C’è un bellissimo racconto di Jorge Luis Borges, del cui amore per la matematica ho già parlato più volte, come qui, che mette in discussione l’identità quantitativa degli oggetti, ma anche l’identità psicologica del protagonista. Si tratta di Tigri azzurre, comparso per la prima volta, nella bella traduzione italiana di Gianni Guadalupi, nel volume che l’editore Franco Maria Ricci volle dedicare all'autore argentino in occasione del suo ottantesimo compleanno (J. L. Borges, Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti, Franco Maria Ricci, Milano, 1980).
Ma che cosa si intende per identità? Dire che due cose sono identiche vuol dire che sono la stessa cosa? I filosofi, sin dai tempi di Aristotele, distinguono a questo proposito tra identità qualitativa e identità numerica. Le cose con identità qualitativa condividono le stesse proprietà, così possono essere più o meno qualitativamente identiche. I bassotti e i danesi sono identici qualitativamente, perché possiedono la qualità di essere cani, ma due bassotti avranno tra di loro un’identità qualitativa superiore. L’identità numerica richiede l’identità qualitativa assoluta, o totale, e si può dare solo tra una cosa e se stessa. Il suo nome implica il concetto che è la sola relazione di identità secondo la quale possiamo contare (o numerare) le cose: x e y si possono contare nello stesso modo solo nel caso in cui siano numericamente identiche. Possiamo contare nello stesso modo sette tigri e sette pietre azzurre perché sono numericamente identiche. Già tra le “nozioni comuni”, regole di deduzione logica ritenute evidenti ed intuitive che Euclide elencò dopo i postulati, troviamo che:
a) se a cose uguali si aggiungono cose uguali si ottengono risultati uguali;
b) se da cose uguali si tolgono cose uguali i resti sono uguali;
c) cose che coincidono l'una con l'altra sono uguali l'una all'altra.
Il criterio di identità per i numeri è la cosiddetta equinumerosità: il numero di F è uguale al numero di G se, e solo se, ci sono esattamente tanti F quanti G. È su questa base che si può erigere l’edificio della matematica. Un edificio che in Tigri azzurre viene messo in discussione.
Siamo nei primi anni del Novecento, nell'India coloniale. Alexander Craige, un professore scozzese di logica all'università di Lahore, appassionato di tigri fin dall'infanzia, viene informato dell’avvistamento in un remoto villaggio indiano di una varietà azzurra della specie. L’uomo, ossessionato da continui sogni di tigri azzurre, decide di catturarla e si reca sul posto, dove gli abitanti sembrano volerlo tenere lontano dall'altura boscosa che sovrasta l’abitato. Fiutato l’inganno, Craige decide una notte di avventurarsi da solo sulla collina. Ciò che trova in un anfratto illuminato dalla luna non è però la tigre, ma un mucchio di pietruzze circolari, lisce e regolari al punto da sembrare dischetti o monete, dello stesso colore azzurro delle tigri dei suoi sogni. Ne prende un paio di manciate e le mette nella tasca della giacca, facendo ritorno al villaggio.
Al risveglio il professore scozzese fa una straordinaria scoperta: per un “osceno miracolo”, il numero dei dischi varia continuamente, aumentando o diminuendo ogni volta che lo sguardo dell’uomo si posa su di esse, resistendo a ogni tentativo di contarle. Dice il protagonista: “Guardavo fisso uno qualunque di essi, lo prendevo tra il pollice e l’indice, e quando era solo, erano molti”. Una volta venuti a sapere della sua scoperta, gli indigeni lo evitano e lo rispettano per timore. Il più anziano di essi gli dice che quelle “pietre che generano”, del “colore azzurro che è permesso vedere solo nei sogni” sono le tigri azzurre.
Uno storico delle religioni direbbe che Craige è divenuto per quegli indiani sacer, colui che non può essere avvicinato o toccato perché partecipe della natura divina, tremendum perché il suo potere fa tremare. Ma a tremare è soprattutto l’occidentale, perché l’identità mutevole delle pietre, la loro “indole mostruosa”, mette in discussione le sue certezze e la sua stessa identità.
“Se mi dicessero che ci sono unicorni sulla luna, io accetterei o respingerei il giudizio, ma potrei immaginarli. Invece, se mi dicessero che sulla luna sei o sette unicorni possono essere tre, io affermerei a priori che il fatto è impossibile. Chi ha capito che tre più uno fa quattro, non fa la prova con monete, con dadi, con pezzi degli scacchi o con le matite. Non può concepire un’altra cifra”.
