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domenica 12 agosto 2012

Monet, la cataratta e i colori

Ninfee, 1897-1899. Galleria d’arte moderna e contemporanea, Roma
Nel 1912 a Claude Monet (1840-1926), che da qualche anno lamentava problemi agli occhi, fu diagnosticata una cataratta bilaterale, che comporta un processo di progressiva perdita di trasparenza del cristallino e un ingiallimento e oscuramento dei colori percepiti. Man mano che la malattia progredisce, i cristallini degradati filtrano una parte dello spettro della luce visibile, e i colori che si percepiscono diventano confusi: i bianchi e i verdi diventano giallastri, i rossi assumono un tono arancio, i blu e i violetti sono sostituiti dai rossi e dai gialli; i dettagli si fanno vaghi e i contorni scompaiono per diventare sfuocati. 


Monet continuò a dipingere, ma la malattia lo costrinse a lottare per farlo. Si lamentava con gli amici che gli pareva di vedere tutto in una nebbia. Così scriveva intorno al 1914: "i colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti di luce con la stessa precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più profondi (...) Cominciai pian piano a mettermi alla prova con innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che lo studio della luce naturale non mi era più possibile ma d'altra parte mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colore non rientravano più nelle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza quando si trattava di colori vivaci, isolati all'interno di una massa di tonalità scure". In quegli anni, durante la fase acuta della malattia i colori dei suoi quadri assumono il fondo giallo opalescente dovuto al difetto del cristallino. Anche se stendeva i colori secondo l’abitudine e l’esperienza, confidando nell’ordine invariato dei colori sulla tavolozza e nelle etichette dei tubetti, non era più in grado di giudicare l’effetto che la sua opera poteva avere sul pubblico, né poteva ritoccare i dipinti senza il rischio di errori di giudizio. 

Stagno di ninfee, 1899. The Art Museum Princeton University, Princeton, New Jersey
Stagno di ninfee, 1908. Collezione privata, Sankt-Gallen
Tra il 1919 e il 1922 Monet temeva di dover smettere di dipingere. Poteva farlo solamente durante certe ore in cui l’illuminazione era ottimale, ed era conscio che la vividezza dei colori che vedeva era compromessa. Aveva da qualche anno rifiutato la proposta di un intervento chirurgico almeno all'occhio più colpito, perché temeva di perdere la vista o, quantomeno, di non riuscire più a cogliere distintamente le forme degli oggetti. La situazione stava tuttavia peggiorando, ed egli fu infine persuaso dall'amico Georges Clemenceau (suo futuro biografo) a vincere le proprie paure. 

Il ponte giapponese, 1920-22. The Museum of Modern Art, New York
Dopo anni di cure infruttuose, nel gennaio 1923, Monet fu operato per la rimozione del cristallino dell’occhio sinistro. Con una spessa lente correttiva, Monet poteva di nuovo vedere in modo accettabile, ma all’inizio lamentò visione doppia e distorsione delle immagini, rifiutando l’operazione all’altro occhio. Anche la percezione dei colori era radicalmente mutata: “Vedo il blu e non vedo più il rosso; ciò mi fa arrabbiare terribilmente perché so che questi colori esistono, perché so che sulla mia tavolozza c’è il rosso, il giallo, un verde speciale, un violetto particolare; non li vedo più come li vedevo un tempo”. Verso la fine dell’anno i problemi visivi si risolsero ed egli poté tornare a dedicarsi alla pittura. Solo che poteva vedere anche colori che non aveva mai visto prima. Monet, infatti, incominciò verosimilmente a vedere (e a dipingere) anche nell’ultravioletto. 

Noi possiamo convertire la luce nella visione grazie ai fotorecettori (coni e bastoncelli) della retina, che catturano i fotoni e attivano segnali elettrici che viaggiano fino al cervello attraverso il nervo ottico. I coni sono strutture pigmentate che si concentrano nella zona centrale della retina (la fovea) e sono deputati alla visione dei colori (fotopica) e alla visione distinta; ne esistono tre tipi diversi, sensibili rispettivamente al rosso, al verde e al blu. I bastoncelli, invece, sono più sensibili al movimento, sono impiegati per la visione al buio (scotopica) e si concentrano nella zona periferica della retina. 

L'occhio umano non è in grado di captare le onde luminose di lunghezza d'onda inferiore a quella del viola (ultraviolette) o di lunghezza superiore a quella del rosso (infrarosse). La visione avviene all’interno del cosiddetto spettro della luce visibile, che si colloca tra le lunghezze d’onda dai 380 ai 760 nm (1 nm, nanometro, corrisponde a un miliardesimo di metro). Gli uccelli, molti insetti e altri animali possiedono recettori in grado di vedere lunghezze d'onda luminose diverse da quelle percepite dall'essere umano. Ad esempio, si è scoperto che le api percepiscono i raggi ultravioletti, ma non percepiscono quelli rossi, che noi vediamo. La visione ultravioletta ha favorito l’evoluzione di pigmentazioni ultraviolette in molti organismi. In alcune specie di farfalle, maschi e femmine appaiono identici all'occhio umano, Tuttavia, alla luce ultravioletta, i maschi sfoggiano nitide macchie ultraviolette sulle ali per attirare le femmine. Molti fiori possiedono colori ultravioletti, spesso utilizzati per attirare l’attenzione degli insetti pronubi, come api e farfalle. 

