sabato 28 febbraio 2009

Giacomo Zanella, prete e poeta scientifico




Sopra la conchiglia fossile – nel mio studio

Non è strano che uno dei pochi poeti scientifici italiani sia stato un prete? Oramai quasi dimenticato dalle antologie, citato di sbieco nelle storie della letteratura, il poeta vicentino Giacomo Zanella (1820-1888) fu sacerdote, patriota e professore di lettere e filosofia (un suo allievo fu Antonio Fogazzaro). Nel 1853 fu allontanato dall’insegnamento e dallo stipendio a causa della sua fede negli ideali nazionali, venendo riabilitato solo quattro anni più tardi. Quando, nel 1866, il Veneto fu annesso all’Italia, venne nominato docente di letteratura italiana all’Università di Padova, di cui divenne in seguito anche rettore.

La sua prima raccolta di versi di tendenza romantica vide la luce nel 1868 (Versi). La sua produzione poetica durò per circa vent’anni, fino alla morte, e fu originale rispetto al panorama letterario del suo tempo per la capacità di presentare in versi argomenti di carattere scientifico e il tentativo di conciliare religiosità cattolica, cultura positivista e problemi sociali (come il lavoro operaio e la povertà). Fu anche critico letterario e traduttore, soprattutto dei classici e dalle letterature anglosassoni. Zanella visse in un’epoca di trasformazioni politiche, letterarie e soprattutto scientifiche, che accolse con favore e inserì in una visione provvidenziale della storia.

Le scelte poetiche dello Zanella contribuirono a collocarlo, nell’ambiente culturale del suo tempo, in una posizione anomala. Egli, infatti, fu mal visto sia dal mondo culturale laico, per il suo rifiuto delle tesi materialistiche, sia da una parte delle autorità ecclesiastiche per il patriottismo, la scienza e l’interesse per la questione sociale.

La sua poesia più famosa è Sopra la conchiglia fossile - nel mio studio. Motivo d’ispirazione fu la vista di una conchiglia fossile, trovata in un luogo montano e adoperata come fermacarte. Il poeta, contemplando la conchiglia, medita sulle età più antiche della terra e sul destino dell’umanità, il cui futuro nasce dalle ceneri del passato attraverso un percorso che coinvolge l’intero universo.

Quest’ode, di cui sotto riporto un estratto, fu scritta di getto tra l’8 e l’11 marzo del 1864 e fu apprezzata anche da Alessandro Manzoni, il quale volle impararla a memoria, come testimonia lo stesso Zanella nella lettera, datata 30 aprile 1869, inviata al collega Pietro Mugna: "E' qui il marchese d’Adda di Milano, che volle conoscermi per dirmi che Manzoni aveva imparata a memoria la mia “Conchiglia” e che egli stesso lo aveva udito recitarla… "
Sul chiuso quaderno
di vati famosi,
dal musco materno
lontana riposi,
riposi marmorea
dell’onde già figlia,
ritorta conchiglia.

Occulta nel fondo
d'un antro marino,
del giovane mondo
vedesti il mattino;
vagavi co’ nautili,
co’ murici a schiera,
e l’uomo non era.

Per quanta vicenda
di lente stagioni,
arcana leggenda
d’immani tenzoni
impresse volubile
nel niveo tuo dorso
de’ secoli il corso!

(...)

Tu, prima che desta
a l’aure feconde,
Italia la testa
levasse da l’onde,
tu, suora de’ polipi,
de’ rosei coralli
pascevi le valli.

Riflesso nel seno
de' ceruli piani,
ardeva il baleno
di cento vulcani:
le dighe squarciavano
di pelaghi ignoti
rubesti tremoti.

(...)

Pur baldo di speme
l'uom, ultimo giunto,
le ceneri preme
d’un mondo defunto:
incalza di secoli
non anco maturi
i fulgidi augùri.

Su i tumuli il piede,
ne’ cieli lo sguardo,
a l’ombra procede
di santo stendardo;
per golfi reconditi,
per vergini lande
ardente si spande.

T’avanza, t’avanza,
divino straniero;
conosci la stanza
che i fati ti diêro:
se schiavi, se lagrime
ancora rinserra,
è giovin la terra.

Eccelsa, segreta
nel buio de gli anni,
Dio pose la mèta
de' nobili affanni:
con brando e con fiaccola
su l’erta fatale
ascendi, mortale!

(...)




Natura e scienza

Zanella scrisse altre poesie ispirate dalle conquiste della scienza e della tecnologia (Il taglio dell'istmo di Suez, L’evoluzione, il poemetto Milton e Galileo cui dedicherò un prossimo articolo, ecc.), cercando sempre di interpretarle alla luce delle sue idee religiose. Del suo pensiero a proposito del rapporto tra fede e scienza sono esemplari le quartine di Natura e scienza, cui più tardi l’autore cambiò il nome in Microscopio e telescopio:

Come ritrosa vergine t' involi,
Discortese natura, al guardo umano,
Che pel lento mutar di mille soli
Di cielo in terra t' ha cercata invano.

(…)

O che ti posi d'assetata foglia
Entro le celle e con materne dita
Alle provvide stille apra la soglia,
Che l’alba manda a rinverdir la vita;

O che nel chiuso calice de' fiori
Segua il cader della feconda polve ;
O che nutra, o che plasmi, o che colori,
Fiso quell’occhio dietro te si volve.

Innanzi ad esso, come tronco pino,
Giganteggia il capello; e come mare
Limpidissimo al fondo e cristallino,
Co' mille abitator la goccia appare.

Quante in que' flutti immagini di morte!
Quante fughe e vittorie! In fiera danza
Dell’universo affacciasi alle porte
Rude la vita e dolorando avanza.

Tutto muore e rinasce. Invan, natura,
Ne' mutabili aspetti a noi ti celi ;
Ti tradisce la larva, e non ti fura
Al nostro sguardo immensità di cieli.

(…)

Dal novissimo ciel la nebulosa
Scopre di soli tremola famiglia.
Quale fiammante del color di rosa,
Qual tinto nel pallor della giunchiglia.

Mille sfere nel rapido viaggio
Lasciossi addietro, e son mille anni e mille,
Che piove pel silente etere il raggio
Pur or giunto dell' uomo alle pupille.

(…)

Tante luci che fan? Che fanno i mondi
Che, come faro d' ignorati porti,
Ora scemano fiochi e moribondi,
Or con vividi incendi ardon risorti?

Donde e quando si mosse? A quali prode
Veleggia l’universo? Alme viventi
Albergano lassù? Liete di lode
All’eterno Valor sciolgon concenti?

Muore la lampa, e scuro un vel si abbassa
Sullo sguardo dell' uom, che sbigottito
Scorge per entro l’ombra Iddio che passa
Novi soli a librar nell’Infinito.


mercoledì 25 febbraio 2009

L’acuta leggerezza di Wislawa Szymborska


Della polacca Wislawa Szymborska (1923) ho già riprodotto una bellissima poesia nell’articolo sul pi greco. La Szymborska è una delle più grandi poetesse dei nostri tempi, premio Nobel per la letteratura nel 1996. In Polonia è una gloria nazionale, ma da noi è conosciuta da pochi, e solo dopo il meritato riconoscimento: in precedenza era conosciuta solo per qualche poesia pubblicata in rivista e in antologia.

A me la Szymborska piace perché ci pone di fronte a questioni importanti sulla vita con leggerezza, senza affaticare con versi ermetici o immagini barocche, servendosi di una lingua semplice e spesso colloquiale, facendoci sorridere per l’ironia mentre ci opprime di domande. L’ironia dei suoi versi è acuta, ma mai fine a se stessa o appesantita dal giudizio; piuttosto è destinata a svelare il ridicolo, l’inopportuno, il disumano. Del suo stile di grande immediatezza, di linearità linguistica esemplare, ma allo stesso tempo ricco di sfumature concettuali e sottili riflessioni, riporto un esempio:

La cipolla
La cipolla è un'altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d'inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla - cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell'una ecco sta l'altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un'eco in coro composta.

La cipolla, d'accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi - grasso, nervi, vene,
muchi e secrezioni.
E a noi resta negata
l'idiozia della perfezione.


