Il saggio Forme organiche naturali e forme geometriche pure dell’astronomo Giovanni Schiaparelli (1835-1910) rappresenta un curioso caso isolato nel dibattito di fine Ottocento sulla teoria dell’evoluzione, perché combina il linguaggio della matematica con una eterodossa interpretazione delle idee di Charles Darwin.
Pubblicato nel 1898 dall’editore Hoepli, questo studio era ospitato all’interno delle Peregrinazioni antropologiche e fisiche, una raccolta di articoli dell’amico antropologo e filosofo Tito Vignoli (1824-1914), all’epoca direttore del Museo Civico di Storia Naturale di Milano.
Nel 1863 Vignoli aveva pubblicato il Saggio di una dottrina razionale del progresso, in cui inquadrava l’evoluzionismo in una visione di progresso generale dell’universo, proponendo una catena di trasformazioni che si muove sullo sfondo dell'infinitezza cosmica. Vignoli indicava tre cause prime del processo: il moto, l’evoluzione temporale e la vita. Quest'ultima era il modello delineato più chiaramente nel senso che “da una forma organica, unica primitiva, durante tempi incalcolabili, provennero tutte le maravigliose forme che ora abbellano ed avvivano la terra. Fu quella immensa battaglia della vita, che la stessa vita mutò, variò. diffuse, moltiplicò, crebbe, perfezionò”.
Il contributo di Schiaparelli, una memoria di una novantina di pagine, comparve in un momento di accesa discussione, che investiva alcuni nodi ancora irrisolti del darwinismo. Se la teoria di Darwin era generalmente accettata, più complessi erano invece i fattori e le leggi che determinano il processo evolutivo, come il ruolo della selezione naturale o del caso. Oscure erano inoltre, prima della riscoperta delle leggi dell’ereditarietà di Gregor Mendel, le modalità tramite cui avviene la trasmissione dei caratteri tra le generazioni. Questi fattori scatenarono la nascita di diverse teorie che, pur innescate dall’evoluzionismo, andavano spesso in direzioni opposte, in alcuni casi contrarie alle tesi Darwin.
In questo differenziato e talvolta acceso quadro, il contributo di Schiaparelli fu originale, in primo luogo perché egli non era un biologo o un filosofo, ma un autorevole astronomo, direttore dell’Osservatorio milanese di Brera e noto in tutto il mondo per le sue osservazioni su Marte.
L’idea di Forme organiche naturali e forme geometriche pure nacque nella primavera 1897, durante una conversazione a proposito dell’ordinamento sistematico degli esseri viventi. Vignoli aveva elaborato una teoria ispirata alla sistematica classificatoria, incentrata su un’idea di evoluzione che avviene solo all’interno dei quattro tipi, o forme fondamentali invariabili (vertebrati, articolati, molluschi, radiati), in cui si organizza in maniera necessaria la materia vivente sulla base di determinate forme geometriche di struttura, esattamente "come le sostanze minerali non cristallizzano in più che sette sistemi di figure poliedriche". Nel sistema di Vignoli, la materia, grazie a precise caratteristiche geometriche, è divisa in quattro gruppi strutturali invariabili tra i quali non può esistere alcun passaggio evolutivo. Schiaparelli rimase colpito da queste idee e confidò a Vignoli che anche lui, ormai da molto tempo, stava riflettendo su questi problemi arrivando a "congetturare relazioni fra le strutture organiche e quella Geometria, che tutto informa il Cosmo, così nel grande come nel piccolo". L’astronomo promise all’amico di scrivere alcuni appunti in proposito e gli fece avere qualche nota.
Vignoli trovò stimolanti le tesi di Schiaparelli, che considerava una conferma importante delle sue riflessioni. Dopo il primo scambio di idee, il filosofo continuò a seguire da vicino le fasi di gestazione della memoria, preoccupandosi anche di prestare a Schiaparelli le opere di Darwin, insistendo perché pubblicasse qualcosa sull’evoluzionismo. Giocò anche un piccolo colpo basso, perché durante una conferenza del 2 maggio 1897 in cui presentò la sua teoria evolutiva, introdusse brevemente anche le idee dell’amico. L’astronomo era ormai vincolato dall’annuncio fatto da Vignoli, riportato anche un noto quotidiano, che il giorno seguente dava come probabile la pubblicazione da parte di Vignoli di "un largo cenno della nota scientifica del suo illustre amico e cooperatore scientifico". Alla fine di maggio a Schiaparelli non restava che comunicare rassegnato a Vignoli: "Fiat voluntas tua".