Visione ultravioletta
Ciascun tipo di cono risponde con efficacia a un particolare colore, ma può essere sollecitato più debolmente dalle onde vicine nello spettro. Ad esempio, il fotorecettore sensibile alla luce violetta può rispondere debolmente alla luce ultravioletta, che possiede una frequenza maggiore. La maggior parte delle persone non fa questa esperienza, perché i nostri cristallini filtrano i raggi ultravioletti. Ma Monet poteva farlo, perché i soggetti con afachia (assenza del cristallino) sono spesso in grado di essere sensibili a lunghezze d’onda di 350 nm o meno ancora. Rimosso il cristallino, egli poté continuare a dipingere le ninfee e gli altri fiori, il ponte in stile giapponese, lo stagno e i giochi d’acqua e di luce tra i salici del suo giardino di Giverny, che fu il centro della produzione artistica del pittore negli ultimi trent’anni di vita. 

Lo stesso angolo di giardino prime e dopo l'intervento
Dopo l’operazione, sappiamo che Monet distrusse alcune delle sue tele più recenti. Molte di queste rimangono oggi solo perché furono messe in salvo dalla famiglia e dagli amici. Egli era perfettamente consapevole del mutamento nella sua percezione dei colori dopo l’intervento. Infine riprese fiducia nella sua capacità visiva e lavorò con lena a rifinire le grandi tele delle ninfee ora esposte al Musée de l’Orangerie di Parigi. 

Ninfee, 1920-26. Musée de l’Orangerie, Paris
Le ninfee rimasero uno dei suoi soggetti preferiti, solo che, dopo l’asportazione del cristallino, i fiori erano diversi. Scomparvero i toni giallastri dei dieci anni precedenti e tornarono i blu e i bianchi. Non è escluso, come è stato ipotizzato, che gli occhi di Monet potessero catturare alcune delle frequenze nel campo ultravioletto riflesse dai petali e a trasferirle su tela mescolando opportunamente il blu e il bianco. 

Un artista vede sempre cose che gli altri non vedono, è il suo dono ed è il suo compito rivelarle: così Marcel Proust (1871-1922), che amava i quadri di Monet e ne condivideva la sensibilità, dipinse (è il caso di dirlo) ad esempio le ninfee, in un brano del primo libro di Alla ricerca del tempo perduto, “La strada di Swann” (1913), che mostra rispetto all’opera del pittore una vicinanza impressionante: 

 Ma più lontano il fiume rallenta il suo corso, percorre una tenuta il cui accesso era aperto al pubblico da colui che la possedeva e che s’era compiaciuto in lavori d’orticoltura acquatica, facendo fiorire, nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, veri giardini di ninfee. (…) Qua e là, alla superficie, rosseggiava come una fragola un fior di ninfea dal cuore scarlatto, bianco agli orli. Più lontano, i fiori più numerosi erano più pallidi, meno lisci, più graniti, più increspati, e disposti dal caso in volute di tanta grazia che pareva di vedere nuotare alla deriva, come dopo lo sfogliarsi malinconico d’una festa galante, delle rose borraccine in ghirlande disciolte. Altrove, un angolo sembrava riservato alle specie più comuni, che sciorinavano i lindi bianchi e rosa della giuliana, lavati come porcellana con cura casalinga, mentre un po’ più lontano, serrati gli uni contro gli altri in una vera aiuola galleggiante, si sarebbero detti delle viole del pensiero, venute a posare come farfalle le loro ali bluastre e lucenti sull’obliquità trasparente di quell’aiuola acquatica; (…) 
(traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1978, pp. 180-181) 

Il ponte giapponese, 1919-24. National Gallery, London
Tuttavia, nel caso di Claude Monet, possiamo supporre che, negli ultimi due anni di vita, egli potesse vedere davvero cose che gli altri non possono vedere.

10 commenti:

  1. Gilles gibreel12/08/12, 22:58

    Imagination is better than knowledge?

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  2. sull'argomento ricordo un artiolo su "Le Scienze" (versione italiana di Scientific American verso la fine degli anni '60, anche se non posso essere più preciso.
    Enrico D.

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  3. Popinga, tu sei la mia vacanza. Grazie.
    http://www.youtube.com/watch?v=oSMVyFmBnbY

    B

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  4. AnonyMouse14/08/12, 13:42

    Questa é la Storia dell'Arte che non ci raccontano, quanto avrei voluto assistere a lezioni come questa..., grazie Pop

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  5. Interessante, mi ha ricordato la storia del pittore Louis Wain e dei suoi dipinti di gatti, sempre più "alieni" con l'aggravarsi della schizofrenia del suo autore. Forse gran parte dell'arte sta proprio nello sguardo "unico e diverso" dell'artista

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  6. esiste un legame di interdipendenza tra malattia e creatività artistica,non solo in caso di problemi visivi, ma in generale in caso di deficit di qualunque tipo?
    Personalmente credo di sì.
    http://www.artonweb.it/nonsoloarte/artemalattia/articolo1.htm

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  7. E' la tesi della la psicologa americana Kay Redfield Jamison, in Toccato dal fuoco, Longanesi, 1993, con riferimento alla depressione e al disturbo bipolare. Anche secondo me certe sindromi, soprattutto mentali, ma anche fisiche, possono essere da stimolo alla creatività artistica. Non è però il caso di Monet, che era già bravo prima della cataratta.

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  8. a volte quando leggi queste cose ai tuoi bambini ( beh, bambini, 14 anni...) loro dicono: "ma che me ne frega???"...poveri, non si rendono conto che più si impara più si vive meglio e che non si è mai finito di imparare...ottima lezione di storia dell'arte (e di scienze)!!!!

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