"Rientrando in casa, vi trovai Quantorzo in seria confabulazione con mia moglie Dida. […] E poiché erano due a vedermi entrare, mi venne la tentazione di voltarmi a cercare l'altro che entrava con me, pur sapendo bene che il "caro Vitangelo" del mio paterno Quantorzo non solo era anch’esso in me come il Gengè di mia moglie Dida [...] Mia moglie, nel vedermi voltare, domandò. «Chi cerchi?» M'affrettai a risponderle, sorridendo: «Ah, nessuno, cara, nessuno. Eccoci qua!» Non compresero, naturalmente, che cosa intendessi dire con quel "nessuno" […]; e credettero che con quell'"eccoci" mi riferissi anche a loro due, sicurissimi che lí dentro quel salotto fossimo ora in tre e non in nove; o piuttosto, in otto, visto che io - per me stesso - ormai non contavo piú. Voglio dire: 1. Dida, com'era per sé; 2. Dida, com'era per me; 3. Dida, com'era per Quantorzo; 4. Quantorzo, com'era per sé; 5. Quantorzo, com'era per Dida; 6. Quantorzo, com'era per me; 7. il caro Gengè di Dida; 8. il caro Vitangelo di Quantorzo. S’apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto che si credevano tre, una bella conversazione".
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giovedì 23 marzo 2023
Pirandello combinatorio
Bruno de Finetti (1906-1985) scrisse sul settimanale letterario Quadrivio un articolo dall’insolito titolo Pirandello maestro di logica, dicendo: “Considero Pirandello come uno dei più grandi spiriti matematici; così dicevo a un collega nel giorno della sua morte, e tale affermazione mi parve accolta con meraviglia. Ed essa non può infatti non sembrare paradossale se, cullandosi nelle inveterate illusioni razionalistiche, si considera la matematica come un complesso di verità assolute che col relativismo pirandelliano sarebbe addirittura agli antipodi.”
Qui, in un famoso brano nel libro sesto di Uno, nessuno, centomila (1926), il protagonista Vitangelo Moscarda, Gengé per la moglie Dida, dà un piccolo saggio di calcolo combinatorio: come io vedo me stesso, come tu vedi me, come io vedo te, come l'altro vede me, come l'altro vede se stesso, ecc. Tre persone prese due a due danno 32 = 9 disposizioni con ripetizione.
sabato 16 ottobre 2021
TSP: di commessi viaggiatori e ottimizzazione
Supponiamo che venga assegnato il seguente problema. Viene mostrato un insieme di n punti sul piano, che chiameremo città. Viene chiesto di iniziare da una qualsiasi delle città e tracciare una linea ininterrotta che attraversi ciascuna delle altre città esattamente una volta e torni al punto di partenza. Tale linea è chiamata circuito e un esempio di soluzione per 20 città è mostrato nella figura. Tutto quello che bisogna fare è trovare il circuito più breve possibile.
Questo è un esempio del problema del commesso viaggiatore, o TSP (Traveling Salesman Problem). Le origini del problema non sono chiare. Un manuale per venditori ambulanti del 1832 lo menziona e include esempi di tour attraverso la Germania e la Svizzera, ma non contiene alcuna trattazione matematica. Una prima trattazione relativa a problemi simili a questo si deve all’irlandese William R. Hamilton (sì, quello dei quaternioni, il vandalo del ponte di Dublino) e al britannico Thomas P. Kirkman.
L’Icosian Game di Hamilton è un rompicapo ricreativo basato sulla ricerca di un circuito hamiltoniano lungo gli spigoli di un dodecaedro, cioè un percorso tale che ogni vertice venga visitato una sola volta, nessuno spigolo sia percorso due volte e il punto finale sia lo stesso del punto iniziale (ma ovviamente senza il vincolo del percorso più breve). Il puzzle fu distribuito commercialmente come un pannello di legno con fori ai 20 nodi di un grafo dodecaedrico e pedine numerate. Hamilton lo vendette a un produttore di giochi londinese nel 1859 per 25 sterline (circa 3.220 sterline di oggi). Fu un affare per Hamilton, perché il gioco, giudicato troppo facile, fu un insuccesso in tutte le versioni in cui venne proposto.
Il problema combinatorio di Kirkman, il quale
passò alla storia più per questo rompicapo del 1850 che per i suoi grandi contributi
alla teoria dei gruppi, è noto come Fifteen
Schoolgirls Problem:
"Quindici fanciulle di una scuola escono affiancate tre alla volta per sette giorni di seguito: è necessario sistemarle ogni giorno in modo che due non camminino mai fianco a fianco più di una volta”.
Il problema del commesso viaggiatore vero e
proprio fu formulato per la prima volta in forma generale nel 1930 dal geometra
e topologo austriaco Karl Menger in un articolo in cui proponeva una nuova
definizione della lunghezza di un arco:
“La lunghezza di un arco può essere definita come il minimo limite superiore dell'insieme di tutti i numeri che si potrebbero ottenere prendendo ogni insieme finito di punti della curva e determinando la lunghezza del grafo poligonale più corto che unisce tutti i punti. (…) Lo chiamiamo problema del messaggero (poiché in pratica questa questione dovrebbe essere risolta da ogni postino, comunque anche da molti viaggiatori): il compito è trovare, per un numero finito di punti di cui si conoscono le distanze a coppie, il percorso più breve che collega i punti. Naturalmente, questo problema è risolvibile con un numero finito di prove. Non sono note regole che spingerebbero il numero di prove al di sotto del numero di permutazioni dei punti dati. La regola che si debba andare prima dal punto di partenza al punto più vicino, poi al punto più vicino a questo, ecc., in genere non comporta il percorso più breve”.
