lunedì 31 maggio 2010

Gli enigmi erotici di Papillon de Lasphrise


Poco si sa della vita di Marc Papillon, “capitano” di Lasphrise. Nacque nel 1555 nei pressi di Amboise, in Turenna, nel piccolo feudo di Lasphrise, da una famiglia nobile impoverita dalle guerre. Orfano di padre, intraprese la carriera militare nelle armate cattoliche, preferendo tuttavia Venere a Marte e chiedendosi perché mai i cristiani dovessero continuare a massacrarsi tra loro. Si ritirò nel suo feudo nel 1587, iniziando a scrivere opere poetiche consacrate più alle battaglie nella camera da letto che a quelle delle guerre di religione. Le sue due opere maggiori, di tono barocco e libertino, sono entrambe dedicate a due donne: Les Amours de Théophile e L’Amour passionnée de Noémie celebrano due femmine ardentemente desiderate e forse mai possedute, l’una perché novizia e l’altra perché sua cugina. Scrisse anche una commedia, La Nouvelle tragicomique. Morì intorno al 1599.

Come molti contemporanei, Marc Papillon de Lasphrise era affascinato dall’aspetto formale della poesia, ai giochi di parole, all’invenzione linguistica e alla “meraviglia”, aspetti che l’erotismo delle sue opere ha fatto spesso sottovalutare. Così fu autore di un sonetto in “lingua bambinesca” e di uno in “lingua sconosciuta”, che inizia con questa quartina:

Cerdis Zerom deronty toulpinye,
Purois harlins linor orifieux,
Tictic falo mien estolieux,
Leulfiditous lafar relonglotye.

La vena giocosa e piccante dell’opera di Lasphrise raggiunge l’apoteosi negli Enigmes, pubblicati per la prima volta nel 1597 nella raccolta Les Premières Œuvres poétiques du capitaine Lasphrise (alle pagine 309–328 del testo in linea offerto dal portale Gallica della Bibliothèque Nationale de France). Si tratta di 22 poesie senza titolo che sembrano descrivere con linguaggio crudo ed esplicito qualche particolare dell’anatomia umana o alludere al sesso e ai suoi giochi. Poi l’autore dà una spiegazione che confonde completamente il lettore, fornendo un’interpretazione fintamente innocente e banale. Si tratta di un rovesciamento totale della metafora erotica, con un’inventiva dall’effetto fortemente umoristico. Di seguito ne presento alcune, accompagnate dal mio tentativo di traduzione:


I
Estant couchée en foule, estant couverte toute,
Elle ondoye eschauffée au masle feu nouveau,
Estrange effect qu’un feu face sortir une eau,
Qui par la roide queuë entierement s’esgoute.

Stando distesa in gruppo, stando tutta coperta,
ella ondeggia eccitata dal maschio fuoco nuovo,
strano effetto che un fuoco faccia uscire un’acqua
che dalla dura coda si sgocciola completamente.

Explication
C’est quelque herbe que l’on met en presse dans un alambicq justement fermé, & par l’ardeur du feu il en distile de l’eau, qui sort toute goutte à goutte par la queuë de la chapelle, qui est de plomb, & qui encor qu’elle soit courbée, ne laisse pas d’estre roide & forte.

Si tratta di una qualche erba che si mette pressata in un alambicco ben chiuso, e per l’ardore del fuoco se ne distilla dell’acqua, che esce tutta goccia a goccia per la coda della cappella*, che è di piombo e che, per quanto sia piegata, non manca di essere dura e forte.

*La cappella è il coperchio dell’alambicco.


II
Quand je sens l’ardent flot (non point extremement)
» Car toute extremité n’est saine tant soit bonne,
Ma duisable chaleur atteinct plus la personne,
Si mon interieur sort du trou mollement.
Venus mere d’Amour me desire ardemment,
La mesme chasteté ainsi m’affectionne,
Toutesfois sans Venus, qui de son surjon donne,
Nul ne voudroit jouyr de mon bien nullement.
En m’aydant je luy ayde avec naïfve flame,
Et de plusieurs façons on use de mon ame,
Roys, Bergers, sont remplis de sa fecondité.
Qui sans coust est utile, à la longue on s’en fasche,
Trop de mol fait vomir, trop de dur serre & lasche,
Mais son Ovale engendre oeuvre plus souhaitté.

Quando sento l’ardente flotto (nient’affatto oltre misura)
“Perché ogni estremità non è sana tanto sia buona”,
il mio piacevole calore attinge più la persona
se il mio intimo esce dal buco mollemente.
Venere madre d’Amore mi desidera ardentemente,
la stessa castità ugualmente mi predilige,
tuttavia senza Venere, che dalla sua fonte dona,
nessuno vorrebbe gioire del mio bene vanamente.
Aiutandomi io l’aiuto con naturale fiamma
E in più maniere si usa la mia anima,
Re, Pastori sono colmati dalla sua fecondità
che senza costo è utile, alla lunga ci si arrabbia,
troppo molle stomaca, troppo duro stringe e rompe,
ma il suo Ovale genera l’opera più desiderata.

Explication
C’est un oeuf molet, que l’on a mis bouillir , qui par sa chaleur eschauffe la personne à luxure, & qui est fort sain, dont les plus sages en mangent ainsi; mais sans estre salé on n’en pourroit manger, l’un s’accommode avec l’autre, le sel seul, ni l’oeuf sans sel ne seroit trouvé bon: on en mange diversement, de pochez, fricassez, &c. C’est une viande dont les Princes usent & tous les pauvres gens comme d’une manne feconde, qui est bonne sans despense. Mangeant ordinairement des oeufs molets on s’en degouste, ils font mal au coeur & sont vomitifs, & estans durs ils restreignent le ventre, & en prenant trop ils le dévoyent & gastent l’estomach. L’oeuf, d’où vient ce mot d’ovale, estant faicte comme un oeuf, engendre un poulet, qui vault mieux, & que l’on desire plus que luy.

Si tratta di un uovo morbido che si è messo a bollire, che per il suo calore scalda la persona con gran godimento, e che è assai sano, perciò i più saggi lo mangiano così; ma senza essere salato non lo si potrebbe mangiare, l’uno si accompagna all’altro, il sale* da solo, né l’uovo senza il sale sarebbero considerati buoni: lo si mangia in modi diversi, in camicia, strapazzato. È un cibo che utilizzano i Principi e tutti i poveri come una manna feconda, che è buona senza spesa. Mangiando normalmente delle uova morbide ci si disgusta, fanno male al cuore e fanno vomitare, e essendo dure stringono il ventre, mangiandone troppe lo corrompono e guastano lo stomaco. L’uovo, da cui viene la parola ovale che è fatta come un uovo, genera un pulcino, che vale di più e che si desidera maggiormente.

*Il sale nella poesia è rappresentato da Venere, nata dalla schiuma del mare.


XX
Quand le long instrument entre mon trou barbu
En langottant je souffle, & le remuant dru
Je lasche quelque flux avec rumeur si doulce
Que l’on s’en resjouyst encore que j’en tousse.

Quando il lungo strumento penetra il mio buco barbuto
muovendo la lingua io soffio, agitandolo duro
lascio qualche goccia con rumore così dolce
che ci si diletta ancora anche se tossisco.

Explication
C’est un homme qui met une fluste da sa bouche barbue tout atour, & faut que pour en bien ioüer il remue soudainement les doigts, & ne se peut faire ainsi qu’en soufflant & langottant il ne lasche de la salive: quiconque entend le doulx bruit & doulx son, se rejouiyst: mais de la peine qu’a le ioüeur il ne tousse ordinairement.

Si tratta di un uomo che mette un flauto nella sua bocca barbuta tutto intorno, e bisogna che per ben suonare egli muova le dita improvvisamente, e non si può fare così se non soffiando, e muovendo la lingua egli lascia cadere della saliva: chiunque ode il dolce rumore e il dolce suono: ma per la fatica che fa il suonatore di solito ne tossisce.


XXII
Madame le veid rouge estant en grand’ chaleur,
Le prend à pleine main pour le mettre en sa fente
Puis ayant d’un bon coup receu ceste liqueur,
Soufflant souspire d’aise, & n’est plus si ardente.

La Signora lo vede rosso, avendo un gran calore,
lo prende a piene mani per metterlo nella sua fessura,
poi avendo d’un buon colpo ricevuto questo liquore,
soffiando sospira di piacere e non è più così ardente.