Il nostro essere materiale si oppone alla realizzazione in noi stessi di una perfezione ideale: noi siamo composti di "visceri ritorti", di "grasso, nervi, vene, muchi e secrezioni". Ma è questa la nostra realtà e la nostra bellezza: la perfezione ideale, oltre che ingiustificata fantasia, è “idiota” semplificazione della nostra complessità di viventi.

Trovo affascinante l’interesse della poetessa per le scienze naturali, che si è espresso in una serie di opere di argomento o spunto scientifico. Qui sotto riporto Autotomia (1983), nella quale la capacità di alcuni animali di perdere una parte del corpo o di automutilarsi, che è usata come strategia difensiva lasciando una parte non vitale al predatore per distrarlo e sfuggire, diventa l’ispirazione per una riflessione profonda sulla natura umana. “Circondati dall’abisso”, a noi è dato l’affrontarlo con tutto il nostro essere, pena la dissociazione.

Autotomia
In caso di pericolo, l'oloturia (1) si divide in due:
dà un sé in pasto al mondo,
e con l'altro fugge.
Si scinde in un colpo in rovina e salvezza,
in ammenda e premio, in ciò che è stato e ciò che sarà.
Nel mezzo del suo corpo si apre un abisso
con due sponde subito estranee.
Su una la morte, sull'altra la vita.
Qui la disperazione, là la fiducia.
Se esiste una bilancia, ha piatti immobili.
Se c'è giustizia, eccola.
Morire quanto necessario, senza eccedere.
Rinascere quanto occorre da ciò che si è salvato.
Già, anche noi sappiamo dividerci in due.
Ma solo in corpo e sussurro interrotto.
In corpo e poesia.
Da un lato la gola, il riso dall'altro,
un riso leggero, di già soffocato.
Qui il cuore pesante, là
non omnis moriar (2),
tre piccole parole, soltanto, tre piume di un volo.
L'abisso non ci divide.
L'abisso ci circonda.


(1) L’oloturia è un genere di echinodermi marini che comprende alcuni esemplari noti volgarmente come cetrioli di mare.
(2) Non omnis moriar, “Non morirò interamente” è l’incipit dell’Ode III.30, 6 di Orazio.

lunedì 23 febbraio 2009

La letteratura combinatoria (2)


Quadrati latini

Nel numero delle operazioni combinatorie non rientrano solo quelle che agiscono sugli elementi di un insieme, ma anche quelle che mettono in relazione più insiemi composti di elementi diversi: ciò che si combina in questo caso non sono gli elementi, ma gli insiemi stessi. In termini matematici, dati due insiemi non vuoti A e B, si tratta del prodotto cartesiano A×B (si legge A per B oppure A cartesiano B), che è l'insieme formato da tutte le coppie ordinate tali che il primo elemento appartenga ad A ed il secondo a B:

A×B = {(x,y) / x ∈A e y∈B }

Ad esempio, dati gli insiemi A = { a,b,d} e B = {1,2,4}, il prodotto cartesiano vale:

A×B = {(a,1),(b,1),(d,1),(a,2),(b,2),(d,2),(a,4),(b,4),(d,4)}

Tale operazione è esprimibile graficamente mediante schemi bidimensionali, come le tabelle a doppia entrata o la rappresentazione cartesiana:

Il quadrato latino è una classica struttura matematica bidimensionale utilizzata dagli oulipiani in ambito letterario: Un quadrato latino di ordine n è una griglia quadrata di n×n caselle nella quale compaiono n simboli diversi, che soddisfa le seguenti condizioni:
1) in ogni cella della griglia compare un simbolo;
2) in ogni riga e in ogni colonna ciascun simbolo compare una volta sola.

Scambiando tra loro due righe o due colonne, oppure cambiando i simboli di un quadrato latino, si ottiene di nuovo un quadrato latino.

Sul quadrato latino si basa la sestina lirica, inventata nel XIII secolo dal trovatore provenzale Arnaut Daniel e utilizzata, tra gli altri, da Dante, Petrarca, Pound, Ungaretti. La sestina lirica è una struttura costituita da 6 stanze di 6 versi (più 3 di congedo). Una delle regole secondo cui viene costruita prevede che ogni verso termini con una tra 6 parole chiave possibili, le quali non possono comparire due volte nella stessa stanza, né due volte nello stesso verso di stanze diverse. Scrivendo queste parole all'interno di un quadrato, in funzione della stanza e del verso in cui compaiono, si costruisce un quadrato latino.

La cansò di Arnaut Daniel “Lo ferm voler qu’el cor m’intra” può rappresentare bene le proprietà della sestina lirica. Essa si basa su sei parole chiave (intra = entra; cambra = camera; arma = anima; oncle = zio; verga = verga; ongla = unghia), si sviluppa in sei coblas (sestine) con una terzina di chiusura o “congedo”, e procede secondo permutazioni regolari da una sestina all’altra, che creano una sorta di “movimento segreto” paragonabile a quello di una spirale. L’oulipiano Jacques Roubaud ha paragonato lo schema alla “spirale della chiocciola”:

La fermezza che in cuor m’entra
non può becco spezzare a me né unghia
d’invido che sparlando perde l’anima:
non l’osando colpir con ramo o verga,
di frode almeno, ove non avrò zio,
godrò gioia in giardino o dentro camera.

Se ripenso a quella camera
dove, a mio danno so, nessuno entra,
ma ognuno m’è più che fratello o zio,
non ho membro non frema, fosse l’unghia,
come fa il bimbo davanti alla verga:
tanto temo non sia a lei presso all’anima.

Presso al corpo, non all’anima,
e mi prendesse di nascosto in camera,
che più mi piaga il cuore che una verga
ch’ora il suo servo dove ell’ è non entra:
sarò di lei come la carne e l’unghia,

e non darò retta ad amico o a zio.

La sorella di mio zio
mai di più amai né tanto, per quest’anima,
che tanto accosto com’è il dito all’unghia
mi vorrei, se volesse, alla sua camera:
mi ha in mano sua l’amore che in cuor m’entra
meglio che un uomo forte esile verga.


Mai dacché la secca verga
fiorì, e a Adamo seguì nipote e zio,
amor puro così, come in cuor m’entra,
non credo fosse in corpo, e meno in anima:
dovunque stia, all’aperto oppure in camera,
non si scosta il mio cuore da lei un’unghia.

Così afferra sé e s’inunghia
in lei il mio cuore come scorza in verga,
che è di gioia palazzo, torre e camera;
meno i parenti amo, fratello e zio,
che ne avrà in Cielo doppia gioia l’anima,
se alcuno mai perché ama bene v’entra.

Arnaldo invia il suo canto d’unghia e zio
che piaccia a lei che di sua verga ha l’anima
Suo Desiderio, a cui Pregio entra in camera.


(Traduzione da Anticomoderno Due. La sestina, Viella, Roma, 1996).

Lo schema della sestina lirica deriva da una permutazione ottenuta mediante una regolare alternanza d’inversione e progressione (retrogradatio cruciata): si riscrive ogni volta la sequenza prendendo in ordine successivo l’ultima parola, poi la prima, poi la penultima, poi la seconda, ecc.

Il ciclo romanzesco dedicato alla giovane eroina Ortensia - La belle Hortense (1985), L'enlèvement [rapimento] d'Hortense (1987) e L'exil d'Hortense (1990) - del matematico, poeta e drammaturgo Jacques Roubaud, è organizzato secondo le permutazioni della sestina, cioè è diviso in 6 parti di 6 capitoli ciascuna, i cui argomenti vengono ripresi da una parte all'altra secondo lo schema descritto.


Quadrati greco-latini

Una variante del quadrato latino è il quadrato greco-latino: una scacchiera quadrata di lato n con coppie di simboli su ogni casella, disposti in modo che ogni simbolo compaia una e una sola volta in ogni riga e in ogni colonna, e che ogni coppia compaia una e una sola volta. In origine i due quadrati latini venivano riempiti rispettivamente con lettere dell'alfabeto greco e di quello latino, da cui il nome.

Un quadrato greco-latino è una sovrapposizione di due quadrati latini, formati da due insiemi diversi di simboli S1, S2, tali da soddisfare la condizione che ciascuna coppia di simboli compare una sola volta nel quadrato. In altre parole, ciascun simbolo del primo insieme deve essere accoppiato con ciascun simbolo del secondo insieme. Se gli insiemi sono formati da n simboli, allora le coppie ordinate e distinte possibili sono n×n = n2. Si possono costruire quadrati greco-latini di lato n per ogni n maggiore di 2 e diverso da 6.

