La città
Secondo lo scrittore e critico inglese Malcolm Bradbury, “la letteratura del modernismo sperimentale emersa negli ultimi anni del XIX secolo era un'arte delle città, specialmente delle città poliglotte che, per varie ragioni storiche, avevano acquisito alta attività e grande reputazione come centri di scambio intellettuale e culturale”. Le grandi città come Berlino, Vienna, Parigi, Londra e New York, capitali culturali affermate, avevano al loro interno tutte le tensioni prodotte dal nuovo ambiente della vita metropolitana moderna. Esse concentravano le forze del cambiamento che dilagavano nel mondo, erano fermento di attriti, anzi di "caos culturale", focolai della dissoluzione di vecchi legami e identità; centri di migrazione, riunivano uomini di situazioni e condizioni ampiamente contrastanti. Impossibile da definire o trasmettere in forme tradizionali, la città moderna sembrava richiedere una rivoluzione nella sensibilità artistica e nell'espressione estetica.
Sintomi di questa esigenza, secondo il geografo, antropologo, sociologo e politologo britannico David Harvey, furono l'accelerazione del tempo e la compressione dello spazio che sono caratteristiche della città moderna. Per quanto riguarda la dimensione dello spazio, si può citare l'interazione sempre più complessa che risulta dalla giustapposizione di comunità diverse, di classe, etniche o religiose, i cui percorsi si intersecano nelle affollate strade cittadine. Inoltre, i mutevoli confini della città moderna, man mano che nuove popolazioni vi giungono, provocano uno spaesamento tale che il suolo “cambia sotto i piedi” degli abitanti. Così la mobilità geografica e sociale (inclusa l'esclusione sociale) può verificarsi anche se gli abitanti restano fermi, così che potrebbero non sentirsi più "a casa", anche se non si sono trasferiti. Alfred Döblin, in Berlin Alexanderplatz (1929) descrive lo spaesamento del protagonista Franz Biberkopf, che ha scontato una pena di quattro anni e che vive in una realtà sottoproletaria. La Berlino di Weimar è cambiata, e lui non trova più il suo posto. È diventato un escluso. Il romanzo, con tecniche espressive espressioniste, montaggi di tipo cinematografico, mescolanze e accostamenti di forme e stili diversi, descrive la sua lotta per il riscatto sociale tra mille peripezie in un contesto in cui la tecnologia, che aveva portato una notevole crescita della produzione industriale meccanizzata, viene vista come la fonte principale dell'alienazione dell'uomo.
Riguardo all'altra dimensione, quella del tempo, sono la rapidità e l'attesa del cambiamento che inevitabilmente trasformano la concezione di passato, presente e futuro. Il rapporto città-campagna non è solo spaziale, ma ancor più temporale: il ritorno in campagna dello scrittore è anche un viaggio nel passato; Cultura e Natura sembrano appartenere a scale temporali diverse piuttosto che coesistere nello stesso mondo. Eppure, sono legati nello spazio dalle innovazioni tecnologiche: le ferrovie, le poste e i fili del telegrafo, la radio, il cinema e la fotografia trasformano i ritmi della vita quotidiana e la natura dell'interazione sociale.
La città moderna installa così il movimento nel cuore della vita e in questo vortice fa precipitare l'artista, affascinato e inorridito dalla sua promessa e dal suo pericolo. Da qui la fondamentale ambivalenza dell'atteggiamento degli artisti nei confronti della città: da un lato, può essere vista come liberatoria e ispiratrice, vibrante di movimento, colore e immagine, una ricca fonte di metafore e narrativa. La città, la metropoli, diviene il nuovo palcoscenico della vita culturale; le sue strade sommerse di gente ed automobili, le sue vetrine ricche e attraenti, le sue luminarie accecanti, divengono un modello estetico plausibile: la strada diviene l’odierno e dinamico «museo del presente». Un tema significativo della letteratura modernista è quello dell'emancipazione artistica dentro e attraverso la città: il viaggio di scoperta e di scoperta di sé che termina "ai margini di una ridefinizione urbana di sé stessi - come se la ricerca di sé e dell'arte allo stesso modo potesse essere solo realizzata nel bagliore e nell'esposizione esistenziale della città” (Harvey).