Explication
C’est une Dame ayant chaud, qui void un verre plein de vin cleret, qu’elle prend à plein poingt pour le boire, & apres avouir beu ce grand coup, elle souspire d’aise, & en souffle comme l’on faict toujours, & estant desalterée, sa chaleur n’est plus si grande.

Si tratta di una Signora che ha caldo, che svuota un bicchiere di vino chiaretto, che prende a pugno pieno per berlo, e dopo aver bevuto questo grande bicchiere, sospira di piacere, e sbuffa come si fa sempre, ed essendo dissetata, il suo calore non è più così grande.

giovedì 27 maggio 2010

Le tre algebre di Luca Pacioli

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La storia delle matematiche è anche storia dell’evoluzione dei linguaggi simbolici e algoritmici che ne hanno accompagnato lo sviluppo. L’epoca in cui visse Luca Pacioli (1445–1517) si collocherebbe in quella fase della storia dell’algebra che il filologo tedesco Georg Nesselmann definì come algebra sincopata, nella quale alcuni termini sono regolarmente indicati con abbreviazioni. L’algebra sincopata sarebbe succeduta all’algebra retorica antica e medievale, nella quale i procedimenti algebrici venivano espressi mediante l’uso del linguaggio naturale, e avrebbe anticipato l’algebra simbolica, nella quale si usano le lettere per tutte le quantità e i segni per rappresentare le operazioni, che incominciò con i lavori di François Viète (1540-1603) e già con Cartesio (1596–1650) raggiunse la forma che utilizziamo tuttora. Bisogna però precisare che la classificazione del Nesselmann, che data al 1842, pur essendo ancora utilizzata a livello descrittivo, è stata criticata in più occasioni, perché non tiene conto né dell’uso di simboli nella matematica medievale indiana, né dell’algebra geometrica greca (che utilizzava le proprietà delle figure geometriche per rappresentare relazioni ed equazioni) né, soprattutto, dell’opera isolata di Diofanto di Alessandria, vissuto in epoca ellenistica, che utilizzò un simbolismo piuttosto complicato e incompleto (mancano i simboli per le operazioni e relazioni) costruito a partire dall’alfabeto greco. Inoltre l’uso isolato e non sistematico di simboli si ritrova già nelle opere di matematici del XIII e XIV secolo, come Giordano Numerario (morto nel 1237), il Fibonacci (circa 1170-dopo il 1240) e Nicola di Oresme (1323?-1382).

L’abbreviazione delle parole ricorrenti nell’esposizione di problemi di aritmetica è stato quindi il primo passo dell’evoluzione dal linguaggio naturale a quello simbolico. In generale, come sostiene il ricercatore canadese di didattica della matematica Luis Radford, la storia della matematica non può essere separata dalla parallela trasformazione sociale, economica e tecnologica. Nel processo di progressiva astrazione, gli oggetti matematici non si sarebbero “purificati sottraendo da essi la dannosa sostanza fisica”, ma la loro rappresentazione prima sincopata e poi simbolica risponderebbe a una precisa esigenza di scrittura più agile, dettata dal passaggio dai manoscritti ai libri a stampa: l’abbreviazione sarebbe dunque un accorgimento tecnico. Da questo espediente si sarebbe poi sviluppato il potere straordinario di astrazione dell’algebra simbolica.

Il processo di progressiva formalizzazione del linguaggio matematico non è importante solo dal punto di vista lessicale (semplificazione e restrizione delle necessità terminologiche), ma ha avuto anche altre importanti conseguenze: esprimere un calcolo in una formula di mezzo rigo invece che in una pagina di prosa non può che portare a dei progressi sul piano della logica, e quindi della matematica stessa. Una notazione più compatta ed evoluta permette infatti un livello di astrazione più elevato, rappresentando uno strumento essenziale per la risoluzione dei problemi, procedendo sempre più dal particolare al generale. Inoltre essa consente una maggiore efficacia degli algoritmi di calcolo, velocizzandoli e rendendoli manipolabili più facilmente.

Qualche esempio potrà chiarire l’importanza della fase di passaggio alla quale si assiste alla fine del Quattrocento. Raffaella Franci e Laura Toti Rigatelli (Storia della teoria delle equazioni algebriche, Mursia, Milano, 1979) presentano un utile schema con esempi delle espressioni proprie dell’algebra retorica confrontati con le corrispondenti espressioni simboliche moderne:

cose uguale a numero ax = b
censi e cose uguale a numero ax2 + bx = c
censi uguale a numero ax2 = b
censi uguali a cose ax2 = bx
censi e numero uguale a cose ax2 + c = bx
censi uguale a cose e numero ax2 = bx + c
cubo e cose uguale a numero x3 + bx = c
cubo uguale a cose e numero x3 = bx + c
cubo e numero uguale a cose x3 + c = bx

In Piero della Francesca (1416–1492), pittore straordinario e autore di trattati matematici e di geometria prospettica, della generazione precedente a quella del Pacioli, troviamo qualche esempio di un incipiente uso di simboli. Nel Trattato d'abaco, sulla matematica applicata, forse del 1450, è presente ad esempio un problema risolto algebricamente attraverso l’equazione:
 

Trovame uno numero che presone 1/4 e moltiplicato in sé faccia il rimanente de quello numero, cioè tre quarti de tucto il numero.
Poni che quello numero sia I cosa; tòine 1/4 de cosa e moltiplicalo in sé cioè 1/4 de cosa via 1/4 de cosa fa de censo il quale è equale ad 3/4 de cosa. Reduci 3/4 de cosa a sedicesimi sono 12/16 , che sono equali a de censo; parti per uno censo ne vene 12 et tanto vale la cosa, et noi dicemmo quello numero essere I cosa, adunqua fu 12. Pigla 1/4 de 12, che è 3, che moltiplicato in sé fa 9 et li 3/4 de 12 è 9. Adunqua ài quelo che aì dimandato.

Un trattino o un quadratino sopra il coefficiente numerico indicano rispettivamente l’incognita e l’incognita al quadrato. Tali segni non sono però usati in modo sistematico e non escludono l’utilizzo dei termini tradizionali cosa e censo.


Mentre la notazione tradizionale caratterizza ancora la prima opera a stampa di Luca Pacioli, la Summa de Arithmetica Geometria Proportioni et Proportionalità pubblicata nel 1494, si assiste a un netto progresso con la sua traduzione in volgare del Libellus de quinque corporibus regularibus di Piero della Francesca, che fa parte della prima edizione a stampa del De Divina Proportione, pubblicata a Venezia nel 1509. Così viene trattato un problema di geometria piana risolto con l’equazione:

 


Il Pacioli utilizza qui una simbologia algebrica innovativa e funzionale. Un rombo sta per l'incognita, un quadrato per l'incognita al quadrato. In campo aritmetico, egli usa p per indicare l’addizione (dove Piero utilizzava additus, et, plus) e m per indicare la sottrazione (al posto delle varie espressioni ablatus, ammissiis, deductus, demptus, demìnutus, detractus, minus, remotus), mostrando in modo evidente come il fissarsi di sigle e simboli sia funzionale non solo alla sinteticità del linguaggio matematico, ma abbia un ruolo decisivo anche nei riguardi dell'univocità degli elementi lessicali.

In altre parti dell’opera del Pacioli, così come in quelle degli algebristi italiani dei decenni successivi, troviamo esempi di linguaggio algebrico sincopato. Così l’equazione oggi indicata con x + x2 = 12 era espressa dal frate di Sansepolcro con:

Trouame 1.n° che gioto al suo qdrat° facia. 12

a dimostrazione che la classificazione tradizionale del Nesselmann non può essere intesa in senso assoluto: tra la metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento le tre “algebre” convissero, addirittura nella stessa persona.

lunedì 24 maggio 2010

Halley mentore e poeta

Nature and nature's laws lay hid in night;
God said "Let Newton be" and all was light.
(Alexander Pope)

Uomo colto ed eclettico, Edmond Halley (1656-1742) partecipò intensamente alla vita sociale e politica londinese, ma fu soprattutto al centro della comunità scientifica inglese in uno dei suoi momenti di massimo splendore. Nel 1686 divenne assistente della segreteria della Royal Society. Durante una delle tante discussioni scientifiche all’interno dell’illustre consesso, Christopher Wren (1632–1723) pose a lui e a Robert Hooke (1635-1703) la domanda su quale legge governasse il moto dei pianeti. Hooke rispose di conoscere la legge che governava la caduta dei gravi, che era la stessa responsabile del moto dei pianeti, senza tuttavia fornire alcuna prova a sostegno della sua affermazione. Wren era scettico e Halley decise di affrontare il problema, senza venirne a capo. Qualche mese dopo, Halley fece visita a Isaac Newton, che a quell’epoca ricopriva la cattedra di professore di matematica all’università di Cambridge, e gli riferì del colloquio.