Il TSP appartiene alla branca della matematica che chiamiamo ottimizzazione: vogliamo ottimizzare (massimizzare o minimizzare) una quantità, e vogliamo che la soluzione ci arrivi sotto forma di numeri interi. Il modo apparentemente facile per risolvere questo problema è guardare ogni possibile circuito e calcolarne la lunghezza, con un metodo chiamato ricerca esaustiva: provare tutte le possibili combinazioni di percorsi, e prendere infine il più corto. Questo metodo, purtroppo, funziona solamente quando abbiamo a che fare con un insieme assai piccolo di città. Il numero di circuiti distinti quando ci sono n città è (n − 1)! / 2. Il divisore due nel denominatore significa che un singolo circuito può essere percorso in entrambe le direzioni. Si noti nella tabella quanto velocemente il numero di circuiti aumenta con n:
La difficoltà di risoluzione che cresce di pari passo con il numero di città è conseguenza di un concetto molto più ampio e complicato: il problema è quel che, in teoria della complessità, si definisce NP-difficile. Ciò significa che non è possibile trovare una soluzione esatta, se non con un algoritmo troppo lento perché possa essere utilizzato per casi realisticamente utili. Se un moderno computer ad alta velocità calcola, siamo generosi, un miliardo di circuiti al secondo, ci vorrebbero 1046 anni per trovare la risposta sicura per un circuito di 50 città. (Per fare un confronto, l'età attuale dell'universo è stimata a circa 1,3×1010 anni.) Passare al supercomputer più veloce esistente non aiuterebbe molto.
Di fronte all’impossibilità di risolvere un problema efficacemente, i matematici vanno alla ricerca di una soluzione approssimata, con un nuovo obiettivo: trovare un algoritmo che funzioni per tutte le possibili disposizioni di città e che dia la migliore approssimazione possibile in un tempo ragionevole, ma nemmeno questo è così tanto facile. La complessità del TSP sembra rimanere elevata anche se si cerca di modificare il problema, ad esempio dividendo le città in sottoinsiemi da studiare separatamente.
Un esempio noto di algoritmi per problemi di ottimizzazione discreta e combinatoria è dato dalla famiglia Branch and Bound (BB, B&B): non è la sola strategia, ma casomai parlerò delle altre un’altra volta. Gli algoritmi Branch and Bound sono detti di enumerazione implicita perché si comportano esattamente come un algoritmo di enumerazione, cioè "provano" tutte le soluzioni possibili fino a trovare quella ottima (o quella corretta), ma ne scartano alcune dimostrando a priori la loro non ottimalità. Un algoritmo BB (“dirama e collega”) consiste in un'enumerazione delle soluzioni candidate mediante ricerca nell'insieme di tutte le possibili configurazioni del sistema: l'insieme delle soluzioni candidate è considerato come un albero con l'insieme completo alla radice.
L'algoritmo esplora i rami di questo albero, che rappresentano sottoinsiemi dell'insieme delle soluzioni. Prima di enumerare le soluzioni candidate di un ramo, il ramo viene verificato rispetto ai limiti stimati superiore e inferiore sulla soluzione ottima z* e viene scartato se non può produrre una soluzione migliore di quella trovata fino a quel momento dall'algoritmo. L'algoritmo dipende dalla stima efficiente dei limiti inferiore e superiore di regioni/rami dello spazio di ricerca. Se non sono disponibili limiti, l'algoritmo degenera in una ricerca esaustiva.
Il metodo è stato proposto per la prima volta da Ailsa Land e Alison Doig nel 1960 per la programmazione discreta, ed è diventato lo strumento più comunemente usato per risolvere problemi di ottimizzazione NP-difficili. Il nome "branch and bound" è apparso per la prima volta nel 1963 in un lavoro proprio sul problema del commesso viaggiatore.
Un algoritmo in grado di attaccare il problema, derivato dalla famiglia BB, fu sviluppato nel 1976 da Nicos Christofides, un matematico di Cipro allora professore all’Imperial College di Londra, Christofides dimostrò che il suo metodo crea, nel peggiore dei casi, un percorso che è al massimo il 50% più lungo del percorso ottimo. Sembrava naturale poter fare di meglio. Tuttavia, per anni i ricercatori hanno cercato di batterlo, e per anni hanno fallito, al punto che in molti hanno iniziato a dubitare della possibilità di poter migliorarlo.
Solo recentemente (maggio 2021) tre matematici
dell’Università di Washington (Nathan Klein, Anna Karlin e Shayan Oveis Gharan)
hanno mostrano come trovare una migliore approssimazione. Il miglioramento? 10−36,
un fattore piccolissimo, un miliardesimo di quadriliardesimo. Tuttavia, seppur quasi
impercettibile, questo progresso abbatte un muro psicologico: ora si sa che un
avanzamento è possibile. Questa notizia ha risvegliato l’interesse di molti
ricercatori, che ora si dicono determinati a migliorare ancora la soluzione.
Questo problema è solo di interesse accademico? Direi di no, perché le stesse difficoltà (molte possibili soluzioni da testare e una moltitudine di vincoli contrastanti che rendono difficile trovare la migliore) sorgono in molti importanti problemi del mondo reale. Questi includono la pianificazione del traffico aereo, il riconoscimento di schemi, il cablaggio di circuiti, lo studio delle reti neuronali, l'impacchettamento di oggetti di varie dimensioni e forme in uno spazio fisico o (matematicamente in modo simile) di messaggi codificati in un canale di comunicazione e una vasta moltitudine di altri.
