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venerdì 29 maggio 2015

Il contratto per i lavori di costruzione di Auschwitz III

"Già abbiamo una certa idea della topografia del Lager; questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. È costituito da sessanta baracche in legno, che qui chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di Häftlinge [= prigionieri, internati] privilegiati; le baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. Di più, alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo di otto, all’estremità est del campo, costituisce l’infermeria e l’ambulatorio; v’è poi il Block 24 che è il Krätzeblock, riservato agli scabbiosi; il Block 7, in cui nessun comune Häftlinge è mai entrato, riservato alla Prominenz, cioè all’aristocrazia, agli internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche (gli ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49, per soli Kapos; il Block 12, una metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos, funge da Kantine, cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida, e occasionalmente altri articoli; il Block 37, che contiene la Fureria centrale e l’Ufficio del lavoro; e infine il Block 29, che ha le finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del campo, servito da ragazze Häftlinge polacche, e riservato ai Reichsdeutsche.
I comuni Blocks di abitazione (baracche) sono divisi in due locali; in uno (Tagesraum) vive il capobaracca con i suoi amici: v’è un lungo tavolo, sedie, panche; ovunque una quantità di strani oggetti dai colori vivaci, fotografie, ritagli di riviste, disegni, fiori finti, soprammobili; sulle pareti, grandi scritte, proverbi e poesiole inneggianti all’ordine, alla disciplina, all’igiene; in un angolo, una vetrina con gli attrezzi del Blockfrisör (barbiere autorizzato), i mestoli per distribuire la zuppa e due nerbi di gomma, quello pieno e quello vuoto, per mantenere la disciplina medesima.

L’altro locale è il dormitorio; non vi sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle di alveare, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano, fino al tetto, e divise da tre corridoi; qui vivono i comuni Häftlinge, in numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quindi in buona parte delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disimpegno sono così stretti che a stento ci si passa in due; la superficie totale di pavimento è così poca che gli abitanti di uno stesso Block non vi possono soggiornare tutti contemporaneamente se almeno la metà non sono coricati nelle cuccette. Di qui il divieto di entrare in un Block a cui non si appartiene.
In mezzo al Lager c’è la piazza dell’Appello, vastissima, dove ci si raduna al mattino per costituire le squadre di lavoro, e alla sera per venire contati. Di fronte alla piazza dell’Appello c’è una aiuola dall’erba accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre." (P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1983)

L’organizzatissima struttura di lavoro coatto e di morte descritta da Primo Levi, deportato in quell’inferno nel 1944, è Auschwitz III, il campo satellite, situato a circa 7 chilometri da lager principale, vicino alla sede dell’insediamento industriale di Buna a Monowice, in cui si utilizzavano i prigionieri come schiavi per la costruzione di uno stabilimento per la produzione della gomma sintetica.
“Noi siamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da tedeschi e polacchi. Questo campo è un campo di lavoro, in tedesco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri (sono circa diecimila) lavorano ad una fabbrica di gomma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna.”
Buna era l’acronimo di Butadien-Natrium-Prozess, cioè il procedimento che aveva portato nel 1937-38 alla prima sintesi industriale del polibutadiene mediante la polimerizzazione anionica con il sodio come iniziatore radicalico e aveva consentito di produrre una gomma sintetica strutturalmente analoga a quella naturale. 


L’insediamento industriale, in allestimento dall’ottobre 1942, era stato voluto dal potentissimo e nazistissimo conglomerato chimico I.G. Farben, per poter trarre vantaggio dal costo del lavoro quasi nullo e dalle vicine miniere di carbone slesiane. La società aveva investito nell’impresa enormi capitali. Si trattava della più grande fabbrica chimica in costruzione all'epoca.
“La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager, che alla buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto”.
Le condizioni disumane di vita e lavoro per la costruzione e l’allestimento dell’impianto costarono la vita a un numero di deportati superiore ai 10 mila su un totale di circa 35 mila addetti, anche se la Buna Werke non entrò mai in produzione:
“Come diremo, dalla fabbrica di Buma, attorno a cui per quattro anni i tedeschi si adoperarono, e in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscì mai un chilogrammo di gomma sintetica”.
Infatti il sito fu pesantemente bombardato più volte nel 1944 e le contingenze militari per il Reich si fecero sempre più sfavorevoli. Il campo fu liberato dall’Armata Rossa (non dagli americani, Benigni!) il 27 gennaio 1945, dopo che l’evacuazione forzata degli internati nel gelo aveva provocato altre migliaia di vittime.


Il massacro fu tutta colpa dei tedeschi? Gli italiani “brava gente” erano del tutto ignari di ciò che si stava realizzando a Buna? Il fascismo non ebbe responsabilità dirette e indirette nella Shoah? No di sicuro, e possiamo portare una piccola ulteriore prova del coinvolgimento italiano nell’olocausto già prima della caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e della nascita successiva della asservita e collaborazionista Repubblica Sociale Italiana.

L’amico americano John F. Ptak, che si schermisce quando lo definisco “il miglior libraio scientifico esistente” ha pubblicato infatti tempo fa sul suo sito un articolo riguardante un fascicoletto di fogli in carta sottile intitolato Contratto per l’esecuzione di lavori di costruzione in partecipazione con imprese germaniche, nei cantieri di Heydebrek, Blechhammer e Auschwitz. L’atto fu stipulato nel marzo 1942 tra la I.G. Farben e la Confederazione Fascista degli Industriali per i lavori di edificazione dell’impianto di Buna così come di altre vicine strutture industriali a Heydebrek e Blechhammer (dove si dovevano costruire stabilimenti di gruppi come AEG, Uhde e Dyckerhoff). Il contratto fu pubblicato dalla Tipografia del Gianicolo di Roma per conto della Confederazione Fascista degli Industriali, Federazione Nazionale Fascista, Raggruppamento Germania. Il documento consta di 29 pagine, con fogli approssimativamente della dimensione A4. Dopo la guerra fu acquisito dalla Libreria del Congresso (che la ricevette il 12 luglio 1945), e successivamente venduto a John alla fine del 1999.