Schiaparelli il 13 luglio spedì a Vignoli il risultato del suo lavoro. Come comunicato un mese prima, egli aveva preparato due versioni: una breve, in forma di lettera, di quattordici pagine; l’altra, invece, "un piccolo libro di 90 pagine con 20 figure geometriche, che appena ho il coraggio di farle vedere", anche se "in questa ho potuto spiegarmi assai meglio che nell’altra".
La scelta ovviamente cadde sulla versione più estesa. Il 21 luglio, Vignoli comunicava a Schiaparelli la decisione dell’editore, che era ovviamente interessato a pubblicare qualcosa di uno degli autori più prestigiosi e venduti della sua scuderia: all’inizio del 1898 il volume di Vignoli contenente il saggio di Schiaparelli era nelle librerie.
Schiaparelli basava la sua teoria, da lui chiamata dell'evoluzione regolata o per tipi fissi, su un’inedita lettura geometrica del mondo vivente, una sorta di "platonismo evolutivo" (Schiaparelli stesso scherzò su questa discendenza filosofica). Nonostante il saggio continuasse a ribadire che tra questo evoluzionismo geometrico e la teoria darwiniana esistevano punti di contatto, Schiaparelli in realtà rifiutava alcuni aspetti centrali della teoria di Darwin. L’astronomo dedicava infatti alcuni capitoli a una puntuale comparazione tra la sua ipotesi e quella del naturalista inglese.
L’argomentazione di Schiaparelli era articolata come in una dimostrazione matematica. L’intero ragionamento si basava su un’analogia logica tra le curve algebriche e gli enti organici: come l’infinita varietà delle forme geometriche pure dipende dalla variazione dei parametri di una stessa forma fondamentale, da lui chiamata anche principio di costruzione, così gli esseri viventi sono variazioni delle proprietà che caratterizzano uno stesso tipo organico.
“Una forma geometrica dicesi pura quando tutti i suoi punti derivano da una medesima legge, cioè da un medesimo metodo di costruzione. Così la linea retta (in tutta la sua indefinita lunghezza), il circolo, la parabola, la superficie sferica costituiscono altrettante forme pure; perché tutti i loro punti si costruiscono colla medesima regola, e godono delle stesse proprietà. Invece un poligono rettilineo è una forma mista, perché i tratti rettilinei onde è composto, avendo diverse giaciture e direzioni, i punti dell'uno son descritti con norma diversa da quelli dell'altro. Similmente è una forma mista la superficie di un poliedro qualsiasi, di un segmento di sfera, di un tronco di cono, ecc.Carattere essenziale e distintivo di tutte le forme pure è questo: che data una parte quanto si voglia piccola, purché finita, di una forma pura, il resto di essa è intieramente determinato. Così, dato un tratto anche brevissimo di linea retta, si potrà facilmente descriverla tutta intiera, e prolungarla indefinitamente da una parte e dall'altra. Similmente da un piccolissimo arco di circolo si può dedurre la costruzione del circolo intero; e da una piccolissima porzione di superficie sferica, la costruzione di tutta la sfera. Lo stesso dicasi dell'ellisse, della parabola, di un ellissoide qualunque. Tanta grande è il vincolo, che unisce in modo stretto ed assoluto tutte le parti dello forme pure, e ne costituisce un tutto omogeneo ed armonico.Lo stesso invece non si potrebbe dire, per esempio di un poligono; del quale la parte data ABC non basta a discriminare il resto, che può essere ARC o AMSC o ANVPC ecc.; e neppure d’un poliedro, né in generale d'una forma mista qualsiasi.In tutto quello che seguirà noi ci occuperemo delle sole forme pure, essendo queste le sole, per cui l’uniforme modo di generazione e in stretta correlazione fra le parti permetta una comparazione, sotto qualche riguardo plausibile, cogli organismi della natura. Si potrebbe anzi dire in un certo senso, che anch’esse sono creazioni organiche; nel senso cioè che in ciascuna di esse tutte le parti, anche minime, sono coordinate secondo un medesimo principio”.