I dettagli della conversazione tra i due uomini di scienza sono noti solo da memorie pubblicate trenta o quarant’anni più tardi. Secondo il resoconto di John Conduitt, di cui ho già avuto modo di occuparmi a proposito del celebre aneddoto della mela, Halley avrebbe chiesto a Newton “… che cosa pensasse della Curva che sarebbe descritta dai Pianeti supponendo che la forza d’attrazione verso il Sole sia il reciproco del quadrato della loro distanza da esso”. Una versione alternativa fu fornita dallo stesso Newton, in una nota in cui dice che Halley gli avrebbe chiesto che “se avessi saputo quale figura descrivevano i Pianeti nelle loro orbite intorno al Sole, sarebbe stato assai desideroso di avere la mia dimostrazione”, per cui la domanda di Halley sarebbe stata meno circostanziata e l’importanza del precedente colloquio alla Royal Society con Wren e Hooke assai minore. In seguito Hooke avrebbe reclamato di essere stato il primo ad intuire la legge quadratica inversa, ma già in quegli anni la comunità scientifica non era propensa a dargli credito: Alexis Clairaut, uno dei primi e più eminenti successori di Newton nel campo degli studi gravitazionali (diede per primo una soluzione approssimata del problema dei tre corpi), dopo aver recensito gli scritti di Hooke, scrisse intorno al 1760 che essi manifestavano “quale distanza ci sia tra la verità intuita e la verità dimostrata”.

Nel colloquio con Halley, Newton sostenne che la legge aveva proprio quella forma quadratica inversa, perché egli stesso l’aveva già dimostrato in uno scritto di nove pagine (poi noto con il titolo De motu corporum in gyrum, Il moto dei corpi nelle orbite), che sfortunatamente aveva perduto. Si offrì tuttavia di riscriverlo, e glielo fece avere nel successivo mese di novembre del 1684. Halley colse subito l'importanza di questo studio e si adoperò per convincere Isaac Newton a preparare e pubblicare un’opera più completa. Egli inoltre relazionò i contenuti del manoscritto di Newton alla Royal Society il 10 dicembre successivo. Tre anni dopo il colloquio, nel 1687, comparvero i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (noti come Principia), in edizione latina.

L’opera fu pubblicata a spese dello stesso Halley, che scrisse anche l’elegante poesia latina in onore di Newton che fa da prefazione a tutte le prime tre edizioni latine dell’opera (1687, 1713 e 1726), ma non compare nella prima edizione inglese del 1729. Il futuro Astronomo Reale (lo sarebbe stato dal 1720 fino alla morte), che nella Synopsis Astronomia Cometicae (1705) avrebbe predetto il ritorno della cometa che oggi porta il suo nome, era infatti, come molti intellettuali e scienziati del suo tempo, assai versato nelle lettere classiche e nell’arte poetica. Ciò gli consentì di essere anche filologo, traduttore e curatore di antichi trattati scientifici, come il De sectione rationis di Apollonio di Perga, le Coniche e il De sectione cylindri et coni di Sereno di Antinoe, gli Sphaerica di Menelao di Alessandria (pubblicato postumo nel 1758). Per tradurre in inglese o in latino alcune di queste opere, di cui erano rimaste solo traduzioni arabe, imparò persino quella lingua.

La poesia che introduce i Principia di Newton, rivela influssi lucreziani e riflette anche nello stile le idee epicuree e scettiche dell’autore, che lo avrebbero anche messo in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche anglicane e che ostacolarono la sua carriera. Eccone una traduzione assai libera:

A
L’ILLUSTRE SIGNORE
ISAAC NEWTON
E ALLA SUA OPERA MATEMATICA E FISICA
Segno distinto della nostra Epoca e Nazione

Evviva! Tu osservi la legge dei Cieli,
& ciò che bilancia la Massa divina,
e computi anche le leggi generali che Giove,
Creatore dell’universo, non volle violare,
ma pose a eterno fondamento della sua opera.

Gli intimi recessi dei cieli conquistati sono ora palesati,
né più nascosta è la Forza che fa girare i Pianeti più lontani.
Il Sole seduto sul suo trono comanda a tutte le cose
di tendere verso di lui, né consente che il corso
delle stelle sia retto, poiché attraverso il vuoto smisurato
si muovono, ma con Egli stesso al centro che dà loro velocità
lungo Ellissi immobili. Ora conosciamo quanto rapido
sia il moto delle temute Comete; né più siamo presi
dal panico di fronte all’apparire di Stelle barbute.

Finalmente apprendiamo perché l’argentea Febe
sembrava una volta procedere con passo irregolare,
come se disprezzasse di adattare il suo cammino
ai numeri degli Astronomi antichi; perché regrediscono
i Nodi, e perché progrediscono gli Equinozi.
& apprendiamo con quali Forze la vagante Cinzia
costringe i flussi e riflussi delle onde ribelli del Mare,
come ritrae le acque, come asciughi le rive sospette ai marinai;
che si guardano dalle pericolose rive sabbiose;
e come invece porti i suoi frangenti alti sui litorali.

Gli Argomenti che irritavano le menti degli antichi Sofisti,
e che frustavano le accese e vane dispute dei nostri Dottori
sono ora evidenti; alla luce della Ragione le nubi dell’ignoranza
sono disperse dalla Matematica. Coloro sui quali
la delusione getta il suo cupo manto funebre,
rinati ora sulle ali che il Genio presta loro
possono penetrare nelle dimore degli Dei
e scalare le altezze dei Cieli. O uomini mortali!
Alzatevi! E, gettando via le vostre cure terrestri,
apprendete la potenza della Mente celeste,
il suo pensiero e la vita lontana dal gregge rinchiuso!

Colui che con le tavole delle leggi una volta
bandì il furto e l’omicidio, che soppresse
l’adulterio e i Crimini di spergiuro;
e mise i popoli vaganti nelle città cinte da mura
fu il Fondatore dello stato. Mentre colui
che con i doni di Cerere benedisse la razza umana,
o colui che pigiando l’Uva ottenne un medicamento per la cura,
o colui che mostrò come sul tessuto fatto dalle canne
che crescono lungo il Nilo si possano scrivere simboli
di suoni e così esporre agli Occhi le Voci; l’umana sorte illuminò,
bilanciando così le miserie della vita con qualche felicità.
Ma ora siamo ammessi al banchetto degli Dèi, gli alti
affari dei Cieli ci è concesso trattare, e ora
l’immutabile ordine della Terra e delle cose ci è chiaro,
e tutti i tempi prima nascosti della sua storia ci appaiono.

Grazie a Talia celebrate con me cantando,
voi che ora vi nutrite del nettare celeste,
NEWTON che ha aperto con la chiave lo scrigno della verità,
NEWTON caro alle Muse, nel cui puro cuore Febo
è presente, con tutta la sua radiante mente Divina,
né più vicino è lecito a un mortale avvicinarsi agli Dei.

EDM. HALLEY

martedì 18 maggio 2010

Ricordo di Edoardo Sanguineti

Il poeta Edoardo Sanguineti è morto oggi a Genova all’età di 79 anni. Proprio in questi giorni sto rileggendo il testo della Lectio che Sanguineti tenne in occasione dei festeggiamenti per il novantunesimo compleanno di Pietro Ingrao, il 20 marzo 2006 a Roma. Si intitola Come si diventa materialisti storici? ed è una rivalutazione del marxismo:

“Nel momento niente offre una visione più matura, più ricca del marxismo che, mi pare, è ancora quella che spiega meglio a che punto siamo della storia umana, quali sono i temi fondamentali da affrontare e anche qual è la direzione verso la quale muoversi, che poi è la questione veramente radicale. Cioè: che fare.”

Al di là della suo talento poetico e ludolinguistico, di Sanguineti voglio proprio sottolineare l'impegno politico, il suo immergersi nel flusso della storia senza rimpianti per l'Empireo dei poeti. Le sue poesie di lotta, mai retoriche, e le sue prese di posizione pubbliche, spesso provocatorie e sempre documentatissime, sono la dimostrazione che la grandezza della poesia sta nel mondo e non fuori da esso.

PURGATORIO DE L'INFERNO, 10

questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l'autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei
Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente.

