Come poeta Galileo ci ha lasciato nove testi: sei sonetti, due canzoni e un capitolo in terza rima di circa trecento versi intitolato Capitolo contro il portar la toga. Si tratta di una satira briosa, composta tra il 1589 e il 1592, contro le convenzioni sociali e la ristrettezza mentale del mondo accademico pisano, dominato dal pensiero aristotelico. Le teorie galileiane sul moto già in questo periodo contrastavano profondamente con alcuni punti fondamentali della fisica aristotelica, riguardo ai concetti di velocità, di gravità, di vuoto, i quali, inseriti in un quadro teorico nuovo, assumevano connotazioni diverse da quelle tradizionali. Sottolineando inoltre la totale ignoranza di Aristotele nelle discipline matematiche e geometriche, la cui conoscenza unicamente permette di “discernere il vero dal falso”, Galileo si poneva in aperto contrasto sul piano del metodo scientifico con i peripatetici dello Studio.
Antonio Marzo, curatore delle «Rime» galileiane, nota come la canzone si ispiri allo stile burlesco del Berni (1497?-1535) e come vi abbondino i doppi sensi libertini. L’opera doveva circolare per il divertimento degli amici, ma contribuì di certo ad alienargli le simpatie degli altezzosi e bigotti colleghi accademici. La scrittura di questo capitolo certamente non fu un semplice passatempo per lo scienziato, ma fu il frutto di un’assidua consuetudine con i testi letterari rinascimentali e a lui contemporanei.
All’epoca Galileo era già professore: nella toga accademica, che avrebbe dovuto indossare anche fuori delle aule per decreto del rettore dello Studio di Pisa (1590) vede una grande ipocrisia, un lusso pretenzioso che copre gli abiti sottostanti, miseri e laceri a causa della magra paga dei docenti in una Università sempre più degradata (nihil sub sole novi). E la toga diventa imbarazzante quando si va a trovare qualche signorina di facili costumi e si deve attendere il proprio turno davanti alla sua porta, sotto l’occhio dei passanti:
La prima penitenza che ci sia
(Guarda se per la prima ti par nulla),
È ch'io non posso fare i fatti mia,
Come sarebbe andar alla fanciulla;
Ma mi tocca a restar fuor della porta,
Mentre ch'un altro in casa si trastulla.
Dicon ch'è grave errore, e troppo importa,
Ch'un dottor vadia a casa le puttane:
La togal gravità non lo comporta.
Nel 1592 avrebbe lasciato Pisa per Padova, attratto da una paga più alta e da un ambiente più libero, un clima che il contemporaneo Gualdo descrisse con queste parole: “Tu non potresti trovare alcun’altra accademia in cui la pace, nutrice delle muse, inviti a sé senza differenza alcuna i dotti. Qui non v’è alcuno che indiscreto spii la vita dei forestieri, ma gente d’ogni terra ha in Padova piena libertà di vita secondo i propri costumi e insieme sicura integrità e agevolezza di studio, così che, ritornati alla patria loro, ogni volta che rammentano la libertà padovana ne sospirano.”
Nel testo è evidente l'insofferenza del ventiseienne Galileo per l’ambiente aristotelico in cui si muove, per chi con faticosa erudizione va "il sommo ben investigando", laddove, per lui, "a chi vuol una cosa ritrovare / bisogna adoperar la fantasia / e giocar d'invenzione, e ‘ndovinare". Scrive Galileo: “… per trovar il bene io ho provato / che bisogna proceder pel contrario:/ cerca del male, e l’hai bell’e trovato”. La tesi che egli difende è (come ben sanno, dice, persino gli animali) che "un male a null'altro secondo" è "l’andar vestito", da cui consegue che "il sommo ben sarebbe andare ignudo" (noto tra parentesi che l’opera è un cult nei siti dei naturisti). Figuriamoci portar la toga! Galilei ritiene che la veste sia stata inventata da qualche burlone per canzonare gli ignoranti che giudicano la sapienza in relazione alla “toga di rascia [= panno grossolano] o di velluto” che uno porti. Molteplici, divertenti e maliziosi gli argomenti a sostegno: sessuali, sociali, economici, pratici, di convenienza, per giungere a concludere che gli uomini sono fatti come i fiaschi: quelli più rustici "che non han tanto in dosso" son pieni di eccellente vino, mentre quelli che han "veste delicate" spesso "o son pieni di vento, / o di belletti o d'acque profumate, / o son fiascacci da pisciarvi drento".