Questi sono tutti esempi di quelli che vengono chiamati problemi di ottimizzazione combinatoria (OC), che tipicamente, anche se non sempre, derivano dalla teoria dei grafi. L'ottimizzazione si occupa di problemi formalizzabili come minimizzazione o massimizzazione di una funzione (detta funzione obiettivo, z) sottoposta a dei vincoli. Un problema di minimizzazione è sempre riconducibile ad un problema di massimizzazione, e viceversa. Non è qui il caso di discutere questo tipo di problemi, ma ciò che dovrebbe essere chiaro è che essi hanno la proprietà che il numero di possibili soluzioni (ad esempio, il numero di possibili circuiti nel TSP) cresce in modo esplosivo man mano che il numero n di variabili di input (il numero di città nel TSP) aumenta. La caratteristica fondamentale di tali problemi è quella di avere insiemi ammissibili discreti, a differenza ad esempio della Programmazione Lineare, in cui l’insieme ammissibile è continuo. Ciò comporta che le metodologie necessarie per affrontare problemi di Ottimizzazione Combinatoria sono spesso diverse da quelle utilizzate per risolvere problemi nel continuo. In generale, il processo di soluzione di un qualsiasi problema di ottimizzazione può essere considerato come composto di due parti distinte:
- produrre una soluzione ottima z*;
- produrre una valutazione che dimostri l’ottimalità di z*.
Trovare la soluzione
migliore quando n diventa grande può o non può essere possibile in un
tempo ragionevole, e spesso ci si deve accontentare di trovare una delle tante
soluzioni "quasi ottimali" o molto buone, se è impossibile trovare le
migliori. In molti algoritmi enumerativi per problemi “difficili” capita
sovente che l’algoritmo determini la soluzione ottima in tempo relativamente
breve, ma sia poi ancora necessario un grandissimo sforzo computazionale per
dimostrare che tale soluzione è davvero ottima. In altri termini, la difficoltà
del problema risiede non tanto nel costruire una soluzione ottima, quando nel
verificarne l’ottimalità, ossia nel determinare il valore ottimo della funzione
obiettivo. Alle tecniche utili a determinare questo valore, o una sua
approssimazione accurata, è dedicata una parte rilevante della ricerca attuale,
volta a sviluppare algoritmi “efficienti” per problemi di OC. Per ragioni sia
algoritmiche che teoriche, questo tipo di problemi è diventato di enorme
interesse per gli scienziati di quasi tutte le discipline.
sabato 7 ottobre 2017
La matematica come struttura letteraria: la combinatoria
Negli anni fecondi delle neoavanguardie letterarie, nella prima metà degli anni ’60, si cominciò a teorizzare l’applicazione di concetti matematici per la costruzione di testi letterari, poetici o in prosa, in modo che la matematica, da oggetto di letteratura, ne diventasse la struttura. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di applicazioni diverse, come il calcolo combinatorio, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Inoltre lo sviluppo di quelli che allora si chiamavano calcolatori elettronici favorì la nascita dei primi esperimenti ipertestuali. In queste righe ci occuperemo in particolare delle opere basate sulla combinatoria.
Il poeta, romanziere e saggista Nanni Balestrini, già al suo esordio letterario (1961), scrisse Tape Mark 1, una “poesia combinatoria composta con l’ausilio di un calcolatore elettronico” IBM, pubblicata nell’Almanacco Letterario Bompiani del 1962. Il testo si compone di 15 elementi ripresi da opere già esistenti, il Diario di Hiroshima di Michilito Hachiya, Il mistero dell’ascensore di Paul Goldwin e il Tao Te King di Laotse, e costituiti da sintagmi a loro volta formati da 2 o 3 unità metriche e contraddistinti da un codice di testa e uno di coda a indicare le possibilità sintattiche di legame. Da questo materiale è stata tratta dal calcolatore una poesia di sei strofe di sei versi ciascuna con ogni verso di 4 unità metriche; ciascuna strofa risulta formata da una diversa combinazione parziale del testo (10 elementi per volta), con minimi interventi grammaticali e di punteggiatura apportati alla fine. Il risultato, voluto secondo i canoni estetici dell’autore, è un’opera in cui i normali rapporti sintattici sono stravolti o aboliti. Ecco la prima strofa:
La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.
Più noti e meno ostici sono I Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau (1961), che offrono un dispositivo di lettura combinatoria a base di linguette intercambiabili sulle quali sono scritti uno per uno i versi di un insieme di dieci sonetti (con 14 versi ciascuno). Ciò perché l’autore ha scritto i sonetti con le stesse rime e con una struttura grammaticale tale che ogni verso è intercambiabile con ogni altro verso situato nella stessa posizione. In termini matematici si tratta di una disposizione con ripetizione con n=10 e k=14, per un totale di 1014 combinazioni (centomila miliardi, appunto). Così, a seconda di una qualsiasi delle eventuali scelte, è possibile leggere sonetti come quelli di cui si propone come esempio la prima strofa:
![]() |
Immagine di Andrea Valle |
![]() |
(da http://www.parole.tv/cento.asp , dove un
generatore automatico permette di ottenere tutti i 1014 sonetti
di Queneau)
|
Nella prefazione alla prima edizione dei Cent mille milliards de poèmes, il matematico François Le Lionnais (ora nell’opera collettiva La letteratura potenziale - Creazioni Ricreazioni Ri-creazioni, Bologna, Clueb, 1985) coniò la formula “letteratura combinatoria” per collocare l’opera di Queneau, definendola come l’insieme delle pratiche letterarie in cui l’opera non fissa a priori l’ordine dei brani di testo che la compongono, ma ne dispone anzi la ricombinazione secondo procedimenti formalizzati. In questo modo, l’opera combinatoria non viene letta, ma giocata: nel puzzle della “letteratura combinatoria” il fruitore trova delle tessere di partenza, che può smontare e rimontare a piacere seguendo le “regole del gioco” indicate. Al lettore non viene più chiesto solo un lavoro di interpretazione o d'immaginazione, ma, a seconda dei casi, un'attività di costruzione o di coproduzione del testo stesso. Il lettore interagisce, viene condotto a manipolare un dispositivo che produce ciò che gli è dato da leggere, e due lettori non leggeranno forse mai lo stesso testo. Questo gioco del fare letterario delega così al lettore una parte rilevante della funzione di autore.