Rispetto all’universo matematico delle curve, nella realtà contingente le cose sono complicate dai fattori dell’evoluzione, che nella spiegazione dell’astronomo rivestono più che altro una funzione perturbatrice. Tuttavia, nonostante questo "limite", per Schiaparelli gli enti della natura sono determinati a priori per “necessità logica”, allo stesso modo in cui in una formula matematica sono implicate tutte le infinite possibili combinazioni. Ogni nuova specie è quindi contenuta in potenza nel proprio tipo di appartenenza, manifestandosi di volta in volta a seconda delle circostanze. La natura come la vediamo non sarebbe altro che una combinazione di caratteri potenzialmente illimitata, un insieme dei frammenti sparsi di uno schema più grande, che non si realizza mai tutto in una volta.
“L'idea principale del presente studio è di esaminare sotto quali rapporti si possa instituire una comparazione fra un sistema di curve aventi origine da una medesima formula (o da un medesimo principio di costruzione) e un sistema qualunque di enti della natura organica, rispondenti a certi caratteri comuni e classificati quindi sotto una medesima divisione sia poi questa designata col nome di genere, di famiglia. di ordine, di classe, di Regno. Qui si presenta subito alla considerazione la grande diversità che esiste fra una curva e un tipo qualsiasi di organismo naturale. Per la curva ogni studio è contenuto in quello delle pura forma geometrica: negli organismi, oltre all’elemento geometrico della forma, è da considerare la costituzione fisica, chimica, chimica o fisiologica delle parti, e il carattere delle funzioni che costituiscono la loro vita, non escluse le funzioni d’ordine psicologico. La curva deriva da un concetto matematico rigoroso e puramente ideale; per gli organismi non esiste, rappresentato da uno. né da più esemplari, un tipo puro e assoluto; gli individui in cui è tradotto in realtà il concetto che li informa, sono soggetti a mille influenze modificatrici e perturbatrici di effetto temporaneo o permanente. La curva, definita una volta nella legge della sua descrizione e nei suoi parametri, è intieramente immutabile: gli organismi durante il tempo della loro esistenza percorrono diversi stadi o seguono una progressiva evoluzione dallo stato embrionale a quello del loro massimo sviluppo, che si suole più spesso considerare come il loro stato normale. Nessuna di queste differenze deve essere negletta nella considerazioni comparative che si tratta di fare.(...) In ogni famiglia di curve ogni forma individuale è distinta dalle altre pel valore speciale che assumono in essa certi elementi fondamentali, detti parametri, Ora questo concetto ed altri parecchi da esso dipendenti io credo che si possano trasportare ai sistemi degli esseri organizzati, malgrado la grande diversità che corre fra questi e le curve. Penso adunque, che i tipi organici naturali, benché variabili sotto l'impero di numerose influenze, sono anch’essi determinati nei loro caratteri da un certo numero di elementi fondamentali secondo una legge o formula definita per ciascuna categoria o divisione. L’identità della formula stabilisce, come per le curve, i caratteri comuni della categoria; come nelle curve, i caratteri propri a ciascuna suddivisione dipendono dalla varietà degli elementi fondamentali. A quel modo che le diverse specie curve d'una stessa famiglia sono determinate dalle varie combinazioni che possono prendere i valori dei parametri, così credo, che dalle varie combinazioni degli elementi fondamentali e dalla maggiore o minor parte che ciascuno di essi può avere nella costituzione e nelle funzioni di ciascun organismo speciale, siano determinate le differenze specifiche entro i limiti della stessa categoria”.