Il romanzo La vita: istruzioni per l'uso (Rizzoli, Milano, 1986) dell'oulipiano Georges Perec, che fu definito da Calvino “un evento nella storia del romanzo”, fa un grande uso di quadrati greco-latini. In esso l’autore descrive un immobile parigino (il palazzo all'1 di rue Simon-Crubellier, visto il giorno 23 giugno 1975, verso le 20) composto da 99 stanze, scale e cantine comprese, disposte su 10 piani, come in una scacchiera quadrata di lato 10 (una casella è vuota). Ogni capitolo è riservato alla narrazione di una singola stanza.

Per scrivere l'opera, pubblicata nel 1978, quattro soli anni prima della sua morte, Perec, come risulta dai suoi appunti di lavoro, ha composto 42 liste di 10 elementi ciascuna, corrispondenti a vincoli narrativi (persone, citazioni letterarie, località geografiche, date storiche, mobili, oggetti, stili, colori, cibi, animali, piante, minerali, ecc), le ha divise in 21 coppie e ha attribuito a ognuna un quadrato greco-latino di lato 10, le cui caselle corrispondono alle stanze dell'immobile. Ogni stanza è quindi caratterizzata da 42 vincoli narrativi (contraintes). Sulla griglia il movimento da una casella all’altra, che guida la narrazione, costituisce un’ulteriore vincolo: il passaggio da una stanza/casella all’altra obbedisce al problema topologico-scacchistico detto algoritmo del cavaliere, che consiste, partendo da una qualsiasi delle caselle, nel visitare tutte le altre una volta sola muovendosi come fa il cavallo negli scacchi (due caselle in avanti e una a lato). Esistono diversi tipi di soluzioni/percorsi. Lo schema illustra il percorso scelto da Perec (in blu le caselle/stanze iniziale e finale). La prima e l’ultima mossa del cavallo sono illustrate dal colore dello sfondo:


Continua...

sabato 21 febbraio 2009

Galileo poeta satirico



Come poeta Galileo ci ha lasciato nove testi: sei sonetti, due canzoni e un capitolo in terza rima di circa trecento versi intitolato Capitolo contro il portar la toga. Si tratta di una satira briosa, composta tra il 1589 e il 1592, contro le convenzioni sociali e la ristrettezza mentale del mondo accademico pisano, dominato dal pensiero aristotelico. Le teorie galileiane sul moto già in questo periodo contrastavano profondamente con alcuni punti fondamentali della fisica aristotelica, riguardo ai concetti di velocità, di gravità, di vuoto, i quali, inseriti in un quadro teorico nuovo, assumevano connotazioni diverse da quelle tradizionali. Sottolineando inoltre la totale ignoranza di Aristotele nelle discipline matematiche e geometriche, la cui conoscenza unicamente permette di “discernere il vero dal falso”, Galileo si poneva in aperto contrasto sul piano del metodo scientifico con i peripatetici dello Studio.

Antonio Marzo, curatore delle «Rime» galileiane, nota come la canzone si ispiri allo stile burlesco del Berni (1497?-1535) e come vi abbondino i doppi sensi libertini. L’opera doveva circolare per il divertimento degli amici, ma contribuì di certo ad alienargli le simpatie degli altezzosi e bigotti colleghi accademici. La scrittura di questo capitolo certamente non fu un semplice passatempo per lo scienziato, ma fu il frutto di un’assidua consuetudine con i testi letterari rinascimentali e a lui contemporanei.

All’epoca Galileo era già professore: nella toga accademica, che avrebbe dovuto indossare anche fuori delle aule per decreto del rettore dello Studio di Pisa (1590) vede una grande ipocrisia, un lusso pretenzioso che copre gli abiti sottostanti, miseri e laceri a causa della magra paga dei docenti in una Università sempre più degradata (nihil sub sole novi). E la toga diventa imbarazzante quando si va a trovare qualche signorina di facili costumi e si deve attendere il proprio turno davanti alla sua porta, sotto l’occhio dei passanti:

La prima penitenza che ci sia
(Guarda se per la prima ti par nulla),
È ch'io non posso fare i fatti mia,


Come sarebbe andar alla fanciulla;
Ma mi tocca a restar fuor della porta,
Mentre ch'un altro in casa si trastulla.


Dicon ch'è grave errore, e troppo importa,
Ch'un dottor vadia a casa le puttane:
La togal gravità non lo comporta.

Nel 1592 avrebbe lasciato Pisa per Padova, attratto da una paga più alta e da un ambiente più libero, un clima che il contemporaneo Gualdo descrisse con queste parole: “Tu non potresti trovare alcun’altra accademia in cui la pace, nutrice delle muse, inviti a sé senza differenza alcuna i dotti. Qui non v’è alcuno che indiscreto spii la vita dei forestieri, ma gente d’ogni terra ha in Padova piena libertà di vita secondo i propri costumi e insieme sicura integrità e agevolezza di studio, così che, ritornati alla patria loro, ogni volta che rammentano la libertà padovana ne sospirano.”

Nel testo è evidente l'insofferenza del ventiseienne Galileo per l’ambiente aristotelico in cui si muove, per chi con faticosa erudizione va "il sommo ben investigando", laddove, per lui, "a chi vuol una cosa ritrovare / bisogna adoperar la fantasia / e giocar d'invenzione, e ‘ndovinare". Scrive Galileo: “… per trovar il bene io ho provato / che bisogna proceder pel contrario:/ cerca del male, e l’hai bell’e trovato”. La tesi che egli difende è (come ben sanno, dice, persino gli animali) che "un male a null'altro secondo" è "l’andar vestito", da cui consegue che "il sommo ben sarebbe andare ignudo" (noto tra parentesi che l’opera è un cult nei siti dei naturisti). Figuriamoci portar la toga! Galilei ritiene che la veste sia stata inventata da qualche burlone per canzonare gli ignoranti che giudicano la sapienza in relazione alla “toga di rascia [= panno grossolano] o di velluto” che uno porti. Molteplici, divertenti e maliziosi gli argomenti a sostegno: sessuali, sociali, economici, pratici, di convenienza, per giungere a concludere che gli uomini sono fatti come i fiaschi: quelli più rustici "che non han tanto in dosso" son pieni di eccellente vino, mentre quelli che han "veste delicate" spesso "o son pieni di vento, / o di belletti o d'acque profumate, / o son fiascacci da pisciarvi drento".


Il poemetto non è un occasionale esercizio goliardico, frutto di intemperanza giovanile. Anche altrove in Galileo si possono rintracciare analoghi termini coloriti, espressioni e ammiccamenti piccanti, insofferenza anticlericale (con buona pace dei tentativi preteschi di annoverarlo tra le proprie schiere): si vedano per esempio le sue note a margine di testi di studiosi di cui critica le idee, o le sue Considerazioni al Tasso, o passi delle sue lettere. La Toga ben descrive il suo umore di toscanaccio irriverente, frequentatore delle osterie pisane:

alle Bertuccie , al Porco, a Sant' Andrea
al Chiassolino o alla Malvagia (…)

Tale sarebbe rimasto fin negli anni della vecchiaia e del confino. A riprova sta il fatto che, nel 1640, mezzo secolo dopo la composizione del testo, provveda egli stesso a inviarne copia all’amico e allievo Renieri, il quale lo ha informato che a Pisa "il Sig. Auditor Fantoni ha fatto spolverar le toghe a’ dottori; onde adesso non si vede altro che togati, e sarebbe molto a proposito il Capitolo che fece già V. E. Ecc.ma". Ricevuto il testo, Renieri ringrazia e scrive al maestro: "Habbiamo, con uno o due amici, riso un pezzo della Toga". Ritengo che anche i lettori di oggi, quattro secoli più tardi, possano trarre dalla lettura lo stesso divertimento degli amici del Renieri.


Capitolo contro il portar la toga

Mi fan patir costoro il grande stento,
Che vanno il sommo bene investigando,
E per ancor non v'hanno dato drento.


E mi vo col cervello immaginando,
Che questa cosa solamente avviene
Perchè non è dove lo van cercando.


Questi dottor non l'han mai intesa bene,
Mai son entrati per la buona via,
Che gli possa condurre al sommo bene.