Alexander Craige, che è un logico, coglie immediatamente la sconvolgente conseguenza dell’esistenza di quegli oggetti, che “contraddicono quella legge essenziale della mente umana”. Preferirebbe essere pazzo, “poiché la mia allucinazione personale importerebbe meno della prova che nell’universo è contenuto il disordine. Se tre più uno possono essere due o possono essere quattordici, la ragione è una follia”. Di certo non gli sfugge la messa in discussione che le tigri azzurre comportano per uno dei capisaldi della logica, la cosiddetta legge di Leibniz, o principio di identità degli indiscernibili: se non c'è modo di distinguere due enti, allora sono in verità un solo ed identico ente: Eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate (le cose delle quali l'una può essere sostituita dall'altra mantenendone intatta la verità, sono le stesse).
Per Leibniz, il principio di identità non solo è la base delle verità logiche, ma di ogni verità. Tutte le verità prime “possono essere comprese sotto lo stesso nome di identità”, sia che si affermi esplicitamente “la medesima cosa circa se stessa”, sia che “[si neghi] l’opposto del suo opposto”. Il principio di non contraddizione, è da questo punto di vista, un caso particolare di identità. Le verità non prime, cioè non immediatamente riconoscibili come identità, sono riducibili a identità mediante definizioni. L’identità è quindi una delle nozioni fondamentali della logica, e il principio di identità una legge senza la quale non è possibile il pensiero.
Chissà che cosa avrebbe pensato il filosofo e matematico tedesco se avesse visto ciò che era sotto gli occhi di Craige! Non avrebbe più senso il concetto di numero, se le cose si rifiutassero di essere numerate, se un pentagono avesse cinque o sei lati, o sette, a seconda del tempo in cui lo si guarda. La percezione e il concetto non sarebbero più connessi. L'equinumerosità sarebbe una variabile dipendente dai capricci degli oggetti, o dal tempo. Già, il tempo, secondo Borges "un tremulo ed esigente problema".
L’identità nel tempo è controversa, perché il tempo comporta cambiamento. Eraclito diceva che non ci si bagna mai nello stesso fiume, perché l’acqua è sempre diversa. Hume pensava che l’identità nel tempo è una finzione, con la quale noi spieghiamo una collezione di oggetti in qualche modo in relazione, e Borges commentava questa idea come "un mondo d'impressioni evanescenti; un mondo senza materia né spirito, né oggettivo né soggettivo; un mondo senza l'architettura ideale dello spazio;…un labirinto irriducibile, un caos, un sogno." Questi punti di vista si possono considerare basati su un fraintendimento della legge di Leibniz per il quale, se una cosa cambia, qualcosa di essa è vera in un tempo successivo che non era vera in un tempo precedente, così non è più la stessa. Si può tuttavia rispondere che ciò che di essa è vero in un tempo successivo rimane vero, così come ciò che era vero in un tempo precedente, è sempre vero. Si tratta allora di stabilire criteri di identità che consentano di superare queste difficoltà.
Per i concetti, gli oggetti astratti, si può pensare che la loro identità permane nel tempo: due rette a e b nel piano euclideo, se sono parallele all'istante t0, continuano a esserlo in qualsiasi istante tn successivo. Ciò vale anche per il concetto di numero. Un insieme di sette pietre può essere associato al numero sette e alla cifra che lo rappresenta, sempre che non si tratti di pietre azzurre indiane (o di particelle elementari!) e si prescinda dal fatto che l’idea di numero nasce dall'osservazione di insiemi di oggetti reali:
“Maneggiando le pietre che distruggono la scienza matematica, pensai più di una volta a quelle pietre del greco che furono i primi numeri e che hanno legato a tanti idiomi la parola “calcolo”. La matematica, mi dissi, ha la sua origine e ora la sua fine nelle pietre. Se Pitagora avesse operato con queste…”
Per gli oggetti reali le cose sono più complicate che per i concetti. In questo caso è necessario stabilire un criterio di identità del tipo “x è in t lo stesso F come lo è y in t′ se e solo se…” Ad esempio, una pietra continua a essere lo stesso oggetto di prima se e solo se conserva la natura chimica, il colore, la forma. Ma ciò comporta anche che si stabiliscano criteri di identità nello spazio (e qui è meglio non approfittare della pazienza del lettore).