Così, per Schiaparelli, che concentra la sua attenzione sulle coniche, curve del piano i cui parametri sono dettati da equazioni di secondo grado, se si percorre il piano in una direzione qualsiasi, le forme corrispondenti variano in modo continuo, e non per salti. Quella regione del piano a cui corrispondono tutte le forme di una data specie, deve formare un’area continua. Ogni specie (S, S’, S’’, ecc.) ha un campo determinato, in cui si trovano i punti delle forme che le appartengono e da cui sono escluse le forme appartenenti ad altre specie. Le specie delle curve di secondo grado sono due: le ellissi e le iperboli, oltre che le parabole, che sono un caso limite. Se si esaminano tutti i punti del piano che corrispondono ad ellissi, essi si trovano in una certa parte, mentre nella rimanente sono raccolti tutti i punti che corrispondono a iperboli. Sono questi i campi delle ellissi e delle iperboli. Il confine tra queste regioni appartiene alla forma che costituisce il passaggio tra le ellissi e le iperboli, cioè delle parabole, i cui punti non occupano aree del piano, ma soltanto i punti della linea limite. Quindi non si potrà passare dalle ellissi alle iperboli per successive modificazioni se non attraversando la linea limite, passando cioè per la forma della parabola, che è un tipo di transizione.
Ogni specie di curva, a cui corrispondono i punti di un determinato campo, può assumere infinite forme (o varietà), ma sempre rispettando i parametri (l’equazione generale) di quella determinata curva. Non possiamo assegnare valori arbitrari ai parametri di una ellissi senza evitare che essa si trasformi in un’altra specie di curva. Le curve i cui punti sono collocati sulla linea di confine sono soltanto forme di transizione, che esistono solo in casi particolari [povere parabole! NdR]. In analogia con le curve algebriche, il passaggio da una specie organica all’altra è, secondo Schiaparelli, consentito solo all’interno delle stesso campo di forme, “essendo separata in modo abrupto dalle circonvicine”.
Date queste premesse, Schiaparelli si confrontava direttamente con alcuni temi cardine dell’evoluzionismo, quali il ruolo del caso e della selezione naturale, l’emergenza di nuove variazioni, l’atavismo, le forme intermedie della serie evolutiva, l’unità o la molteplicità dei centri di creazione delle specie. Su questi aspetti propose un’alternativa alla teoria darwiniana, la quale, ai suoi occhi, se spiegava bene alcuni aspetti, ne lasciava in ombra altri: si trattava di carenze della teoria evidenziate dallo stesso naturalista inglese e ancora in discussione a quasi venti anni dalla sua morte. A queste difficoltà avrebbe tentato di dare una risposta con la sua evoluzione regolata, attestandosi in realtà su posizioni anti-darwiniane.
Per Schiaparelli la natura non può essere guidata dal caso, abbandonata a un processo cieco, ma è il risultato delle variazioni dei parametri propri del tipo organico a cui ciascun individuo appartiene (e che ancora non si conoscono). Su questa base. l’astronomo intendeva quindi ipotizzare una direzionalità nelle trasformazioni in natura. Nel suo modello matematico, bastavano poche leggi, in particolare la legge di discontinuità della materia organica, ricavata grazie a un’analogia con il mondo inorganico dei cristalli e degli elementi chimici, e la legge di correlazione, secondo cui, date certe variazioni, ne sono determinate o escluse altre. Queste poche leggi limitavano e guidavano a priori gli effetti dell’evoluzione.
Come ribadì più volte, anche dopo la pubblicazione, Schiaparelli era consapevole che, rispetto all’universo matematico, il mondo dei viventi è infinitamente più complicato, non da ultimo per il fattore del tempo, completamente assente nella geometria. Di fronte all’immutabilità imperturbabile delle curve, gli organismi appaiono contingenti, mutevoli, complessi dal punto di vista fisico, fisiologico e psicologico, soggetti a continue modificazioni e perturbazioni esterne. Eppure, al di là di queste differenze, la comparazione sul piano logico era per lui possibile: come emergeva chiaramente nel corso del testo, gli organismi per Schiaparelli mutano seguendo precise traiettorie nel tempo e nello spazio, nel contesto di una natura segnata dall’evoluzione discontinua e dalla separazione netta tra classi zoologiche. Per l’astronomo, "in natura il continuo geometrico non esiste", allo stesso modo in cui la materia è un sistema discontinuo.
