giovedì 14 novembre 2019

Guglielmo Libri, matematico, bibliofilo, ladro

Guglielmo Brutus Icilius Timeleone Libri Carucci dalla Sommaja (1803 – 1869), o, più semplicemente, Guglielmo Libri, proveniva da una delle più antiche famiglie di Firenze. La sua biografia su Wikipedia lo classifica subito sotto due etichette: Matematici italiani del XIX secolo e Criminali italiani, il che suscita una certa curiosità. Matematici sani di mente o folli, geniali o mediocri, barbuti o rasati ne abbiamo, ma un matematico tra i criminali costituisce un caso unico.

Nel 1816 Libri entrò all'Università di Pisa con l’intenzione di studiare legge, ma dopo poco tempo iniziò a interessarsi ai corsi di matematica e filosofia naturale. La sua carriera di ricercatore in matematica iniziò mentre era ancora studente, quando pubblicò il primo articolo, la Memoria ... sopra la teoria dei numeri nel 1820, anno in cui si laureò a Pisa. Fu un inizio promettente, che ricevette elogi da molti dei matematici di allora, come Babbage, Cauchy e Gauss. Dal 1821 fu membro dell'Accademia dei Georgofili e nel 1824 fu nominato socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino, dopo l’apprezzato studio Mémoire sur divers points d'analyse. Tale era la qualità dei suoi primi lavori che fu chiamato alla cattedra di fisica matematica a Pisa nel 1823. Senza dover rinunciare alla carica, forse a causa di una malattia, riuscì a ottenere un congedo permanente dopo un solo anno accademico per poter visitare i principali centri scientifici d’Europa.

L'anno successivo visitò Parigi e fu ben accolto dai migliori matematici e fisici del tempo, tra i quali Laplace, Poisson, Ampère, Fourier e Arago. Tornò in Toscana nell'estate del 1825, e, nel giro di pochi anni, pubblicò diverse memorie matematiche e fisiche scegliendo come lingua il francese per dare maggiore diffusione ai suoi risultati. Queste memorie riguardavano la teoria dei numeri (tema poco frequentato in Italia), la risoluzione di equazioni indeterminate con l'uso delle serie, le funzioni discontinue e la teoria del calore.

In questo periodo iniziò a interessarsi di storia della scienza, con lo scopo dichiarato di portare alla luce scoperte e fatti del passato dimenticati o sconosciuti e di mostrare come in campo scientifico l'Italia fosse stata all'avanguardia. Gli interessi storici lo indirizzarono alla ricerca di manoscritti e documenti d'archivio e alimentarono la sua grande passione per i libri.

Al ritorno dal viaggio a Parigi, l'Accademia dei Georgofili lo nominò direttore della biblioteca, ma dopo poco più di un anno, nel dicembre 1826, rassegnò le dimissioni e si rifugiò in campagna per dedicarsi esclusivamente allo studio. In pochi mesi erano scomparsi parecchi volumi e, invitato a rendere conto del fatto, si giustificò in modo poco convincente; l'Accademia preferì evitare lo scandalo e mise a tacere la vicenda.

Nel giugno 1830 tornò a Parigi, dove riallacciò le amicizie strette durante il primo soggiorno e riprese gli studi matematici, continuando anche a coltivare gli interessi storici. Il clima politico nella capitale francese era però notevolmente cambiato. Carlo X Borbone aveva introdotto misure sempre più reazionarie, provocando un crescente e generale malcontento che culminò nella rivoluzione della fine di luglio e l’ascesa del più liberale Luigi Filippo d’Orleans al trono di Francia (con il malcontento dei repubblicani come Évariste Galois). Il ventisettenne Libri vi partecipò attivamente e, nel gennaio 1831, fece ritorno in Toscana pieno di fervore rivoluzionario.

Il desiderio di ottenere una costituzione dal granduca Leopoldo lo spinse a organizzare con un gruppo di congiurati un’azione che avrebbe dovuto sorprendere Leopoldo al teatro della Pergola la sera del giovedì grasso, ma il complotto fallì. Di nuovo trattato con indulgenza (gli furono confiscati i beni, ma non la pensione di professore emerito), Libri fu costretto a lasciare Firenze e a non tornarvi senza autorizzazione. Preferì recarsi in Francia (prima nel Sud, dove conobbe l’esule Mazzini, poi a Parigi), dove sapeva di avere molti amici tra gli uomini di scienza, che lo avrebbero sostenuto. Il suo essere un nobile, unito alla fama di valente matematico, gli apriva parecchie porte. Ammirato nei salotti e assai amichevole, abile conversatore, autore di arguti epigrammi, elegante adulatore, buon scrittore sia in francese che in italiano, esperto di storia, mise a frutto le sue doti e divenne cittadino francese tre anni dopo. Nello stesso anno 1833 fu nominato all'Académie des Sciences per succedere a Legendre, morto pochi mesi prima. Libri sicuramente prese molto seriamente il suo ruolo nell'Accademia, ma sorse un certo risentimento causato dal fatto che non era un vero francese e molti incominciavano a non apprezzare i suoi modi troppo affettati e, per qualcuno, arroganti.

Arago, il segretario perpetuo dell’Accademia, nel 1833 lo aiutò a ottenere un’ulteriore nomina al Collegio di Francia, dove insegnò calcolo infinitesimale. L’anno successivo Libri ottenne l’incarico di assistente di calcolo delle probabilità alla Sorbona. La sua amicizia con Arago fu di certo utile per ottenere quelle prestigiose cariche, tuttavia, per motivi che riguardavano probabilmente divergenze accademiche e politiche (Libri era favorevole alla monarchia liberale, Arago era un repubblicano), i due, da amici, divennero acerrimi nemici. Arago era una figura prestigiosa e potente nella comunità scientifica del tempo e, averlo come avversario significava alienarsi l’amicizia di molti matematici e fisici. Un rivale di Libri fu anche il giovane Joseph Liouville, seguace di Arago anche in politica, che per molti anni lo attaccò: i due non perdevano l’occasione di discutere e screditarsi a vicenda durante le riunioni dell’Accademia, soprattutto nel 1843, quando una loro disputa scientifica ebbe anche risvolti politici ed ebbe eco sulla stampa non specializzata.

Liouville era persona con la quale era meglio non litigare, perché era un matematico apprezzato che era di solito in grado di fornire una soluzione più elegante di quelle fornite da Libri nelle sue memorie. Una conseguenza poco nota di queste dispute fu che, in risposta a un attacco di Libri, nel 1846 Liouville fece conoscere, prima all’Academie e poi sull'influente Journal de mathématiques pures et appliquées che aveva fondato nel 1836, l’opera di Évariste Galois sulla teoria delle equazioni polinomiali che fino ad allora era rimasta praticamente sconosciuta.

Risalgono a questo periodo alcuni articoli di analisi matematica, fra cui quelli sulla teoria delle equazioni differenziali lineari. Il merito principale di Libri in questo campo fu l'aver attirato per primo l'attenzione sull'analogia fra le equazioni differenziali lineari e quelle algebriche, cosa che favorì in modo sostanziale lo sviluppo della teoria.

La sua opera migliore nei decenni ’30 e ’40 fu tuttavia senza dubbio quella sulla storia della matematica. Dal 1838 al 1841 pubblicò quattro volumi della Histoire des sciences mathématiques en Italie, depuis la renaissance des lettres jusqu'à la fin du dix-septième siècle (Storia delle Scienze Matematiche in Italia dal Rinascimento al XVII secolo). Nelle note che occupano circa la metà di ogni volume egli metteva a disposizione degli studiosi importanti documenti inediti o faticosamente reperibili, come l'introduzione e la parte algebrica del Liber abaci di Fibonacci e il Trattato d'abaco, più tardi attribuito a Piero della Francesca. Egli voleva scrivere due ulteriori volumi, ma non concluse mai il progetto. Si trattava di un’opera importante, con una rara conoscenza delle fonti, e un tentativo di collegare lo sviluppo della matematica ai principali fatti della storia italiana, ma che per i francesi peccava di eccessivo nazionalismo (da che pulpito…). Degna di nota è anche una biografia di Galileo Galilei pubblicata nel 1841.


La conoscenza di Libri dei testi originali, di cui riportava ampie citazioni, derivava dal fatto che egli era diventato un collezionista appassionato e compulsivo di manoscritti e testi a stampa rari e antichi, ma, soprattutto, un abile e insospettabile ladro. Le sue appropriazioni indebite erano già cominciate a Firenze, ma, come vedremo, gran parte della sua attività criminale avvenne in parecchie biblioteche francesi. Quando uscì il quarto volume della Histoire, nel 1841, egli possedeva circa 1800 manoscritti, tra i quali si potevano annoverare opere di Cartesio, Eulero, d’Alembert, Arbogasto, Galileo, Leibniz, Mersenne e Gassendi. La sua collezione crebbe al punto che nel 1847 comprendeva oltre quarantamila volumi a stampa, provenienti da aste, acquisizioni di importanti fondi privati e, in parte, come fu provato in seguito, da appropriazione indebita.

Nel 1841 Libri fu nominato Ispettore delle Librerie di Francia. Questa nomina può per certi versi apparire sorprendente, dato che si era inimicato molti esponenti dell’Accademia e i potenti gesuiti per le sue posizioni anticlericali. D’altra parte, egli era senza dubbio un grande esperto e aveva inoltre un amico nel governo, lo storico e importante deputato conservatore, più volte ministro, François Guizot, che lo aiutò a raggiungere tale incarico. Ben presto incominciarono le voci di volumi mancanti dalle biblioteche, che spesso coincidevano con le visite del nuovo ispettore. Ciò portò a un’indagine, ma non se ne fece nulla.

Nel 1848 anche in Francia successe un quarantotto. Dopo l’ennesima rivoluzione e la nascita della Seconda Repubblica, Libri seppe che un mandato d’arresto stava per emesso nei suoi confronti con l’accusa di aver rubato o falsificato preziosi libri antichi. Il suo amico e protettore Guizot era stato rimosso dalla sua carica di primo ministro ed esiliato in Inghilterra: egli era senza appoggi. Libri non aspettò di essere arrestato ma s’imbarcò il più presto possibile verso Londra, dove sostenne di essere un rifugiato politico. Prima di lasciare la Francia fece in modo che più di trentamila dei suoi libri e manoscritti fossero inviati nel suo luogo d'esilio.