Ancor più radicale di quella di Queneau è la scelta di Marc Saporta, che nel romanzo Composizione n. 1 riduce il testo ad una sequenza di frammenti che possono essere letti in un ordine qualsiasi. Ogni pagina descrive una scena in cui agisce un personaggio. In questo caso la libertà del lettore è totale, perché egli può leggere il testo disponendo come crede l’ordine delle pagine. Per questo scopo, le pagine del romanzo, non numerate, sono separate fisicamente le une dalle altre, e stampate solo sul recto, mentre il verso è bianco. La fascetta che tiene unite le pagine riporta la frase: “TANTI ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo” (Marc Saporta, Composizione n. 1, Lerici, Genova, 1962). Nella prefazione all’edizione originale francese, Saporta avverte: “Il lettore è pregato di mescolare queste pagine come un mazzo di carte. Di tagliare, se lo desidera, con la mano sinistra, come si fa da una cartomante. L’ordine con il quale le pagine usciranno dal mazzo orienterà il destino di X. Infatti il tempo e l’ordine degli avvenimenti regolano la vita più che la natura degli avvenimenti stessi”. In questo caso si tratta di una permutazione di 143 pagine, gli elementi, per cui le possibili combinazioni sono date da 143! = 2,69 × 10245, numero che giustifica la successiva considerazione: “Una vita si compone di elementi multipli, ma il numero delle possibili combinazioni è infinito”.
Ogni pagina è un elemento a sé stante. Evidentemente non c’è una trama lineare: l’impressione è che i frammenti di testo si presentino così come affiorano nella testa di X, il protagonista, alla maniera di ricordi strappati dal terapeuta alla mente di un paziente. Per fortuna una qualche sorta di lasco legame c’è: i personaggi ricompaiono, certe scene sono simili ad altre, certe situazioni sembrano ripetersi, in qualche caso si sovrappongono. La scelta di Saporta fa sì che Composizione n°1 sia il tipico libro in cui succede poco. Poiché le pagine devono poter essere lette in ogni combinazione possibile, è come se ciascuna di esse dovesse essere abbastanza indefinita da non vincolarne troppo il senso. Il lettore che si aspetta il racconto di una storia, che cerca la sicurezza di parametri di riferimento spazio-temporali precisi, rimane deluso. Il libro va preso per quello che è: un serio esperimento anticipatorio, il cui solo godimento, che è quello di comporre i pezzi di un puzzle, è penalizzato dal supporto cartaceo, l’unico disponibile quando fu scritto.
La differenza tra i due testi risiede nel grado di libertà che è concessa al lettore, che a sua volta è funzione del congegno combinatorio adottato. Nei Cent mille milliards des poèmes la struttura testuale è suddivisibile in classi di elementi combinabili secondo un ordine stabilito, con una logica che il matematico oulipiano Claude Berge ha definito esponenziale, mentre in Composizione n. 1 le combinazioni (permutazioni) tra i frammenti sono totalmente affidate al caso, con una logica fattoriale. Lo schema illustra le due strutture:
Queneau, Le Lionnais e Saporta erano tutti francesi. E in Francia nel 1960 proprio i primi due avevano fondato l’organismo di ricerca sperimentale OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), al quale avrebbero poi aderito Perec e Calvino. È da questo gruppo di matematici con passioni letterarie e uomini di lettere con l'amore per i numeri che il fantasma della combinatoria ha cominciato ad aggirarsi nel mondo letterario.
Sin dalla fondazione, le regole del gruppo furono così enunciate: “Definiamo letteratura potenziale la ricerca di nuove forme e strutture che potranno essere utilizzate dagli scrittori nella maniera che più gli piacerà”. “Potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che possa creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. Queneau spiegava spesso che alcuni suoi lavori potevano sembrare semplici passatempi, semplici jeux d'esprit, ma ricordava che anche la topologia o la teoria dei numeri nacquero, almeno in parte, da quella che una volta si chiamava "matematica divertente".
Nanni Balestrini tornò nel 1966 alla letteratura combinatoria, questa volta in prosa, con il “romanzo” Tristano, e le virgolette sono più che giustificate. Si tratta infatti di un testo, che nulla ha a che fare con l’archetipo del romanzo d’amore suggerito dal titolo. Composto da dieci capitoli, a loro volta composti da venti paragrafi di frasi tratte da testi già esistenti (atlanti, romanzi rosa, giornali, guide turistiche, manuali), in cui le convenzioni del romanzo sono sovvertite, è il tutto a generare la frase, o meglio a rivelare il meccanismo di scrittura. Ogni frase compare due volte in due diversi capitoli, cambiando senso a seconda del contesto, e spesso la giustapposizione di questi elementi fa vacillare il significato e i consueti riferimenti spazio-temporali. Inoltre alcune delle frasi inserite sono volutamente ambigue, potendo riferirsi alla vicenda descritta o al dispositivo di scrittura in maniera autoreferenziale:
“Ma in certi casi è necessario per impedire che la vicenda continui a svilupparsi introdurre elementi che servano ad arrestarla e giustifichino la ripetizione”.
“Niente obbliga a finire una frase essa è infinitamente catalizzabile vi si si può sempre aggiungere qualcosa”.
“La questione non è tanto la storia in sé bensì quali effetti può produrre quali sviluppi quali dinamiche innescare”.
“Le combinazioni sono infinite. Tutte le storie sono diverse una dall’altra. È tutto come un gioco”.
Un nome proprio, indicato con la lettera C (non puntata) fa riferimento di volta in volta a un personaggio femminile, a uno maschile, a un luogo, o a tutto ciò che porta un nome, volendo sottolineare come ogni elemento sia realtà intercambiabile, sia cioè funzione di C in base a leggi che il lettore deve, più che indovinare, imporre al testo. Non si tratta certamente di una lettura agevole! Le tecnologie dell’epoca consentirono nel 1966 la pubblicazione di uno solo dei 1,09 × 1014 libri differenti potenzialmente generati dal dispositivo di scrittura adottato. La nascita della stampa digitale e il printing on demand consentono ora al lettore di avere una copia fisica del libro unica e sua personale, diversa da tutte le altre. La riedizione di Tristano attuata nel 2007 consiste di diecimila copie uniche, ciascuna caratterizzata da un codice alfanumerico di 6 caratteri.
