Pagine

venerdì 13 agosto 2021

Almidano Artifoni tra le rocce erranti (dell'Ulysses di Joyce)

 


The Wandering Rocks (Le rocce erranti), decimo episodio dei diciotto dell'Ulysses di James Joyce (1922), racconta le attività dei cittadini nelle strade di Dublino tra le tre meno cinque e le quattro del pomeriggio del 16 giugno 1904. Composto da diciannove brevi scene quasi disarticolate, che mostrano collettivamente quasi tutti i personaggi dell’opera, questo episodio è sia un intermezzo tra le due metà sia una miniatura del tutto. Limitato spazialmente dai percorsi paralleli di due illustri personaggi, il reverendo John Conmee e l’Earl of Dudley, viceré d’Irlanda, che raffigurano la Chiesa e lo Stato coloniale che stringono idealmente la città di Dublino, l’episodio fu pensato come simbolo dell’ambiente ostile, tuttavia ogni personaggio è un protagonista, per cui si respira un’atmosfera corale.



L'episodio è l'unico dell’Ulysses senza un diretto parallelo omerico. Le Rocce Erranti compaiono nell'Odissea solo di terza mano, nel racconto di Ulisse ai Feaci del presagio di Circe sulle due vie di ritorno a Itaca: il percorso attraverso le "Rocce Erranti, o Vagabonde", "le cui onde ribollenti, sotto alti possenti venti, / portano sballottando relitti di navi e uomini” e il percorso tra Scilla e Cariddi. Poiché Ulisse opta per quest'ultima strada, che Joyce ha tracciato nell'episodio 9 (Scilla e Cariddi, appunto), The Wandering Rocks allude alla strada non intrapresa nell'epopea di Omero. Sebbene l’Ulysses qui diverga dalla trama dell'Odissea, Omero fornisce ancora l'ispirazione fondamentale per l’episodio, con i due percorsi dei potenti che, come confini mobili (rocce erranti), minacciano lo spazio intermedio, Dublino.



La sesta scena vede Stephan Dedalus mentre parla (in italiano, anche nell’originale) con il maestro di canto dall’altisonante nome di Almidano Artifoni. Pare che la decisione di Stephen di non intraprendere quella che potrebbe essere, secondo Artifoni, una redditizia carriera vocale sia legata alla sua convinzione che "il mondo è una bestia" (il travagliato giovane avrebbe detto che è un inferno).

Questa è la traduzione della scena di Enrico Terrinoni, per l’edizione che ha curato per Newton Compton (Roma, 2015). In corsivo sono le parole in italiano nell’originale di Joyce:


Ma! fece Almidano Artifoni.
Lanciò uno sguardo oltre le spalle di Stephen verso la zucca bitorzoluta di Goldsmith.
Due vetture cariche di turisti passavano lentamente, le donne sedute davanti, aggrappate vistosamente al corrimano. Visi pallidi. Le braccia degli uomini cingevano vistosamente le loro sagome rachitiche. Dal Trinity guardarono il colonnato cieco della bank of Ireland, dove tuuuubavano i piccioni.
Anch’io ho avuto di queste idee, disse Almidano Artifoni, quand’ero giovine come Lei. Eppoi mi sono convinto che il mondo è una bestia. E peccato. Perché la sua voce… sarebbe un cespite di rendita, via. Invece, Lei si sacrifica.
Sacrifizio incruento, disse Stephen sorridendo, facendo lentamente dondolare di qua e di là il bastone di frassino, tenendolo con levità per un punto mediano.
Speriamo, disse benevolmente la rotonda faccia baffuta. Ma, dia retta a me. Ci rifletta.
All’altezza della petrosa mano severa di Grattan, che imponeva l’alt, un tram per Inchicore scaricò in maniera sparsa i soldati di una banda del reggimento scozzese degli Highlanders.
Ci rifletterò, disse Stephen, abbassando lo sguardo sulla massiccia gamba dei pantaloni.
Ma, sul serio, eh? disse Almidano Artifoni.
La sua mano pesante strinse con vigore quella di Stephen. Occhi umani. Scrutarono curiosamente un istante e di colpo si voltarono verso il tram per Dalkey.
Eccolo, disse Almidano Artifoni con amichevole fretta. Venga a trovarmi e ci pensi. Addio, caro.
Arrivederla, maestro, disse Stephen, togliendosi il cappello non appena la mano fu libera. E grazie.
Di che? disse Almidano Artifoni. Scusi, eh? Tante belle cose!
Almidano Artifoni, tenendo in mano come segnale uno spartito arrotolato a manganello, trotterellò coi suoi calzoni pesanti dietro al tram per Dalkey. Invano trotterellò, facendo segno invano tra la ressa degli scozzesi con le ginocchia nude, intenti a introdurre furtivamente i loro strumenti musicali attraverso i cancelli del Trinity.

