il numero degli incidenti sul lavoro ha continuato a essere insostenibile e quotidianamente aggiornato, le condizioni di lavoro, dove il lavoro ancora c’è, sono in molti casi peggiorate (penso alla FIAT come caso esemplare), i casi di inquinamento sono ancora troppi (Taranto, Priolo, ecc.), lo scempio del territorio è continuato, con frane e alluvioni che continuano a far danni come un tempo, e strutture come la Protezione Civile, nate per aumentare la rapidità e l’efficacia degli interventi, si sono rivelate squallidi strumenti di malaffare, o, peggio, per aggirare il controllo democratico sulle decisioni e sulle spese, come è avvenuto per il G8 a La Maddalena o dopo il terremoto de L’Aquila. Molto ancora c’è da fare. 

Una delle mie principali preoccupazioni è che libri come il Dizionario dell’ambiente non se ne fanno più.

8 commenti:

  1. Per inciso: sbaglio o quella in copertina è la diga del Vajont?
    Saluti,
    Mauro.

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  2. Sì, Mauro, proprio lei, l'esempio più lampante della bestialità del profitto a tutti i costi e il punto più basso mai raggiunto dalla geologia italiana.

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  3. I geologi italiani godono di una certa fama in certi ambienti. Come tante altre categorie, del resto.
    Ma non bisogna mai generalizzare: pensa te che Zikikki è un fisico e Beppe Grillo non è un comico.

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  4. Letto anch'io nell'81 (più o meno uno), via Celoria 2, Università di Agraria (coniugava la sensibilità verso l'ambiente ad una frenesia operativa già vetero-leninista, infatti ho finito per fare l'insegnante), Geologia stava giusto lì dietro, ci saremo incrociati ?

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  5. Antonello: io ho finito nel 1979. In piazzale Gorini c'ero praticamente tutti i giorni. Forse ci siamo solo sfiorati.

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  6. @Juhan
    Non parlarmi di Zikikki, per favore... che sono fisico anch'io :(

    @Popinga
    Il Vajont è stato uno dei punti più bassi della geologia italiana, vero, ma "purtroppo" anche uno dei più alti dell'ingegneria... mi spiego meglio: se la diga fosse stata costruita un po' meno stabile e avesse ceduto (invece di rimanere intatta) la valanga d'acqua sarebbe scesa più lentamente e avrebbe dato più possibilità d'evacuazione.
    Il Vajont è un delitto legale e morale, ma temo che gli unici che abbiano sentito sensi di colpa siano stati gli unici che di fatto non hanno colpe (cioè gli ingegneri che hanno calcolato la statica della diga).

    Saluti,

    Mauro.

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  7. "... la scelta di iscrivermi a Scienze Geologiche nell’illusione che a breve ci sarebbe stato un interesse pubblico per la difesa del territorio e la prevenzione delle catastrofi naturali (e infatti ho finito per fare l’insegnante)".

    Magari nel contesto in cui ci troviamo a vivere fare gli insegnanti è tutto sommato più utile che fare propriamente il geologo, il chimico, il fisico, il biologo. Forse non avremmo potuto essere davvero incisivi in un paese in cui occorre necessariamente avere agganci ad alti livelli per vincere qualche gara, o per fare da consulente a un politico che davvero abbia a cuore l'ambiente. Le cose non vanno sempre male semplicemente perché ogni tanto esiste un raccomandato valido e capace che si muove con una certa prudenza, senza fare grossi danni, e ogni tanto ottiene qualche buon risultato. Ogni tanto. Per il resto, è deprimente. Insomma, credo che se avessi fatto il chimico sarei finita all'ARPA a fare analisi ambientali (che non è male come lavoro, beninteso), ma probabilmente mi sarei annoiata e non avrei avuto il minimo raggio d'azione nel risolvere i problemi piccoli e grandi relativi all'ambiente. Non che da insegnante questo raggio d'azione lo senta..... ma mi anima sempre l'illusione che possa incidere su qualcuno con le mie parole, mi dà l'illusione di essere una pedina attiva del cambiamento senza subirlo e basta. Anche perché ci sono altre attività lavorative al di fuori della scuola o di un laboratorio di analisi pubblico, che non ti lasciano neanche il tempo di pensare, figurarsi di nutrire la speranza di cambiare qualcosa o qualcuno nel verso secondo te giusto. L'idealismo è qualcosa che uno ha dentro a prescindere dalla propria professione, e tante volte le parole scritte o dette sono più incisive di tanti piccoli fatti. Pensa a "Primavera silenziosa". Insomma, tutto questo per dire che non siamo "finiti a fare gli insegnanti", perché sotto sotto lo abbiamo scelto. Ognuno sceglie, in un modo o nell'altro. E ogni scelta, anche quella di fare il geologo, implica una rinuncia. Ciao e complimenti per questo bel blog, Teresa

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