Il “Corriere della Sera” di oggi pubblica un articolo di Sanguineti (Homo ridens) sui meccanismi del comico, scritto in occasione di una rassegna che si è aperta nella sua città. Nel criticare la progressiva domesticazione della risata, che si accompagna all’imporsi di altre forme di dominio e narcotizzazione delle coscienze di questa fase storica, conclude con queste parole, che trovo adattissime a completare questo mio piccolo ricordo:

“Ogni seduttore sa bene che, per conquistare l’oggetto vivente del desiderio, si tratta, dosando bene le scelte, le situazioni, le dosi, di muoverlo al riso o al pianto. Chi si guarda dal politico che, come iena temibile, va barzellettando, si avvia, per questo stesso fatto, sulla lunga strada della libertà. Dai leoni non è difficilissimo guardarsi, per noi, poveri uomini, ma dalle volpi amene occorre prendere prontamente le distanze, con quell’onestà decorosa che giova al buon cittadino”.

venerdì 14 maggio 2010

Ode al Laser


Il 16 maggio 1960, cinquant’anni fa, Theodore Harold Maiman, fisico e ingegnere elettronico degli Hudghes Research Laboratories di Malibù (California), realizzò il primo laser funzionante. In realtà il laser ha molti padri, a partire da Albert Einstein che nel 1917 enunciò per primo il fenomeno dell’emissione stimolata, attraverso le ricerche di numerosi gruppi fisici in tutto il mondo tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso.

La ricorrenza è stata celebrata da molte organizzazioni e dai principali media scientifici. Segnalo ad esempio il numero monografico di maggio di Physics World Magazine, scaricabile gratuitamente (solo in questa occasione!) dal sito della rivista, oppure il focus di notizie dedicato alle prospettive del utilizzo del laser nel numero del 14 maggio di Science Magazine, la rivista cartacea e online dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS). Proprio oggi la pagina dell’AAAS su Facebook segnala una poesiola scherzosa che è possibile trovare sul sito di PhD Comics (la sigla sta per Piled Higher and Deeper!), il fumetto che Jorge Cham, oggi ricercatore al Caltech, dedica alla vita universitaria (o alla sua mancanza). Ho provato ad adattarla nella lingua di Dante:

Questa settimana il laser ne fa cinquanta:
un importante ricorrenza per davvero!
Ma chi sviluppò questa tecnica che incanta?
La risposta è ancora avvolta nel mistero…

Fu forse Ted Maiman che con un rubino
costruì il primo laser funzionante?
O Townes e Schawlow che un mattino
scrissero l’articolo determinante?

O Basov e Prokhorov che alacremente
faticarono nell’accademica oscurità?
O fu Gordon Gould (eventualmente)
che ebbe poi brevetti e celebrità?

Forse dovremmo Einstein ringraziare
di aver avuto l’originale intuizione:
“Un’alba splendida si sta per levare”
scrisse scoprendo la stimolata emissione.

Raggi monocromatici e meravigliosi
di luce coerente in fase e frequenza,
la gente crede che la vostra apoteosi
siano le spade luminose della fantascienza,

invece voi ci siete nella vita d'ogni dì,
dai codici a barre ai puntatori ai DVD.
Si dice che il vostro contributo senza pari
sia studiare le stelle e le strutture molecolari,

ma poiché tutto nelle telecomunicazioni
è collegato da fibre ottiche e riflessioni
è meglio non scordare che ci siete:
senza laser, non ci sarebbe la rete!



domenica 9 maggio 2010

Bourbaki, tra burle e rigore

Il primo Bourbaki era stato un generale francese d’origine greca, Charles-Denis Sauter Bourbaki (1816-1897), eroe della guerra di Crimea e comandante dell’armata del Reno nella guerra persa contro i prussiani nel 1870, il quale, per richiamare l’attenzione del Comando Generale, pensò bene di spararsi una pallottola in testa. Il secondo fu il protagonista di una burla di un vecchio studente dell’École Normale Supérieure di Parigi, Raoul Husson, che si era presentato nel 1923 con barba e baffi finti e accento straniero a tenere una conferenza incomprensibile e priva di senso agli studenti di matematica, presentando con linguaggio assolutamente formale teoremi assolutamente sbagliati, tra i quali quello di un certo Bourbaki. Il terzo Bourbaki, senz’altro il più famoso, fu il nome scelto da un gruppo di giovani matematici che hanno lasciato un segno importante nella matematica del ‘900. È una storia che merita di essere raccontata, anche perché presenta aspetti curiosi.

La prima guerra mondiale, forse la più bestiale per le modalità con le quali si mandavano a morire intere generazioni di giovani europei, aveva lasciato un vuoto enorme nelle università. Un documento dell’École Normale Supérieure (ENS) scritto durante la guerra dichiarava che di 211 normalisti iscritti ai corsi del 1914, 107 erano morti al fronte. La generazione di studenti che si affacciava al mondo accademico negli anni ’30 non aveva insegnanti giovani, il che significava che era difficile per essa accedere alle novità nelle singole discipline, particolarmente in matematica, dove la “produttività” è maggiore proprio prima dei quarant’anni.

Un gruppo di ex allievi della ENS si era mantenuto in contatto anche dopo che si erano dispersi nelle varie università a fare i docenti. Tra di essi c’erano Henri Cartan (1904–2008) e André Weil (1906–1998), entrambi incaricati dall’ateneo di Strasburgo di tenere un corso di calcolo differenziale e integrale. Il libro di testo adottato in quel corso era il Traité d’Analyse di Edouard Goursat, pubblicato in due volumi tra il 1902 e il 1905, che i giovani professori trovavano oramai vecchio e inadeguato. Nell’inverno del 1934 i due decisero di riunire gli amici ex compagni di corso per proporre loro di riscrivere il trattato.

L’idea piacque e presto un ristretto numero di matematici, che comprendeva, oltre a Cartan e Weil, Jean Delsarte (1903–1968), Jean Dieudonné (1906–1992) e Claude Chevalley (1909–1984), incominciò a riunirsi regolarmente al Capoulade, un caffè del Quartiere Latino di Parigi. Inizialmente decisero di chiamarsi “Comitato del Trattato d’Analisi”. L’idea iniziale era alquanto semplice e poco ambiziosa: scrivere un libro di testo per sostituire quello del Goursat. Le discussioni, spesso ad alta voce, dei giovani professori portarono poi alla conclusione che la riscrittura di un libro avrebbe portato a poco, perché in realtà c’era bisogno di organizzare e presentare in modo sistematico tutti i fondamenti della matematiche moderne secondo il pensiero formalista di Hilbert. Lo scopo del gruppo divenne allora quello di costruire uno strumento utilizzabile non solo in un settore ristretto delle matematiche, ma nel maggior numero possibile di ambiti. Si decise che era necessario avere una sola matematica, per cui si tolse la S finale alla parola mathématiques che designa in francese questa disciplina.

Le riunioni al Capoulade non erano più sufficienti e si decise di riunirsi per qualche settimana durante le vacanze estive. Ciò avvenne per la prima volta nel luglio del 1935 a Besse–en–Chandesse, piccolo borgo medievale sul Puy–de–Dôme. Pensavano di portare a termine il loro progetto entro tre anni, e certo non immaginavano che ce ne sarebbero voluti quattro solo per pubblicare il primo volume della loro opera. Anche il nome del gruppo doveva essere cambiato, perché “Comitato del Trattato d’Analisi” non bastava più. Fu in una delle prime riunioni che ci si ricordò del cognome Bourbaki e del suo bizzarro teorema. La moglie di Weil, presente alla riunione, scelse per lui il nome Nicolas: era nato Nicolas Bourbaki, che nelle pubblicazioni sarebbe comparso solo con l’iniziale N.

Trovato il nome, bisognava inventare una biografia per l’inesistente matematico. Presso gli studenti dell’ENS era già stato inventato nel 1910 lo staterello balcanico della Poldavia, rilanciato nel 1929 da una burla di un giornalista di estrema destra, che aveva pubblicato un articolo sull’inettitudine del governo nei confronti della “questione poldava”: la Poldavia era un regno, ora occupato da una potenza straniera, il cui principe Luigi Voudzoï era morto esule in Francia. Weil e amici non ebbero difficoltà ad attribuire a Bourbaki l’appartenenza alla Reale Accademia Poldava delle Scienze. La triste storia del “paese martire” fu poi rilanciata da Raymond Queneau, futuro fondatore dell’Oulipo e in contatto con i bourbakisti, in Pierrot mon ami del 1942. La Poldavia costituirà negli anni uno degli anelli di congiunzione tra Bourbaki e il gruppo dell’Oulipo, fino a quando, a partire dal 1985, essa comparirà nello sfondo di molte scene della trilogia La Belle Hortense di Jacques Roubaud.