Più tardi, troviamo un cenno al baffuto insegnante di musica italiano nella diciassettesima scena (“Almidano Artifoni superò Holles Street procedendo oltre il cantiere di Sewell”) e nell’ultima, dove il corteo del Viceré d’Irlanda, passando per Landsdowne Road, incontra il saluto distratto, doveroso, ipocrita degli astanti “e il saluto dei pantaloni resistenti di Almidano Artifoni, inghiottiti da una porta che si chiudeva”. Quella porta che si chiude segna anche la fine dell’episodio.


Il cognome Artifoni significava qualcosa di importante per Joyce, perché si trova anche in Stephen Hero, una lunghissima opera autobiografica che Joyce scrisse tra il 1904 e il 1907 e che non completò perché persuaso che mancasse di controllo artistico e forma. Joyce lo riscrisse come "un'opera in cinque capitoli" con un titolo, Ritratto dell’artista da giovane, o Dedalus (1916), inteso a dirigere l'attenzione sulla figura centrale, Stephan Dedalus. Giuntoci in due frammenti disomogenei, forse parzialmente distrutto dallo stesso Joyce, il manoscritto di Stephen Hero fu ritrovato dopo la sua morte e pubblicato postumo nel 1944. L’edizione italiana, nella traduzione di Carlo Linati, porta il titolo Le gesta di Stephen (Mondadori, 1993). Charles Artifoni è in Stephen Hero l’insegnante di italiano di Stephen all’University College di Dublino (allora retto dai Gesuiti):

“Stephen scelse come materia opzionale l'italiano, in parte per il desiderio di leggere Dante in un modo serio e in parte per sfuggire la ressa delle lezioni di francese e tedesco. Nessun altro al college studiava italiano, così un mattino sì e uno no Stephen veniva al college alle dieci e saliva alla stanza di Padre Artifoni. Padre Artifoni era un moretto intelligente che veniva da Bergamo…”

Sappiamo dalla biografia di Joyce che il suo insegnante di italiano si chiamava in realtà padre Charles Ghezzi s.j., trasformato in Artifoni. Ghezzi compare in altri racconti di Joyce, con il nome sempre cambiato, ma con le stesse fattezze.

E Almidano Artifoni? Era un personaggio reale? Possiamo con certezza rispondere affermativamente, ma egli non era né un gesuita, né un musicista. Era un uomo che aveva fatto del bene a Joyce, al punto da meritarsi le citazioni che sono state riportate.

Il bergamasco Almidano Artifoni (1873-1950, dopo essersi diplomato alla Scuola superiore di Commercio di Genova, fu per cinque anni insegnante alla Berlitz School di Amburgo in Germania, arrivando a diventarne il direttore. Nel 1900 si trasferì a Trieste, per aprirvi la locale filiale della Berlitz. Qualche anno più tardi divenne molto importante nella vita dello squattrinato James Joyce (giunto a Trieste nell’ottobre 1904 con la compagna Nora Barnacle incinta), che tolse dalle ristrettezze assegnandogli un posto di insegnante di inglese presso la sede distaccata di Pola, e poi nella sede centrale della stessa Trieste, dove successivamente diede lavoro anche al fratello di Joyce, Stanislaus, che aveva raggiunto James nel capoluogo giuliano.

Nel 1907 Artifoni lasciò la direzione della Berlitz School nelle mani di altri due insegnanti, anche se continuava a presentarsi come direttore. Insegnò ragioneria alla Scuola Superiore di Commercio Revoltella e aiutò Joyce a ottenere il ruolo di insegnante d’inglese nello stesso istituto tra il 1910 e il 1913. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il vero Artifoni rimase a Trieste lavorando come esperto contabile per il Tribunale.

E lo pseudo-Artifoni maestro di canto che compare nell’Ulysses? Era il maestro napoletano Luigi Denza, compositore di Funiculì funiculà, insegnante alla London Academy of Music, il quale nel 1904 aveva presieduto la giuria del prestigioso concorso di canto dublinese Feis Ceoil, a cui Joyce aveva partecipato vincendo la medaglia di bronzo. Si disse che avesse rinunciato alla finale a causa della richiesta di cantare un pezzo leggendo la musica.  Joyce era infatti un melomane appassionato, aveva una bella voce tenorile e prese qua e là lezioni da diversi maestri. Durante il soggiorno triestino era stato allievo di Romeo Bartoli quando si iscrisse al Conservatorio di Musica di Trieste nell’ottobre del 1908 con l’intenzione di esercitare la voce per dedicarsi a una carriera da professionista. Bartoli gli confermò di essere dotato di una voce piuttosto buona e gli promise che sarebbe stato pronto a salire su un palco entro due o tre anni. Si sa, inoltre, che Joyce diede a Bartoli delle lezioni di inglese ed è possibile che i due scambiassero le proprie prestazioni professionali. In realtà la “carriera” di Joyce si sarebbe limitata alla performance resa nel quintetto tratto da Der Meistersinger di Wagner al concerto di fine anno del Conservatorio, il 3 luglio 1909.

Insomma, Artifoni, uno e trino, vero o prestanome, rappresentò per lo scrittore irlandese una figura positiva (“Occhi umani”) che volle ricordare nelle sue opere e, soprattutto, nel suo capolavoro.


Nessun commento:

Posta un commento