Nessuno avrebbe potuto immaginare che quell'anno il carnevale sarebbe terminato prima del tempo. Colpito da una violenta indigestione, l'ultimo duca di casa Farnese agonizzava in compagnia degli schiamazzi delle maschere e dell'acciottolio insistente delle carrozze, che s'inseguivano per le vie cittadine sfidando i rigori dell'inverno. Era un requiem assai poco spirituale, ma che si adattava bene a quell'uomo gaudente e portato agli eccessi.
Steso sul letto e quasi soffocato dalla straripante pinguedine, Antonio Farnese riviveva in una sorta di delirio i momenti più esaltanti della sua ancora breve vita. Invano il confessore cercava di richiamarlo ai suoi ultimi doveri di cristiano; il duca pensava solo alle baldorie fatte prima di dover succedere al fratello, morto senza eredi.
Torino, Parigi, Londra, i Paesi Bassi, Vienna e poi Roma… Aveva assaporato e gustato i migliori frutti di mezz'Europa: tornei, concerti, balli e banchetti, i vellutati segreti delle alcove, niente era sfuggito alla sua insaziabile ingordigia. I ricordi fluivano, si sovrapponevano e si frammentavano nelle immagini più strane: carni burrose di cortigiane che si squagliavano in bocca come dolci zabaioni, voluttuose consistenze d'ostrica che scivolavano umide sulle labbra…
Il sacerdote guardò con disgusto quel corpo enorme che si agitava sul letto di morte e il viso arrossato che s'illuminava ancora di lascivia e di desideri impronunciabili. Come poteva concedere l'assoluzione ad un uomo che non dava segno di voler morire cristianamente? D'altronde era impossibile rifiutare il perdono di Dio a chi tra gli avi contava un papa e alcuni cardinali, a meno di suscitare uno scandalo d'enormi proporzioni. Monsignor Marazzani gli aveva lasciato capire che tutta la curia romana guardava al duca con particolare benevolenza; e quando un monsignore diceva tutta a quel modo, alzando un dito in direzione del cielo, ad un povero prete non restava altro che obbedire. Così, allontanando gli scrupoli come se fossero insetti molesti, benedisse il moribondo concedendogli la remissione di tutti i peccati.
All'indomani della morte dell'ultimo Farnese, quando già gli spagnoli e l'imperatore si preparavano a prendere possesso di Piacenza e Parma e i papalini scalpitavano a Bologna per fare altrettanto, si aprì il testamento e si venne a sapere che la dinastia, che aveva governato le due città per circa duecento anni, non si era estinta. Il duca Antonio, infatti, convinto che la moglie fosse rimasta incinta, aveva lasciato suo erede il ventre pregnante della Serenissima signora Duchessa.
Monsignor Marazzani camminava inquieto da più di mezz'ora. Il suo passo pesante, riconoscibile per lo sbattere dei tacchi, risuonava per il lungo corridoio che portava agli appartamenti ducali.
"Credete che ci vorrà ancora molto?" chiese al commissario apostolico.
"Mettetevi tranquillo! Il medico e le levatrici che stanno visitando la duchessa sanno il fatto loro. Vedrete che tra un po' verranno a confermarci quanto già sappiamo".
"Ma se, per ipotesi, la duchessa non fosse incinta?"
"Per carità, monsignore… per carità! Non pensatelo neanche! Sapete bene quanto ne soffrirebbe il pontefice, che tanto ha fatto perché questa dinastia continuasse".
Monsignor Marazzani ricordava bene con quale zelo il papa avesse cercato di dare moglie ad Antonio Farnese, che dal canto suo aveva ben altro in mente. Diverse erano state le proposte di matrimonio, tutte lasciate cadere: una Condé, una Borghese, una principessa del Liechtenstein… Finché era arrivata Enrichetta, la terzogenita del duca di Modena, che aveva sposato Antonio quando ormai nessuno ci sperava più.
"Parliamoci chiaro, monsignore - continuò il commissario apostolico. - Dove troveremmo un'altra famiglia disposta a governare sotto l'altro patronato della curia? Non penso proprio che l'infante di Spagna, proposto come successore dei Farnese dai trattati di pace di Vienna, sia quello che si definisce un docile agnello! Perciò negli interessi della Chiesa dobbiamo credere fermamente all'esistenza di un erede e, trattato o no, vedrete che alla fine gli imperiali se ne dovranno andare".