Il poemetto non è un occasionale esercizio goliardico, frutto di intemperanza giovanile. Anche altrove in Galileo si possono rintracciare analoghi termini coloriti, espressioni e ammiccamenti piccanti, insofferenza anticlericale (con buona pace dei tentativi preteschi di annoverarlo tra le proprie schiere): si vedano per esempio le sue note a margine di testi di studiosi di cui critica le idee, o le sue Considerazioni al Tasso, o passi delle sue lettere. La Toga ben descrive il suo umore di toscanaccio irriverente, frequentatore delle osterie pisane:
alle Bertuccie , al Porco, a Sant' Andrea
al Chiassolino o alla Malvagia (…)
Tale sarebbe rimasto fin negli anni della vecchiaia e del confino. A riprova sta il fatto che, nel 1640, mezzo secolo dopo la composizione del testo, provveda egli stesso a inviarne copia all’amico e allievo Renieri, il quale lo ha informato che a Pisa "il Sig. Auditor Fantoni ha fatto spolverar le toghe a’ dottori; onde adesso non si vede altro che togati, e sarebbe molto a proposito il Capitolo che fece già V. E. Ecc.ma". Ricevuto il testo, Renieri ringrazia e scrive al maestro: "Habbiamo, con uno o due amici, riso un pezzo della Toga". Ritengo che anche i lettori di oggi, quattro secoli più tardi, possano trarre dalla lettura lo stesso divertimento degli amici del Renieri.
Capitolo contro il portar la toga
Mi fan patir costoro il grande stento,
Che vanno il sommo bene investigando,
E per ancor non v'hanno dato drento.
E mi vo col cervello immaginando,
Che questa cosa solamente avviene
Perchè non è dove lo van cercando.
Questi dottor non l'han mai intesa bene,
Mai son entrati per la buona via,
Che gli possa condurre al sommo bene.
Perchè , secondo l'opinion mia,
A chi vuol una cosa ritrovare,
Bisogna adoperar la fantasia,
E giocar d'invenzione, e 'ndovinare;
E se tu non puoi ire a dirittura,
Mill'altre vie ti posson aiutare.
Questo par che c'insegni la natura,
Che quand'un non può ir per l'ordinario,
Va dret'a una strada più sicura.
Lo stil dell'invenzione è molto vario;
Ma per trovar il bene io ho provato
Che bisogna proceder pel contrario:
Cerca del male, e l'hai bell'e trovato;
Però che 'l sommo bene e 'l sommo male
S'appaion com'i polli di mercato.
Quest'è una ricetta generale:
Chi vuol saper che cosa è l'astinenza;
Trovi prima che cosa è 'l carnovale,
E ponga tra di lor la differenza;
E volendo conoscer i peccati,
Guardi se 'l prete gli dà penitenza;
E se tu vuo' conoscer gli sciaurati,
Omacci tristi e senza discrizione,
Basta che tu conosca i preti e' frati,
Che son tutti bontà e divozione:
E questa via ci fa toccar il fondo,
E sciogl'il nodo alla nostra questione.
Io piglio un male a null'altro secondo,
Un mal che sia cagion de gli altri mali,
Il maggior mal che si trovi nel mondo;
Il quale ognun che vede senz'occhiali,
Che sia l'andar vestito, tien per certo;
Questo lo sanno in sino gli animali,
Che vivono spogliati e allo scoperto;
E sia pur l'aria calda o 'l tempo crudo,
Non istan mai vestiti o al coperto.