Ma torniamo a Bourbaki. Ai cinque fondatori si aggiunsero presto altri membri, attraverso un metodo di selezione assai rigoroso: si entrava solo dietro invito e solo dopo aver dimostrato di padroneggiare gli argomenti di volta in volta affrontati nelle riunioni (i nuovi arrivati, prima di essere accettati, erano considerati cobayes, “cavie”). Inoltre bisognava adattarsi allo stile estremamente formale di Bourbaki. Se le “cavie” dimostravano di soddisfare le condizioni poste, venivano invitate di nuovo e, senza dichiarazioni ufficiali, erano tacitamente accettate nel gruppo. Il ricordo della critica ai “vecchi professori” incapaci di apprezzare e insegnare la “nuova matematica” rimase a sancire un’altra condizione: si usciva dal gruppo compiuti i cinquant’anni. Tra i primi nuovi membri vi furono l’ebreo polacco Szolem Mandelbrojt (1899–1983), nonno del Benôit Mandelbrot dei frattali e unico della prima generazione a non essere stato allievo dell’ENS, Charles Ehresmann (1905-1979) e René de Possel (1905–1974). I nomi dei membri del gruppo venivano tenuti segreti.

Tra una discussione e l’altra, i membri del gruppo trovavano il tempo di giocare con le parole oltre che con i numeri. Durante la riunione di Chançay nel settembre 1937, André Weil, che era accompagnato dalla sorella minore, la grande pensatrice e mistica Simone Weil, compose ad esempio un bizzarro sonetto che si apre con questa quartina:

Soit une multiplicité vectorielle,
Un corps opère seul, abstrait, commutatif.
Le dual reste loin, solitaire et plaintif,
Cherchant l'isomorphie et la trouvant rebelle.

Sia una molteplicità vettoriale,
un corpo opera solo, astratto, commutativo,
il duale resta lontano, solitario e lamentoso,
cercando l’isomorfia e trovandola ribelle.

Si noti l’isomorfia «ribelle», cioè non canonica, tra lo spazio vettoriale e il suo duale.

Lo scopo di Bourbaki era quello di creare qualcosa di estremamente rigoroso e logicamente consistente, sulla base di fondamenta robuste redatte in modo assiomatico. Si scelse di fondare la matematica sulla teoria degli insiemi, che avrebbe costituito l’oggetto della prima pubblicazione. I membri del gruppo si resero conto ben presto dell’enormità e della difficoltà del progetto, tuttavia ci si buttarono con l’entusiasmo tipico della loro età. Le riunioni estive non bastavano più: ci si riuniva almeno tre volte l’anno, per un totale di circa un mese, con la regola che ogni punto doveva essere accettato all’unanimità. Una volta concordati i contenuti di un capitolo e scritta una bozza di massima, ogni membro che se la sentiva si incaricava di redigere la sua versione, che veniva discussa nella riunione successiva dove si doveva tentare una sintesi: si trattava di una procedura lunga, che dava luogo a discussioni interminabili e a critiche anche feroci, ma che doveva mettere al riparo il prodotto finale da ogni attacco esterno. Si incaricava poi un membro, diverso da chi aveva steso la prima versione, di stenderne una seconda, che doveva tener conto di quanto emerso dalla discussione. Anche questa nuova versione veniva discussa la volta successiva e poteva essere “aggiustata” molte volte prima che la si ritenesse, all’unanimità, degna di essere pubblicata. Con questo metodo, la prima pubblicazione di N. Bourbaki vide la luce nel 1939 e la media tra la conclusione di un volume e l’altro fu di 8–12 anni.

I primi sei volumi degli Elementi di matematica (Teoria degli insiemi, Algebra, Topologia generale, Funzioni di una variabile reale, Spazi vettoriali topologici e Integrazione), usciti in ordine sparso e a capitoli separati tra il 1939 e l’inizio degli anni ’60, corrispondono al piano iniziale che si erano dati i bourbakisti e utilizzano un sistema di riferimenti di ordine lineare, cioè ogni riferimento a un dato soggetto può essere trovato solo nelle pagine precedenti di un testo o nei testi anteriori. Se poco viene concesso al lettore, che si confronta con una trattazione asciutta ed essenziale (non si tratta di volumi utilizzabili come libri di testo, anche perché la dimostrazione di teoremi fondamentali è spesso relegata negli esercizi), resta il fatto che, proprio per questo motivo, molti concetti, termini e simboli introdotti o ripresi da Bourbaki sono entrati nell’uso comune, come ad esempio il concetto di struttura, la diffusione del termine algebra multilineare, i simboli logici di implicazione ⇒ ed equivalenza logica ⇔, quello di insieme vuoto ∅ coniato da Weil e Chevalley, la diffusione dei simboli ∀ e ∃ per il quantificatore universale e quello esistenziale (introdotti per la prima volta rispettivamente da Gentzen e Peano), le maiuscole nello stile chiamato blackboard bold per designare gli insiemi numerici dagli interi ai complessi, e così via.

Nel frattempo erano state pubblicate alcune biografie di Bourbaki, tutte non autorizzate, che ne mettevano in dubbio l’esistenza. Offeso, il matematico poldavo fece domanda di ammissione all’American Mathematical Society. La risposta negativa dell’illustre consorzio era motivata con il fatto che solo individui o associazioni potevano essere membri dell’Associazione, gettando ulteriori dubbi sul fatto che egli fosse fatto di carne e ossa. Restava comunque da spiegare, commentò Weil, come mai risulta dagli archivi del controspionaggio finlandese la notizia che egli fu arrestato nel 1939 in Finlandia con l’accusa di far parte di una rete spionistica in favore dei sovietici dal nome in codice Bourbaki.

Nello stesso clima nacque la partecipazione ‘patafisica che N. Bourbaki inviò per le nozze della figlia Betti:

Monsieur Nicolas Bourbaki, membre canonique de l'académie royale de Poldévie, grand maître de l'ordre des compacts, conservateur des uniformes, lord protecteur des filtres, et Madame, née Biunivoque, ont l'honneur de vous faire part du mariage de leur fille Betti avec Monsieur Hector Pétard, administrateur délégué de la société des structures induites, membre diplômé de l'institute of class field archeologist, secrétaire de l'oeuvre du sou du lyon (?).

Monsieur Ersatz Stanislasz Pondiczery, complexe de recouvrement de première classe en retraite, président du Hom de rééducation des faiblement convergents, chevalier des quatre U, grand opérateur du groupe hyperbolique, knight of the total order of the golden mean, L.U.B., C.C., H.L.C., et Madame, née Compactensoi, ont l'honneur de vous faire part du mariage de leur fils Hector Pétard avec Mademoiselle Betti Bourbaki, ancienne élève des bien ordonnées de Besse.

L'isomorphisme trivial leur sera donné par le P. adique, de l'ordre des diophantiens, en la cohomologie principale de la variété universelle le 3 cartembre, an VI, à l'heure habituelle.

L'orgue sera tenu par M. Modulo, assistant simplexe de la grâce Mannienne (lemme chanté par la schola cartanorum). Le produit de la quête sera versé intégralement à la maison de retraite des pauvres abstraits. La convergence sera assurée.

Après la congruence, M. et Mme Bourbaki recevront dans leurs domaines fondamentaux. Sauterie avec le concours de la fanfare du 7ème corps quotient. Tenues canoniques, idéaux à gauche à la boutonnière, c.q.f.d.

Concluso dopo un quarto di secolo il progetto iniziale, Bourbaki si chiese che cosa fare. Gran parte dei fondatori era andata in pensione e continuare avrebbe significato abbandonare gli argomenti di carattere generale, i fondamenti, per dedicarsi a soggetti più specifici, tradendo un po’ lo spirito sistematico e assiomatico del gruppo. Nel 1968 molti davano Bourbaki per morto e ci fu chi redasse (sembra l’oulipiano Roubaud) il suo necrologio:

Les familles Cantor, Hilbert, Noether,
Les familles Cartan, Chevalley, Dieudonné, Weil,
Les familles Bruhat, Dixmier, Godement, Samuel, Schwartz,
Les familles Cartier, Grothendieck, Malgrange, Serre,
Les familles Demazure, Douady, Giraud, Verdier,
Les familles Filtrantes à droite et les épimorphismes stricts,
Mesdemoiselles Adèle et Idèle,

ont la douleur de vous faire part du décès de M. Nicolas Bourbaki, leur père, frère, fils, petit-fils, arrière petit-fils et petit-cousin respectivement, pieusement décédé le 11 novembre 1968 (jour anniversaire de la victoire) en son domicile de Nancago.