“Quale sia l’importanza di questo fatto così semplice per determinare nel mondo fisico divisioni e classificazioni d’ogni genere, è facile vedere. In primo luogo, si trova. che applicando gradi crescenti di calore ad una porzione di materia, si determinano in essa tre stati e non più; il solido, il liquido e l’aeriforme, dall’uno dei quali si passa a all’altro non per gradi continui, ma per salti; gli stadi intermedi essendo di carattere instabile ed accidentale. Ed in secondo luogo avviene che quando in un corpo solido le molecole si dispongono secondo il loro naturale equilibrio, esso non può che cristallizzare che sotto forme geometriche, classificabili in sette sistemi di poliedri assai semplici e capaci di definizione precisa. E queste sono le forme naturali che si |potrebbero chiamare anche organiche, della materia; l'equilibrio nei corpi amorfi essendo sempre il risultato di azioni perturbatrici e non del libero sviluppo delle loro forze interiori. Ed in terzo luogo osserviamo che le varie forme, in cui può cristallizzare una data sostanza, oltre all’appartenere (generalmente parlando) ad un identico sistema, sono collegate tra loro dalla legge di Haüy, secondo la quale i parametri omologhi di queste forme (quantità che determinano l’inclinazione delle facce del cristallo rispetto ai suoi assi principali) stanno fra loro in rapporti esprimibili con una serie di numeri interi. Ma quando invece di uno si considerano due corpi (o due classi di atomi) e facendoli entrare in combinazione chimica, se ne forma un terzo corpo diverso dai due primi; la proporzione in peso delle parti componenti non sarà arbitraria, come in una miscela qualsiasi: ma dovrà farsi secondo uno od un altro di certi determinati rapporti; e questi rapporti (che soli danno luogo ad un organismo chimico propriamente detto) qualunque sia il loro numero anch’essi sono rappresentabili per mezzo di una serie di numeri intieri (legge delle proporzioni definite e delle proporzioni multiple di Dalton)...”
Tutti questi fatti ed altri analoghi avvengono soltanto ammettendo che la materia non è continua, ma è costituita da atomi discreti. Anche il sistema chimico consente solo un certo numero di diversi tipi di atomi e non altri: sono gli elementi chimici, che, come Mendeleev ha scoperto, si dispongono in un sistema periodico.
La spiegazione darwiniana in termini di variazioni casuali, selezione naturale, lotta per la sopravvivenza ed ereditarietà sembrava a Schiaparelli troppo arbitraria e accidentale per rendere conto di fenomeni che ai suoi occhi presentavano invece un rigore quasi matematico. Sotto l’effetto di un’evoluzione libera e senza freni (diremmo al di fuori dei parametri necessari) la natura produrrebbe una popolazione di “mostri”. Darwin aveva dato troppo spazio alle circostanze in cui l’organismo vive e si sviluppa, circostanze complesse che l’astronomo paragonava alle "onde nel mare in burrasca", che allontanano la biologia dalla possibilità di ottenere una conoscenza certa dei viventi. Per comprendere il mondo organico, Schiaparelli guardava allora all’universo della matematica, della fisica classica e delle leggi che regolano il mondo della materia, dalla chimica alla cristallografia. L’evoluzione per lui non era assolutamente libera, "ma è legata ad una formula fondamentale; i suoi risultati sono liberi soltanto entro i limiti concessi da una tal formula; il tipo trasformato si adatterà all’ambiente tanto, quanto da quella gli è concesso".
Il saggio non passò inosservato, come mostrano le recensioni apparse all’epoca su riviste scientifiche nazionali e straniere. Alla discussione sulla teoria dell’evoluzione regolata parteciparono biologi, filosofi e matematici, anti-evoluzionisti ed evoluzionisti di diversi orientamenti. Il dibattito tra i diversi attori fece emergere un educato, ma fermo confronto tra l’impostazione matematico-morfologica di Schiaparelli e quella fisico-biologica dei naturalisti, per lo più dubbiosi riguardo la legittimità di applicare la matematica alla conoscenza della complessità del vivente. Se lo psichiatra Enrico Morselli, pur esprimendo un certo interesse, diceva di non essere affatto convinto che la semplicità della geometria possa davvero cogliere la complessità della sfera organica, il filosofo pragmatista, matematico e storico della scienza Giovanni Vailati. non nascondeva le sue perplessità e non di meno recensì il saggio come un lavoro "denso di preziose suggestioni e di geniali vedute", che aveva il merito di dare un rinnovato impulso alla ricerca evoluzionistica in un momento di difficoltà come quello della fine del secolo.