Un altro scrittore affascinato dalle possibilità della combinatoria è stato Italo Calvino, che aderì all’Oulipo nel 1973 durante il suo lungo soggiorno parigino, anche se da tempo aveva mostrato interesse per i rapporti tra lettere e scienza. Le concezioni oulipiane influenzano la struttura di alcuni dei suoi ultimi libri, in particolare de Il castello dei destini incrociati, di cui ebbe a dire che si trattava di una macchina "per moltiplicare le narrazioni partendo da elementi figurali dai molti significati possibili come può essere un mazzo di tarocchi". In effetti, come spiega lo stesso autore nella postfazione, la spinta alla stesura del testo che dà il nome all’opera venne dall’invito dell’editore Franco Maria Ricci a scrivere un commento per la lussuosa edizione di un mazzo di tarocchi del XV secolo noto come Tarocchi Viscontei. Le suggestioni evocate dalle splendide illustrazioni delle lame hanno spinto Calvino a congegnare dodici storie, a ciascuna delle quali l’autore ha posto in chiusura la sequenza di carte utilizzata per raccontarla. Le infinite possibilità della combinatoria sono rappresentate per lo scrittore da “questo quadrilatero di carte che continuo a disporre sul tavolo tentando sempre nuovi accostamenti non riguarda me o qualcuno o qualcosa in particolare, ma il sistema di tutti i destini possibili, di tutti i passati e i futuri, è un pozzo che contiene tutte le storie dal principio alla fine tutte in una volta”.
Nell’opera, alcuni personaggi, resi muti da un incantesimo, raccontano la propria avventura allineando su un tavolo dei tarocchi. La prima carta estratta da ciascuno dei commensali è fondamentale, perché si identifica con il personaggio e ne rappresenta il destino. Questi utilizza poi sedici carte (che estrae dal mazzo o trova già disposte da altri), che, sistemate in due colonne o righe, rappresentano l’effettivo svolgimento della storia. Dal meccanismo combinatorio delle diverse disposizioni scaturisce una matrice di racconti, leggibile in ogni direzione.
Nella figura è illustrata la disposizione delle carte sul tavolo. Come esempio sono evidenziate quelle che determinano i primi due racconti, cioè Storia dell’ingrato punito (con bordo rosso) e Storia dell’alchimista che vendette l’anima (con bordo blu). Le carte iniziali sono numerate.
Alcuni commentatori hanno fatto notare come Il castello non rispetti fino in fondo il meccanismo combinatorio adottato: le carte utilizzate sono 73, mentre l’intero mazzo dei tarocchi ne comprende 78 (22 arcani maggiori più 56 arcani minori). Se Calvino ha sacrificato delle carte alle esigenze combinatorie dello schema, non si comprende allora perché ne abbia utilizzata una in più del necessario, quella indicata con il fondo grigio.
La letteratura combinatoria meriterebbe una trattazione più ampia, per non dire “infinita”. Non abbiamo parlato delle sue radici (dai trovatori provenzali a Mallarmé); delle restrizioni formali mutuate dalla matematica inventate dagli oulipiani, delle opere anticipatrici di un grande scrittore come Jorge Luis Borges, del capolavoro La vita: istruzioni per l’uso di Georges Perec, e di molto altro ancora. Con la combinatoria ci vuol pazienza.
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Questo articolo è comparso sul numero 03/2016 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.
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Questo articolo è comparso sul numero 03/2016 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.
venerdì 4 settembre 2015
Una sequenza che inganna
Disegniamo n punti su una circonferenza, in modo che, tracciando tutte le corde che collegano ogni coppia di punti, non ci siano all’interno punti comuni a più di due corde. In quante regioni viene suddiviso il cerchio? Vediamo.
Per n=1 si ottiene una sola regione:
Per n=2 si ottengono r= 2 regioni:
Per n=3 si ottengono r= 4 regioni:
Per n=4 si ottengono r= 8 regioni:
Per n=5 si ottengono r=16 regioni:
Capito come funziona? Sicuri? Perché se, avete ricavato che n punti danno luogo a r = 2n-1 regioni, avete sbagliato!
Proviamo per n=6 e contiamo quante sono le regioni: sono 31, non 32!
L’ipotesi che la relazione sia r = 2n-1 è da scartare. In realtà la spiegazione corretta, di questo che è noto come problema del cerchio di Moser, è un pochino più raffinata: r è la somma dei primi 5 termini della riga n del triangolo di Tartaglia dei coefficienti binomiali.
I valori di r costituiscono la serie OEIS A000127.
Formalmente il numero delle regioni r si calcola con la relazione:
Questo problema ha un grande valore didattico, perché mostra come prove limitate (magari anche con l’ausilio della potenza di calcolo dei computer) possano portare a risultati non corretti. Ecco perché in matematica si cerca sempre di trovare un prova generale di ogni teorema.
martedì 25 marzo 2014
Leibniz, il sistema binario e la Cina
L’idea del sistema di numerazione in base 2, o binario, che è alla base dell’elettronica digitale e si giudica pertanto estremamente “moderna”, si mescola con visioni antiche, che ancora pervadevano l’ambiente dotto europeo alla fine del ‘600 nel quale viveva il filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz che lo inventò. Mentre costruiva questa nuova aritmetica, Leibniz era impegnato in una gigantesca operazione intellettuale che, tra le altre cose, rivela il permanere di sogni secolari, quale il desiderio di creare una lingua filosofica perfetta, una “caratteristica universale” che, attraverso meccanismi combinatori di idee semplici potesse servire a costruire dimostrazioni (di questo aspetto non mi occuperò qui). Segno dei tempi è anche il tentativo di accostare le nuove scoperte a una sapienza pristina andata perduta, come è il caso dello I-Ching cinese, il Libro dei Mutamenti attribuiti al leggendario imperatore Fuxi, i cui 64 esagrammi, costituiti da linee continue o spezzate (accostabili all’unità e allo zero), affascinarono il filosofo e matematico tedesco e costituirono una tentazione troppo forte perché non ci vedesse un legame profondo.