L'inhumation aura lieu le samedi 23 novembre 1968 à 15 h au cimetière de fonctions aléatoires, métros Markov et Gödel. On se réunira devant le bar «aux produits directs» carrefour des résolutions projectives, anciennement place Koszul. Selon le vœu du défunt une messe sera célébrée en l'église Notre-Dame-des-problèmes-universels par son éminence le cardinal Alephun, en présence de toutes les classes d'équivalences et des corps (algébriquement clos) constitués. Une minute de silence sera observée par les élèves des écoles normales supérieures et des classes de Cern, car «Dieu est le compactifié d'Alexandrov de l'univers».


Bourbaki decise comunque di continuare, aggiungendo alla sua ricca produzione altri tre volumi: Algebra commutativa, Gruppi di Lie e Teoria Spettrale. Si arrivò al 1983 e, secondo i suoi membri, oramai giunti alla terza e alla quarta generazione, Bourbaki era un dinosauro, per di più in lite con gli editori per i diritti sulle traduzioni. Bourbaki smise di pubblicare (un decimo volume, di Storia della matematica, fu solo una raccolta dei capitoli storici contenuti nei volumi precedenti). Tuttavia il dinosauro non si è ancora estinto e continua a vivere nell’associazione degli amici di Bourbaki, nei loro congressi e nella rivista che ne pubblica gli atti.

martedì 4 maggio 2010

La matematica di FoxTrot

FoxTrot è un fumetto americano scritto e disegnato da Bill Amend. Pubblicato dal 1988, oggi viene ospitato da più di mille testate in tutto il mondo. Le storie narrate nella striscia ruotano intorno alla vita quotidiana della famiglia Fox, composta dai genitori Roger (il padre) e Andy (la madre) e dai tre figli Peter, Paige e Jason. Peter ha 16 anni ed è perlopiù occupato a mangiare e a guidare come un pazzo; Paige, la ragazza, ha 14 anni ed è ossessionata dal suo aspetto, ma non riesce a trovare un ragazzo; infine Jason, 10 anni, è sostanzialmente il bambino più nerd del mondo, con una passione sviscerata per la matematica. Alcuni personaggi minori compaiono talvolta, come l’iguana domestico Quincy o la compagna di classe di Paige, Nicole, oppure i colleghi del padre.

La vita dei protagonisti è quella tipica della middle–class americana, descritta con realismo e senza eccessive intrusioni del fantastico: la scuola, il lavoro, le vacanze. Compaiono talvolta temi di attualità o della cultura popolare, come ad esempio le droghe, Wikipedia, o i videogiochi.

Il motivo per cui mi occupo di questo fumetto è dovuto al fatto che Amend è laureato in fisica, e le sue conoscenze si riflettono con la comparsa frequente di riferimenti alla matematica, inseriti soprattutto, ma non particolarmente, nelle storie con protagonista Jason. Il piccolo inoltre dà modo all’autore di manifestare le sue competenze nei linguaggi di programmazione. Traggo il primo esempio da una pagina di Wolfram MathWorld, a causa di una curiosa formula che ha meritato la citazione in questo sito prestigioso di divulgazione matematica:


– Ecco il vostro esame finale, classe, buona fortuna!
– In effetti avrete bisogno di una fortuna eccezionale.
– Che cos’è tutta ‘sta roba dal capitolo 100?
– Gente, mi dispiace, ho distribuito il test sbagliato. Potreste per cortesia restituirmeli?
– Ah!
– Ecco l’esame che avreste dovuto ricevere.
– Quell’altro era per la classe di riparazione.
– La sola cosa peggiore che sognare il proprio esame finale di matematica è svegliarsi con la constatazione che ancora lo devi fare.
– Ti ho pulito la calcolatrice.

La striscia, comparsa il 2 giugno 1996, contiene il testo di 4 esercizi decisamente complicati, anche per chi ha studiato matematica molto più a lungo di Paige, che ha quattordici anni. In particolare, l’esercizio n. 2 contiene una somma che si è meritata il nome di Serie di FoxTrot. Essa deriva da problema di convergenza contenuto nel libro di testo Calculus with Analytic Geometry di Howard Anton, John Wiley & Sons, 1995, che Amend ha accidentalmente trasformato in un problema di somma.


La somma può essere eseguita facendo ricorso alla scomposizione parziale della frazione e, attraverso alcuni passaggi, che coinvolgono anche la funzione digamma e sui quali elegantemente sorvolo, dà come risultato


La matematica compare in FoxTrot in numerose altre occasioni, decisamente meno ostiche. Ecco alcuni esempi ulteriori:


– Hut 0! Hut 1! Hut 1! Hut 2!
– Hut 3! Hut 5! Hut 8! Hut 13!
– E' la serie di Fibonacci ?
– Giusto! Touchdown, Marcus!
– Wow!
– Eravamo stufi di football che favorisse i fusti!
– Hut 3! Hut 0! Hut 2! Hut 3! Hut 2! Hut 5!

Il centro dell’attacco di una squadra di football americano, prima di passare la palla al quarterback, indica lo schema per la disposizione ai compagni con un codice numerico accompagnato da una parola con un suono sordo (in questo caso: hut, “capanna”). Nel fumetto c’è un’applicazione eterodossa della serie di Fibonacci, che compare nelle prime due vignette. Nell’ultima si fa invece riferimento alla sequenza di Perrin, i cui primi termini sono:

3, 0, 2, 3, 2, 5, 5, 7, 10, 12, 17, 22, 29, 39 ....

Concludo con qualcosa di più leggero:


– Non posso credere al carico di lavoro alle superiori!
– Prendi matematica… Alle medie ci mettevo cinque minuti per i compiti! Quest’anno ci metto una buona mezzora!
– Che è un incremento del 600 percento!
– 600?
– Aumento del 700 percento?
– 400 percento? 1000 percento? 333 percento?
– Oh, ci rinuncio. Qual è la risposta?
– “Non abbastanza”


– Pensalo come una sfida per provare che mi sbaglio!
– Riguardo a cosa?

Come si decifrano i numeri scritti sopra la chiave?

domenica 2 maggio 2010

La riscossa delle arti meccaniche nel Cinquecento

Nelle opere degli artisti, dei matematici e degli sperimentatori del Quattrocento, nei trattati degli ingegneri e dei tecnici del Cinquecento, si fece strada una nuova considerazione del lavoro, della funzione del sapere tecnico, del significato che hanno i processi di trasformazione della natura. Anche sul piano della filosofia emerge una valutazione delle arti ben diversa da quella tradizionale: alcuni dei procedimenti utilizzati dai tecnici e dagli artigiani per modificare e alterare la natura giovano alla conoscenza effettiva della realtà naturale.

La difesa delle arti meccaniche dalla accusa di indegnità, il rifiuto di far coincidere la cultura con l'orizzonte delle arti liberali e le operazioni pratiche con il lavoro servile, implicavano in realtà l'abbandono della concezione aristotelica della scienza come disinteressata contemplazione della verità: l’utile e il pratico erano ancora al di fuori del regno del buono, del vero e del bello. E alla polemica antiaristotelica si collega anche quella rivolta contro ogni forma di sapienza occulta e segreta, contro l'antichissima concezione sacerdotale del sapere. Gli scrittori di cose tecniche e i filosofi naturali insistono concordemente su un punto: il sapere ha carattere pubblico e collaborativo si presenta come una serie di contributi individuali, organizzati nella forma di un discorso sistematico, offerti in vista di un successo generale che deve essere patrimonio di tutti gli uomini.

Questo modo di considerare il sapere e la scienza gioca un ruolo decisivo e determinante nella formazione e negli sviluppi dell'idea di progresso scientifico. Gli uomini che operavano nelle officine, nelle miniere, nelle botteghe e nei laboratori artigianali, abbandonato il disprezzo per la pratica, consideravano le operazioni che vi si svolgevano come una forma di conoscenza ed elaboravano concetti che poi sarebbero diventati un metodo e una consapevolezza universale: il senso della ulteriore perfettibilità della propria opera, l'affermazione della necessità della cooperazione intellettuale e della progressività di un sapere che cresce nel tempo arricchendosi mediante l'opera congiunta di molti, il riconoscimento dei risultati sempre nuovi cui danno luogo le arti.