Tra coloro che criticarono apertamente la teoria di Schiaparelli, associata a quella di Vignoli, ci fu in particolare il filosofo Erminio Troilo, all’epoca seguace del positivista Roberto Ardigò. Troilo contestò la visione discontinua del processo evolutivo che emerge dal saggio. La questione assumeva "un carattere filosofico universale", che si risolveva nella considerazione che "la legge di discontinuità non si possa applicare nel campo organico, e tanto meno si possa assumere come legge del cosmo. Come legge universale resta, nell’unità, la continuità universale". Per di più, Troilo considerava del tutto illegittimo il passaggio logico dal piano inorganico a quello dei viventi, operato da Schiaparelli:
“La considerazione della discretezza degli atomi della materia, dei rapporti delle combinazioni chimiche, dei sette tipi di cristallizzazione ecc., non può estendersi alla considerazione del campo dei viventi. Le relazioni che corrono tra il sistema esagonale e il monoclino sono tutt’altro che quelle che corrono per esempio tra il tipo vertebrato e l’invertebrato: e mentre a nessuno viene in mente di dire che la forma cristallografica esagonale è una evoluzione genetica della forma monoclina, la scienza pone invece per i viventi chiaro il problema che il vertebrato si svolga dall’invertebrato”.Tra i biologi la principale voce critica fu quella dello zoologo dell’Università di Bologna Carlo Emery, autore di uno dei più fortunati manuali di zoologia del tempo. Secondo Emery, la teoria di Vignoli era "una pura astrazione della mente che da una somma di osservazioni concrete ricava un disegno generale, non sempre rispondente al vero". Quanto a Schiaparelli, faceva notare che:
“(...) attribuire a ciascun organismo la sua equazione specifica, alle cui variazioni corrispondano modificazioni dell’organismo stesso, è un pensiero che, nella sua arditezza mi piace: esso tende a creare nuovi simboli, sui quali la mente possa lavorare con ragionamenti astratti, che dovrebbero poi, per non rimanere vana speculazione, essere ricondotti a concetti concreti, quindi suscettibili di controllo empirico”.
Nel confronto si fecero sentire anche le voci contrarie alla teoria dell’evoluzione. Il filosofo cattolico Lucio Gabelli nel 1900 sosteneva che la "genesi matematica della specie" non mancava certo di seduzione, ma l’errore di Schiaparelli era piuttosto quello dell’evoluzionismo: se le forme geometriche sono tenute insieme da una formula generale e non da un nesso genetico, perché questo non può valere anche per gli esseri viventi? Perché non ammettere che "alla formula unica, all’ordine" non può che conseguire "l’esistenza di un ente ordinatore, che nel caso nostro è Dio creatore?"
Gli anni del dibattito intorno alle idee di Schiaparelli furono segnati da un vivace interesse intorno alla possibilità di applicare la matematica alla biologia, all’economia e alle scienze sociali. In particolare, fu il matematico e filosofo Vito Volterra, pioniere della biomatematica. Non a caso, quindi, nel 1901 Volterra si richiamava, nel suo discorso intitolato Sui tentativi di applicazione delle matematiche alle scienze biologiche e sociali, anche all’"ardito tentativo del più illustre astronomo dei nostri giorni, lo Schiaparelli, di costruire un modello geometrico atto allo studio delle forme organiche e della loro evoluzione”, equiparato ai modelli meccanici della fisica di Maxwell e Boltzmann.
Per Volterra, Schiaparelli aveva fatto bene a pubblicare Forme organiche naturali e forme geometriche pure perché un matematico ha il dovere di aiutare le discipline più giovani, in particolare le scienze biologiche e sociali, avendo a disposizione un metodo certo e prezioso che può dissolvere le dense nebbie in cui sono ancora avvolti alcuni problemi. La matematica, utile per ottenere leggi generali e immaginare nuove ipotesi di lavoro, appariva allora come "la chiave che può aprire il varco a molti oscuri misteri dell’Universo, ed un mezzo per riassumere in pochi simboli una sintesi che abbraccia e collega vasti e disparati risultati di scienze diverse". Per muoversi in territori ancora inesplorati, era utile avere dei modelli, come quello di Schiaparelli, che "più che risolvere, apre ed aggiunge una nuova e particolare questione alle tante che già tengono il campo della biologia”.
