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martedì 24 settembre 2013

I numeri nella Piccola cosmogonia portatile

Pubblicata nel 1950, la Petite cosmogonie portative di Raymond Queneau fu un ambizioso tentativo di risvegliare il genere da lungo tempo assopito della cosmogonia in versi, introducendo le più recenti scoperte scientifiche del tempo e impiegando uno stile ludico e surreale caratterizzato da numerosi giochi di parole, calembour, argot, bisticci verbali e fonetici. 

Come dichiara il titolo, l’opera è una cosmogonia, cioè un racconto delle origini dell’universo e della sua storia, dalle origini secondo le teorie cosmogoniche più recenti, fino all'invenzione dei computer. L’ossimoro è evidente: il nome cosmogonia implica un intento totalizzante che è contraddetto dagli aggettivi piccola e portatile. Si tratta in effetti di un’ironica presa di distanze, in quanto il poeta si mostra piuttosto scettico sulla sua impresa: nell'epoca della specializzazione delle ricerche e della frammentazione dei saperi, ogni velleità di spiegazione universale deve essere interpretata in modo parodistico e beffardo. Inoltre, per quanto l’opera non sia breve per gli standard contemporanei, i suoi 1388 versi non raggiungono la lunghezza di un singolo canto del suo grande precursore, il De Rerum Natura di Lucrezio. L’opera del poeta latino è presente in tutto il poema di Queneau, che la indica costantemente come fonte d’ispirazione, sia in forma esplicita, sia in forma implicita e irriverente, come nella parodia che fa dell’invocazione a Venere, dove l’incipit lucreziano “Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas” diventa “Aimable banditrix des hommes volupté”. Ma Lucrezio non è il solo riferimento, in quanto Queneau dichiarava di rifarsi a quella corrente minoritaria e tuttavia antichissima di poesia scientifica che, partendo dai presocratici come Senofane ed Empedocle, ha lasciato traccia di sé in tutte le letterature europee, seppure con alterna fortuna. 

La struttura scelta da Queneau è quella dell’hexameron, poema cosmogonico di antica tradizione suddiviso in sei canti, ciascuno dei quali preceduto da una presentazione sinottica in prosa, con l’indice delle materie e l’indicazione dei versi corrispondenti, secondo lo schema adottato dai commentatori di Lucrezio. 

In questa struttura antica è tuttavia inserito un testo di evidente, persino impetuosa, modernità, che infrange continuamente le regole della pronuncia, della grammatica e del lessico, per non parlare del decoro poetico (molte metafore sono volutamente volgari). I versi alessandrini di Queneau utilizzano le più recenti scoperte, le teorie scientifiche e le invenzioni dell’epoca in cui furono scritti, come ad esempio la tettonica a zolle o l’idea di Georges Lemaître dell’atomo primordiale (che anticipò la teoria del big-bang). 

La combinazione di licenze linguistiche e di riferimenti a largo spettro al sapere scientifico moderno rendono la Cosmogonie un’opera piuttosto ostica, quasi certamente la meno letta tra quelle di Queneau, di sicuro la meno tradotta. La maggior parte dei lettori che la affrontano sono ben presto colpiti dalla scoraggiante abbondanza di parole strane e inusitate. Alcune sono pure invenzioni, altre sono termini scientifici specialistici, altre sono prese dal gergo della strada, con l’intento manifesto di accostare lessici diversi in un divertito, e solo a tratti divertente, guazzabuglio linguistico. Ma il rovescio della medaglia è che finalmente la terminologia scientifica trova diritto di cittadinanza nella poesia. Allontanandosi risolutamente dai canoni del lirismo, Queneau si impegna a estendere il campo lessicale della sua opera a termini che in precedenza non erano mai stati utilizzati in un simile contesto. 

Un tale obiettivo non ha alcuna finalità didattica, come Queneau fa dire a un certo punto a Mercurio-Ermete: per il poeta, che ringrazia, “le parole hanno un sapore volatile”, la violetta e l’osmosi hanno lo stessa profondità, anima (âme) e volframio (wolfram) sono suoni che fanno combutta, “sofferente e solforoso sono solo due aggettivi”. Si tratta di un’opera poetica dove l’autore si prende la libertà dell’accostamento, dell’allitterazione, del neologismo secondo la sua ispirazione, dove il gioco di parole, il calembour, può rivelare legami e vicinanze inaspettati. Una dichiarazione che sembra esprimere una retorica di tipo surrealista, un’apologia della “scrittura automatica”, tutt'altro che scientifica. Ma il flusso di coscienza del poeta, a guardare bene, non è affatto l’abbandono di ogni forma di controllo razionale sulla scrittura. Al contrario, egli pone molta cura a dotare il testo di un sistema di lettura particolare ed esclusivo, quasi iniziatico. Un jeu savant, dunque, in cui il lettore è invitato a decifrare metafore e crittografie per scoprire informazioni di una correttezza scientifica incontestabile, nascoste sotto una sorta di deformante lente linguistica. 