A Londra fu ben accolto e trattato come un eroe. Nella capitale inglese egli aveva l’amico italiano Antonio Panizzi, che era il direttore della Biblioteca del British Museum, che gli fece conoscere De Morgan. Libri riuscì a convincere i suoi nuovi amici che le accuse contro di lui erano state fatte dai francesi perché era italiano. De Morgan scrisse molti articoli in sua difesa. Diceva ad esempio:
“(…) in campo scientifico non poteva essere un francese, ma rimase un italiano. Uno dei suoi principali scopi è stato di dare alle ricerche italiane, che i francesi non hanno mai ben considerato, il loro giusto valore (…) Sospettiamo che l’animosità politica abbia generato questa calunnia, e che il vero credo nelle menti degli uomini malvagi sia che i collezionisti rubino sempre, e pertanto che l’accusa debba per forza essere vera”. 
Il 22 giugno 1850, tuttavia, Libri fu ritenuto colpevole in contumacia delle accuse rivoltegli e fu condannato a dieci anni di prigione e fu rimosso dai ruoli della Légion d'honneur, dell'Università, del Collège de France e dell'Académie des Sciences. Non poteva di sicuro tornare in Francia. Nonostante fosse giunto a Londra senza danaro, conduceva una vita agiata. Il suo capitale erano i volumi che aveva spedito prima della fuga, e che aveva incominciato a vendere in numerose aste pubbliche.


Inoltre, nel 1857, grazie all'aiuto dei vecchi amici come Guizot, riuscì a rientrare in possesso di 15.000 suoi libri di origine non sospetta. In seguito alle accuse, Libri spesso denunciò persecuzioni politiche, di solito con qualche ragione. Nei suoi scritti di autodifesa spesso descrisse lo stato disorganizzato di molte biblioteche istituzionali e la necessità della loro riorganizzazione, un argomento su cui c'erano poche discussioni. Allo stesso tempo sfruttò il disordine, la catalogazione inadeguata o incompleta e la mancanza di sicurezza in queste istituzioni per guadagno illecito. Accusato di furti, a volte dimostrava che numerosi altri documenti rubati dalle stesse istituzioni erano o erano stati offerti in vendita sul mercato libero e sosteneva di aver acquistato gli articoli in buona fede. Con precisione dichiarò che il mercato dei libri e dei manoscritti dell'antichità era pieno di materiale di provenienza discutibile o confusa.

Nel 1861 curò due importanti vendite di libri e manoscritti. Produsse un catalogo contenente 7.628 lotti, che furono venduti in aprile e in luglio. Nel repertorio, Libri, con modernità di linguaggio e metodo, illustrava le ragioni dello studio della storia della scienza in generale e della matematica in particolare, inaugurando un nuovo stile: la descrizione era arricchita con note storiche sull'autore e sullo stampatore, con dettagli sconosciuti e curiosità che fanno tuttora dei suoi repertori delle fonti utili per i bibliofili, ma anche per gli storici. Così scriveva:
"La collezione che sta per essere venduta è composta in gran parte da libri relativi alle scienze (in particolare alla matematica) e alla sua storia, considerata nella più vasta accezione, cioè comprendente molte opere di biografia, bibliografia, storia letteraria e anche letteratura in generale, necessarie a gettar luce sul progresso della mente umana (….) indipendentemente da uno scopo di immediata e pratica utilità, colui che desidera applicarsi allo studio del progresso della conoscenza umana, dovrebbe porsi un problema di ordine più grande. Dovrebbe, nell'esaminare con attenzione la strada seguita dagli inventori, godere di scoprire, passo dopo passo, almeno per quanto è possibile, il metodo da loro seguito per giungere a tale invenzione. Tralasciare il cammino lungo il quale la natura umana dovette passare per arrivare a tale o talaltra scoperta – per esempio, non fermarsi a un teorema matematico, finché nelle mani di Lagrange o Gauss esso ha assunto la sua forma definitiva – sarebbe agire come un naturalista che tentasse solamente di studiare gli insetti solo in base alla forma delle meravigliose farfalle, senza rivolgere la minima attenzione ai bruchi, alle larve meno perfette che successivamente sono destinate a trasformarsi in quegli stessi lepidotteri (…) Ciò che è già stato fatto così bene per la storia letteraria dovrebbe essere eventualmente intrapreso, come si è già iniziato a fare, per la storia delle scienze. Solo perché ci sono più persone che hanno letto Shakespeare o Dante di quante ce ne sono che capiscono Copernico o Fermat, diventa manifesto perché ciò che potrebbe essere definito “curiosità della letteratura” è più comune, e molto più diffuso, di quanto è suscitato dai libri, come semplice forma di un’epoca nella storia della scienza".

Come dobbiamo considerare i contributi di Libri sapendo che in effetti era un ladro è un falsario? Le due aste del 1861 comprendevano testi fondamentali originali, molti dei quali con lunghe note esplicative: senza la sua insana passione per il possesso di queste opere, probabilmente la nostra conoscenza di parti della storia della scienza sarebbe lacunosa. Può essere irritante sapere che egli li mise a disposizione per tornaconto personale (le due aste gli fruttarono l’enorme cifra di un milione di franchi), e il nostro giudizio morale non può essere indulgente, ma è indubbio che egli diede un grande impulso al collezionismo dei libri scientifici. Ebbe anche il merito di aver posto in evidenza l'importanza di Fermat e aver recuperato alcuni suoi manoscritti sconosciuti.

A partire dal 1868 la salute di Libri cominciò a declinare e, poiché non poteva ritornare in Francia, lasciò la sua terra d’esilio per tornare nella natia Italia. Egli trascorse i suoi ultimi giorni in Toscana, in una villa di Fiesole, dove si spense nel 1869. Intanto, in Francia, Léopold Delisle, amministratore generale della Bibliothèque Nationale, incominciò una lunga inchiesta per stabilire una volta per tutte se Libri era stato davvero colpevole delle accuse rivoltegli nel 1850. L’esito delle indagini fu che Libri era stato davvero un ladro su vasta scala. Nel 1888 il governo francese chiese di riacquistare i libri e i manoscritti che egli aveva rubato e venduto. Molti dei preziosi documenti furono infine restituiti dalle autorità inglesi dopo lunghe trattative, reintegrando parzialmente i patrimoni delle biblioteche saccheggiate. Il resto della collezione era stato acquistato nel 1884 dallo Stato italiano e depositato a Firenze nella Biblioteca Medicea Laurenziana. Altri manoscritti e volumi non furono più ritrovati, ma talvolta qualcuno di essi viene alla luce in qualche parte del mondo. Ad esempio, dopo la stampa, il manoscritto della memoria parigina di Abel sulle funzioni trascendenti andò smarrito, e soltanto nel 1952 parte di esso fu ritrovato a Firenze. Le otto pagine ancora mancanti del manoscritto sono state ritrovate negli anni Novanta tra i documenti che Libri aveva portato in Italia, ponendo fine a un secolo e mezzo di ricerche. Ancora, nel 2009, uno studente olandese fece una ricerca su Google con i termini "lettera autografata" e "Cartesio". Entrò così nel catalogo della biblioteca dell'Harveford College, vicino a Filadelfia, che menzionava una lettera di Cartesio a Mersenne del 27 maggio 1641, relativa alla pubblicazione delle Meditazioni metafisiche. Questa lettera era stata trafugata dall'Institut de France da Guglielmo Libri. Il collegio americano restituì questo documento all'istituzione francese nel 2010.

Sono riuscito a scrivere questo post senza citare Nomen omen, anzi, no, ora l'ho fatto.

lunedì 23 settembre 2019

Sinisgalli e la poesia come numero complesso


In tutta la sua opera, Leonardo Sinisgalli evidenzia la potenza conoscitiva della matematica, della geometria, e delle scienze in genere. Tuttavia, poiché la «verità» è sempre più sfuggente, «sottile», la sola indagine scientifica non basta: a un certo punto è indispensabile uno scatto, una «folgorazione improvvisa». Dovrà essere il poeta a tentare di cogliere frammenti di verità e consegnarli agli uomini. Il calcolo infinitesimale, presupposto delle nuove geometrie algebriche, ha spianato la strada verso la descrizione della realtà nella sua più minuta e ondivaga essenza, indeterminabile ma non per questo inesprimibile. In una lettera indirizzata all'amico Gianfranco Contini, spesso citata dai critici, Sinisgalli sostiene, con una metafora provocatoria ed efficace, che la funzione della poesia, che appartiene per sua natura alla sfera dell’imponderabile, può essere espressa come
"un quantum, una forza, un’estrema animazione esprimibile mediante un numero complesso a + bj […] dove a e b sono quantità reali, e j è il famoso operatore immaginario. Questo operatore dà un senso, un’inclinazione al numero che, per sua natura, è orizzontale e inerte, lo rende attivo, lo traduce in una forza. A me pare analoga l’azione di j a quella che il poeta esercita sulla «cosa». Le parole per formare un verso devono avere una particolare inclinazione […]. Voglio dire, insomma, che il simbolo j ci darebbe un’idea di quella che è l’alterazione provocata dal linguaggio sulla realtà, del rapporto, cioè, tra «cosa» e «immagine». La poesia in ultimo non è un fenomeno naturale, si sottrae costituzionalmente alla voragine entropica dell’universo, è piuttosto evento sintropico, irripetibile, caratterizzato da un’intrinseca “misteriosa finalità”.”
Questa inclinazione fornita da j ricorda il clinamen lucreziano, l’impercettibile ma fondamentale deviazione dalla verticale nella caduta inerte degli atomi, grazie al quale la materia si organizza in un senso e dalle particelle infinitesimali si passa alle cose. Allo stesso modo, la parola poetica acquista direzione vettoriale rispetto al flusso puramente rettilineo e referenziale del linguaggio, agendo sulla cosa descritta in senso straniante. In questa considerazione riemerge la passione di Sinisgalli per i numeri immaginari (il numero complesso è formato da una parte reale e una immaginaria). Questo prodigio concettuale, che compare e assume dignità matematica con gli algebristi italiani del Rinascimento, diventerà, nella matematica moderna, un vettore, cioè una direzione, un’inclinazione. Inoltre, i numeri immaginari e quelli complessi, il calcolo matriciale e i quaternioni possono ora dare conto di una realtà pluridimensionale, con i suoi movimenti, le tensioni, le torsioni, gli spin. 