Perchè , secondo l'opinion mia,
A chi vuol una cosa ritrovare,
Bisogna adoperar la fantasia,


E giocar d'invenzione, e 'ndovinare;
E se tu non puoi ire a dirittura,
Mill'altre vie ti posson aiutare.


Questo par che c'insegni la natura,
Che quand'un non può ir per l'ordinario,
Va dret'a una strada più sicura.


Lo stil dell'invenzione è molto vario;
Ma per trovar il bene io ho provato
Che bisogna proceder pel contrario:


Cerca del male, e l'hai bell'e trovato;
Però che 'l sommo bene e 'l sommo male
S'appaion com'i polli di mercato.


Quest'è una ricetta generale:
Chi vuol saper che cosa è l'astinenza;
Trovi prima che cosa è 'l carnovale,


E ponga tra di lor la differenza;
E volendo conoscer i peccati,
Guardi se 'l prete gli dà penitenza;


E se tu vuo' conoscer gli sciaurati,
Omacci tristi e senza discrizione,
Basta che tu conosca i preti e' frati,


Che son tutti bontà e divozione:
E questa via ci fa toccar il fondo,
E sciogl'il nodo alla nostra questione.


Io piglio un male a null'altro secondo,
Un mal che sia cagion de gli altri mali,
Il maggior mal che si trovi nel mondo;


Il quale ognun che vede senz'occhiali,
Che sia l'andar vestito, tien per certo;
Questo lo sanno in sino gli animali,


Che vivono spogliati e allo scoperto;
E sia pur l'aria calda o 'l tempo crudo,
Non istan mai vestiti o al coperto.


Volgo poi l'argomento, e ti conchiudo,
E ti fo confessare a tuo dispetto,
Che 'l sommo ben sarebbe andare ignudo.


E perchè vegghi che quel ch'io ho detto
È chiaro e certo e sta com'io lo dico,
Al senso e alla ragion te ne rimetto.


Volgiti a quel felice tempo antico,
Privo d'ogni malizia e d'ogni inganno,
Ch'ebbe sì la natura e 'l cielo amico;


E troverai che tutto quanto l'anno
Andava nud'ognun, picciol e grande,
Come dicon i libri che lo sanno.


Non ch'altro, e' non portavon le mutande,
Ma quant'era in altrui di buono o bello
Stava scoperto da tutte le bande.


E così ognun, secondo il suo cervello,
Coloriva e 'ncarnava il suo disegno,
Secondo che gettava il suo pennello;


Nè bisognava affaticar l'ingegno
A strolagar per via d'architettura,
O 'ndovinar da qualche contrassegno:


Non occorreva andar per cognettura,
Perchè la roba stava in su la mostra,
E si vendeva a peso e a misura.


E quest'è la ragion che ci dimostra
Ch'allor non eron gl'inconvenienti,
Che si veggon seguire all'età nostra.


Quella sposa si duol co' suo' parenti,
Perchè lo sposo è troppo mal fornito,
E non ci vuole star sotto altrimenti;


Ma dice che ci piglierà partito,
E che gli han dato colui a malizia,
Tal che gli è forza cambiarle marito.


Altri, che di ben sodi ha gran dovizia,
Talor dà in una ch'ha sì poca entrata,
Che non v'è da ripor la masserizia.


Così resta la sposa sconsolata:
Gli è ver che questo non avvien sì spesso;
Pur di queste qualcuna s'è trovata:


Dov'allor si vedeva a un di presso,
Innanzi che venissino alle prese,
La proporzion tra l'uno e l'altro sesso.


Non si temeva allor del mal franzese:
Però che, stand'ignudo alla campagna,
S'un avea qualche male, era palese;


E s'una donna avea qualche magagna,
La teneva coperta solamente
Con tre o quattro foglie di castagna.


Così non era gabbata la gente,
Come si vede che l'è gabbat'ora,
Se già l'uomo non è più ch'intendente:


Chè tal par buona, veduta di fuora,
Che se tu la ricerchi sotto panno,
La trovi come 'l vaso di Pandora.


E così d'ogni frode e d'ogn'inganno
Si vede chiaro che n'è sol cagione
L'andar vestito tutto quanto l'anno.


Un'altra, e non minor, maledizione
Nasce tra noi di questa ria semenza,
Che tien il mondo in gran confusione:


Quest'è la maggioranza e preminenza
Che vien da' panni bianchi, oscuri o persi,
Che pongon tra' Cristian la differenza.


Questa pospone a i monaci i conversi,
Antepon l'oste a i suoi lavoratori,
E da i padron fa i sudditi diversi:


Dov'in que' tempi non eran signori,
Conti, marchesi o altri bacalari,
Nè anche poveracci o servidori.


Tutti quanti eron uomini ordinari,
Ognun si stava ragionevolmente,
Eron tutti persone nostre pari,


E ciascun del compagno era parente;
Se non era parente, gli era amico;
Se non amico, al manco conoscente.


Credi pur ch'ella sta com'io ti dico,
Che 'l vestir panni e simil fantasie
Son tutte quante invenzion del Nimico;


Come fu quella dell'artiglierie,
E delle streghe e dello spiritare,
E degli altri incantesimi e malie.


Un'altra cosa mi fa strabiliare,
E sto per dirti quasi ch'io c'impazzo,
Nè so trovar com'ella possa stare:


Ed è, che se qualcun per suo sollazzo,
Sendo 'ngegnoso e alto di cervello,
Talor va ignudo, e' dicon che gli è pazzo:


I ragazzi gli gridan: Véllo, véllo;
Chi gli fa pulce secche e chi lo morde,
Traggongli sassi e fannogli il bordello;


Altri lo vuol legar con delle corde,
Come se l'uomo fusse una vitella:
Guarda se le persone son balorde!


E se tu credi che questa sia bella,
E' bisogna che 'n cielo, al parer mio,
Regni qualche pianeto o qualche stella.


Però se vuol così Domenedio,
Che finalmente può far ciò che vuole,
Io son contento andar vestito anch'io,


E non ci starò a far altre parole:
Andrommen'anch'io dietro a questa voga;
Ma Dio sa lui, se me n'incresce e duole!


Ma ch'io sia per voler portar la toga,
Come s'io fussi qualche Fariseo,
O qualche scriba o archisinagoga,


Non lo pensar; ch'io non son mica Ebreo,
Se bene e' pare al nome e al casato
Ch'io sia disceso da qualche Giudeo.


I' sto a veder se 'l mondo è spiritato,
Se egli è uscito del cervello affatto,
E s'egli è desto, o pure addormentato;


E s'egli è vero ch'un che non sia matto
Non arrossisca che gli sia veduto
Un abito sì sconcio e contraffatto.


In quant'a me mi son ben risoluto,
Ch'io non ne voglio intender più sonata:
Mi contento del mal ch'io n'ho già auto;


E perchè non paresse alla brigata,
Ch'io mi movessi senz'occasione,
Come fan quegli ch'han poca levata,


Io son contento dir la mia ragione,
E che tu stesso la sentenza dia:
So che tu hai giudizio e discrizione.


La prima penitenza che ci sia
(Guarda se per la prima ti par nulla),
È ch'io non posso fare i fatti mia,


Come sarebbe andar alla fanciulla;
Ma mi tocca a restar fuor della porta,
Mentre ch'un altro in casa si trastulla.


Dicon ch'è grave errore, e troppo importa,
Ch'un dottor vadia a casa le puttane:
La togal gravità non lo comporta.


E 'l veder queste cose così strane
Mi fa poi far qualch'altro peccataccio,
E bene spesso adoperar le mane:


Onde costor, che si pigliano impaccio
Della mia salvazione e del mio bene,
Bravano e gridan ch'io non ne fo straccio.


A un che vada in toga non conviene
Il portar un vestito che sia frusto,
A voler che la cosa vadia bene;


Perchè, mostrando tutto quanto il fusto
E la persona giù lunga e distesa,
Egli è forza ch'ei faccia il bellombusto:


E così viene a raddoppiar la spesa;
E questa a chi non ha molti quattrini
È una dura e faticosa impresa.


Non ci vuol tanti rasi ed ermisini,
Quando tu puoi portare il ferraiuolo:
Basta aver buone scarpe e buon calzini;


Il resto, quando sia di romagnuolo,
Non vuol dir nulla, se ben par che questa
Sia una sottigliezza da Spagnuolo:


E non importa che tu ti rivesta,
Mutand'abiti e foggie a tutte l'ore,
Se è dì di lavoro o dì di festa.


