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mercoledì 1 aprile 2009

Primo Levi poeta del principio



La raccolta Ad ora incerta di Primo Levi (1919-1987), pubblicata da Garzanti nel 1984, raduna quarant’anni della sua poco conosciuta attività di poeta e traduttore di poesie. Essa costituisce un capolavoro isolato all’interno della sua opera, anche se con essa è coerente. La poesia è stata per lo scrittore un vero e proprio bisogno, anche se saltuario. Egli si schermiva dicendosi un po’ a disagio nei panni di poeta, ed ebbe a dichiarare: "Per me l’etichetta di poeta è inconsueta, mi sento un attore fuori parte", aggiungendo che "Non si può chiamare poeta chi, come me, fa in media una poesia all’anno". In realtà si tratta di opere assai belle, scritte in un linguaggio che rifugge dagli ermetismi e dai barocchismi. Del resto il suo “programma poetico” è chiaramente esposto nella prefazione:

“In tutte le civiltà, anche in quelle senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono. Anch’io, ad intervalli, “ad ora incerta”, ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale”.

Il titolo della raccolta riprende un verso della Ballata del vecchio marinaio di Sameul Taylor Coleridge:

Since then, at an uncertain hour,
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
This heart within me burns.

Da allora, a un’ora incerta,
Quell’agonia mi torna;
E finché la mia storia di orrore non sarà detta
Questo cuore brucia in me.

Il poemetto del poeta romantico inglese doveva essersi sedimentato profondamente nell’animo di Primo Levi, se egli premise la stessa quartina anche alla sua ultima opera, I sommersi e i salvati, del 1986. Non è difficile riscontrare l’analogia che lo scrittore piemontese sentiva tra sé e il vecchio marinaio, partecipi della stessa ineluttabile maledizione del ricordo di terribili esperienze e del bisogno di farlo conoscere ad altri attraverso il racconto.

Si ritrovano nella raccolta le stesse atmosfere del Levi narratore, le sensazioni e i pensieri noti attraverso la prosa, ma come proiettati, scriveva Gina Lagorio, “in un orizzonte senza confini esclusivamente segnati dal filo spinato, in un tempo senza tempo che è quello dell’umano destino, medusa che non finisce di impietrire chi osa guardarla”. Le poesie su Auschwitz tuttavia sono solo otto, e lasciano spazio anche ad altri aspetti, altre qualità meno note dello scrittore. Accanto alla riflessione sul destino dell’uomo moderno, sui pericoli di una tecnologia mal adoperata, sulla menzogna che “evangelizzerà con la bestemmia e la forca”, c’è l’umorismo, ad esempio, che per lo scrittore costituisce quasi un elemento salvifico, una faccia della pietà, se non una forma di laica religiosità di un ateo dichiarato. Così la sua rivisitazione dell’arcinota poesia del Carducci: “Pio bove un corno. Pio per costrizione, / Pio contro voglia, pio contro natura, / Pio per arcadia, pio per eufemismo. / Ci vuole un bel coraggio a dirmi pio / E a dedicarmi perfino un sonetto”.

Nella raccolta compare anche una poesia scritta il 13 agosto 1970 sull’origine dell’universo, Nel principio, in cui il chimico scrittore sostiene la teoria cosmologica del Big Bang contro ogni illusoria tentazione creazionista, respingendo qualsiasi riferimento metafisico e negando le tradizioni ebraica e cristiana.

Nel principio

Fratelli umani a cui è lungo un anno
Un secolo un venerando traguardo,
Affaticati per il vostro pane,
Stanchi, iracondi, illusi, malati, persi;
Udite, e vi sia consolazione e scherno:
Venti miliardi d’anni prima d’ora,
Splendido, librato nello spazio e nel tempo,
Era un globo di fiamma, solitario, eterno,
Nostro padre comune e nostro carnefice
Ed esplose, ed ogni mutamento prese inizio.
Ancora, di quest’una catastrofe rovescia
L’eco tenue risuona dagli ultimi confini.
Da quell’unico spasimo tutto è nato
Lo stesso abisso che ci avvolge e ci sfida,
Lo stesso tempo che ci partorisce e travolge,
Ogni cosa che ognuno ha pensato,
Gli occhi di ogni donna che abbiamo amato,
E mille e mille soli, e questa
Mano che scrive.