Il numero immaginario con cui viene definita la specificità poetica corrisponde, al di là di metafora, a un’istanza comunque razionale, a un’entità calcolabile. Per Sinisgalli l’attività poetica è allo stesso tempo misura, regola e «ispirazione» che dà «bagliore metafisico» e che declina in perturbazione fisiologica, in metabolismo, seguendone gli esiti di uno sviluppo storico che vede la poesia andare «verso la prosa». La poesia diventa forma del respiro del poeta, e non più traduzione dell’ideale, dell’assoluto, come voleva definirla Croce. Così tutto ciò che avvicina la poesia a una formula algebrica, perde di peso ed è preda di una crisi metrica. Lo sguardo del poeta non è più euclideo. Oggi la poesia ha contorni più «rotti», e «la sua forma, per via della sua volubilità, della sua indeterminatezza, si avvicina a una forma vivente», immagine organica del sistema che prolifera e cresce per margini, in modo frattale, o senza direzioni predefinite e preferenziali, in modo rizomatico, e non si offre più con la geometria algida di un cristallo.

giovedì 18 luglio 2019

Cosmicomiche: Le figlie della Luna

Copertina di Houses of the Holy dei Led Zeppelin (1973). Fotomontaggio e serigrafia di Aubrey Powell per lo Studio Hipgnosi
Priva com'è d’un involucro d’aria che le faccia da scudo, la Luna si trovò esposta fin dalle origini a un continuo bombardamento di meteoriti e all'azione erosiva dei raggi solari. Secondo Tom Gold della Cornell University, le rocce della superficie lunare si sarebbero ridotte in polvere per l’urto prolungato delle particelle meteoriche. Secondo Gerard Kuiper dell’Università di Chicago, la fuga dei gas dal magma lunare avrebbe dato al satellite una consistenza porosa e leggera, come pietra pomice.
Come in tutte le Cosmicomiche, Italo Calvino introduce il racconto breve con una breve premessa scientifica, che informa il lettore sulle idee che l’hanno ispirato. Per Le figlie della Luna ricorre a due delle massime autorità del tempo, Thomas Gold e Gerard Kuiper.

Thomas Gold (1920 – 2004) è stato uno degli astrofisici di Cambridge che nel 1950 proposero la teoria, ora abbandonata, dello stato stazionario dell’universo e nel 1969 identificò le pulsar come stelle di neutroni rotanti con forti campi magnetici. In diversi articoli sostenne l’idea che la superficie lunare fosse in gran parte ricoperta da uno spesso strato di polvere, formatasi per “un processo di accumulo, escludendo qualsiasi liquefazione delle rocce dovuta a processi interni“. Secondo Gold, in The Nature of the Lunar Surface: Recent Evidence, articolo pubblicato il 22 aprile 1971 nei Proceedings of the American Philosophical Society (Vol. 115, No. 2 pp. 74-82),
la superficie della Luna potrebbe essere costituita da materiale che ha subito la sua differenziazione, i suoi particolari processi di selezione chimica, da qualche altra parte nelle primissime fasi [di formazione del sistema solare]. (…) È allora consentito pensare che lo strato più esterno della Luna non mostri altro che il fenomeno che assemblò la Luna. Se ciò è vero, allora naturalmente la Luna è un oggetto molto promettente per investigare l’origine del sistema solare, poiché siamo in presenza di un corpo nella sua forma primitiva, non in gran parte modificato come è invece la superficie della Terra. 
Gerard Kuiper (1905 – 1973), da molti considerato il padre delle scienze planetarie moderne, da teorico, sviluppò numerosi aspetti della teoria della formazione del sistema solare, come la formazione dei planetesimi e il ruolo svolto dalle collisioni nella storia primitiva del sistema solare. Dal punto di vista osservativo, a Kuiper dobbiamo la scoperta di alcuni satelliti dei pianeti più esterni, ma soprattutto l’intuizione dell’esistenza, poi confermata, di una fascia di materiale cometario oltre l’orbita di Nettuno, proveniente dalla formazione del sistema solare, oggi nota come Fascia di Kuiper. Dal 1960, quando lasciò l’Università di Chicago, e fino alla morte, fondò e diresse il Lunar and Planetary Laboratory all’Università dell’Arizona di Tucson, dove coordinò diversi progetti della NASA, studiando la superficie lunare e identificando possibili siti per l’allunaggio delle missioni Apollo. Nel 1964 sostenne che sulla superficie della Luna sarebbe stato possibile camminare “come su una neve croccante“, come poi fu confermato da Neil Armstrong e Edwin Aldrin nel 1969. In tempi di guerra fredda, fu precedentemente coinvolto nel Progetto segreto A119, il piano dell’Aeronautica americana per far detonare una testata nucleare sulla Luna, tanto per far capire che loro potevano farlo dovunque. Un suo collaboratore fu Carl Sagan, che era studente di dottorato di Kuiper al momento del progetto.

Polverosa o porosa che sia, la Luna che compare in questa Cosmicomica è ben diversa dall'idea di serena levità che caratterizza gran parte della letteratura sul nostro satellite e si differenzia dalle altre trattazioni che ne fece lo stesso Calvino. Il racconto breve comparve in volume nel novembre del 1968 in La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, edito dal Club degli Editori, anche se fu preceduto dalla pubblicazione sulla rivista erotica patinata Playmen nel maggio dello stesso anno, che aveva anche interessanti pagine di cultura e costume (e un’ottima tiratura). La prima diffusione su quotidiani, riviste e periodici era abituale per lo scrittore, che ad esempio pubblicò, per rimanere nelle Cosmicomiche lunari, La distanza della Luna su Il Caffè di Giambattista Vicari e La Luna come un fungo su Il Giorno