Se per disgrazia un povero dottore
Va per la strada in toga scompagnato,
Par quasi ch'e' ci metta dell'onore;


E se non è da venti accompagnato,
Mi par sempre sentir dir le brigate:
“Colui è un ignorante e smemorato”:


Tal che sarebbe meglio a farsi frate;
Ch'al manco vanno a coppie, e non a serque,
Come van gli spinaci e le granate.


Però chi dice lor: Beati terque,
Non dice ancor quanto si converrebbe,
E sarie poco a dir terque quaterque;


Dove ch'a un dottor bisognerebbe
Dargli la mala Pasqua col mal anno,
A voler far quel ch'ei meriterebbe.


Non so com'ei non crepi dell'affanno,
Quand'egli ha intorn'a sè diciott'o venti,
Che, per udirlo, a bocca aperta stanno.


A me non par egli essere altrimenti,
Che sia tra i pettirossi la civetta,
O la Misericordia tra' Nocenti;


E n'ho aut'a' miei dì più d'una stretta:
E però, toga, va' pur in buon'ora,
Vatten'in pace, che sie benedetta.


Ma quand'anche un dottore andasse fuora,
E ch'andar solo pur gli bisognassi,
Come si vede che gli avvien talora,


Tu non lo vedi andar se non pe' chiassi,
Per la vergogna, o ver lungo le mura,
E 'n simil altri luoghi da papassi:


E par ch'e' fugga la mala ventura;
Volgesi or da man manca or da man destra,
Com'un che del bargello abbia paura:


Par una gatta in una via maestra,
Che sbalordita fugga le persone,
Quand'è cascata giù dalla finestra,


Che se ne corre via carpon carpone,
Tanto ch'ella s'imbuchi in qualche volta,
Perchè gli spiace la conversazione.


----------------------


Se tu vai fuor per far qualche faccenda,
Se tu l'hai a far innanzi desinare,
Tu non la fai che gli è or di merenda,


Perchè la toga non ti lascia andare,
Ti s'attraversa, t'impaccia e t'intrica,
Ch'è uno stento a poter camminare.


E però non par ch'ella si disdica
A quei che fanno le lor cose adagio
E non han troppo a grado la fatica,


Anzi han per boto lo star sempre in agio,
Come dir frati o qualche prete grasso,
Nimici capital d'ogni disagio,


Che non vanno mai fuor se non a spasso,
Come diremmo noi, a cercar funghi,
E se la piglian così passo passo.


A questi stanno bene i panni lunghi,
E non a un mie par, che bene spesso
Ho a correr perch'un birro non mi giunghi;


E ho sempre paur di qualche messo,
O che 'l Provveditor non mi condanni,
Ch'a dire il vero è un vituperio espresso.


Però, prima ch'usar più questi panni,
Vo' rinunziar la cattedra a Ser Piero,
E se non la vuol lui, a Ser Giovanni.


Io vo' che noi facciamo a dir il vero:
Che crediam noi però però ch'importi
Aver la toga di velluto nero,


E un che dreto il ferraiuol ti porti,
E che la notte poi ti vadia avanti
Con una torcia, come si fa a' morti ?


Sappi che questi tratti tutti quanti
Furon trovati da qualcuno astuto,
Per dar canzone e pasto agl'ignoranti,


Che tengon più valente e più saputo
Questo di quel, secondo ch'egli arà
Una toga di rascia o di velluto.


Dio sa poi lui come la cosa sta!
Ma s'io avessi a dire il mio parere,
Questo discorso un tratto non mi va.


Ch'importa aver le vesti rotte o intere,
Che gli uomini sien Turchi o Bergamaschi,
Che se gli dia del Tu o del Messere?


La non istà ne' rasi o ne' dommaschi;
Anzi vo' dirti una mia fantasia,
Che gli uomini son fatti com'i fiaschi.


Quando tu vai la state all'osteria,
Alle Bertuccie, al Porco, a Sant'Andrea,
Al Chiassolino o alla Malvagia,


Guarda que' fiaschi, innanzi che tu bea
Quel che v'è drento; io dico quel vin rosso,
Che fa vergogna al greco e alla verdea:


Tu gli vedrai che non han tanto in dosso,
Che 'l ferravecchio ne dessi un quattrino;
Mostran la carne nuda in sino all'osso:


E poi son pien di sì eccellente vino,
Che miracol non è se le brigate
Gli dan del glorioso e del divino.


Gli altri, ch'han quelle veste delicate,
Se tu gli tasti, o son pieni di vento,
O di belletti o d'acque profumate,

O son fiascacci da pisciarvi drento.


lunedì 16 febbraio 2009

La profezia di Galois



La notizia, chissà perché, non è stata rilanciata dai giornali o dalle trasmissioni che parlano di misteri. Eppure ce ne sarebbero stati tutti i motivi. Sono stato assai colpito dal fatto che, come mi segnala l’amico Pierre Lamoque, la Gazette des Écoles abbia pubblicato nell’aprile 1832 una profezia in forma di poesia. Esattamente settantatre anni prima dell’uscita sugli Annalen der Physik (17, 891) dell’articolo di Albert Einstein Zur Elektrodynamik bewegter körper, meglio noto come “Relatività ristretta”, qualcuno predisse i contenuti della rivoluzionaria teoria dello scienziato tedesco con una precisione da far restare sconcertati:

Il viendra, méchant allemand juif,
avec un système où tout est relatif,
à subvertir le monde qui a fait le Bon Dieu,
faisant de l’énergie, dans son détestable jeu,
seulement un produit de la matière
pour la vitesse (carrée) de la lumière.

La sestina, di metro assai irregolare, compare all’interno di un breve racconto dal titolo “L’apprenti”, che narra l’incontro casuale di un giovane studente con un vecchio erudito che gli spiega la teoria dei colori di Goethe. È proprio il vecchio che, sul letto di morte per aver ricevuto un calcio da un cavallo, prima di spirare, sussurra nell’orecchio al giovane le profetiche parole che ho riportato. Il racconto è firmato con la sola sigla E.G. Qualcuno ha voluto interpretare le iniziali come quelle del giovane matematico Èvariste Galois, che potrebbe aver scritto il racconto durante la sua detenzione per motivi politici nei mesi a cavallo tra il 1831 e il 1832. Galois sarebbe morto a soli vent’anni per le conseguenze di un duello, il mese successivo alla comparsa del racconto. Per somma ironia della sorte, questo scritto non matematico costituirebbe l’unica pubblicazione in vita del geniale inventore della teoria dei gruppi.

Qualcun altro però mi scrive di non fidarmi delle notizie fornite dal noto burlone Pierre Lamoque.

domenica 15 febbraio 2009

Popinga vince il Premio per la Poesia scientifica!



In occasione del Darwin Day, che quest’anno celebra contemporaneamente il bicentenario della nascita del grande scienziato inglese (12 febbraio 1809) e il centocinquantesimo anniversario della Origine delle specie, il circolo UAAR di Venezia ha organizzato il primo Premio Nazionale per la Poesia Scientifica in lingua italiana, intitolato a Charles Darwin. La Giuria Tecnica, composta da Franco Ferrari (presidente della Giuria, circolo UAAR di Venezia), Piero Benedetti (doc. di Biologia Molecolare, Università di Padova), Daniele Del Giudice (scrittore), Riccardo Held (poeta e traduttore), Mario Messinis (musicologo), Gilberto Pizzamiglio (italianista), Antonio Alberto Semi (psicanalista, presidente dell’Ateneo Veneto), Maria Turchetto (docente di Storia del Pensiero Economico, Università “Ca’ Foscari” di Venezia, direttrice de L’Ateo) e Vittorio Pavon (segretario della Giuria, circolo UAAR di Venezia) ha selezionato 10 testi poetici inediti di argomento scientifico, affidandoli alla Giuria Popolare, formata dagli iscritti al circolo UAAR di Venezia, che ha stabilito i primi tre classificati.

La premiazione si è svolta ieri all’Ateneo Veneto della città lagunare, illuminata per l’occasione da un bellissimo sole e invasa dalle maschere del Carnevale. Popinga si è classificato primo, per i "raffinati giochi di parole, profondamente intellettuali, di argomento scientifico", con alcuni dei limerick umoristici pubblicati in un precedente articolo. Ne ricopio uno solo:

La banda di Valenza
Un branco di elettroni di valenza
aggredì un atomo nella sua residenza.
Catturati verso sera,
finirono in galera
e fu la fine della banda di Valenza.