La narrazione, se di essa si può parlare in un’opera così congegnata, inizia con la nascita della Terra e segue all'incirca la scala dei tempi geologici, anche se numerosi sono i salti in avanti o all'indietro: l’anacronismo nel poema è speculare alle discontinuità del processo di evoluzione della materia e della vita. François Naudin ha fatto notare come il numero totale di versi dedicato alle diverse ere geologiche (Archeano, Paleozoico, ecc.) corrisponde esattamente alla loro durata, così l’uomo compare direttamente in pochi, a significare la presa di distanza di Queneau da ogni forma di antropocentrismo e la sua conoscenza di quanto poco la storia umana sia cronologicamente rilevante rispetto alla durata dell’universo. Non c’è progressione lineare, né qualsiasi forma di quieto finalismo: nella Petite cosmogonie portative lo sviluppo dall'esplosione iniziale dell’atomo primordiale attraverso le successive organizzazioni dell’inorganico e dell’organico è dominato, nella forma, nello stile e nei contenuti, dal caos e dal caso. L’uomo compare solo alla fine di un lungo processo naturale e culturale, e la sua asserita discendenza dalla scimmia che compare nella prima edizione (1950) sarà emendata nella seconda (1969), a ulteriore dimostrazione dell’attenzione di Queneau alla correttezza scientifica: 

[La singe sans effort le singe devint l’homme (1950)] 
La singe (ou son cousin) le singe devint l’homme (1969) 
lequel un peu plus tard désagrégea l’atome. 

che Italo Calvino così tradusse nel 1971: 

La scimmia (o suo cugino) la scimmia si fa uomo 
il quale un po’ più tardi disgregherà l’atomo. 

Lo spazio ridotto di un articolo per un blog non consente un’analisi completa dell’opera, sulla quale avrò comunque l’opportunità di ritornare. In questa occasione mi limito alla trattazione di un solo argomento, che spero riesca a dare un’idea dell’umore dell’intero poema. Si tratta della nascita dei numeri, che sono una presenza quasi costante in Queneau, matematico competente per diletto e amico di matematici importanti. I numeri e le operazioni compaiono a metà del primo canto, ai versi 99-129, generati dall'esplosione dell’atomo primitivo e dall'espandersi della nebulosa primordiale. E' evidente in questa scelta la posizione platonista dell'autore: la matematica esiste indipendentemente dall'uomo. Nella postfazione all'edizione italiana, uscita presso Einaudi nel 1982 (nella traduzione di Sergio Solmi), Italo Calvino ha scritto che 

 “Nell'atomo primitivo sono contenuti già i numeri (le cifre viste come ami che pescano gli zeri), quei numeri che si dispiegheranno nel calcolo dell’età della terra. L’esplosione dei numeri, dopo l’esplosione dei vulcani (o prima?) diventa un inno trionfale in cui la matematica e la biologia si sovrappongono, dando forma a tutte le operazioni dell’aritmetica e alle molteplicità del mondo”. 

In questo registro biologico, Calvino cita lo stesso Queneau, “Il 4 [è] paragonato a uno spermatozoo che va a unirsi (accostarsi) all’ovulo aritmoide (lo zero)”

Fornisco qui una mia traduzione letterale, e senza alcuna velleità artistica, dei versi indicati: ho preferito non utilizzare la pur meritoria versione di Sergio Solmi, resa in endecasillabi liberi, “sul registro illustre della tradizione poetica italiana” (sempre Calvino), perché non sono pienamente convinto dell’efficacia di questa scelta per rendere l’atmosfera e il “contenuto teorico” dell’opera originale. Lo stesso Calvino, in una lettera al traduttore Franco Quadri nel 1965 aveva ipotizzato per questo motivo una traduzione letterale e, quando nel 1971 intraprese la traduzione della prima parte del sesto canto, scelse un metro assai più simile all’alessandrino francese di quello che avrebbe poi utilizzato Solmi. Ciò perché l’endecasillabo è troppo “corto” e costringe il traduttore a spezzare ogni verso originale, che corrisponde anche a una unità di contenuto (per questo in francese non sono presenti segni di punteggiatura). Ne soffre soprattutto la cadenza, e, spesso, la resa del contenuto. Sergio Capello (che ha scritto un lungo saggio sugli anni parigini di Calvino) ha sostenuto che “La frase è ritmata dal verso e dal suono delle parole. Chiaramente si tratta di poesia scritta per essere letta a voce alta”. Una metrica più fedele all'originale sarebbe senza dubbio più consona “al carattere declamatorio della scrittura poetica di Queneau”. Per la traduzione mi sono avvalso del testo della prima versione, quello utilizzato da Solmi nell’edizione pubblicata da Einaudi. 


La nascita dei numeri 

                 (…) Una volta le cifre, ami di zeri 
infinitamente diversi, lentamente bollivano nell'atomo, 
indefinitamente nude, indefinitamente insulse, 
ma il loro conto era buono, ed eccole valorose 
a cavalcare l’esplosione. Oh gioventù, oh gioventù, 
quando il grafo era un bel solco tra le tue chiappe, 
nebulosa ostinata, e il tuo scoppio erompeva 
da un punto primevo della possibilità dei mondi, 
tutti ancora implumi, tutti ancora fanciulli, 
e i numeri si azzuffavano nella loro solitudine; 
ed eccoli vincitori a cavallo dell’ampiezza 
del bubbone forato del germe che sgorga 
dalla crosta sconnessa, e dal fuoco magistrale 
della piaga spurgata e del seme verticale, 
ed eccoli coglioni nella loro soddisfazione 
unirsi babbei nelle loro addizioni 
e ritirarsi stupidi nelle loro sottrazioni 
e riprodursi nelle moltiplicazioni 
e ben sprofondarsi in ogni divisione 
e ingrandirsi molto nell'elevamento a potenza 
e gingillarsi in semplici logaritmi 
e ben compiacersi in cumuli di algoritmi. 
Gioventù, oh gioventù, oh quando l’uno corteggiava il due 
senza sapere che il suo fottere ne avrebbe estratto il terzo, 
quando i segni dell’algebra addolcivano i loro giochi, 
quando le uguaglianze riposavano nel fegato 
allora analcolico dell’atomo adiposo 
e che l’informe quattro, piccolo spermatozoo, 
tentava di accostare l’ovulo aritmoide, 
quando il pus degli errori non gocciolava 
dalla prova del nove o dall'orgoglio contabile.

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