Come al solito, è l’eterno Qfwfq che racconta, con la vocina querula che lo stesso Calvino avrebbe poi confessato di cominciare a detestare.
La Luna è vecchia, bucherellata, consumata. Rotolando nuda per il cielo si logora e si spolpa come un osso rosicchiato. Non è la prima volta che questo accade; ricordo Lune ancor più vecchie e rovinate di questa; ne ho viste tante, di Lune, nascere e correre il cielo e morire.
In un passato imprecisato, in una città che sembra New York e si chiama New York, dominata dal consumismo,
c’era solo una stonatura, solo un’ombra: la Luna. Vagava per il cielo, spoglia tarlata e grigia, sempre più estranea al mondo di quaggiù, residuo d’un modo d’essere ormai incongruo. (…) Così ci si cominciò a porre il problema di cosa farne, di questo satellite controproducente: non serviva più a nulla; era un rottame da cui non si poteva recuperare più niente. Perdendo peso, andava inclinando la sua orbita verso la Terra: era un pericolo, oltretutto. E più s’avvicinava più rallentava il suo corso; non si poteva più tenere il calcolo dei quarti; anche il calendario, il ritmo dei mesi era diventato una pura convenzione; la Luna andava avanti a scatti come stesse per crollare.
Nelle notti di luna bassa certe persone fanno stranezze.
Ma quando vidi una ragazza completamente nuda seduta su una panchina di Central Park non potei fare a meno di fermarmi. (…) Attorno alla panchina erano sparpagliati sull'erba i suoi vestiti, calze e scarpe una qua e una là, orecchini e collane e braccialetti, borsetta e borsa per la spesa e il loro contenuto rovesciato in un cerchio di largo raggio (…), come se tornando da un dovizioso shopping per i negozi della città, quella creatura si fosse sentita chiamare e (…) ora stesse lì aspettando d’essere assunta nella sfera lunare. (…) S’alzò, avanzò per il prato. Aveva lunghi capelli color rame che le scendevano per le spalle. (…) E seguendola così per le aiuole m’accorgevo che (…) stava cercando di proteggere qualcosa di fragile, qualcosa che poteva cadere e andare in pezzi e perciò occorreva condurre verso luoghi dove si potesse posare delicatamente, qualcosa che comunque lei non poteva toccare ma solo accompagnare con i gesti: la Luna. La Luna pareva smarrita; abbandonato il solco della sua orbita non sapeva più dove andare; si lasciava trasportare come una foglia secca. Ora sembrava calare a picco verso la Terra, ora avvitarsi in una spirale, ora andare alla deriva. Perdeva quota, questo è certo.
La ragazza nuda si chiama, direi ovviamente, Diana e improvvisamente scompare, per ripresentarsi sulla capote ribaltata della macchina. Incominciano a inseguire la Luna, che pare giocare a nascondino tra i grattacieli. Nessun passante sembra notare questa giovane senza vestiti ritta su una macchina scoperta. Ma la ragazza non è sola:
protese nelle pose più strane, aggrappate ai radiatori, agli sportelli, ai parafanghi delle auto in corsa vedevo da ogni parte ragazze cui solo l’ala dorata o scura dei capelli faceva contrasto con il chiarore roseo o bruno della pelle nuda. Su ogni macchina era posata una di queste misteriose passeggere, tutte tese in avanti incitando i guidatori all'inseguimento della Luna. 
Sono tantissime, e lo strano corteo converge in un luogo dove la luna sembra essersi fermata.
Al termine della città ci trovammo di fronte a un cimitero d’automobili. (…) Su questo territorio frastagliato e rugginoso si chinava ora la Luna, e le distese di lamiera ammaccata si gonfiavano come spinte dall'alta marea. S’assomigliavano, la Luna decrepita e quella crosta terrestre saldata in un conglomerato di rottami. (…) Diana scese e tutte le altre Diane la imitarono. (…) Intanto andavano sparpagliate scalando la montagna degli oggetti morti: superarono la cresta, calarono nell'anfiteatro, si trovarono a formare come un grande cerchio là in mezzo. Allora alzarono le braccia tutte insieme.
Non posso non pensare a un’immagine come la copertina di Houses of the Holy, il quinto album in studio dei Led Zeppelin, pubblicato nel 1973, con dei bambini nudi intenti a scalare le colonne basaltiche della Giant Causeway in Irlanda del Nord. La Luna pare per un istante riprendere forza e innalzarsi.
Le fanciulle in cerchio stavano a braccia alte, i visi e i seni rivolti alla Luna. Era questo che la Luna aveva chiesto loro? Era di loro che essa aveva bisogno per sostenersi in cielo? Non feci in tempo a domandarmelo. In quel momento entrò in scena la gru.
Era un’enorme gru costruita dalle autorità, decise a sgombrare il cielo da quell'ingombro antiestetico, dalla quale si alzava una specie di pinza da granchio.
La benna s’aperse, dentata; ora, più che a una pinza di granchio, somigliava alla bocca d’uno squalo. La Luna era proprio lì; ondeggiò come se volesse scappare, ma quella gru sembrava calamitata: si vide la Luna come aspirata finirle proprio in bocca. Le mandibole si richiusero con un secco: crac!
La Luna prigioniera diventa una roccia nera e informe, retta soltanto dai denti della benna. Intanto gli operai dell’impresa hanno preparato una rete d’acciaio fissata saldamente al terreno, dove infine viene posata: il satellite è oramai 
un macigno butterato e sabbioso, così opaco che pareva incredibile avesse un giorno illuminato il cielo col suo riflesso splendente. (…) Poi tornò la calma. Il cielo ormai sgombro veniva innaffiato dai getti di luce dei riflettori. Ma già il buio impallidiva.
All'alba, per il cratere dei detriti terrestri, echeggia un mormorio. Tra i rifiuti della metropoli avanzano degli esseri barbuti.
In mezzo alle cose buttate via dalla città viveva una popolazione di persone buttate via anch'esse, messe al margine, oppure persone che s’erano buttate via di loro volontà, o che s’erano stancate di correre per la città per vendere e comprare cose nuove destinate subito a invecchiare: persone che avevano deciso che solo le cose buttate via erano la vera ricchezza del mondo. 
Una folla stracciona si dispone attorno alla Luna assieme a Diana nuda e tutte le altre ragazze. Avanzano, e sciolgono i fili d’acciaio della rete che imprigiona la Luna. Come un aerostato, guidata dalle ragazze che reggono i fili, la Luna si libra in alto, seguita da un’onda impressionante di rottami.
Seguendo quella Luna salvata dall'esser buttata via, tutte le cose e tutti gli uomini ormai rassegnati a esser buttati in un canto riprendevano il cammino, e sciamavano verso i quartieri della città più opulenti. 
Quel mattino si celebra il Giorno del Ringraziamento del Consumatore, festa istituita per dar modo ai clienti dei negozi di manifestare la propria gratitudine verso la Produzione che soddisfa ogni loro desiderio. Non manca la parata lungo la Fifth Avenue con la banda, le majorette e un enorme pupazzo fatto di palloni che rappresentava «Il Cliente Soddisfatto». Dall'altra parte di Manhattan avanza questa volta un altro corteo, guidato dalla Luna scrostata e ammuffita tirata dalle fanciulle nude, seguita da una fila di rottami di veicoli e da una silenziosa e crescente folla di persone di ogni colore, sesso ed età. A Madison Square i due cortei s’incontrano e diventano uno solo. «Il Cliente Soddisfatto», forse per una collisione con la puntuta superficie della Luna, si sgonfia, le majorette abbandonano chepì e alamari e vanno a ingrossare il numero delle Diane. Lo stesso accade per le motociclette e le macchine del seguito e
non si capiva più quali fossero le vecchie e quali le nuove: le ruote storte, i parafanghi arrugginiti erano mescolati con le cromature lucide come specchi, con le verniciature di smalto.
Il corteo giunge al ponte di Brooklyn.
La Luna prese un ultimo slancio, superò le ricurve griglie del ponte, si sbilanciò verso mare, batté sull'acqua come un mattone, s’inabissò sollevando alla superficie una miriade di bollicine.
Le ragazze, invece di lasciare i nastri, vi si aggrappano, e la Luna le solleva facendole tuffare e scomparire tra le onde. Dopo poco tempo, il mare incomincia a vibrare d’onde che s’allargano a cerchio, al cui centro appare un’isola, che diventa una montagna, un emisfero, un globo posato sull'acqua: è una Luna che sale in cielo. Una Luna tuttavia diversa da quella vecchia e decrepita di prima.
Usciva dal mare sollevando uno strascico d’alghe verdi e scintillanti: zampilli d’acqua le sgorgavano da fontane incastonate tra i prati che le davano una lucentezza di smeraldo; una vegetazione vaporosa la ricopriva, ma più che di piante sembrava fatta di penne di pavone occhieggiate e cangianti.
Questo fu il paesaggio che riuscimmo appena a intravedere perché il disco che lo conteneva s’allontanava velocemente in cielo, e i particolari più minuti si perdevano in una generale impressione di freschezza e di rigoglio. (…) Ma facemmo a tempo a vedere delle amache pendere dai rami, agitate dal vento, e là adagiate vidi le fanciulle che ci avevano condotto fin lì, riconobbi Diana, finalmente tranquilla, che si faceva vento con un flabello di piume, e forse mi indirizzava un segno di saluto. 
La felicità di aver ritrovato le ragazze si mescola tuttavia allo strazio di averle perdute.
Una furia ci prese: ci mettemmo a galoppare per il continente, per le savane e le foreste che avevano ricoperto la Terra e seppellito città e strade, e cancellato ogni segno di ciò che era stato. E barrivamo, sollevando al cielo le nostre proboscidi, le nostre zanne lunghe e sottili, scuotendo il lungo pelo delle nostre groppe con l’angoscia violenta che prende tutti noi giovani mammut, quando comprendiamo che la vita è adesso che comincia, eppure è chiaro che quel che desideriamo non lo avremo. 
Oltre ad essere una Cosmicomica, Le figlie della Luna è un apologo: la Luna è la natura, messa in pericolo dalla civiltà dei consumi e salvata dall'eterno femminino (lunare, secondo il consueto topos letterario). Altri temi intervengono nel racconto, come il riscatto degli ultimi, fatto che risente del clima di quei mesi di lotta e contestazione (e non è che la questione abbia perso di attualità, anzi). Le figlie della Luna, però, è soprattutto una Cosmicomica, e l’elemento cosmologico è reso evidente dal fatto che lo stato della Luna segna il decadimento e il ciclico rinnovamento della Terra, che va incontro a una nuova era, quasi ricominciando daccapo, da quando la natura incontaminata ospitava una fauna selvaggia di cui faceva parte un Homo sapiens ancora bambino.

Rilancio l'articolo che ho scritto per il sito di EDU Inaf nell'ambito di una serie sulle Cosmicomiche lunari di Italo Calvino, pubblicato oggi.

martedì 7 maggio 2019

È uscito Vortici e vertigini


Interno di una tipica casa borghese dell’Ottocento inglese, con tetti molto spioventi e un grande portico tutto intorno. Le mura esterne sono decorate con fasce a motivi floreali o geometrici, dipinte in colori accesi. C’è anche una torre ottagonale, e finestre a bovindo. Sul lato rivolto a mezzogiorno, al primo piano, c’è una grande sala, arredata con pesanti mobili scuri, un pianoforte e il pavimento coperto di tappeti. Una luminosa finestra porta sul terrazzo, che domina un elegante giardino fiorito. Alle pareti sono appesi numerosi ritratti. Sono poeti, scienziati, filosofi, tutti accomunati dal fatto di essere stati protagonisti di una stagione irripetibile, in cui scienza e poesia furono legate come mai sarebbe successo in seguito. Non è una raccolta completa: per motivi diversi il proprietario non si è procurato l’immagine di tutti coloro che avrebbero meritato un posto nella galleria. Spicca ad esempio l’assenza di Lewis Carroll, o quella di Edward Lear. In alcuni casi sembra che il collezionista si sia voluto divertire, con gusto vittoriano, a inserire i ritratti di tipi bizzarri, originali, o decisamente pazzi. Come ci si potrebbe aspettare data l’epoca e il criterio scelto per la raccolta, le donne sono poche.

Ogni ritratto racconta una storia che merita di essere conosciuta. Il visitatore trova per questo motivo su un tavolo posto all'ingresso una guida, intitolata Vortici e vertigini, che può sfogliare liberamente, soffermandosi sui personaggi che più lo interessano. Il libro è infatti organizzato in brevi capitoli, secondo un ordine approssimativamente cronologico, che tuttavia possono essere sfogliati in ordine sparso, secondo il desiderio e l’interesse del lettore. Il legame tra di essi non è infatti sequenziale, come se fossero stati scritti e pubblicati separatamente in un diario tematico (adesso magari penseremmo a un blog). In un momento successivo qualcuno ha pensato di riunire i testi relativi ai ritratti, dar loro una veste editoriale e farne quella guida.

Nel prologo, il visitatore trova scritto che il titolo è stato scelto perché le parole vortice e vertigine compaiono di frequente nell'Ottocento. Così, lo spaventoso vortice descritto da Edgar Allan Poe nel racconto Una discesa nel Maelström (1841) è più o meno coevo delle vertigini dei poeti (la “languida vertigine”, o la Vertigine – maiuscola! – indotta dall'apertura di una misteriosa boccetta di profumo orientale in Baudelaire, ad esempio), talvolta legate all'abuso di alcool e/o oppiacei (come in De Quincey), o ai capogiri delle delicate signore e signorine borghesi di fronte alla minima emozione improvvisa.

Ebbene, nella seconda metà del XIX secolo, accanto alle vertigini dei letterati, il concetto di vortice acquistò un particolare interesse nello sviluppo della fisica, svolgendo un ruolo fondamentale nella dinamica dei fluidi, nella nascente teoria dei campi elettromagnetici e nei primi tentativi di sintesi della struttura della materia. Per non parlare dello sconvolgimento degli schemi religiosi e sociali che portò l’idea di evoluzione delle specie e dell’uomo. E i turbamenti della mente e della materia si sono rivelati assieme nella poesia del tempo, forse perché le due parole vortice e vertigine hanno la stessa origine etimologica (dal lat. vèrtere, “girare, volgere”), o, più probabilmente, perché, in quell'epoca di continue scoperte scientifiche e tecnologiche, il poeta rischiava davvero di perdere la testa.

Sempre nel prologo, il lettore trova scritto che la guida che sta sfogliando non ha la pretesa di essere una raccolta di biografie, né tantomeno un saggio di storia della letteratura o di storia della scienza. Lo scopo è diverso: raccontare di persone, idee, scoperte, successi, fallimenti, pazzie, fare da guida al visitatore della galleria soffermandosi anche su aneddoti, particolari curiosi o poco conosciuti, quasi sempre seguendo il filo conduttore del rapporto tra scienza e poesia. La guida non è un libro di storia, ma di storie.