Il primo documento scritto da Leibniz riguardante l’aritmetica binaria è il manoscritto di tre pagine De Progressione Dyadica, datato 15 marzo 1679, in cui si trovano lo schema della rappresentazione dei primi cento numeri in base 2, il metodo per passare dal sistema binario a quello decimale e viceversa, e alcuni esempi delle quattro operazioni con i numeri scritti con tale modalità (somma, sottrazione tramite l’addizione del complemento, moltiplicazione, divisione). E’ interessante notare come il sistema in base 2 e le operazioni relative vengano esposti esattamente come si fa oggi a scuola.
La moltiplicazione serve a Leibniz per descrivere l’idea della sua macchina calcolatrice basata sui numeri binari, la prima in grado di effettuare anche questa operazione:
Nel corso degli anni successivi, Leibniz torna sulla sua idea di un’aritmetica binaria, la sviluppa e la arricchisce in numerose lettere e diversi manoscritti, ma non la porta a termine, sostiene, essendo troppo occupato da altri impegni e riflessioni. Si convince tuttavia sempre di più che il suo sistema possa condurre ad afferrare verità che vanno oltre il mero aspetto numerico. Il 2 gennaio 1697, in occasione degli auguri per il nuovo anno, scrive a Rodolfo Augusto, Duca di Brunswick, dal quale sei anni prima era stato designato a dirigere la Biblioteca Augusta, proponendogli di coniare una medaglia per celebrare la propria scoperta, di cui i due dovevano aver discusso alla corte di Hannover:
“(…) Perché uno dei punti principali della Fede Cristiana, (…) è la creazione di tutte le cose dal nulla attraverso l’onnipotenza di Dio; bisogna dire che non c’è una migliore analogia, o anche una dimostrazione di tale creazione, dell’origine dei numeri come qui è rappresentata, usando solo l’unità e lo zero, o il nulla. E sarebbe difficile trovare una migliore illustrazione di questo segreto nella natura o nella filosofia; perciò ho apposto nel disegno del medaglione [le parole] IMAGO CREATIONIS.
Non è meno degno di nota che vi compare non solo che Dio creò tutto dal niente, ma anche che il tutto che Egli fece era buono; come possiamo vedere qui, con i nostri occhi, in questa immagine della creazione. Perché invece di non apparire alcun ordine o struttura, come nella comune rappresentazione dei numeri, qui al contrario sono manifesti un ordine e un’armonia meravigliosi, che non possono essere superati. Dato che la regola dell’alternanza fornisce quella della continuazione, così che si può scrivere quanto si vuole senza calcolo o con l’aiuto della memoria, se si alterna all’ultimo posto 0, 1, 0 ,1, 0, 1, ecc., mettendoli uno sotto l’altro; e poi mettendo uno sotto l’altro al secondo posto (da destra) 0, 0, 1, 1, 0 ,0, 1, 1, ecc.; nel terzo 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 0 ,0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, ecc.; nel quarto 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, e così via. Il periodo o ciclo di cambiamento aumenta così per ogni nuovo posto. Questo ordine e bellezza armoniosi si possono vedere nella piccola tabella sul medaglione fino a 16 o 17, poiché per una tabella più grande,. diciamo fino a 32, non c’è spazio. (…)
Sto corrispondendo con il Gesuita Padre Grimaldi, che si trova attualmente in Cina, ed è anche colà presidente del Tribunale Matematico, che ho conosciuto a Roma, e che mi ha scritto da Goa durante il suo viaggio di ritorno verso la Cina. Siccome mi aveva detto che il monarca di questo potente impero era un amante dell’aritmetica e che ha imparato a far di calcolo nella maniera europea dal Padre Verbiest, il predecessore di Grimaldi, ho giudicato appropriato comunicargli queste rappresentazioni numeriche, nella speranza che questa immagine del segreto della creazione potesse servire a mostrargli ancor di più l’eccellenza della fede cristiana”.
Del medaglione, che doveva riportare sul verso il ritratto del duca (già settantenne), non se ne fece nulla. Fortunatamente il disegno ci è giunto in due versioni pubblicate rispettivamente da Johann Wiedeburg a Jena nel 1718 e da Rudolf Nolte a Lipsia nel 1734: la tabella dei numeri binari vi compare sotto una rappresentazione del sole, che la illumina con potenti raggi e dissipa l’oscurità e il caos della parte inferiore. Sopra l’astro, Wiedeburg pone la scritta UNUS EX NIHILO OMNIA, mentre Nolte riporta OMNIBUS EX NIHILO DISCENDIS e SUFFICIT UNUM. La scritta IMAGO CREATIONIS compare a fianco della tabella in Wiedeburg, sotto di essa in Nolte. L’immagine di Wiedeburg porta in fondo la scritta UNUM AUTEM NECESSARIUM sotto una riga costituita da zeri.
Le lettere più interessanti per l’identificazione di una certa analogia tra la numerazione binaria di Leibniz e gli esagrammi dell’I-Ching sono quelle scritte dal tedesco il 15 febbraio 1701 e il 3 aprile 1703, e quella di Bouvet del 4 novembre 1701. Nella prima Leibniz mostra e spiega a Bouvet il suo sistema binario. Benché sia a conoscenza del Libro delle Mutazioni e degli esagrammi in esso contenuti, egli non li mette in relazione con la scrittura binaria dei numeri. Come sostiene lo stesso Leibniz successivamente, è Bouvet a notare il legame, e, nella lettera del 4 novembre 1701, a inviargli la riproduzione circolare e quadrata degli esagrammi, che egli considera antichissimi (quattromila anni) e inventati dall’imperatore Fuxi.