Questo processo di mutamento dei paradigmi è anticipato dagli scritti dei “tecnici” e di alcuni filosofi del tardo Cinquecento, di cui si possono fornire alcuni esempi, provenienti da luoghi e realtà operative diverse, e tuttavia accomunati da idee che rivoluzioneranno il pregiudizio verso le arti meccaniche e, a lungo andare, la scienza e la stessa società.


Bernard Palissy – Bernard Palissy (1510–1589), celebre ceramista francese, di religione protestante, aveva iniziato come apprendista vetraio presso la bottega del padre. Al termine dell'apprendistato aveva viaggiato a lungo l'Europa. Al suo ritorno in patria si manteneva dipingendo ritratti, decorando il vetro e svolgendo mansioni di geometra, maturando anche la passione per l'arte della laminatura e della cesellatura. I suoi affari subirono una serie di alti e bassi, che in più di un’occasione portarono la sua famiglia alla fame. Le sue sorti subirono un brusco cambiamento quando le porcellane e le sue altre opere furono notate dal Conestabile Anne de Montmorency che lo volle assolutamente a decorare le sale del castello di Écouen. La protezione di un personaggio tanto stimato e tanto potente condusse il Palissy alla corte di Francia e al favore di vari altri nobili: fu riconosciuto ideatore del particolare tipo di ceramica che porta il suo nome e gli fu concesso di aprire un laboratorio nei pressi del palazzo del Louvre. Nel 1572 riuscì a fuggire alla strage degli Ugonotti nella Notte di San Bartolomeo, rifugiandosi sotto la protezione di Caterina de' Medici, della quale era uno dei favoriti. Divenne anche esperto nella progettazione di giardini, ai quali dedicò gran parte del suo trattato, Discours admirables de la nature des eaux et des fontaines, pubblicato a Parigi nel 1580. I fantasmi del secolo tornarono tuttavia a visitarlo nel 1588, quando fu incarcerato come eretico nella Bastiglia e condannato a morte. Il re Enrico III gli propose la grazia in cambio della conversione, ma Palissy rifiutò, morendo di stenti a 80 anni nel 1589, poco prima dell'esecuzione della condanna.

Nell'Avvertimento ai lettori, premesso ai suoi Discours admirables Palissy si pone una domanda particolare: è possibile che un uomo possa sapere qualcosa ed essere a conoscenza degli effetti naturali senza aver letto i libri scritti in latino dai filosofi? Nei Discours, che sono in gran parte un'invettiva contro la cultura dei professori della Sorbona, risponde che l’arte di osservare la natura non è in alcun modo patrimonio dei dotti e dei filosofi. Essa deve essere diffusa presso tutti gli abitanti della terra e può nascere solo da un "culto per le cose" che respinge con violenza la cultura libresca e la tradizione filosofica:

"Mediante la pratica io provo esser false in più punti le teorie di molti filosofi, anche i più antichi e rinomati. In meno di due ore ciascuno potrà rendersene conto purché si prenda la pena di venire nel mio laboratorio. In esso si possono vedere cose mirabili (messe a prova e testimonianza dei miei scritti), collocate in ordine e con delle scritture al di sotto affinché ciascuno possa istruirsi da solo. Ti posso assicurare, o lettore, che, sui fatti contenuti in questo libro, imparerai più filosofia naturale di quanta non ne impareresti in cinquant'anni leggendo le teorie e le opinioni dei filosofi antichi".

Nella sua opera, presentata come un dialogo tra la Teoria e la Pratica, Palissy rifiuta con forza l’idea che la prima prevalga sulla seconda. I sostenitori di questa concezione, sostiene, pensano che prima di mettersi all’opera bisogna aver bene presente il suo scopo, che discende solo dalla teoria. Palissy, attraverso le parole di Pratica, fornisce allora dei contro-esempi: se così fosse, gli alchimisti dovrebbero essere capaci di creare rapidamente cose bellissime, invece di spendere cinquant’anni in una ricerca senza risultati; i generali, in base alla loro scienza bellica, non dovrebbero perdere neanche una battaglia; i teorici della navigazione, infine, dovrebbero sapere condurre le loro navi in ogni parte del mondo, mentre affidano questo compito ai marinai. È la pratica che genera la teoria, e non viceversa.

Palissy non era certo un uomo colto, era solo un artigiano autodidatta. In lui troviamo, portata alle estreme conseguenze, la tesi che il libro della natura sia straordinariamente più ricco e complesso di qualunque altro libro. Questa tesi giunge alla posizione oltranzista di rifiutare i libri in nome della natura e le teorie in nome della prassi artigianale. La sua invettiva assume poi le caratteristiche di una presa di posizione politica e di una violenta protesta contro l'ingiustizia sociale: "Molti mangiano le loro rendite in bravate e spese superflue al seguito della Corte, in acconciature fastose od altro. A costoro sarebbe molto più utile mangiar cipolle con i loro contadini, insegnando loro a ben vivere, dando loro il buon esempio, impedendo loro di rovinarsi con processi, lavorando la terra, edificando, scavando fossati e tenendosi pronti, a tempo debito, per il servizio al Sovrano in difesa della patria. Certi giovincelli ritengono però che, maneggiando un arnese agricolo, sarebbero disonorati. Un gentiluomo, povero e indebitato fino alle orecchie, crede di trasformarsi in villano se maneggia un arnese agricolo". Ai dotti altezzosi e ai giovani ricchi finalmente qualcuno rivolge l’invito, oggi sempre valido, di andare a lavorare.

Robert Norman – Robert Norman era un marinaio inglese che, dopo circa venti anni trascorsi in mare, si era dedicato alla costruzione e al commercio delle bussole. Nel 1581, un anno dopo la pubblicazione dei Discours di Palissy, egli pubblicava a Londra The Newe Attractive, un volumetto sul magnetismo e sull’inclinazione dell’ago magnetico rispetto al piano orizzontale. Norman qualificava se stesso un unlearned mathematician che, nell'esercizio della professione, aveva raccolto una quantità di osservazioni sul magnete e “sulla strana e nuova proprietà dell'inclinazione”. Pur riconoscendo la sua mancanza di cultura (si definiva un semplice marinaio, incapace di "sostenere una disputa con i logici"), diceva di aver deciso di sfidare le calunnie degli avversari e le critiche delle malelingue per proporre alla considerazione del mondo i risultati delle sue riflessioni e dei suoi esperimenti. La sua modestia non impediva a Norman di giungere, in più punti, a risultati di rilievo. William Gilbert avrebbe fatto più volte riferimento alla Newe Attractive utilizzando largamente i risultati di Norman per la stesura del De Magnete (1600).

Nonostante il suo atteggiamento di rispetto verso la cultura dei learned men, Norman aveva però chiaro il senso di una differenza e di una opposizione di fondo tra le sue ricerche volte alle cose e non alle parole (not regarding the words, but the matter) e il sapere degli uomini libreschi incapaci di apprezzare il lavoro dei meccanici:

"In verità io penso che gli uomini istruiti nelle scienze, stando nel loro studio e in mezzo ai loro libri, possono immaginare grandi cose e dar luogo a concetti raffinatissimi e con parole adatte, desiderando che tutti i meccanici siano tali da essere costretti, per mancanza di ogni capacità di espressione, a consegnar loro le loro conoscenze e i loro concetti, così essi potranno farli fiorire ed applicarli ai loro scopi. Ma in questo paese esistono molti meccanici i quali, nelle loro varie capacità e professioni, conoscono alla perfezione l'uso delle loro arti e sono in grado di applicarle ai loro diversi scopi altrettanto efficacemente e più facilmente di coloro che vorrebbero condannarli".

Gli indocti hanno da rivolgere agli uomini di cultura un invito preciso: "Vorrei consigliare agli uomini istruiti di usar modestia nel pubblicare i loro concetti e di non condannare sdegnosamente coloro che ricercano i segreti delle loro arti e mestieri e li pubblicano per il profitto e l'utilità degli altri. Li consiglio di non condannarli più di quanto essi vorrebbero che altri li condannassero per aver promesso molto e aver portato a compimento poco, o niente del tutto".

Joan Lluís Vives – In un filosofo e pedagogo come lo spagnolo Ludovico Vives (1492–1540), amico di Erasmo e di Tommaso Moro, precettore alla corte inglese, uomo di vastissima e raffinata cultura che scriveva per il pubblico degli ambienti umanistici, troviamo espressi con minore spontaneità, ma con altrettanta energia, questi stessi concetti.