Inutile dire la soddisfazione per un riconoscimento da me tanto ambito, sia perché la manifestazione è stata organizzata da un’associazione meritoria per la libertà di pensiero nel nostro disastrato paese (alla quale finalmente mi sono iscritto), sia perché questo blog è nato proprio per diffondere la conoscenza sulla poesia di argomento, autore o struttura scientifici (e/o umoristici).

Pubblico di seguito i lavori della seconda e della terza classificata (Maria Stefania Marello e Rina Pravisani), che mi hanno concesso gentilmente di riprodurre le loro poesie, che sono davvero belle.

RINA PRAVISANI:

Al bar della vita

Al Bar Vita questa sera si danza"
cosi riportava un biglietto non grande
attaccato alla porta:
"serata danzante dalle ore 21.
È d'obbligo un abito elegante.
A chi non ce l'ha ne verrà imprestato uno".

T leggeva piano,piano cercando di spostarsi un poco
per meglio mettere a fuoco.
Era un linfocita di una certa età e, purtroppo, la vista
(si sa) inizia a calare.
Era proprio un guaio per il lavoro che doveva fare!
T si sentiva sempre in tensione:

scoprire l'antigene giusto non era da poco, la cellula
si poteva risentire di fronte ad uno sbaglio;
mica mandava le proteine allo sbaraglio!
Mentre cosi ragionava ,T si guardò in un vetrino
li vicino... decise:
avrebbe danzato.

Chissà se poi, rilassato,
quell'espressione avvilita sarebbe sparita!

Entrò.

Il Bar Vita era affollato da cellule appoggiate al bancone
che sorseggiavano bevande misteriose e ingoiavano microbi a ripetizione!
T era single e timido e le occhiate provocanti delle femmine appoggiate,
nonché gli abiti dalle trasparenze esagerate,
lo fecero arrossire non poco...
poi pensò (serata eccezionale) che quello doveva essere un bel gioco!

La musica iniziava e il nostro amico la sentiva bene:
"Ciao,sono Irene e voglio danzar con te"
cosi gli si presentò una cellula carina porgendogli un mhc
e uno, e due, e tre
iniziarono a ballare.

Da linfocita rispettoso, T non fece vedere subito di cosa era capace,
poi, preso dal ritmo e dalla situazione, iniziò con complessi movimenti
a mandar proteine in ogni direzione...
e roteando a più non posso si ritrovò, sudato fino all'osso,
lontano da Irene che lo guardava dispiaciuta :
"Sarà per il prossimo antigene"

gli urlò per sovrastare la confusione.
Era una gentilezza, una convenzione, non vera costernazione
tant'è che ricominciò a danzare, cellula poco seria, con un linfocita
palestrato da poco entrato.

T si ricompose: aveva danzato, per quella sera si era stancato.
Uscì dal Bar , si specchiò nel vetrino lì vicino:
l'aria avvilita non era sparita
la cellula incontrata era quella sbagliata.
Ci avrebbe riprovato;
forse, chissà, ci sarebbe riuscito a trovare una cellula seria
con cui formare una sinapsi intelligente
finalmente!


MARIA STEFANIA MARELLO:

A Charles Darwin

Fu luce il tuo pensiero prepotente.
L'oscura trama ne fu illuminata,
vacillò l'antico mito della Storia
si sbriciolò il granito del creatore.

Da allora cambiò il secolo, il millennio,
ma ancora è ardua l'umiltà per accettare
l'origine comune e il fine ancora incerto
e in mezzo l'assenza degli dei.

Moto armonico

Scende e risale la stessa onda
la stessa voce senza parole, da ore,
da anni, dall'inizio del tempo,
sotto il sole o le stelle, col freddo
col caldo non smette, ripete:
è il cuore del mondo che pulsa
la vita che chiama dal nulla,
l'acqua che riempie gli spazi
è amore che colma l'assenza
divina e forza che arrotonda i sassi.

Dondola ancora sull'onda
la mia lacera vela consunta
issata su fragile barca corrosa,
che osa sfidare il fiato del tempo
che da brezza leggera com'era
si è fatto vento sempre più forte
e la piega, la spezza, la offre
all'ultima onda che se la porta
là, dove tutto è compiuto
e dove tutto da sempre ritorna.

Altro non resta che il saluto.

Preghiera atea

Anche se ho smesso di parlare
al cielo e al vento
di genuflettermi nelle chiese
di fare il segno della croce
e a Natale di fare il presepe
prego ancora qualche volta..

Ultimamente prego per la morte.
Fa che sia rapida! Imploro.
Rinuncio al paradiso
per un poco d'amore,
baratto la preghiera di un prete
per una mano che stringa la mia
e mi accompagni e poi ... e poi...
mi lasci andare.

Prego che tu sia felice
e che il ricordo di me
almeno una volta
guizzi nei tuoi pensieri
domani o dopo o altrove.

giovedì 12 febbraio 2009

Qualche limerick, dopo tanta cultura




Verbale
È agli atti che il teste veniva attinto
da un impulso sempre più distinto.
A domanda dell’inquirente
su quella voglia emergente
dichiarò che al limerick era sospinto.


Un dubbio
Un giovane tirocinante veterinario
confondeva il cammello col dromedario.
Il secondo, per sua fortuna,
di gobbe ne ha solo una.
O, accidenti, non sarà il contrario?


Una scelta difficile
Babbo Natale ormai centenne
aveva la casa piena di renne.
Scrisse a Gesù Bambino
un piccolo bigliettino:
“Posso usare il KCN*?”

*KCN: cianuro di potassio


Sul fiume
Un barcaiolo colombiano, forse per gioco
bevve dieci birre, o pressappoco.
Poi, un bisogno impellente
lo fermò nella corrente:
solo nel grande e lungo fiume, Orinoco.


Passione fatale
Un giovane mafioso di Corleone
dei trenini aveva l’ossessione.
Gli arrivò questo pizzino:
“Picciotto non sei, sei cretino”.
Non fu capostazione, né capobastone.


Concorrenza
Gran sconforto a San Giovanni Rotondo:
pochi i pellegrini, le finanze a fondo.
A un cadavere decomposto
preferivano un altro posto,
dove era in mostra un prete moribondo.


Et in Arcadia, ego
Poesia fa del mondo cangiar le forme:
Talia le rivela, ché Calliope ormai dorme.
Un fido pastor arcade,
scoprì un dì beltade
di far limericchi giocando con le norme.


Terra desolata
Non sappiamo perché per gli inglesi
quello di Aprile è il più crudele dei mesi.
Forse perché genera colà
la terra morta fiori di lillà.
O perché i poeti inglesi sono ipertesi.


Il disertore di Volterra
C’era un giovane bifolco presso Volterra
che non voleva fare il soldato e andare in guerra.
Prima d’essere ammazzato,
dico, tre sbirri ha seccato:
ha scelto la sua morte, il disertore di Volterra.

Le barbet de Finistère*
Il y avait un jeune pitaud en Finistère
pas envie d’être recrue et aller à la guerre.
Dis-je, avant d’être tué,
trois poulardins il matavait:
il a choisi sa mort, le barbet de Finistère.


*Qualcuno ha attribuito questo limerick anonimo a Louis-Ferdinand Céline: secondo me è un falso.



domenica 8 febbraio 2009

Milton e Galileo


L’incontro

Nell’Aeropagitica, il discorso per la libertà di stampa rivolto al Parlamento nel 1644, il grande poeta inglese John Milton, secondo i conterranei secondo solo a Shakespeare, riferisce di aver fatto visita a Galileo Galilei durante il suo soggiorno italiano del 1638, prima di essere richiamato in Inghilterra dalle avvisaglie della Guerra Civile. Milton aveva 29 anni e aveva appena incominciato la sua luminosa carriera. Galileo era vecchio, ormai cieco e agli arresti domiciliari nella sua casa di Arcetri: “There it was that I found and visited the famous Galileo grown old, a prisner to the Inquisition, for thinking in Astronomy otherwise then the Franciscan and Dominican licencers thought. And though I knew that England then was groaning loudest under the Prelaticall yoak, neverthelesse I took it as a pledge of future happines, that other Nations were so perswaded of her liberty” (Accadde che trovai e visitai il celebre Galileo, invecchiato, prigioniero dell’Inquisizione per aver pensato in Astronomia diversamente dagli ufficiali Francescani e Domenicani. E sebbene sapessi che l’Inghilterra allora gemeva ad alta voce sotto il giogo pretesco, tuttavia considerai come una promessa di felicità futura che altre Nazioni fossero così convinte della sua libertà).