Leibniz riceve la lettera solo il primo aprile 1703, s’affretta a rispondere nei due giorni successivi, ma fa anche pervenire all’Abate Jean Bignon, il 7 aprile, una dissertazione intitolata Explication de l’arithmétique binaire, qui se sert des seuls caractères 0 et 1, avec des remarques sur son utilité, et sur qu’elle donne le sens des anciennes figures chinoises de Fohy, destinata ad essere pubblicata sul giornale dell’Accademia delle Scienze di Parigi. In quest’opera, egli fornisce una tabella dei primi 33 numeri binari e una spiegazione delle operazioni fondamentali di calcolo, ma soprattutto, mette in relazione il suo sistema con gli esagrammi cinesi.
Leibniz riceve la lettera solo il primo aprile 1703, s’affretta a rispondere nei due giorni successivi, ma fa anche pervenire all’Abate Jean Bignon, il 7 aprile, una dissertazione intitolata Explication de l’arithmétique binaire, qui se sert des seuls caractères 0 et 1, avec des remarques sur son utilité, et sur qu’elle donne le sens des anciennes figures chinoises de Fohy, destinata ad essere pubblicata sul giornale dell’Accademia delle Scienze di Parigi. In quest’opera, egli fornisce una tabella dei primi 33 numeri binari e una spiegazione delle operazioni fondamentali di calcolo, ma soprattutto, mette in relazione il suo sistema con gli esagrammi cinesi.
Sebbene con questo nuovo sistema, “non c’è più bisogno di imparare nulla a memoria (…), come si vede dagli esempi precedenti (…)”, Leibniz non raccomanda di sostituire il sistema a base dieci con quello a base due, perché il primo consente una scrittura più abbreviata dei numeri. Il sistema binario rimane tuttavia una base per la scienza, perché consente nuove scoperte, soprattutto nella pratica dei numeri e in geometria. “La prolissità dell’inizio, che fornisce in seguito il mezzo di risparmiare il calcolo, e di arrivare all’infinito secondo un ordine, è infinitamente vantaggiosa”.
“Ciò che vi è di sorprendente in questo calcolo, è che questa Aritmetica per 0 e 1 si trova a contenere il mistero delle linee d’un antico Re e Filosofo chiamato Fohy, che si crede sia vissuto più di quattromila anni fa, e che i Cinesi considerano come il Fondatore del loro Impero e delle loro scienze. Ci sono diversi figure lineari che gli si attribuiscono. Tutte si trovano in questa aritmetica, ma è sufficiente mostrare qui le Figure degli Otto Cova, come sono chiamati, che sono considerati fondamentali, e di aggiunger loro la spiegazione che è manifesta una volta che si noti in primo luogo che una linea intera — significa l’unità o 1, e poi che una linea spezzata – – significa lo zero o 0”.
Leibniz accosta gli otto trigrammi fondamentali ai primi otto numeri binari (da 0 a 7), sostituendo la linea spezzata Yin con lo 0 e la linea continua Yang con l’1 e leggendo i trigrammi dal basso verso l’alto. Combinando questi 8 trigrammi, si ottengono i 64 esagrammi che costituiscono il sistema completo dell’I-Ching.
Tuttavia “I Cinesi hanno perduto il significato dei Cova o linee di Fohy, forse da più di un millennio, e hanno scritto dei commentari su di essi, dove hanno cercato non so quali significati reconditi. C’è voluto che la vera spiegazione ora venisse loro dagli Europei”.
Leibniz spiega le circostanze con le quali padre Bouvet gli ha suggerito il legame tra il sistema a base 2 e i 64 esagrammi, “decifrando l’enigma di Fohy con l’aiuto di quanto gli avevo comunicato. E poiché queste figure sono probabilmente il più antico monumento della scienza che esista al mondo, questa restituzione del loro significato, dopo un così grande intervallo di tempo, apparirà pertanto più curiosa”.
La dissertazione si conclude con l’affermazione che anche nei caratteri della scrittura cinese, che la tradizione dice inventati dallo stesso Foxi, per quanto alterati dal tempo, sia possibile trovare ancora qualcosa di considerevole riguardo ai numeri e alle idee. Anche da essi potrebbe essere ricavato ogni tipo di ragionamento “attraverso qualche maniera di calcolo, che sarebbe uno dei più importanti mezzi di aiutare lo spirito umano”. Come si vede, Leibniz rifugge da ogni considerazione mistico-divinatoria degli esagrammi dell’I-Ching (e degli ideogrammi), ma continua ad essere allettato da un loro possibile impiego filosofico-combinatorio.
giovedì 3 gennaio 2013
Gruppi matematici e giochi con testi e parole
Consideriamo un insieme di elementi, che indicheremo con X. Chiameremo permutazione di questo insieme una funzione f: X→X che opera sugli elementi di questo insieme in modo da ordinarli in successione, come nell'anagramma di una parola. Ad esempio, è possibile permutare gli elementi dell’insieme X formato dalle tre lettere A, B e C, ottenendo sei possibili configurazioni: ABC, ACB, BAC, BCA, CAB, CBA.
Quando abbiamo una permutazione f, abbiamo anche una permutazione inversa f−1 che riporta allo stato iniziale: se f(x)=y allora f−1(y)=x. Se ad esempio esiste la funzione f che trasforma ABC in BCA facendo slittare le lettere di un posto verso destra, esiste anche la funzione inversa f−1 che riporta BCA ad ABC facendo slittare le lettere di un posto verso sinistra. La funzione g che invece scambia di posto due lettere consecutive (da ABC a BAC) è diversa sia da f sia da f−1. La permutazione banale, vale a dire quella che non cambia niente, si chiama identità e viene indicata con Id.