Volgo poi l'argomento, e ti conchiudo,
E ti fo confessare a tuo dispetto,
Che 'l sommo ben sarebbe andare ignudo.
E perchè vegghi che quel ch'io ho detto
È chiaro e certo e sta com'io lo dico,
Al senso e alla ragion te ne rimetto.
Volgiti a quel felice tempo antico,
Privo d'ogni malizia e d'ogni inganno,
Ch'ebbe sì la natura e 'l cielo amico;
E troverai che tutto quanto l'anno
Andava nud'ognun, picciol e grande,
Come dicon i libri che lo sanno.
Non ch'altro, e' non portavon le mutande,
Ma quant'era in altrui di buono o bello
Stava scoperto da tutte le bande.
E così ognun, secondo il suo cervello,
Coloriva e 'ncarnava il suo disegno,
Secondo che gettava il suo pennello;
Nè bisognava affaticar l'ingegno
A strolagar per via d'architettura,
O 'ndovinar da qualche contrassegno:
Non occorreva andar per cognettura,
Perchè la roba stava in su la mostra,
E si vendeva a peso e a misura.
E quest'è la ragion che ci dimostra
Ch'allor non eron gl'inconvenienti,
Che si veggon seguire all'età nostra.
Quella sposa si duol co' suo' parenti,
Perchè lo sposo è troppo mal fornito,
E non ci vuole star sotto altrimenti;
Ma dice che ci piglierà partito,
E che gli han dato colui a malizia,
Tal che gli è forza cambiarle marito.
Altri, che di ben sodi ha gran dovizia,
Talor dà in una ch'ha sì poca entrata,
Che non v'è da ripor la masserizia.
Così resta la sposa sconsolata:
Gli è ver che questo non avvien sì spesso;
Pur di queste qualcuna s'è trovata:
Dov'allor si vedeva a un di presso,
Innanzi che venissino alle prese,
La proporzion tra l'uno e l'altro sesso.
Non si temeva allor del mal franzese:
Però che, stand'ignudo alla campagna,
S'un avea qualche male, era palese;
E s'una donna avea qualche magagna,
La teneva coperta solamente
Con tre o quattro foglie di castagna.
Così non era gabbata la gente,
Come si vede che l'è gabbat'ora,
Se già l'uomo non è più ch'intendente:
Chè tal par buona, veduta di fuora,
Che se tu la ricerchi sotto panno,
La trovi come 'l vaso di Pandora.
E così d'ogni frode e d'ogn'inganno
Si vede chiaro che n'è sol cagione
L'andar vestito tutto quanto l'anno.
Un'altra, e non minor, maledizione
Nasce tra noi di questa ria semenza,
Che tien il mondo in gran confusione:
Quest'è la maggioranza e preminenza
Che vien da' panni bianchi, oscuri o persi,
Che pongon tra' Cristian la differenza.
Questa pospone a i monaci i conversi,
Antepon l'oste a i suoi lavoratori,
E da i padron fa i sudditi diversi:
Dov'in que' tempi non eran signori,
Conti, marchesi o altri bacalari,
Nè anche poveracci o servidori.
Tutti quanti eron uomini ordinari,
Ognun si stava ragionevolmente,
Eron tutti persone nostre pari,
E ciascun del compagno era parente;
Se non era parente, gli era amico;
Se non amico, al manco conoscente.
Credi pur ch'ella sta com'io ti dico,
Che 'l vestir panni e simil fantasie
Son tutte quante invenzion del Nimico;
Come fu quella dell'artiglierie,
E delle streghe e dello spiritare,
E degli altri incantesimi e malie.