Dal punto di vista lessicale, il testo si presenta senza difficoltà interpretative. Solamente, al verso 11, la frase “quest’una catastrofe rovescia”, richiede commento, proprio perché complica il significato usuale per la presenza del latinismo una, cioè unica, del grecismo catastrofe, qui usato, oltre che nel senso di rivolgimento e in quello metaforico di disastro, molto probabilmente nell’accezione scientifica di “discontinuità”. L’aggettivo rovescia ribalta il significato comune di catastrofe: si tratta di un inizio, non di una fine.

Il titolo stesso presenta una novità polemica nei confronti della tradizione, perché usa la preposizione articolata nel che evidenzia una certezza, una determinazione: c’è un solo inizio, unico e assoluto, una singolarità fisica e matematica. Netta è la contrapposizione alla prima parola del Genesi: bereshit, che le traduzioni greca, latina e, successivamente, italiana, rendono con “In principio”, che, di per sé, serve a indicare semplicemente un inizio narrativo. Levi, invece, si distacca dalla tradizione religiosa, che colloca l’inizio in un tempo indeterminato, altro e mitico. C’è un solo inizio, che è quello cosmologico, collocato venti miliardi d’anni prima d’ora. La correttezza della data non importa, l’indicazione è perfettibile, perché con quell’origine, quell’unico spasimo, ha avuto inizio anche il tempo, che ci partorisce e travolge.

Lo scrittore non è il profeta, nonostante quell’Udite: egli è invece su un piano di uguaglianza con tutti gli esseri umani, che sono fratelli : esiste quindi una condizione comune che non ammette distinzioni o privilegi e da questa uguaglianza non può derivare che sorte comune e solidarietà. Tutti siamo accomunati dalla comune origine, e ancora si sente l’eco tenue di quel globo di fiamma insieme padre e carnefice. E a me, se l’accostamento non scandalizza, viene in mente il ritornello del brano Pagana di Gianfranco Manfredi dall’album Biberon del 1978: “ È pagana / la natura che ci chiama / che ci tende la sua trama / che ci odia e che ci ama, / è pagana / e non è così lontana”.


4 commenti:

  1. Popinga, io conoscevo Manganelli soltanto per Tex (che era una passione di mio padre e i Tex li conservava tutti, che ce li ho ancora sai), e poi per le sceneggiature cinematografiche (che la storia incestuosa di "Fotografando Patrizia" era bellissima e particolare, mentre il film orrendo - peccato), ma non avevo mai letto i testi delle sue canzoni e la sua musica non la conoscevo.
    L'ho cercata un po', girovagando qui da te.
    E non conoscevo nemmeno la "Poetica" di Levi, la sua idea di Poesia. Io Levi l'ho studiato sempre catalogato in modo troppo stretto tra gli Autori della Resistenza, come narratore, invece no, c'era di più.
    Però, quello che ti volevo dire, è che in questo post le note più poetiche sono le tue (anche nel post su Alberti c'è tanta poesia, che magari dovevo scriverlo là ecco).

    B

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  2. B.: grazie, sei troppo buona, come al solito. :-)

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  3. Scusa Popinga, ho scritto Manganelli, ma era Manfredi, Manfredi che dici tu, scusa!
    Manganelli mi era venuto in mente leggendo altre cose, che lui lo conosco bene, invece.

    B

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  4. Lo avevo capito, B.: di Manganelli, dell'album fotografico della figlia, proprio oggi ne ha parlato Alessandro Bonino, ma io l'album lo conoscevo già da Il Caffé illustrato, la bella rivista diretta da Walter Pedullà.

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