Una delle cose che più colpisce il lettore è il modo in cui vengono descritti con fredda precisione sia gli impianti industriali sia i campi dei prigionieri e le strutture per lo sterminio di massa. Dietro quelle righe anodine c’è l’orrore di uno dei crimini più grandi commessi dall’uomo sull’uomo, assurto forse alla rappresentazione stessa del Male. Il contratto elenca il numero degli addetti tedeschi e italiani, tecnici e operai non internati, descrive i loro alloggiamenti, il loro salario, gli incentivi, le pause, i periodi di riposo e di vacanza, le assicurazioni, il trattamento delle malattie e degli infortuni, ecc. e tutti i consueti particolari del lavoro in un grande progetto industriale. Morte e lavoro trattati con lo stesso burocratico scrupolo.

In calce compaiono i nomi dei firmatari dell’accordo per ciascuna delle parti: 
A) per IG Farbenindustrie AG, Heydebreck, Heydebreck OS: Adolf Mueller e (Hans) Deichmann. Quest’ultimo fu il legale rappresentante della IG Farben per l’Italia tra il 1942 e il 1945. Nel 1942 era incaricato di reclutare gli operai italiani per la costruzione dei campi di lavoro indicati; 
B) per Oberschleische Hydrierwerke AG, Blechhammer, Kreis-Consei: Schlick
C) per IG Farbenindustrie AGl Auschwitz, Auschwitz OS: Adolf Mueller e (Hans) Deichman.

Le firme dei rappresentanti italiani per la Confederazione Fascista degli Industriali sono quelle di Aurelio Aureli (presidente) e Giacomo Milella (direttore). L’ingegner Aurelio Aureli (1896-1950), il mese successivo alla firma del contratto con i tedeschi, il 23 aprile 1942, fu nominato Cavaliere del Lavoro (Brevetto n. 1162). La sua scheda sul sito della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro recita che:
“Laureatosi in ingegneria, fondò una sua ditta di costruzioni. Realizzò numerose opere in molte altre città italiane e a Roma, dove in particolare costruì il ponte Duca d'Aosta sul Tevere, uno dei più conosciuti della capitale. Alla grande capacità progettuale e alla competenza tecnica univa grandi doti di organizzatore. Ricoprì numerosi incarichi, fra i quali quello di presidente dell'Istituto case popolari e di presidente della Federazione nazionale fascista costruttori. In quest'ultima veste rappresentò varie volte il governo italiano e firmò alcuni protocolli d'intesa (…) Per favorire lo sviluppo delle conoscenze tecniche nel settore, fondò l'Istituto di studi e sperimentazione dell'industria edilizia, di cui fu per molti anni presidente”.
Un pezzo grosso del regime, insomma, specializzato nella costruzione di ponti (ne aveva costruiti anche a Siracusa e a Parma), pontiere anche negli accordi internazionali con altre potenze dell’Asse per la costruzione di opere edili (in Bulgaria, Albania, nella Grecia occupata dai nazisti). Era dotato di indubbie capacità organizzative, visto che seppe coinvolgere nel progetto di Buna imprese e lavoratori di tutta Italia, come risulta dalle pagine del contratto. In quell’impresa maledetta, con decine di migliaia di altri disgraziati, sarebbe stato coinvolto suo malgrado anche Primo Levi.






5 commenti:

  1. Grazie Popinga.
    Ciao
    yop

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  2. Mi sta venendo in mente che in fondo un contratto è l'essenza del libero mercato e che l'intera giurisprudenza (leggi) sotto tutti i cieli ,tutelano i contratti come cosa sacra al pari della libertà concepita come rapporti tra proprietari ed imprese.
    In effetti anche nelle democraticissime leggi parlamentari in materia di "contratti"si tutelano i contratti,la conclusione è che L'uomo non c'entra nulla...appunto ..SE QUESTO E' UN UOMO.

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  3. A proposito di Auschwitz, della Buna, di italiani, mi permetto segnalare il nome di Alberto Pirelli:
    http://diciottobrumaio.blogspot.it/2010/04/padroni-del-vapore1.html
    http://diciottobrumaio.blogspot.it/2010/04/padroni-del-vapore2.html

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  4. Una freddo rapporto tra le stime dei morti, ci ricordano che quelle del Belomorkanal del primo piano quinquennale furono all'incirca di un ordine di grandezza superiore a quelle della Buma. Anche lì tecnici-industriali (come Frenkel) e le eminenze grigie del regime stalinista avevano in animo di uccidere e nobilitare col lavoro le centinaia di migliaia di internati dei GULAG con le avveniristiche tecnologie di carrucole di legno. Alla fine pure la passerella del vate Gorkij (sarcasticamente narrata da Solgenitsyn), con il suo stuolo di intellettuali al seguito, per celebrare un canale che si rivelò per lo più inutile a causa della sua bassa profondità.

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    1. Non sono interessato al benaltrismo. Conosco i crimini dello stalinismo, ma qui si parla delle responsabilità italiane in un progetto di sterminio razziale.

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