È difficile leggere questo passaggio senza riconoscere che per Milton lo scienziato italiano rappresentasse un simbolo della Nuova Scienza e un martire della libertà intellettuale. Così l’incontro è stato interpretato da molti, anche a livello popolare. Lo testimoniano le numerose opere poetiche e pittoriche che sono state dedicate all’episodio, come l’incisione pubblicata sull’Art Journal di Londra nel 1864 che ho riprodotto in apertura di questo articolo.

Milton fa riferimento a Galileo in tre occasioni nella sua opera principale, il “Paradiso Perduto” (Paradise Lost), un poema epico in dodici canti sulla creazione, la caduta dell’uomo, la sua cacciata dall’Eden, lo schema divino della sua redenzione. Il poema, considerato uno dei capolavori della letteratura universale, fu scritto tra il 1658 e il 1665. Tutte tre le volte il pisano è associato allo strumento che gli aveva assicurato la fama, il telescopio. Galileo è il solo contemporaneo menzionato nel poema, una volta per nome e due volte attraverso una perifrasi.


Le macchie della Luna

Nel primo libro dell’opera (vv, 287-291), un riferimento a Galileo compare quando il poeta descrive lo scudo di Satana, il quale:

Hung on his shoulders like the Moon, whose Orb
Through Optic Glass the Tuscan Artist views
At Ev'ning from the top of Fesole,
Or in Valdarno, to descry new Lands,
Rivers or Mountains in her spotty Globe.


Pende dalle sue spalle come la Luna, la cui Sfera
osserva l’artista toscano con il Vetro Ottico,
di sera, dalla collina di Fiesole
o in Valdarno, per descrivere nuove Terre,
Fiumi o Monti sul suo maculato Globo.

Le macchie della Luna, le sue irregolarità, sono secondo Galileo un argomento contro la statica perfezione dei corpi celesti, sostenuta da molti filosofi antichi e suoi contemporanei. Nel Sidereus Nuncius (1610) afferma infatti:

Queste macchie alquanto scure e abbastanza ampie, ad ognuno visibili, furono scorte in ogni tempo; e perciò le chiameremo grandi o antiche, a differenza di altre macchie minori per ampiezza ma pure così frequenti da coprire l'intera superficie lunare, soprattutto la parte più luminosa: e queste non furono viste da altri prima di noi. Da osservazioni più volte ripetute di tali macchie fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica, come gran numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti, ma ineguale, scabra e con molte cavità e sporgenze, non diversamente dalla faccia della Terra, variata da catene di monti e profonde valli.


Le macchie solari

Il secondo accenno a Galileo contenuto nel Paradise Lost si trova nel terzo libro (vv. 588-590), nel passo in cui Satana atterra sul Sole prima di iniziare la sua discesa sull’Eden. In questa occasione Milton paragona l’angelo caduto a una macchia solare:

There lands the Fiend, a spot like which perhaps
Astronomer in the Sun's lucent Orbe
Through his glaz'd Optic Tube yet never saw.

Là approda il Demonio, una tale macchia che forse
l’Astronomo nella lucente Sfera del Sole
con il suo vitreo Tubo Ottico mai non vide.

È certo che Milton conoscesse gli scritti di Galileo sulle macchie solari, in cui di nuovo veniva criticata senza remore la posizione aristotelica, divenuta dottrina per la chiesa. In una lettera all’accademico dei Lincei Federico Cesi (colui che avrebbe inventato la parola “telescopio”), datata 12 maggio 1612, lo scienziato invia una copia delle sue prime osservazioni, osservando:

Circa le quali macchie io finalmente concludo, e credo di poterlo necessariamente dimostrare, che le sono contigue alla superficie del corpo solare, dove esse si generano e si dissolvono continuamente, nella guisa appunto delle nugole intorno alla terra, e dal medesimo sole vengono portate in giro, rivolgendosi egli in sè stesso in un mese lunare con revolutione simile all'altre de i pianeti, cioè da ponente verso levante intorno a i poli dell'eclittica: la quale novità dubito che voglia essere il funerale o più tosto l'estremo et ultimo giuditio della pseudofilosofia, essendosi già veduti segni nelle stelle, nella luna e nel sole; e sto aspettando di sentir scaturire gran cose dal Peripato [l’insieme dei filosofi aristotelici, o peripatetici] per mantenimento della immutabilità de i cieli.

Galileo chiaramente riconosceva la natura rivoluzionaria delle sue dichiarazioni, anche se ancora non si rendeva conto delle conseguenze che giudizi simili avrebbero creato sulla sua carriera e nei rapporti tra la chiesa e la nuova scienza che stava contribuendo a far nascere.


Il nocchiero nell’Egeo

L’ultimo riferimento a Galileo si trova nel quinto libro del poema (vv. 261-266). Questa volta il suo nome viene fatto direttamente, in un passaggio che descrive con intensità la discesa dell’arcangelo Raffaele, giunto ad ammonire Adamo per l’ultima volta:

(…) As when by night the Glass
Of Galileo, less assur'd, observes
Imagind Lands and Regions in the Moon:
Or Pilot from amidst the Cyclades
Delos or Samos first appeering kenns
A cloudy spot
(…).

(…) Come quando di notte la Lente
di Galileo, meno sicura, osserva
Terre immaginate e Regioni sulla Luna:
o il Nocchiero in mezzo alle Cicladi
guarda il comparire di Delo o Samo,
una cupa macchia. (…).

Grazie al potere del suo strumento, Galileo è qui l’esploratore che cartografa le regioni del nostro satellite e scorge i contorni incerti di nuove terre, come il nocchiero di una nave che sia avvicina alle isole egee. Nel Sidereus Nuncius egli descrive la visione telescopica in termini entusiastici sin dall’inizio: nella dedica a Cosimo II de’Medici suggerisce che le stelle possono essere considerate incorruttibili monumenti. Prima di dedicare le lune di Giove appena scoperte alla famiglia regnante, afferma infatti:

Alcuni però che guardano a cose più salde e durature consacrarono la fama eterna di uomini sommi non a marmi o metalli, ma alla custodia delle Muse e agli incorrotti monumenti delle lettere. Ma perché ricordo queste cose? quasi che l'ingegno umano, contento di queste regioni, non abbia osato andar oltre: invece, guardando più lontano, avendo ben compreso che tutti i monumenti umani per violenza di tempeste o per vecchiezza alfine muoiono, pensò più incorruttibili monumenti, sui quali il tempo vorace e l'invidiosa vecchiezza non potessero reclamare diritti. E scrutando il cielo affidò a quei noti eterni Globi di chiarissime Stelle i nomi di coloro che per opere egrege e quasi divine furono stimati degni di godere insieme agli Astri l'eternità. Per questo non si oscurerà la fama di Giove, Marte, Mercurio, Ercole e degli altri eroi con i cui nomi si chiamano le Stelle, prima che lo splendore delle stesse Stelle.