Marco Fulvio Barozzi
Vortici e vertigini
Scienza Express, Trieste
maggio 2019
Prezzo: 24,00 €
ISBN: 978-88-969-7379-0



giovedì 25 aprile 2019

L’usignolo slesiano


Von der Decke bis zur Diele
Muß der Schweiß herunter rinnen
Willst gelangen du zum Ziele
Wohlverdienten Preis gewinnen.

Dal soffitto al corridoio
Il sudore deve correre giù
Vuoi raggiungere l'obiettivo,
Vinci un premio meritato.

La creatrice di questi versi, a loro modo non convenzionali, è Friederike Kempner (1828 - 1904), detta anche "l'usignolo slesiano", oggi ampiamente celebrata come genio dell’umorismo involontario. Era figlia di una famiglia ebrea benestante del Granducato prussiano di Posen (oggi in Polonia). Nel 1844, suo padre acquistò un castello a Droschkau, in Slesia, dove Friederike e i suoi fratelli trascorsero una gioventù senza problemi economici. Da sua madre ricevette un'istruzione umanistica, soprattutto riguardo la lingua francese, la letteratura e l’illuminismo ebraico. Nel 1864, stabilì la propria residenza in una tenuta di famiglia chiamata Friederikenhof, dove scrisse molte delle sue opere.

La morte di entrambi i genitori nel 1868 ebbe un effetto notevole sull’opera di Kempner, che sviluppò un interesse per le questioni umanitarie generali, in particolare in materia di igiene, riforma del sistema carcerario e abolizione della detenzione in isolamento. Combatté anche contro la vivisezione e l'antisemitismo. Soffrendo, come molti suoi contemporanei, di tafofobia (paura di risvegliarsi nella tomba), sostenne con insistenza l'introduzione di obitori e di un tempo di attesa obbligatorio prima della sepoltura. Friedrike Kempner rimase nubile. Alcuni anni prima della sua morte fu colpita da cecità. Morì a Friederikenhof e si fece cremare. Le sue ceneri riposano nell'antico cimitero ebraico di Breslavia. Sulla sua lapide si legge: "La sua vita era dedicata al lavoro spirituale e alle opere di carità". Lasciò un’ingente quantità di opuscoli, oltre a numerose novelle e opere teatrali che, tuttavia, rimasero largamente ignorate dalla critica, con una sola eccezione.

Molte sue poesie (pubblicate per la prima volta nel 1873) ottennero infatti ampia e meritata fama per l’assoluta mancanza di talento. Una recensione “entusiasta” del critico letterario Paul Lindau, pubblicata sul settimanale Die Gegenwart nel 1880, rese improvvisamente la poetessa molto conosciuta ben oltre la sua patria provinciale. Da allora molti hanno cercato di imitare il suo stile, sono state create innumerevoli parodie e opere basate sullo spirito dei suoi componimenti. Si difese scrivendo:

Dumme Jungen, Pamphletisten,
Schlechte Juden, schlechte Christen
Legten Dynamit und Gift
Keins von beiden je mich trifft.

Stupidi giovani pamphlettisti,
Cattivi ebrei, cattivi cristiani,
Spargete dinamite e veleno
Che non mi raggiunge mai.

Non servì: la Germania ride di Friederike Kempner da più di un secolo.

I contemporanei e i posteri valorizzarono versi che, scritti con l'alto tono della poesia classicista, non sono all'altezza delle loro stesse affermazioni e pullulano di violazioni della logica. Così scrisse su Parigi: "Sai chi intendo / La città è sulla Senna". Una delle sue cifre stilistiche è l'uso di sillabe senza senso per rispettare la metrica, così le sue poesie sono piene di Ach!, So! All! e persino di articoli raddoppiati. La lettura delle sue poesie finì per essere un divertimento nelle occasioni conviviali. Questa "fama letteraria" spinse l'autore e critico Alfred Kempner (semplice omonimo) ad adottare il cognome Kerr nel 1887 per non essere confuso con lei. “Per colpa della poetessa Friedericke, il nome Kempner era compromesso per uno scrittore”, volle precisare, aggiungendo “Non era mia zia. Non lo era!”

Della Kempner si occupò anche Freud nel cap. 7 de Il motto di spirito, citando alcuni versi e commentando:

Contro la vivisezione

Ein unbekanntes Band der Seelen Ketter
Den Mensken an das arme Tier.
Das Tier hat einen Willen - ergo Seele –
Wenn auch ’ne kleinere als wir.

Una catena sconosciuta di anime unisce
L'uomo al povero animale.
L'animale ha una volontà - cioè un’anima -
Anche se più piccola della nostra.

II Contrasto

«Wie glücklich bin ich», ruft sie leise,
«Auch ich», sagt lauter ihr Gemahl,
«Es macht mich deine Art und Weise
Sehr stolz auf meine gute Wahl!»

"Come sono fortunata!", disse teneramente.
"Anch'io", disse il marito a voce più alta:
"Le tue numerose qualità mi rendono orgoglioso
Di aver fatto una scelta così felice."

“In ciò non c'è nulla che ci faccia pensare ai motti di spirito. Ma non c'è dubbio che sia l'inadeguatezza di queste «poesie» a renderle comiche, la goffaggine davvero straordinaria delle loro espressioni, legata ai luoghi comuni più triti e giornalistici, la limitatezza ingenua dei pensieri, l'assenza di ogni contenuto o forma poetica. Tuttavia, nonostante tutto ciò, non è ovvio il perché noi troviamo comiche le poesie di Kempner. Altre opere del genere ci sembrano semplicemente brutte; invece di farci ridere, ci irritano. Proprio questa distanza rispetto a ciò che ci aspettiamo da una poesia ci induce a considerarle comiche, se la differenza fosse minore, dovremmo essere più inclini alla critica che al riso. Inoltre, l'effetto comico delle poesie di Kempner è assicurato da una circostanza ulteriore: le intenzioni indubbiamente buone dell'autrice e una peculiare sincerità che disarma il nostro senso del ridicolo o la nostra irritazione e che intuiamo dietro i suoi poveri versi”.

domenica 14 aprile 2019

Il passaggio a Nord-Ovest


Potenza di una metafora azzeccata, tocca dare ragione a uno dei filosofi francesi che furono oggetto degli strali di Alain Sokal e Jean Bricmont nella loro famosa burla. Il Passaggio a Nord-Ovest è stato utilizzato da Michel Serres (1930) come titolo del quinto e ultimo volume della sua serie Hermés, ambiziosa e labirintica non-enciclopedia della storia della comunicazione e del sapere umano (1969-80). Come egli stesso ha dichiarato in un’intervista,
“Il Passaggio a Nord-Ovest (…) è un cammino difficile, pieno di ostacoli, un vero labirinto di terra, di acqua e di ghiacci. L’immagine del passaggio tra le scienze esatte e le scienze umane. È un cammino che non è dato una volta per tutte, ma che bisogna costruire, scoprire ogni volta”.
Esistono paesi, regioni, luoghi che colpiscono l’immaginario più di altri. Si tratta spesso di zone di transizione, di incontro tra mondi diversi. Il Passaggio a Nord-Ovest è uno di questi, perché la sua ricerca è durata secoli, da quando Giovanni Caboto, nel 1490, ipotizzò l’esistenza di una via per l’Oriente dall’Atlantico, alternativa a quella che comportava il periplo dell’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza (il Canale di Suez e quello di Panama erano di là da venire). In realtà non si tratta di una sola rotta a nord del Canada, ma di una serie di mutevoli passaggi tra ghiacci, stretti canali, secche, in mezzo a terre sconosciute e inospitali, che spesso furono causa di tragici naufragi o di morti per gelo e inedia. 


Il passaggio, un tempo praticabile soltanto durante la breve estate artica, fu infine aperto nel 1906 dall’esploratore norvegese Roald Amundsen, al termine di un viaggio durato tre anni a bordo del peschereccio Gjoa. Il repentino scioglimento di una parte considerevole della calotta polare artica, avvenuto in questi ultimi tempi a causa del riscaldamento globale, ha reso molto meno avventurosa questa strada, che consente di accorciare di circa quattromila chilometri il viaggio dall’Europa all’Estremo Oriente rispetto al transito attraverso il Canale di Suez.

Serres non parla dunque di ponti tra cultura umanistica e cultura scientifica, tutto sommato agevoli una volta scoperti o costruiti, ma utilizza una metafora geografica che allude a un’esplorazione continua, faticosa, spesso fallace. Si tratta di un cammino a passi infinitesimi, in cui gioca un ruolo fondamentale il caso. A questo proposito Serres utilizza il termine francese randonnée (escursione, trekking, lunga camminata), di cui fa notare la parentela etimologica con l’inglese random (casuale, accidentale, aleatorio), entrambe le parole derivanti da un antico termine del linguaggio di caccia, che ha dato anche l’italiano randagio.

Serres cerca il passaggio come Zenone di Elea, il geometra viaggiatore degli spazi presocratici:
“Zenone partì da Atene per andare a imbarcarsi per Elea. Aveva appena posato il piede, che aveva leggero, davanti all’altro, che si mise a sognare le miriadi, e più, di modi di tagliare a pezzi il viaggio e di ricominciare. Volle cambiare. Perché camminare sempre in una direzione e in un senso solo? (…) Finalmente Zenone, il vero o il nuovo Zenone, Zenone di Elea, di Atene, di Parigi, o di dove vi pare, Zenone parte da qua per andare a imbarcarsi laggiù alla volta di paraggi difficili. Per precauzione, si era messo in tasca un bossolo, in cui danzavano i dadi. Da quel momento, egli tira a sorte il punto di ripartizione in cui si ferma, davanti alla catena interminabile delle ripetizioni, punto in cui cambia anche di senso, tira a sorte anche la lunghezza dei suoi passi e, forse, la sua dimensione, tira a sorte l’ampiezza dell’angolo al momento della svolta, tira a sorte tutti gli elementi, variabili, del suo cammino, tira a sorte gli elementi sui quali aveva variato, negli ultimi percorsi”.
Nel passaggio a Nord-Ovest non si può procedere in linea retta, ma cambiando continuamente percorso secondo i capricci dei dadi di Zenone. La freccia non raggiungerà mai il suo bersaglio, anche e soprattutto perché procede zigzagando. Più Odisseo che Zenone, più esploratore che geometra, l’intellettuale contemporaneo dovrà essere capace di trattare in forma narrativa argomenti che un tempo si trattavano in forma sistematica.