La ricezione del saggio si propagò anche nel nuovo secolo. Il lavoro di Schiaparelli attirò l’attenzione di Agostino Gemelli, il quale nel 1906 nell’introduzione all’edizione italiana del volume del gesuita tedesco Erich Wasmann La biologia moderna e la teoria dell’evoluzione, si richiamava proprio alla teoria di Schiaparelli, indicandola come una via intermedia tra l’ipotesi evoluzionistica e l’invariabilità delle specie. L’interesse da parte di Gemelli rispecchia l’attenzione crescente dei cattolici per una versione più "mite" dell’evoluzione, ripensata (faute de mieux) in senso deterministico e teleologico.
Il saggio di Schiaparelli fece discutere non solo a cavallo del secolo, ma anche sul lungo periodo, alimentando una tradizione di studi che in Italia cercavano di coniugare biologia e scienze esatte. Nei primi decenni del Novecento, due figure di spicco della zoologia italiana si ispirarono infatti a Schiaparelli in alcuni loro lavori: la zoologa Rina Monti, una delle prime donne in Italia ad avere una cattedra universitaria, e il biologo Daniele Rosa, padre della teoria finalistica dell’ologenesi, secondo cui l’evoluzione degli organismi sarebbe avvenuta per processi interni e preordinati, a partire dagli organismi più semplici.
Nel 1915 la Monti vedeva nella teoria dell’evoluzione regolata un’affascinante spiegazione fisico-matematica, logica e necessaria, di alcuni nodi problematici dell’evoluzionismo, come la mancanza delle forme intermedie o l’origine delle specie da uno o più antenati comuni. Le idee di Schiaparelli furono riprese e arricchite dal punto di vista biologico da Daniele Rosa, il quale nell’introduzione a Ologenesi del 1918, per avvalorare la sua teoria si richiamava proprio all’opera dell’astronomo. Schiaparelli era già stato chiamato in causa nel 1913 nel discorso intitolato L’Arca di Noè e l’evoluzione, pronunciato da Rosa a Firenze. In questa occasione, per spiegare il concetto di evoluzione predeterminata proprio dell’ologenesi, Rosa utilizzò le parole di Schiaparelli, paragonando le specie presenti in potenza nel primo organismo esistito sulla Terra alle infinite proprietà geometriche contenute a priori in una formula matematica.
Ad affascinare zoologi come Monti e Rosa era la possibilità di applicare "nuovi metodi fisici allo studio dei fenomeni della vita", cercando anche per il mondo dei viventi leggi certe e necessarie, come quelle della gravitazione universale, della termodinamica o della cristallografia, senza rinunciare all’osservazione diretta o all’esperimento. Ai loro occhi, l’ipotesi di Schiaparelli offriva un modello di scientificità fisico-matematica, una chiave per leggere il mondo dei viventi.
Nella vasta letteratura evoluzionistica del tempo, Schiaparelli cercava esempi e conferme a sostegno della direzionalità e discontinuità del processo evolutivo. L’astronomo rifiutava il caso e la cieca selezione, da cui, a suo parere, non può nascere alcun ordine, abbracciando l’idea di una "meccanica teleologica", intesa come "un principio da cui tutti gli organismi si possano dedurre per catena di causa ed effetto".
Lo faceva ammettendo la sua ignoranza in biologia, con l’atteggiamento di chi vuol dare una mano da fuori, scrivendo di non sapere valutare neppure lui la portata della propria teoria e di sentirsi "nella curiosa posizione di uno, il quale avendo raccolto nella polvere della strada qualche cosa di luccicante, non sa troppo giudicare quanto valga, ed è obbligato a darlo in mano ai gioiellieri per sapere se è vetro vile, o pietra di qualche pregio".
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