Camillo Marazzani percepì dell'astio nella voce dell'uomo mandato da Roma. Evidentemente l'arrivo dei tedeschi, che avevano occupato il ducato in nome dell'infante Carlo, gli bruciava ancora; pareva quasi che avesse subito un affronto personale… Cosa avrebbe potuto fare un individuo del genere, se tutto non fosse andato secondo i suoi piani?
Ad un tratto, da una delle porte, uscirono il medico e le cinque levatrici che avevano visitato Enrichetta.
"Dunque?" chiese il commissario apostolico con voce leggermente stridula.
"Possiamo affermare che la signora duchessa è in stato interessante" rispose il medico, senza mai staccare gli occhi dalle cinque donne.
"Ne siete davvero sicuri? Siete pronti a firmare una dichiarazione giurata?"
"Naturalmente. Se desiderate interrogare le levatrici, anche loro non potranno che ribadire quanto vi ho già detto. Non è vero? Rispondete dunque!" le esortò il medico con fare arrogante.
Abbastanza in soggezione, le donne confermarono la gravidanza.
"Va bene, va bene! Adesso potete ritirarvi… Avete visto, monsignore? La reggenza della duchessa è salva!" esclamò compiaciuto il commissario.
"Sì, ma per quanto tempo ancora?" pensò Camillo Marazzani. Se anche in quei pochi mesi fosse andato tutto bene, che cosa sarebbe capitato al ducato, se a nascere fosse stata una femmina anziché il sospirato erede maschio? La soldataglia spagnola, angherie, nuovi soprusi… Con quelle immagini negli occhi, il prelato cominciò ad invocare la divina provvidenza, perché esaudisse i desideri del papa.
Seduta ad una delle grandi finestre della sua camera, Enrichetta lasciava correre lo sguardo sugli alberi del parco. Che strano… Non si era mai accorta del languore sottile che coglieva le piante nel mese di settembre; bastava un refolo di vento o la bava impalpabile delle prime foschie, per fare breccia tra il fogliame rigoglioso. Già, ma quante volte si era fermata ad osservare ciò che la circondava? Sapeva di non essere molto intelligente: la dolce e cara Enrichetta dicevano di lei a Modena, poiché era evidente che non riuscivano a trovare un complimento migliore. Non era brillante, né bella e non aveva nessuna delle doti che avevano rese grandi le sue ave. Il matrimonio con Antonio Farnese era giunto inaspettato, quando tutti ormai la vedevano vestita da monaca in uno dei tanti conventi della zona.
"Antonio, perché mi avete lasciata?" singhiozzò, versando qualche lacrima.
Si sentiva perduta senza le cure e le attenzioni che il duca le aveva sempre prestato. All'inizio, quell'uomo grasso e molto più anziano di lei l'aveva spaventata; poi si era resa conto che quel poco che le chiedeva come marito veniva ogni volta ripagato con larghezza e signorilità. Le aveva fatto conoscere i giardini di delizia, i carnevali, le feste e le parate e lei si era fatta trascinare in quella girandola di lusso e di divertimenti con la leggerezza e l'irresponsabilità di una bambina.
La morte di Antonio aveva interrotto quel gioco e di colpo si era trovata circondata da persone importanti, che conosceva poco e che non le piacevano affatto, le quali avevano preso il controllo della situazione, imponendole un ruolo che non era suo. Voleva fuggire, scappare… Ma dove avrebbe potuto nascondersi, se gli occhi gelidi del commissario apostolico la seguivano ovunque? Anche durante la visita che le avevano imposto per verificare il suo stato, aveva sentito quello sguardo su di sé e le mani che perquisivano, violavano e umiliavano la sua intimità le erano sembrate quelle dell'incaricato del papa.
Tutto ciò che riguardava quella visita costituiva ancora un mistero. Ne aveva atteso il responso con timore e trepidazione, allo stesso modo di chi aspetta d'essere liberato d'un peso o d'una colpa. E invece non era successo nulla: il medico e le levatrici avevano accertato la gravidanza con soddisfazione di tutti, anche del papa che, con un breve, aveva confermato la reggenza. Nessuno aveva notato il suo stupore e il suo imbarazzo.
"Coraggio, duchessa - le aveva detto il vescovo Marazzani, immaginando che temesse per il buon esito della gravidanza. - Affidiamoci a Dio, perché tutto dipende dalla sua volontà!"
Gli occhi del commissario apostolico l'avevano sfiorata con un guizzo beffardo, in cui si mescolavano provocazione e ammonimento, e a lei non era rimasto altro che tacere.
Il letto troneggiava in mezzo alla stanza: preziose sete, finissime tele di Fiandra, pizzi e merletti d'un candore immacolato attendevano da giorni che si compisse il lieto evento.