In quanto pedagogo, Vives era convinto che l’uomo diviene tale solo se è capace di fare qualcosa, attraverso l’apprendimento di una tecnica. Questo apprendimento dura tutta la vita, perché non si finisce mai di imparare. L’umanista deve essere in permanente ricerca, e “non deve mai pensare di essere giunto al vertice dell’erudizione”. Alla base di ogni apprendimento c’è l’esperienza. Chi apprende deve osservare la realtà, individuare i problemi da essa posti, stabilire dei modelli d’azione, confrontare i modelli con la realtà. I modelli e le regole nascono solo da un gran numero di esperienze.

Nel De tradendis disciplinis (1531), opera che lo stesso autore considerava il suo capolavoro, Vives invitava gli studiosi a porgere seria attenzione ai problemi tecnici relativi alla costruzione delle macchine, all'agricoltura, alla tessitura, alla navigazione. Li esortava a contemplare il lavoro degli artigiani per cercar di sapere "dove e come quelle arti sono state inventate, perseguite, sviluppate, conservate, e come esse possano essere applicate al nostro uso e profitto". Vincendo il tradizionale disdegno per la conoscenza volgare, l'uomo colto "non deve vergognarsi di entrare nelle officine e nelle fattorie ponendo delle domande agli artigiani e cercando di rendersi conto dei dettagli della loro opera". Un incredibile aumento della sapienza umana è derivato dall'opera di coloro che hanno affidato alla scrittura, e quindi trasmesso ai loro successori, ciò che hanno osservato sui procedimenti e le tecniche impiegati nelle singole arti.

La conoscenza della natura - scriveva Vives nella prima parte dell’opera, il De causis corruptarum artium - non è affatto nelle mani dei filosofi e dei dialettici; molto meglio la conoscono in realtà i contadini e gli artigiani (melius agricola et fabri norunt quam ipsi tanti philosophi). In piena polemica contro gli aristotelici e con i metodi di insegnamento scolastici del tempo, sostiene che contadini e artigiani operano nella natura e sulla natura e, a differenza dei filosofi, non si sono costruiti una serie di entità immaginarie cui attribuire un nome oltremodo dignitoso: "Arrabbiati contro la natura, che essi ignoravano, i dialettici se ne sono costruita un'altra (…) cui attribuiscono un nome pieno di dignità e le chiamano metafisica. Se qualcuno ha un'intelligenza del tutto ignara della natura, o che ha orrore di essa, una mente che è invece propensa a cose astruse e a sogni pazzeschi, dicono che costui possiede un'intelligenza metafìsica".

Andrea Vesalio – Palissy, Norman e Vives, a diversi livelli e con differenti intenzioni, avevano dato espressione all'esigenza di un sapere nel quale l'osservazione dei fenomeni, la ricerca empirica, fossero preminenti rispetto alle fughe retoriche, alle sottigliezze logiche, alle costruzioni a priori. Questa stessa esigenza, accompagnata da una cruda diagnosi dei pericoli impliciti in ogni cultura aristocratica e soltanto libresca, compare nell’opera di una dei più grandi medici dell’epoca moderna, Andrea Vesalio (1514–1564).

Il fiammingo André Wytinck, latinizzato in Andrea Vesalio (1514–1564), medico, anatomista e umanista, aveva studiato a Lovanio, a Parigi e infine a Padova. Le sue grandi conoscenze, teoriche ed operative, dell’anatomia colpirono gli insegnanti dell’ateneo patavino, che subito gli offrirono una cattedra. Fu poi docente a Bologna e Pisa, dove introdusse la dissezione come metodo di insegnamento e dove pubblicò le sue prime tavole anatomiche (1538–39).

Nel 1543 Vesalio pubblicò il suo libro più importante, il De corporìs Immani fabrica, riccamente illustrato con le tavole, assai dettagliate e complesse, realizzate da vari artisti che avevano assistito alle autopsie curate dallo stesso autore. Oggetto dell’indagine di Vesalio è la medicina, dove egli osserva la degenerazione della teoria e l'abbassamento di livello della dottrina, che gli appaiono collegati alla separazione, che si è progressivamente rafforzata, fra la tecnica e la scienza, fra il lavoro delle mani e l'elaborazione delle teorie scientifiche: "Dopo le invasioni barbariche tutte le scienze, che prima erano gloriosamente fiorite e praticate a dovere, andarono in rovina. (…) Il sistema per cucinare e preparare gli alimenti ai malati fu lasciato agli infermieri, il dosaggio dei farmachi ai farmacisti, le operazioni manuali ai barbieri. Così, con l'andare del tempo (...) certi dottori, proclamandosi medici, si sono arrogati personalmente la prescrizione dei farmachi e delle diete per oscure malattie e hanno abbandonato il resto della medicina a coloro che essi chiamano chirurghi e considerano appena come schiavi. Hanno purtroppo in tal modo allontanato da sé la più importante e più antica branca dell'arte medica, quella che (ammesso che veramente se ne dia un'altra) si basa soprattutto sulla investigazione della natura. (...) Quando tutto il procedimento dell'operazione manuale fu affidato ai barbieri, i dottori non soltanto persero ben presto la vera conoscenza delle viscere, ma ben presto finì anche la pratica anatomica. (…) È così accaduto che questa deplorevole divisione dell'arte medica ha introdotto nelle nostre scuole l'odioso sistema ora in voga, per cui uno esegue il sezionamento del corpo umano e l'altro ne descrive le parti. Quest'ultimo è appollaiato su un alto pulpito come una cornacchia e, con fare molto sdegnoso, ripete fino alla monotonia notizie su fatti che egli non ha osservato direttamente, ma che ha appreso a memoria da libri di altri o dei quali tiene una descrizione davanti agli occhi. Il sezionatore, ignorando l'arte del parlare, non è in grado di spiegare il sezionamento agli allievi e arrangia malamente la dimostrazione che dovrebbe seguire alle spiegazioni del medico, mentre il medico non mette mai mano al lavoro, ma guida sdegnosamente il vascello con l'aiuto del manuale e parla”. Vesalio lottava per la convergenza della teoria e dell'osservazione diretta e polemizzava, contemporaneamente, contro la figura del professore la cui sapienza si risolve tutta in parole, e contro quella di un sezionatore abbassato al rango di macellaio.

Negli scritti di un artigiano parigino, di un marinaio inglese, di un filosofo spagnolo, di un medico fiammingo legato alla tradizione culturale italiana, si riscontra la presenza di una serie di temi comuni: i procedimenti dei tecnici hanno valore ai fini del progresso del sapere; a tali procedimenti viene riconosciuta la dignità di fatti culturali e gli uomini colti devono quindi abbandonare ogni concezione contemplativa del sapere, volgersi allo studio e all'osservazione delle tecniche e delle arti.

La polemica contro il sapere libresco, già presente nel secolo precedente, si sviluppava qui nell'affermazione di un tipo nuovo di conoscenza, dalla carica culturalmente rivoluzionaria. Questa valutazione delle arti meccaniche, il riconoscimento di un "debito" del sapere scientifico verso i procedimenti della tecnica - che sarà presente nelle pagine di Bacone, di Harvey, di Galileo, di Boyle - comportava in ultima analisi il rifiuto di quel concetto di scienza che era rimasto vivo e operante per secoli: una scienza che nasce solo quando sono state apprestate le cose necessarie alla vita umana e che si volge quindi a una disinteressata ricerca e contemplazione della verità.

Polemizzando contro il concetto aristotelico di scienza, difendendo la dignità delle arti meccaniche, Palissy e Norman. Vives e Vesalio (e altri che lo spazio a disposizione costringe a non trattare) contribuirono, indipendentemente dalle loro particolari intenzioni e opinioni, alla distruzione di una antica visione del mondo e alla nascita di una nuova.

La letteratura non fu estranea a queste tendenze: nel 1533, nella Vie treès horrificque du grand Gargantua, Rabelais poneva lo studio dell'opera degli artigiani tra gli elementi indispensabili di un'educazione completa.  Guidato da Ponocrates, il giovane Gargantua studiava scienze naturali, aritmetica, geometria e musica. Nei giorni di freddo e pioggia, dopo gli esercizi di scultura e pittura, maestro e allievo si recavano a visitare le officine e le botteghe degli artigiani:

Anche andavano a vedere come si lavoravano i metalli o come si fondeva l'artiglieria, o i lavori dei lapidari, orefici e incisori di gemme, degli alchimisti, dei coniatori di monete, dei fabbricanti di tappezzerie, tessuti e velluti; degli orologiai e degli specchiai, dei tipografi, dei fabbricanti d'organi, dei tintori e d'altrettali artigiani e offrendo vino, dappertutto, potevano conoscere a considerare l'industria e le invenzioni dei mestieri.