In questo caso, tuttavia, Milton non sembra condividere l’entusiasmo dello scienziato: una nota di ambiguità emerge nel suo riferimento. La lente di Galileo è less assur’d, meno sicura, e osserva Imagind Lands (Terre immaginate). Al di là della celebrazione dell’invenzione e delle nuove osservazioni da questa rese possibili, emerge un sottile dubbio. Milton, il religioso poeta che fu ministro di Cromwell, nella maniera allusiva e contorta che caratterizza lo stile poetico della sua epoca, adombra l’idea che il nostro progresso nella conoscenza possa essere un’illusione e che la visione dell’uomo, per quanto prodigiosamente accresciuta dai nuovi strumenti, non potrà mai eguagliare quella divina. Una parola accompagna infatti tutti i riferimenti a Galileo e al telescopio: “macchia” (spotty Globe, a spot … yet never saw, a cloudy spot), quasi a significare che l’imperfezione riscontrata nel cielo sia la stessa dell’umanità che la osserva.

mercoledì 4 febbraio 2009

La letteratura combinatoria (1)




Combinatoria esponenziale

I Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau (1961) propongono al lettore un dispositivo di lettura combinatoria a base di linguette intercambiabili sulle quali sono scritti uno per uno i versi di un insieme di dieci sonetti (con 14 versi ciascuno). Ciò perché l’autore ha scritto i sonetti con le stesse rime e con una struttura grammaticale tale che ogni verso è intercambiabile con ogni altro verso situato nella stessa posizione. In termini matematici si tratta di una disposizione con ripetizione con n=10 e k=14, per un totale di 1014 combinazioni (centomila miliardi, appunto). Così, a seconda di una qualsiasi delle eventuali scelte, è possibile leggere sonetti come quelli che propongo come esempio:

Le roi de la pampa retourne sa chemise
pour la mettre à sécher aux cornes des taureaux
le cornédbîf en boîte empeste la remise
et fermentent de même et les cuirs et les peaux
Je me souviens encor de cette heure exquise
les gauchos dans la plaine agitaient leurs drapeaux
nous avions aussi froids que nus sur la banquise
lorsque pour nous distraire y plantions nos tréteaux

Du pôle à Rosario fait une belle trotte
aventures on eut qui s'y pique s'y frotte
lorsqu'on boit du maté l'on devient argentin

L'Amérique du Sud séduit les équivoques
exaltent l'espagnol les oreilles baroques
si l'Europe le veut l'Europe ou son destin

---------------

Le cheval Parthénon s'énerve sur sa frise
depuis que lord Elgin négligea ses naseaux
la critique lucide aperçoit ce qu'il vise
il n'avait droit qu'à une et le jour des Rameaux
Je me souviens encor de cette heure exquise
on prépare la route aux pensers sépulcraux
il grelottait le pauvre aux bords de la Tamise
lorsque vient le pompier avec ses grandes eaux

Du pôle à Rosario fait une belle trotte
aventures on eut qui s'y pique s'y frotte
même s'il prend son sel au celte c'est son bien

On regrette à la fin les agrestes bicoques
exaltent l'espagnol les oreilles baroques
le Beaune et le Chianti sont-ils le même vin?

(da "Parole" , dove un generatore automatico permette di ottenere tutti i 1014 sonetti di Queneau)

Nelle “Istruzioni per l'uso” poste a introduzione del suo libro, Queneau sostiene un po’ compiaciuto che “Calcolando 45" per leggere un sonetto e 15" per cambiare la disposizione delle striscioline, per otto ore al giorno e duecento giorni all'anno, se ne ha per più di un milione di secoli di lettura. Oppure, leggendo tutta la giornata per 365 giorni l'anno, si arriva a 190.258.751 anni più qualche spicciolo (senza calcolare gli anni bisestili e altri dettagli)” (ora in Segni, cifre e lettere e altri saggi, Einaudi, Torino, 1981).

Nella prefazione alla prima edizione dei Cent mille milliards de poèmes, il matematico François Le Lionnais (ora nell’opera collettiva La letteratura potenziale - Creazioni Ricreazioni Ri-creazioni, Bologna, Clueb, 1985) conia la formula “letteratura combinatoria” per collocare l’opera di Queneau:

(…) la letteratura sperimentale intende uscire dalla semiclandestinità, affermare la sua legittimità, proclamare le sue ambizioni, darsi dei metodi, adattarsi insomma alla nostra civiltà scientifica. La sua vocazione è di partire in avanscoperta per tastare il terreno, tracciarvi nuove piste, accertarsi se una certa strada finisce in un vicolo cieco, se un’altra è in realtà soltanto vicinale, se un’altra ancora sbocca invece in una via regia che condurrà alle Terre promesse e agli Eldorado del linguaggio. I «Centomila miliardi di poesie» ci propongono uno di questi tentativi, inscrivibile in un capitolo più vasto che si potrebbe definire «letteratura combinatoria»...

Con il concetto di letteratura combinatoria, Le Lionnais si riferisce all’insieme delle pratiche letterarie in cui l’opera non fissa a priori l’ordine dei brani di testo che la compongono, ma ne dispone anzi la ricombinazione secondo procedimenti formalizzati. In questo modo, l’opera combinatoria non viene letta, ma giocata: nel puzzle della “letteratura combinatoria” il fruitore trova delle tessere di partenza, che può smontare e rimontare a piacere seguendo le “regole del gioco” indicate. Ciò che viene sollecitato nel lettore non è più soltanto un lavoro di interpretazione o d'immaginazione, ma, a seconda dei casi, un'attività di costruzione o di coproduzione, un lavoro di genesi o di realizzazione del testo stesso. Il lettore interagisce, viene condotto a manipolare un dispositivo che produce ciò che gli è dato da leggere, e due lettori non leggeranno forse mai lo stesso testo. Questo gioco del fare letterario delega così al lettore una parte rilevante della funzione di autore; ciò che offre questa letteratura non è un prodotto letterario, ma un metodo di produzione, un oggetto letterario a metà strada tra l’opera e la struttura.


Combinatoria fattoriale

Ancor più radicale di quella di Queneau è la scelta di Marc Saporta, che nel romanzo Composizione n. 1 riduce il testo ad una sequenza di frammenti che possono essere letti in un ordine qualsiasi. Ogni pagina descrive una scena in cui agisce un personaggio. In questo caso la libertà del lettore è totale, perché egli può leggere il testo disponendo come crede l’ordine delle pagine. Per questo scopo, le pagine del romanzo, non numerate, sono separate fisicamente le une dalle altre, e stampate solo sul recto, mentre il verso è bianco. La fascetta che tiene unite le pagine riporta la frase: “TANTI ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo” (Marc Saporta, Composizione n. 1, Lerici, Genova, 1962). Nella prefazione all’edizione originale francese, Saporta avverte: “Il lettore è pregato di mescolare queste pagine come un mazzo di carte. Di tagliare, se lo desidera, con la mano sinistra, come si fa da una cartomante. L’ordine con il quale le pagine usciranno dal mazzo orienterà il destino di X. Infatti il tempo e l’ordine degli avvenimenti regolano la vita più che la natura degli avvenimenti stessi”. In questo caso si tratta di una permutazione di 150 elementi, per cui le possibili combinazioni sono date da 150! = 5,72 × 10262, numero che giustifica la successiva considerazione: “Una vita si compone di elementi multipli, ma il numero delle possibili combinazioni è infinito”. Per un'analisi più approfondita del testo di Saporta rimando a questo mio articolo.

La differenza tra i due testi risiede nel grado di libertà che è concessa al lettore, che a sua volta è funzione del congegno combinatorio adottato. Nei Cent mille milliards des poèmes la struttura testuale è suddivisibile in classi di elementi combinabili secondo un ordine stabilito, con una logica che il matematico oulipiano Claude Berge ha definito esponenziale, mentre in Composizione n. 1 le combinazioni (permutazioni) tra i frammenti sono totalmente affidate al caso, con una logica fattoriale. Lo schema (da Jean Clément, Elementi di poetica ipertestuale, in Bollettino del ‘900, n.1) illustra le due strutture:




L’Oulipo

Queneau, Le Lionnais e Saporta sono tutti francesi. E in Francia nel 1960 proprio i primi due avevano fondato con Jacques Bens, Claude Berge, Jacques Ducheteau, Jean Lescure e Jean Queval l’organismo di ricerca sperimentale OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), al quale avrebbero poi aderito Perec e Calvino. È da questo gruppo di matematici con passioni letterarie e uomini di lettere con l'amore per i numeri che il fantasma della combinatoria ha cominciato ad aggirarsi nel mondo letterario.

Sin dalla fondazione, le regole del gruppo furono così enunciate: “Definiamo letteratura potenziale la ricerca di nuove forme e strutture che potranno essere utilizzate dagli scrittori nella maniera che più gli piacerà”. “Potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che possa creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di contraintes diverse, da quelle in qualche modo legate all’enigmistica, come il palindromo, l’acrostico, il lipogramma, dei quali certo non si è sottovalutato l’aspetto ludico, a forme più direttamente legate ai codici delle scienze esatte, come il calcolo combinatorio, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. Queneau spiegava spesso che alcuni suoi lavori potevano sembrare semplici passatempi, semplici jeux d'esprit, ma ricordava che anche la topologia o la teoria dei numeri nacquero, almeno in parte, da quella che una volta si chiamava "matematica divertente".


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