Un'altra cosa mi fa strabiliare,
E sto per dirti quasi ch'io c'impazzo,
Nè so trovar com'ella possa stare:
Ed è, che se qualcun per suo sollazzo,
Sendo 'ngegnoso e alto di cervello,
Talor va ignudo, e' dicon che gli è pazzo:
I ragazzi gli gridan: Véllo, véllo;
Chi gli fa pulce secche e chi lo morde,
Traggongli sassi e fannogli il bordello;
Altri lo vuol legar con delle corde,
Come se l'uomo fusse una vitella:
Guarda se le persone son balorde!
E se tu credi che questa sia bella,
E' bisogna che 'n cielo, al parer mio,
Regni qualche pianeto o qualche stella.
Però se vuol così Domenedio,
Che finalmente può far ciò che vuole,
Io son contento andar vestito anch'io,
E non ci starò a far altre parole:
Andrommen'anch'io dietro a questa voga;
Ma Dio sa lui, se me n'incresce e duole!
Ma ch'io sia per voler portar la toga,
Come s'io fussi qualche Fariseo,
O qualche scriba o archisinagoga,
Non lo pensar; ch'io non son mica Ebreo,
Se bene e' pare al nome e al casato
Ch'io sia disceso da qualche Giudeo.
I' sto a veder se 'l mondo è spiritato,
Se egli è uscito del cervello affatto,
E s'egli è desto, o pure addormentato;
E s'egli è vero ch'un che non sia matto
Non arrossisca che gli sia veduto
Un abito sì sconcio e contraffatto.
In quant'a me mi son ben risoluto,
Ch'io non ne voglio intender più sonata:
Mi contento del mal ch'io n'ho già auto;
E perchè non paresse alla brigata,
Ch'io mi movessi senz'occasione,
Come fan quegli ch'han poca levata,
Io son contento dir la mia ragione,
E che tu stesso la sentenza dia:
So che tu hai giudizio e discrizione.
La prima penitenza che ci sia
(Guarda se per la prima ti par nulla),
È ch'io non posso fare i fatti mia,
Come sarebbe andar alla fanciulla;
Ma mi tocca a restar fuor della porta,
Mentre ch'un altro in casa si trastulla.
Dicon ch'è grave errore, e troppo importa,
Ch'un dottor vadia a casa le puttane:
La togal gravità non lo comporta.
E 'l veder queste cose così strane
Mi fa poi far qualch'altro peccataccio,
E bene spesso adoperar le mane:
Onde costor, che si pigliano impaccio
Della mia salvazione e del mio bene,
Bravano e gridan ch'io non ne fo straccio.
A un che vada in toga non conviene
Il portar un vestito che sia frusto,
A voler che la cosa vadia bene;
Perchè, mostrando tutto quanto il fusto
E la persona giù lunga e distesa,
Egli è forza ch'ei faccia il bellombusto:
E così viene a raddoppiar la spesa;
E questa a chi non ha molti quattrini
È una dura e faticosa impresa.
Non ci vuol tanti rasi ed ermisini,
Quando tu puoi portare il ferraiuolo:
Basta aver buone scarpe e buon calzini;
Il resto, quando sia di romagnuolo,
Non vuol dir nulla, se ben par che questa
Sia una sottigliezza da Spagnuolo:
E non importa che tu ti rivesta,
Mutand'abiti e foggie a tutte l'ore,
Se è dì di lavoro o dì di festa.
Se per disgrazia un povero dottore
Va per la strada in toga scompagnato,
Par quasi ch'e' ci metta dell'onore;
E se non è da venti accompagnato,
Mi par sempre sentir dir le brigate:
“Colui è un ignorante e smemorato”:
Tal che sarebbe meglio a farsi frate;
Ch'al manco vanno a coppie, e non a serque,
Come van gli spinaci e le granate.
Però chi dice lor: Beati terque,
Non dice ancor quanto si converrebbe,
E sarie poco a dir terque quaterque;
Dove ch'a un dottor bisognerebbe
Dargli la mala Pasqua col mal anno,
A voler far quel ch'ei meriterebbe.