Nascosta dietro una pesante portiera, Enrichetta vedeva finalmente il luogo dove si sarebbe deciso il suo destino. Avrebbe dato qualsiasi cosa per liberarsi dalla rete tessuta con le fragili illusioni del marito. Povero Antonio! Oppresso dalle continue insistenze del papa, aveva creduto che quella notte avesse risolto tutti i problemi della successione. Oh, ma non gliene faceva una colpa! Anche lei, alla lettura del testamento, se n'era convinta, nell'intima persuasione che le parole di un uomo ormai giunto in Cielo non potessero non essere vere.
Poi erano giunti i giorni del disinganno, ma per lei non c'era stato niente da fare. Come poteva dire la verità, quando nessuno voleva udirla? E più il tempo passava e più era difficile parlare: temeva di deludere le aspettative di tutto il ducato, temeva di essere derisa ed umiliata. Era al corrente che nelle città si scommetteva sulla sua gravidanza e che molti ridevano ancora per quel ventre pregnante scritto nel testamento. Così si era rassegnata e aveva cominciato a sperare in un miracolo. C'erano tanti santi in paradiso, capaci di compiere cose meravigliose! C'era chi riattaccava una gamba, chi sanava ferite, chi riportava in vita i morti. Piangerò la mia vedovanza e piangerò la mia sterilità si lamentava Sant'Anna; ma il Signore aveva ascoltato la sua preghiera... Perché non poteva capitare anche a lei di ricevere una grazia? Si era aggrappata con tenacia a quest'idea e continuava a crederci ancora, nonostante fosse ormai scaduto il tempo senza che niente fosse accaduto.
"Che fate, signora duchessa? - chiese una delle sue dame, scorgendola dietro alla portiera. - Nelle vostre condizioni, non dovreste stare in piedi!"
"Perché stanno mettendo quelle sedie? Perché quelle poltrone attorno al letto?" domandò Enrichetta.
"Ci sarà molta gente ad assistere al parto, duchessa. I membri della reggenza, i legati del papa e quelli dell'imperatore…"
"Volete dire che saranno tutti qui, mentre io…"
"La nascita di un Farnese non è mica una questione che si risolve in famiglia! - esclamò la dama, sconcertata da quell'ingenuità un po' ottusa. - Vedete? Là sederanno il vescovo e il commissario apostolico; qui il conte Baiardi e il conte Dal Verme…"
Enrichetta non sentiva più le parole della donna. Tutto le girava attorno: vedeva i visi, le espressioni, le smorfie di quel pubblico scelto, che attendeva le ultime battute di quella farsa. S'immaginò le risate di derisione e di scherno, le volgarità pensate e mormorate, la pietà e il disprezzo. Vide l'orrore in cui stava precipitando…
"Non sono incinta! - urlò con tutto il fiato che aveva in gola. - Non sono incinta, non lo sono mai stata!"
"Che dite, duchessa? Calmatevi, per carità! Qualcuno potrebbe sentirvi e andare a riferire cose non vere!"
"Non sono incinta! Qui non c'è nessuno che deve partorire!" gridò ancora la duchessa, sfuggendo all'abbraccio della dama.
Qualcun altro, però, dovette udirla, poiché in breve tempo tutti furono al corrente della falsa gravidanza; la sentì anche il commissario apostolico, mentre era ancora intento alle sue macchinazioni impossibili.
Il 14 settembre 1731 poteva dirsi conclusa l'opera buffa recitata all'ombra del teatro Farnese: con un comunicato ufficiale, in cui dichiarava sul suo onore di essersi ingannata, Enrichetta usciva di scena. Accompagnata dalle continue e vane proteste del papa, cominciava l'epoca dei Borboni.
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Il secondo dei racconti piacentini ancora inediti di Anna. Anche questo è tratto da una storia vera, compreso il bizzarro particolare del titolo lasciato da Antonio Farnese (1679-1731), ultimo della dinastia, al ventre pregnante della moglie Enrichetta d’Este che non era incinta. Il ducato passò così ai Borbone.
Non so se sto trollando ma leggendolo mi è venuto su un tormentone: provo a descriverlo.
RispondiEliminaAnna è sfortunata perché questa storia se l'avesse conosciuta Stanley Kubrik invece di Barry Lyndon avrebbe diretto Enrichetta e il Cardinale. Ne sono sicuro.
ebbrava la nostra Annuccia!!!! Aspettiamo gli altri racconti!
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