Nel caso delle persone, dove non ci si può limitare all'identità del corpo, un criterio di identità diacronica potrebbe essere: "x è in t la stessa persona come y in t’ se, e solo se, c’è continuità psicologica tra x in t e y in t’", ma questo criterio si può contestare nel caso di alcune gravi patologie psichiatriche o degenerative, il cui sintomo principale è proprio la perdita della percezione della propria individualità psicologica. E poi, può esistere continuità psicologica in un mondo dove esistono le tigri azzurre?
Alla fine Craige cede le pietre azzurre a un mendicante cieco in una moschea di Lahore. Gli dice:
“Voglio che tu sappia che la mia elemosina può essere spaventosa.”
Mi rispose:
“Forse questa elemosina è l’unica che posso ricevere. Ho peccato.”
Lasciai cadere tutte le pietre nella mano concava. Caddero come in fondo al mare, senza il minimo rumore.
Poi mi disse:
“Non so ancora qual è la tua elemosina, ma la mia è spaventosa. Ti rimangono i giorni e le notti, il buon senso, le abitudini, il mondo.”
Non udii i passi del mendicante cieco né lo vidi perdersi nell'alba.
Le tigri azzurre sono parenti di quel "ragionamento specioso" che fecero certi eresiarchi di Tlon, http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Tempo%20libero%20e%20Cultura/IL/anteprime/il-testo-di-borges_4.shtml
RispondiEliminaLe devo dire, complimentandomi, che ho apprezzato moltissimo il suo intelligente e preciso contributo che ha stimolato questa mia (purtroppo) non sintetica riflessione. Secondo il mio parere, Borges aveva un referente preciso nella redazione di questo piccola narrazione. E del resto l'autore denuncia il suo debito quasi subito, facendo del suo protagonista un professore di filosofia esperto dell'Etica di Spinoza. In effetti ribaltando i termini della questione posta da lei, forse si potrebbe trattare di un problema di distintività più che di identità. E più precisamente della radicale alterità tra distinzione numerica e distinzione reale che introduce Spinoza con la concettualizzazione degli attributi, dei modi e delle essenze dei modi. Il filosofo olandese introduce il discorso nella proposizione 17 della prima parte dell'Etica scrivendo "Il causato differisce dalla sua causa precisamente in ciò che ha ricevuto dalla causa" e precisa con un esempio "un uomo è causa dell'esistenza, ma non dell'essenza di un altro uomo; giacchè questa è una verità eterna: e perciò essi riguardo all'essenza possono del tutto convenire; ma riguardo all'esistenza devono differire; e per questa ragione, se l'esistenza dell'uno perisse, non per questo perirà quella dell'altro; ma se l'essenza dell'uno potesse distruggersi e diventare falsa, si distruggerebbe pure l'essenza dell'altro". Evidentemente Spinoza individua due piani che sono tra loro inconciliabili: le essenze delle creature e le esistenze di queste creature, e le seconde non dipendono dalle prime per esistere, Le essenze non sono causa essendi, questa è una grande rivoluzione filosofica. Spinoza scrive che pensare che le essenze dei modi siano altrettante qualità delle creature è compiere un grande errore teologico, quello di credere che “la natura di Dio appartiene all'essenza delle cose create”. Dio, cioè, non coincide affatto con la natura stessa delle cose che dirige, come voleva Tommaso D'Aquino o Agostino. L'assioma spinoziano da cui dipana tutto i racconto di Borges è l'essenza delle cose prodotte da Dio non implica l'esistenza. In questo modo il filosofo olandese introduceva il principio di una doppia causalità, una formale che rinvia all'individuazione delle essenze delle cose all'interno degli infiniti attributi di Dio e una quantitativa o reale che conduce ad un concatenamento infinito, in un continuo rinvio di causa in causa, l'una esterna all'altra. Quello che Borges ha compreso benissimo e che ha portato alle estreme conseguenze con il racconto è la radicale divergenza tra i due universi causali per cui l'essenza delle pietre non ne limita l'esistenza e la durata, come per Spinoza l'esistenza di un'essenza di un modo non si confonde con l'esistenza del modo corrispondente e non ne è in alcun modo la causa dell'esistenza che dipende unicamente da Dio.
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