Petals on a wet, black bough.
L’apparire di questi volti nella folla,
petali su un umido, nero ramo.
Non è necessario parlare di disumanizzazione delle masse da parte degli scrittori modernisti per riconoscere nella letteratura dei primi decenni del secolo l’attrazione mista con il risentimento e la paura verso la folla. L’ammirazione e diffidenza di William Carlos Williams così si esprimono riguardo a The Crowd At The Ball Game, la folla allo stadio del baseball (1939):
Le città industriali, con i loro mali, ma anche con le loro grandezze, sono descritte anche da Gabriele D'Annunzio, il quale coglie l'orrore quotidiano delle metropoli, ma anche un aspetto glorioso (orrida gloria, gloria delle città terribili) ed eleva la città a nuovo mito. In Maia. Laus Vitae, un lungo poema autobiografico pubblicato nel 1903, D’Annunzio (che in quanto a maschilismo nulla aveva da imparare da Marinetti) esalta un superomistico ardore di sperimentazioni e di avventura, non senza informarci delle sue numerose conquiste femminili, dee o mortali. Al ritorno da un lungo viaggio in nave nell’Egeo, il poeta si trova di fronte a una città orribile, industrializzata tanto che la definisce come il livello peggiore di decadimento dell'uomo, dove tutto è ridotto alla produzione e al mercato.
Per D’Annunzio la bellezza non abita nelle città, dove domina invece la corsa, l'energia. Alla sera, la luce che prevale è quella artificiale dei lampioni, che appaiono come lune penzolanti e i cavalli sono quelli di acciaio delle macchine, che lavorano tutto il giorno senza mai stancarsi.
Rappresentare qualcosa di così grande e amorfo come la città moderna, in continua e rapida trasformazione, richiede un'innovazione consapevole nella forma, nel tema e nei generi, una sperimentazione che rischia di lasciare perplesso il grande pubblico. Come fa lo scrittore a competere con il richiamo delle sirene dei mass media con la loro offerta di facile fruizione e sensazioni forti? Una risposta può essere quella del flâneur, che ogni scrittore adatta la figura alla propria particolare esperienza storica e tradizione letteraria. Baudelaire, già nel 1850, sosteneva che i cambiamenti sociali ed economici portati dall'industrializzazione richiedevano che l'artista si immergesse nella metropoli e diventasse, per usare le sue parole, "un botanico del marciapiede", un conoscitore analitico del tessuto urbano. Egli coniò il termine riferendosi ai parigini, ma questa figura è stata adottata in tutto il mondo per descrivere il borghese curioso e senza fretta che bighellona nella città osservandone gli aspetti sociali, urbanistici, estetici.
Guillaume Apollinaire seguì da vicino l'ingiunzione di Baudelaire di essere il "poeta della vita moderna": catturare l'epica nel mondano. Celebrando nella sua poesia le macchine e la tecnologia della Belle Époque, le routine della vita urbana, le trasformazioni del paesaggio urbano parigino, le sue innovazioni, sia nel contenuto che nella forma, lo hanno reso uno dei poeti francesi più influenti. La dialettica dell'immersione e della distanza dalla folla, dell'apertura al nuovo venata di nostalgia per il perduto, che caratterizzano i suoi scritti sulla città, rivelano inoltre tutta la complessità e l'ambiguità dell'impegno dell'artista con la modernità.
Zone è la poesia di apertura della raccolta. Cambiando il titolo della raccolta da Eau de vie in Alcools e decidendo di togliere ogni punteggiatura, l'autore aggiunse all’inizio la poesia, ultima scritta. Colpisce l'aspetto del poema: alcuni versi sono staccati, altri raggruppati in strofe; non c'è una vera regolarità. Si tratta di versi liberi, le leggi della versificazione non sono rispettate. In questa lassa si trova un'evocazione modernista della capitale:
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