La scienza e la cartografia del sapere, una volta considerati stabili e immutabili, oggi necessitano di nuove strategie. Il sapere, allora, non sarà mai chiuso? Non si potrà mai circoscrivere il periplo della conoscenza? La domanda non è se possiamo farlo, ma esplorare strade nuove, ogni volta diverse, interrogandoci sul modo e il senso di tutto ciò abbiamo fatto finora per raggiungere un tale scopo.


Affinché una via praticabile tra le varie isole della conoscenza sia oggi concepibile, all’incrocio nebbioso e incerto delle scienze esatte e delle scienze umane, dobbiamo abbandonare ogni pretesa di schema generale, di visione unificante, e tener conto di tutti gli ostacoli, di tutte le singolarità e i contro-esempi. Il globale non può fare a meno del locale, come la foresta non può prescindere dall’esistenza, dall’altezza, dall’esposizione, dall’ombra di ogni singolo albero che la costituisce. Proprio mentre gli sforzi di molti ricercatori sono diretti alla ricerca di una teoria unificante, Serres sembra proporre provocatoriamente di dare sostanza al sogno del Roland Barthes che in La camera chiara propose una mathesis singularis, una scienza del singolo oggetto.

Secondo Serres, la legge è realtà solo per i sistemi chiusi, che imitano l'aspetto della necessità. Il generale è sbagliato, il generale mente sempre. Siamo ancora nella metà del XIX secolo e il positivismo si rifiuta di morire. Lavoriamo con sofisticati strumenti di misura per comprendere l'incommensurabile, ma assegniamo al vagare l'ornamento della precisione. Festeggiamo con entusiasmo ogni nuova grande conquista della scienza e della tecnica, dalle onde gravitazionali alla foto di un buco nero, e non ci accorgiamo che il nostro cammino è un procedere per deviazioni e differenze. La fine del viaggio è lontana, probabilmente non ci sarà mai, ma è questo vagabondaggio che ci fa conoscere il mondo e noi stessi. In una recente intervista, Serres ha detto che prima di fare filosofia bisogna aver fatto tre volte il giro del mondo.

martedì 9 aprile 2019

Levi-Civita e il trasporto parallelo

A Padova

Tullio Levi-Civita (1873-1941) si era formato all'Università di Padova con il geometra Giuseppe Veronese e Gregorio Ricci Curbastro. Quest'ultimo, che aveva sviluppato il calcolo tensoriale tra il 1885 e il 1895, diresse la sua tesi di laurea, discussa nel 1892. Unendo il metodo di Ricci-Curbastro con alcuni risultati della teoria dei gruppi di trasformazione di Lie, Levi-Civita estese la teoria degli invarianti assoluti a casi più generali di quelli considerati dal suo maestro e risolse un problema classico della meccanica analitica, trasformando un sistema di equazioni della dinamica, in caso di assenza di forze esterne, in un sistema più semplice, avente le stesse traiettorie rappresentate dalle geodetiche in una varietà riemanniana a n-dimensioni. L'uso del calcolo tensoriale era essenziale per la soluzione di questo problema. 

Levi-Civita fu nominato professore di meccanica razionale a Padova nel 1897 e continuò a lavorare con Ricci Curbastro. Nel 1901 pubblicarono insieme nei Mathematische Annalen l’articolo Méthodes de Calcul Differentiel Absolu et leurs Application, scritto su invito di Felix Klein, che diventò subito il manifesto del calcolo tensoriale. Nella memoria, Ricci Curbastro e Levi-Civita illustravano gli elementi fondamentali di questo metodo, che chiamarono "un nuovo algoritmo", grazie al quale erano in grado di esprimere diverse relazioni di geometria ma anche dell'analisi e della fisica matematica (come equazioni di elasticità o di elettromagnetismo) indipendentemente dal sistema di coordinate scelto. La loro teoria mostrò la sua efficacia soprattutto negli spazi con n dimensioni (varietà riemanniane), che Levi-Civita aveva già studiato nella sua tesi. 

La corrispondenza con Einstein 

Il calcolo tensoriale ebbe un ruolo essenziale nella formulazione della teoria della relatività generale elaborata da Albert Einstein. Nel 1923, ricordando il momento in cui si rese conto che il calcolo tensoriale poteva essere il linguaggio appropriato per esprimere la relatività generale, Einstein scriveva: 
"Tuttavia, ho avuto l'idea decisiva dell'analogia tra il problema matematico della teoria [della relatività generale] e la teoria gaussiana delle superfici solo nel 1912, dopo il mio ritorno a Zurigo, quando ancora non conoscevo le opere di Riemann, Ricci e Levi-Civita. Questi [lavori] sono stati portati alla mia attenzione per la prima volta dal mio buon amico Grossmann.” 

Marcel Grossmann era professore di matematica all'Università di Zurigo e amico di Einstein sin da quando erano studenti. Sebbene avesse indicato questi testi nel 1912, Einstein impiegò tre anni per apprendere le tecniche della geometria differenziale e del calcolo tensoriale che gli consentirono di superare le difficoltà matematiche del suo lavoro. Così diceva a un corrispondente: 
“Sto lavorando esclusivamente al problema della gravitazione, e credo di poter superare tutte le difficoltà con l’aiuto di un mio amico matematico di qui [Grossmann]. Ma una cosa è certa: non ho mai faticato tanto in vita mia, e ho acquistato un enorme rispetto per la matematica, le cui parti più sottili consideravo finora, nella mia ignoranza, come un puro lusso. Al confronto di questo problema, l’originaria teoria della relatività è un gioco da ragazzi”. 
Nel 1913 apparve il primo risultato della sua collaborazione con Grossmann: l’articolo Entwurf einer verallgemeinerten Relativitätstheorie und einer Theorie der Gravitation [Lineamenti di una Teoria della Relatività generalizzata e di una Teoria della Gravitazione], ma il problema cruciale delle equazioni di campo gravitazionale era irrisolto: nell’articolo le equazioni di campo non sono considerate generalmente covarianti, ma il loro gruppo invariante è limitato alle sole trasformazioni lineari. Questo punto di vista portò Einstein e Grossmann a fare supposizioni fisiche errate. In alcuni documenti successivi, Einstein e Grossmann tentarono di giustificare le equazioni di campo gravitazionale derivate nell’Entwurf per mezzo di principi variazionali. 

Le difficoltà connesse con la giusta espressione delle equazioni gravitazionali furono il soggetto principale della corrispondenza tra Einstein e Levi-Civita. Einstein fu sempre grato a Levi-Civita per il suo interesse per la relatività generale. Nelle lettere, Levi-Civita notò un errore nella dimostrazione presente nell’articolo, le cui conseguenze coinvolgono le proprietà covarianti del tensore gravitazionale. Einstein tentò più volte di confutare le obiezioni di Levi-Civita. In una lettera datata 5 marzo 1915, scrisse: 
“Caro collega, sono molto felice che lei sia così interessato al mio lavoro. Può immaginare quanto raro sia qualcuno che sia profondamente interessato a questo argomento con una mente indipendente e senza pregiudizi. [...] Quando ho notato che ha criticato la prova più importante della mia teoria, ottenuta con fiumi di sudore, ero non poco preoccupato dal fatto che so che sa gestire tali questioni matematiche molto meglio di me. Tuttavia, dopo un'attenta riflessione, penso che la mia dimostrazione può essere accolta”. 
Lo stesso Einstein scrisse a Levi-Civita, in italiano, il 2 aprile 1915: 
“Una corrispondenza così interessante non mi era ancora capitata. Dovrebbe vedere con quale ansia aspetto sempre le sue lettere.” 
Il 21 aprile 1915 Einstein scrisse a Levi-Civita che sperava di persuaderlo della validità del "suo Teorema", poiché - secondo lui - l'obiezione del suo corrispondente italiano poteva essere superata. La discussione epistolare tra Einstein e Levi-Civita andò avanti fino all'inizio di maggio. Il 5 maggio 1915, Einstein dovette ammettere che la sua dimostrazione era "difettosa". 

In una serie di quattro articoli presentati all'Accademia delle Scienze prussiana nel novembre 1915, Einstein pubblicò la versione finale delle equazioni del campo gravitazionale, ora chiamate equazioni di Einstein. L’articolo definitivo fu il quarto, Feldgleichungen der Gravitation [Le equazioni del campo gravitazionale]. 


Il trasporto parallelo 

Levi-Civita pubblicò l’articolo sul trasporto parallelo Nozione di parallelismo in una varietà qualunque e conseguente specificazione geometrica della curvatura riemanniana nel 1917, in Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, che in quel periodo godeva di una grande reputazione internazionale e pubblicava articoli di matematica di altissimo livello.

La memoria di Levi-Civita, subito dopo la Grande Guerra, ebbe molto successo: numerosi articoli sul trasporto parallelo furono tempestivamente pubblicati, molti colleghi lodarono l'efficacia di questo nuovo metodo e gli studenti venivano a Roma per lavorare con Levi-Civita su questioni relative a questo nuovo metodo. Le lezioni presso l'Università di Roma sul calcolo tensoriale, pubblicate nel 1925 dalla casa editrice Stock in un volume tradotto in inglese e tedesco nel 1927 e nel 1928, poi usato dai matematici di tutto il mondo come strumento sia di ricerca sia d’insegnamento, diedero ulteriore impulso al concetto di trasporto parallelo. 