Non so com'ei non crepi dell'affanno,
Quand'egli ha intorn'a sè diciott'o venti,
Che, per udirlo, a bocca aperta stanno.
A me non par egli essere altrimenti,
Che sia tra i pettirossi la civetta,
O la Misericordia tra' Nocenti;
E n'ho aut'a' miei dì più d'una stretta:
E però, toga, va' pur in buon'ora,
Vatten'in pace, che sie benedetta.
Ma quand'anche un dottore andasse fuora,
E ch'andar solo pur gli bisognassi,
Come si vede che gli avvien talora,
Tu non lo vedi andar se non pe' chiassi,
Per la vergogna, o ver lungo le mura,
E 'n simil altri luoghi da papassi:
E par ch'e' fugga la mala ventura;
Volgesi or da man manca or da man destra,
Com'un che del bargello abbia paura:
Par una gatta in una via maestra,
Che sbalordita fugga le persone,
Quand'è cascata giù dalla finestra,
Che se ne corre via carpon carpone,
Tanto ch'ella s'imbuchi in qualche volta,
Perchè gli spiace la conversazione.
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Se tu vai fuor per far qualche faccenda,
Se tu l'hai a far innanzi desinare,
Tu non la fai che gli è or di merenda,
Perchè la toga non ti lascia andare,
Ti s'attraversa, t'impaccia e t'intrica,
Ch'è uno stento a poter camminare.
E però non par ch'ella si disdica
A quei che fanno le lor cose adagio
E non han troppo a grado la fatica,
Anzi han per boto lo star sempre in agio,
Come dir frati o qualche prete grasso,
Nimici capital d'ogni disagio,
Che non vanno mai fuor se non a spasso,
Come diremmo noi, a cercar funghi,
E se la piglian così passo passo.
A questi stanno bene i panni lunghi,
E non a un mie par, che bene spesso
Ho a correr perch'un birro non mi giunghi;
E ho sempre paur di qualche messo,
O che 'l Provveditor non mi condanni,
Ch'a dire il vero è un vituperio espresso.
Però, prima ch'usar più questi panni,
Vo' rinunziar la cattedra a Ser Piero,
E se non la vuol lui, a Ser Giovanni.
Io vo' che noi facciamo a dir il vero:
Che crediam noi però però ch'importi
Aver la toga di velluto nero,
E un che dreto il ferraiuol ti porti,
E che la notte poi ti vadia avanti
Con una torcia, come si fa a' morti ?
Sappi che questi tratti tutti quanti
Furon trovati da qualcuno astuto,
Per dar canzone e pasto agl'ignoranti,
Che tengon più valente e più saputo
Questo di quel, secondo ch'egli arà
Una toga di rascia o di velluto.
Dio sa poi lui come la cosa sta!
Ma s'io avessi a dire il mio parere,
Questo discorso un tratto non mi va.
Ch'importa aver le vesti rotte o intere,
Che gli uomini sien Turchi o Bergamaschi,
Che se gli dia del Tu o del Messere?
La non istà ne' rasi o ne' dommaschi;
Anzi vo' dirti una mia fantasia,
Che gli uomini son fatti com'i fiaschi.
Quando tu vai la state all'osteria,
Alle Bertuccie, al Porco, a Sant'Andrea,
Al Chiassolino o alla Malvagia,
Guarda que' fiaschi, innanzi che tu bea
Quel che v'è drento; io dico quel vin rosso,
Che fa vergogna al greco e alla verdea:
Tu gli vedrai che non han tanto in dosso,
Che 'l ferravecchio ne dessi un quattrino;
Mostran la carne nuda in sino all'osso:
E poi son pien di sì eccellente vino,
Che miracol non è se le brigate
Gli dan del glorioso e del divino.
Gli altri, ch'han quelle veste delicate,
Se tu gli tasti, o son pieni di vento,
O di belletti o d'acque profumate,
O son fiascacci da pisciarvi drento.