Che cos’è il trasporto parallelo? Nella geometria piana di Euclide, il parallelismo gioca un ruolo chiave. Per Euclide, due linee sono parallele se, infinitamente prolungate, non si incrociano mai. Una formulazione moderna del quinto postulato di Euclide afferma che, per un punto al di fuori di una data retta, passa solo una retta parallela ad essa. Cambiare questo postulato porta all'invalidazione di diversi teoremi della geometria euclidea ed è quindi il primo passo per sviluppare le geometrie non euclidee. Fu Levi-Civita a introdurre il concetto di parallelismo su uno spazio multidimensionale (varietà riemanniana) nel suo articolo del 1917. Il suo obiettivo non era quindi quello di elaborare una teoria geometrica, ma piuttosto di "semplificare" i simboli di Riemann che esprimono la curvatura di una varietà dando loro anche un'interpretazione geometrica. Infatti, come Levi-Civita dichiarò all'inizio del suo articolo, 
"La teoria della gravitazione di Einstein [...] considera la struttura geometrica dello spazio ambiente correlata, molto debolmente ma intimamente, ai fenomeni fisici che vi si verificano (sic); ciò differisce dalle teorie classiche [come la meccanica newtoniana], che considerano lo spazio fisico come un dato a priori. Lo sviluppo matematico della concezione grandiosa di Einstein (che trova il suo naturale strumento algoritmico nel calcolo differenziale assoluto di Ricci) fa della curvatura di una certa varietà quadridimensionale e dei simboli relativi di Riemann un elemento essenziale". 
Con curvatura si indica una serie di concetti geometrici che intuitivamente si riferiscono alla misura di quanto un determinato oggetto si discosti dall'essere piatto. La misura della curvatura viene definita in modi diversi a seconda dell'ente geometrico cui è applicata. Ad esempio, una linea nel piano o un piano nello spazio tridimensionale hanno curvatura nulla. Un cerchio nel piano ha una curvatura costante, tanto più grande quanto più piccolo è il raggio. Si distinguono due tipi essenziali di curvatura: 
• curvatura estrinseca: è la curvatura posseduta dall'oggetto in relazione ad uno spazio piatto di dimensione superiore in cui è immerso, determinabile solo confrontando elementi dell'oggetto in relazione ad elementi dello spazio contenitore; 
• curvatura intrinseca (o gaussiana): è la curvatura determinabile utilizzando solo operazioni eseguite su elementi dell'oggetto medesimo. 

Per quanto riguarda la definizione di parallelismo in questi spazi, consideriamo tale definizione nel caso più semplice di superfici curve. Levi-Civita nelle lezioni del 1925 adottò l'approccio pedagogico che consiste di definire prima il parallelismo per le superfici e poi generalizzarlo alle varietà. Inizialmente, egli osservava che nel piano euclideo, se consideriamo due punti P e P1 per ogni "direzione", da P si può costruire una e una sola direzione che passa per P1 e parallela alla direzione data; per lui, una "direzione" u è definita attraverso il "vettore unitario" che gli corrisponde. Questa costruzione, osserva Levi-Civita, può essere facilmente generalizzata alle cosiddette superfici sviluppabili. Una superficie Σ è "sviluppabile" se, immaginandola "flessibile e inestensibile", può essere sovrapposta a una regione del piano "senza strappi e senza duplicazione". Essa viene detta anche rigata, intendendo che è possibile costruire una famiglia infinita di rette interamente contenute in essa. Gli esempi più semplici di superfici sviluppabili sono i cilindri e i coni senza il vertice.


Se Σ è sviluppabile, Levi-Civita introduce un'applicazione - denominata "parallelismo di superficie" - tra le direzioni in P tangenti a Σ e le analoghe direzioni che escono da P1, un altro punto di Σ, in modo che a ogni direzione u corrisponde la direzione u1 che diventa parallela a u nel senso abituale quando si sovrappone Σ sul piano; le direzioni u e u1 sono allora dette "parallele nel senso della superficie".

Ovviamente tale criterio non sarà più valido se Σ non è una superficie sviluppabile, anche se si tratta di una superficie elementare, come per esempio la superficie sferica. In questo caso bisognerà considerare il punto P1 come proveniente da P seguendo una certa curva T, denominata "curva di trasporto." Questa è una visione cinematica che permette a Levi-Civita di definire il trasporto parallelo da P a P1 utilizzando la sviluppabile circoscritta a Σ lungo la curva T; questa superficie, che egli indica con ΣT, sarà perciò tangente a Σ lungo T e, in particolare, in P e P1. Levi-Civita chiama "la parallela da P1 a una direzione qualunque (superficiale) u attraverso P lungo la curva T, la direzione (superficiale) u1 che sulla sviluppabile ΣT è parallela a u nel senso appena definito." Ad esempio, nel caso di una sfera, se T è la linea equatoriale, allora la sua superficie sviluppabile ΣT sarà un cilindro; se T è un parallelo non equatoriale, ΣT sarà un cono. In generale, la superficie della sfera non è isometrica al piano, neanche localmente: in altre parole, nessun dominio della sfera, per quanto piccolo sia, può essere applicato su un dominio del piano in modo da conservare le distanze.



In generale, questa definizione di parallelismo dipende dalla curva di trasporto. Levi-Civita non manca di sottolineare che la nozione geometrica di parallelismo è "vicina" a quella di lavoro in fisica. In effetti, il lavoro svolto per trasportare, ad esempio, un corpo materiale da A a B dipende dalla curva scelta per andare da un punto all'altro. Consideriamo alcuni esempi. Innanzitutto, sul piano euclideo, tutti i vettori torneranno esattamente a se stessi dopo il trasporto parallelo su qualsiasi curva chiusa. Nella figura, se portiamo il vettore parallelo da P lungo il circuito dato, esso coinciderà con il vettore iniziale dopo un giro completo, poiché nel piano troviamo la nozione abituale di parallelismo. Si potrebbe fare la stessa osservazione per tutte le superfici sviluppabili.


E su una superficie non sviluppabile? Consideriamo il caso della superficie sferica: da A il vettore della figura viene trasportato parallelamente lungo le curve AN, NB, BA che sono linee geodetiche. Per portare il nostro vettore in parallelo usiamo la definizione di Levi-Civita che impiega le superfici sviluppabili lungo una curva: in questo caso, ogni tratto di geodetica (cerchio massimo) si sviluppa su un cilindro. Tuttavia, alla fine del suo circuito, ritornando ad A, il vettore crea un certo angolo α con la sua direzione iniziale che era tangente alla curva. Invece, se il trasporto parallelo è fatto lungo un meridiano della sfera, ad esempio il circolo massimo ANSA, tornando ad A il vettore sarà ancora tangente alla curva: coinciderà con il vettore iniziale.

Pertanto, anche su una superficie di curvatura costante come la sfera, il trasporto parallelo non può essere pensato indipendentemente dalla curva scelta per trasportare il vettore. Il trasporto parallelo su tale tipologia di superfici non sviluppabili è si può effettuare mediante lo stesso processo geometrico-cinematico previsto per una superficie sviluppabile, con la sola condizione che la curva di trasporto T sia una porzione compresa tra P e P1 di una geodetica. Nel caso particolare di una sfera, le geodetiche sono tutti i paralleli e tutti i meridiani (usando una terminologia tipicamente geografica).


Una notevole proprietà del parallelismo, che è una conseguenza immediata della sua definizione, riguarda la conservazione degli angoli: infatti, Levi-Civita constata che, se a e b sono due direzioni per P, alle quali corrispondono le direzioni parallele a1 e b1 che passano per P1. allora formano lo stesso angolo. Questa proprietà non dipende dalla superficie (o dalla varietà) o dalla curva di trasporto. Un'altra conseguenza interessante della nozione di parallelismo si verifica quando la curva di trasporto è una geodetica. Come nel piano euclideo, in cui le geodetiche sono linee rette, possiamo considerare su una superficie una geodetica e una direzione che si muove in modo tale che il suo punto di applicazione appartenga sempre alla geodetica. Diremo che la direzione si muove "parallela" se forma sempre lo stesso angolo con la tangente alla geodetica. In particolare, la tangente a una geodetica sarà parallela a se stessa se si muove lungo la geodetica. In conclusione, scrive Levi-Civita, "le geodetiche sono curve auto-parallele". Inoltre, "da queste considerazioni deduciamo che l'auto-parallelismo è una proprietà caratteristica delle geodetiche e può essere usato per definirle". Ad esempio, se consideriamo i due percorsi 1 e 2 su una superficie sferica, la linea 1 è una geodetica perché la sua tangente si muove parallela a se stessa, mentre la linea 2 non è una geodetica perché, se si trasporta parallelamente il vettore inizialmente tangente alla curva, si ottengono vettori che in generale non saranno più tangenti alla curva. Si può quindi dire che nel trasporto parallelo di un vettore in un sistema generico di coordinate le sue componenti cambiano, a differenza di ciò che accade in metrica piatta: per trasporto parallelo si intende infatti il trasporto del vettore effettuato mantenendo costante l'angolo che esso forma con la superficie curva. 



Nel suo corso, Levi-Civita introduce l'apparato formale necessario per fare i calcoli in caso di parallelismo di superfici, e poi generalizza queste nozioni al caso delle varietà, arrivando a risolvere il problema iniziale dichiarato all'inizio del suo articolo del 1917: quello di dare alla curvatura della varietà un significato geometrico. Infatti, considerando su una varietà un circuito "infinitesimale" (formato da quattro archi di geodetica paralleli a due a due) e facendo muovere "per parallelismo" un vettore lungo questo circuito, trova una relazione che esprime il legame profondo tra il tensore di curvatura e il trasporto parallelo. 


Infine, si può osservare come l'introduzione di un nuovo e importante concetto di geometria differenziale, la deviazione geodetica, sia stata di nuovo ispirata dalla fisica. Nell’articolo pubblicato nel 1927, Levi-Civita analizza due punti infinitamente vicini appartenenti a due geodetiche diverse in una varietà riemanniana e ne studia la distanza. Fisicamente, le linee geodetiche possono essere interpretate come le traiettorie di due particelle di prova in caduta libera che sono infinitamente vicine l'una all'altra e che inizialmente si muovono parallelamente. È la curvatura dello spazio, che è responsabile di una deviazione tra le due particelle, che Levi-Civita chiama "deviazione geodetica" (e il pensiero corre per istinto verso il clinamen di Lucrezio). In generale, la fisica è una costante fonte di ispirazione per Levi-Civita. Inoltre, ai suoi occhi non ci sono veri e propri confini tra la fisica e la geometria differenziale: queste due discipline sono le facce di una stessa medaglia unificate da un linguaggio comune che è il calcolo tensoriale. 


Il trasporto parallelo consentì allo stesso tempo lo sviluppo delle teorie fisiche e della geometria differenziale in modo significativo. Le lezioni universitarie semplici e pedagogiche di Levi-Civita furono uno strumento straordinario per diffondere le sue idee sul calcolo tensoriale e in particolare sul parallelismo. Il trasporto parallelo, che stabilisce il legame tra geometria e fisica, occupa un posto centrale in questi testi. 

A Roma 



Nel 1918, Levi-Civita diventò professore all'Università di Roma, dove ebbe l'opportunità di partecipare alla fondazione di una vera scuola matematica internazionale. Vito Volterra, Federico Enriques, Guido Castelnuovo e Francesco Severi furono alcuni dei matematici che animarono questa scuola. Nel corso degli anni ‘20, Levi-Civita fu il referente italiano dell’Educational Board della Fondazione Rockefeller, un'organizzazione internazionale che aiutava i giovani scienziati nel periodo tra le due guerre mondiali. Con questa posizione istituzionale, Levi-Civita e i suoi colleghi accolsero all'Università di Roma diversi borsisti, che lavoravano in varie discipline matematiche come la geometria algebrica, l’analisi funzionale, il calcolo tensoriale, l’idrodinamica e la geometria differenziale. Durante gli anni '20 e '30, molte opere ispirate alle idee di Levi-Civita apparvero sulle riviste di settore. Scritti di suoi studenti o collaboratori furono spesso comunicati da lui stesso all'Accademia dei Lincei e pubblicati nei Rendiconti


Lo scopo di molti libri sul calcolo tensoriale pubblicati dopo la formulazione della relatività generale era quello di aiutare i fisici a capire il formalismo usato da Einstein per dedurre le sue equazioni del campo gravitazionale. Al contrario, le lezioni di Levi-Civita erano rivolte ai matematici e mostravano il calcolo tensoriale da un diverso punto di vista, dove la geometria giocava il ruolo più importante. L'approccio di Levi-Civita poté essere apprezzato anche dai geometri che lavoravano nella tradizione del XIX secolo, poiché permise la riscrittura di molti concetti classici della geometria differenziale in forma tensoriale. Ad esempio, Luigi Bianchi scrisse un articolo sul trasporto parallelo di Levi-Civita e pubblicò le sue idee nell’Appendice al secondo volume delle Lezioni di geometria differenziale (1923). 


L'influenza della ricerca Levi-Civita, in generale, e in particolare quella relativa al trasporto parallelo si manifestò in vari modi: i dottorandi, borsisti post-dottorato, ma anche colleghi matematici cominciarono a utilizzare i risultati; inoltre, anche attraverso la sua corrispondenza privata, le sue idee si diffusero in tutta Europa. Giovani matematici da ogni dove studiarono per un certo periodo presso Levi-Civita grazie a una borsa Rockefeller, lavorando su problemi di geometria differenziale. Levi-Civita accolse anche colleghi stranieri, come l'americano Joseph Lipka, o giovani ricercatori già in servizio, come l'irlandese Albert Joseph McConnell. I rappresentanti della scuola rumena, come George Vranceanu e Octav Onicescu, e il matematico britannico e linguista Evan Tom Davies ottennero la loro specializzazione in matematica a Roma proprio sotto la direzione di Levi-Civita. Nella seconda metà degli anni ’20, secondo l’International Education Board, Roma era considerata il terzo centro matematico europeo, dopo Parigi e Gottinga. 

A partire dagli anni ’20 la fama del matematico italiano era indiscussa, ed egli fu invitato a congressi e conferenze in tutto il mondo. Inoltre continuò a pubblicare articoli in vari settori della matematica, come la dinamica dei fluidi e, più in generale, nella matematica applicata e nella geometria differenziale. Nel 1932 e nel 1934 i prestigiosi Seminari Hadamard furono dedicati all’opera di Levi-Civita. Nel 1933 iniziò una serie di conferenze negli Stati Uniti, nel 1935 fu a Mosca, nel 1936 tornò di nuovo Oltreoceano. A Houston dichiarò la superiorità del sistema universitario americano su quello italiano. Il console italiano chiese al Governo di prendere severe misure contro di lui, ma gli fu risposto che Levi-Civita era “troppo conosciuto” per andar oltre un richiamo ufficiale. Nello stesso anno si tenne a Oslo l’undicesimo Congresso Matematico Internazionale, ma agli scienziati italiani fu vietata la presenza, perché la Norvegia era un paese che partecipava alle sanzioni contro l’Italia a seguito della guerra coloniale contro l’Etiopia. Ciò nonostante, Levi-Civita fu nominato membro della commissione che doveva assegnare le Medaglie Fields. L’ultimo ciclo di conferenze all’estero di Levi-Civita si tenne a Lima nel 1937. 

Le leggi razziali e gli ultimi anni

Nel 1938, il governo fascista aveva emanato le infami leggi razziali, che escludevano gli ebrei dall'educazione e da qualsiasi ufficio pubblico. Levi Civita, da ebreo, dovette ritirarsi e abbandonare tutte le posizioni istituzionali. Nel 1939 Francesco Severi, collega di Levi-Civita a Roma e particolarmente vicino a Mussolini, fu incaricato dall'Accademia d'Italia di organizzare il Congresso Volta dell’ottobre 1940 per la matematica, che doveva essere dedicato alla geometria differenziale. Incominciarono a partire i primi inviti agli scienziati stranieri, naturalmente dopo aver verificato attentamente che non fossero membri della "razza ebraica". È interessante vedere come Severi, con grande zelo, evitò di invitare matematici ebrei, sia in Italia che all'estero. Infatti, Levi-Civita non fu invitato. Lo stesso anno, il 4 maggio 1939, scrisse all'ex studente Vrânceanu sulle sue condizioni dopo le leggi razziali in Italia: 
"Sono in pensione e resto immobile: non in estate, tuttavia, se le condizioni generali mi consentono una certa mobilità. Come sapete, gli ebrei sono stati esclusi da qualsiasi partecipazione alla vita culturale italiana; in particolare, quindi, non parteciperò al Congresso Volta e non sarò a Roma a settembre". 
Quando il matematico olandese Jan Arnoldus Schouten, esperto in calcolo tensoriale, ricevette l'invito dell'Accademia d'Italia, rispose all'organizzatore del congresso, il 28 febbraio 1939: 
"Saranno invitati anche ebrei e parteciperanno matematici ebrei italiani? Penso in particolare al signor Levi-Civita che, come inventore del trasporto parallelo, è uno dei co-fondatori della moderna geometria differenziale. Partecipare a un congresso sulla geometria differenziale che escluda Levi-Civita per ragioni razziali sarebbe per me assolutamente inaccettabile." 
La seconda risposta a Severi arrivò dalla Francia, da Cartan, uno dei più grandi specialisti transalpini di geometria differenziale e di teoria dei gruppi di Lie. Con Schouten aveva pubblicato diversi articoli, e conosceva la lettera dell'olandese, che lo aveva inserito tra i destinatari per conoscenza. Dopo un po' di tempo decise di partecipare al Convegno, scrivendo a Severi. 
"Ho l'onore di comunicarvi il ricevimento dell'invito che mi avete fatto avere di partecipare al IX Convegno Volta che avrà luogo a Roma il prossimo ottobre. Sono molto onorato di questo invito e vi ringrazio. Parteciperò senza dubbio a questa manifestazione, salvo eventi imprevisti, e mi farà sicuramente molto piacere passare qualche giorno con i colleghi matematici di Roma". 
Non si trattava di condivisione da parte di Cartan delle leggi razziali. La lettera del francese nascondeva in realtà un desiderio: incontrare Levi Civita, che, in quanto membro anche della Pontificia Accademia delle Scienze, poté continuare in parte la sua attività. L'anno precedente l'italiano aveva inviato al francese un articolo, e Cartan gli aveva risposto con una lettera piuttosto lunga e più personale di quanto fosse sua abitudine scrivere. Eccone un brano: 
"Fubini, che ho visto recentemente [il matematico italiano di origine ebraica era transitato da Parigi prima di recarsi esule negli Stati Uniti], mi ha detto di numerosi nostri amici matematici italiani. È inutile dirvi quali siano i miei sentimenti. Spero che la signora Levi Civita e voi siate in buona salute e abbiate approfittato delle vacanze". 
Levi Civita, che aveva letto la lettera di Schouten perché era il secondo destinatario per conoscenza, rispose a Cartan dicendo: 
"[A voi vadano] Tutti i miei ringraziamenti per la simpatia che mi esprimete a seguito delle recenti manifestazioni antisemite. Fino ad ora non so nulla di ufficiale, ma ho già saputo abbastanza, o direi piuttosto troppo, dai giornali" 
Il IX Convegno Volta alla fine non si fece, perché il primo settembre era scoppiata la guerra e molti invitati dei paesi belligeranti erano impossibilitati a partecipare. 

Negli ultimi anni della sua vita, nonostante la sua depressione morale e fisica, Levi-Civita rimase fedele all'ideale dell'internazionalismo scientifico e aiutò colleghi e studenti vittime dell'antisemitismo; grazie a lui, molti di loro trovarono posti in Sud America o negli Stati Uniti. In molte lettere a lui indirizzate, il suo aiuto risulta evidente a favore di Leo Finzi, Guido Fubini, Alessandro Terracini, Berud Steinlerger e Enrico Volterra, il figlio di Vito, che era stato suo assistente dal 1933 al 1938. 

La morte di Levi-Civita il 30 dicembre 1941 fu ignorata dal mondo accademico italiano. Era stato uno dei più eminenti professori in Italia per oltre 40 anni, fu capace di creare una scuola e una tradizione e aveva attratto studenti in arrivo da tutti i paesi. Molte persone beneficiarono della sua gentilezza e conservarono un ricordo incancellabile della sua straordinaria personalità. 

La notizia della sua morte raggiunse Parigi solo nel luglio del 1942. Poiché era membro dell'Accademia di Francia, si decise di commemorarlo il 18 settembre, con un ricordo scritto proprio da Cartan. Anche in Francia erano entrate in vigore le leggi razziali, ma un ebreo morto si poteva pur ricordarlo: 
"Fu merito di Levi-Civita l’apportare un miglioramento finale [al calcolo tensoriale] con la scoperta, nel 1917, del concetto di trasporto parallelo. Rendendo più intuitive le nozioni fondamentali del calcolo differenziale assoluto [il calcolo tensoriale], egli introdusse una teoria, fino ad allora puramente analitica, nel campo della Geometria. Ne conseguirono profonde ripercussioni sullo sviluppo della Geometria stessa".
Riferimenti principali

 Le transport parallèle fête ses 100 ans