Quando si hanno due permutazioni f e g dello stesso insieme, si può applicare prima f e poi g: si avrà così definita una permutazione composta che si indicherà g○f (o più semplicemente gf, partendo da destra), poiché gf(x)=g(f(x)). Si noti che comporre con l’identità è un’operazione neutra, perciò si dice che l’identità è l’elemento neutro.
Ora, seguendo Arthur Cayley, si può dare la seguente definizione:
Un gruppo è l’insieme di tutte le permutazioni d’uno stesso insieme X che si possono ottenere per composizione a partire da certe permutazioni preferite, chiamate generatori, o dalle loro inverse.
Ad esempio il gruppo generato dalla sola applicazione f è composto da tre permutazioni: f , f○f = f2 e Id = f3. In questo caso si riscontra che l’inverso di f è f2. Così come accade nella teoria degli insiemi, la cardinalità di un gruppo si definisce in base al numero dei suoi elementi: in questo la cardinalità del gruppo generato da f è 3.
Le permutazioni viste sopra, operate sull'insieme X = {A, B, C}, costituiscono quindi un gruppo.
Il concetto di gruppo consente di lavorare in maniera flessibile con oggetti matematici di natura e origine molto diverse tra loro, identificandone alcuni importanti aspetti strutturali comuni. Con i gruppi è possibile trattare con le stesse modalità le soluzioni di un'equazione polinomiale, le simmetrie di un ente geometrico (ad esempio il gruppo di simmetria di un poligono regolare con n lati, detto gruppo diedrale), oppure gli insiemi numerici, o ancora le matrici. I gruppi giocano un ruolo chiave anche in topologia e in aree esterne alla matematica, come ad esempio nella fisica quantistica, dove queste rappresentazioni spesso permettono di discriminare le teorie "possibili", o nella chimica e nella mineralogia, in cui sono utilizzati per classificare strutture cristalline, poliedri regolari e simmetrie delle molecole.
Un gioco di caselle
Ecco uno schema formato da tre righe e tre colonne, nel quale ogni casella è associata a una cifra da 1 a 9:
Ora permutiamo gli elementi dello schema, facendo slittare le righe o le colonne. Ad esempio, indichiamo con R2 l’operazione che consiste nel far slittare la seconda riga verso destra di un posto e portare l’ultimo elemento della riga in prima posizione, come mostrato nello schema:
Qui sotto rappresentiamo invece lo slittamento di un posto verso il basso della prima colonna, operazione che indichiamo con C1:
Che cosa succede se combiniamo queste due operazioni ? Ecco il risultato dell’azione di R2 seguita da quella di C1 (la prima azione si indica più a destra):
Ecco invece che cosa succede se invertiamo l’ordine delle due operazioni, eseguendo prima quella di C1 e poi quella di R2 :
Si può constatare che l’ordine in cui vengono eseguite le operazioni influisce sul risultato, che non è lo stesso. Si dice a questo proposito che le azioni non commutano: C1 R2 ≠ R2 C1.
Come già accennato, indichiamo con l’esponente –1 l’operazione inversa. Così C1–1 è l’operazione che fa slittare verso l’alto di un posto la colonna 1, e R2–1 quella che fa slittare la riga 2 di un posto verso sinistra.
Le traslazioni intere
Consideriamo ora come insieme X tutti i punti di una retta. Indichiamo con t la traslazione di lunghezza l verso destra : t(x) = x + l se si pensa la retta come l’insieme dei numeri reali. La permutazione inversa è la traslazione verso sinistra di identica lunghezza. Più in generale, la potenza n–esima di t opera sulla retta X come indicato da tn(x) = x + nl.
…,t–2, t–1, Id, t, t2,…
può essere indicato con Z, con lo stesso simbolo utilizzato per l’insieme degli numeri relativi, con il quale è in corrispondenza biunivoca (si tratta infatti di un numero infinito di traslazioni intere, con l’identità, elemento neutro, che funge da zero).
Come è facile verificare, in questo caso una traslazione t corrisponde a un’operazione di somma algebrica e gode delle sue stesse proprietà. Quindi l’ordine delle operazioni effettuate su X non influisce sul risultato: si tratta di un gruppo commutativo, o gruppo abeliano.
I commutatori
All'interno di un gruppo G è possibile calcolare come commutano due suoi elementi a e b, calcolando il loro commutatore, dato dalla relazione:
[a,b] = aba–1b–1.
Un commutatore è diverso da zero quando la composizione di due operazioni non soddisfa la proprietà commutativa.
Tornando alle operazioni C1 e R2 viste in precedenza, possiamo ad esempio calcolare il commutatore di C1 e R2 , cioè [C1, R2] = C1R2 C1–1R2–1, ovvero l’azione inversa di R2 seguita dall'azione inversa di C1 seguita dall'azione di R2 poi da quella di C1, nell'ordine indicato dalla formula da destra verso sinistra. Troviamo allora:
Ci sono solo tre cifre permutate: (5,7,4).
Un gioco di versi
Un esperimento di utilizzo combinatorio dei gruppi consiste nell'associare ai quadrati di nove caselle i versi di una celeberrima poesia di Eugenio Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, tratta da Ossi di seppia (1925), con lo scopo di verificare l’effetto straniante dell’applicazione al testo di una permutazione composta non commutativa. Incominciamo con l’associare i versi (compresa la pausa tra le due quartine) con le caselle:
1. Spesso il male di vivere ho incontrato:
2. era il rivo strozzato che gorgoglia,
3. era l’incartocciarsi della foglia
4. riarsa, era il cavallo stramazzato.
5. –
6. Bene non seppi, fuori del prodigio
7. che schiude la divina Indifferenza:
8. era la statua della sonnolenza
9. del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Ora applicheremo al testo così organizzato prima l’operazione R3–1, che consiste nel far slittare la terza riga verso sinistra di un posto, poi l’operazione C2, che provoca lo slittamento di un posto verso il basso della seconda colonna. Ecco il risultato:
Che modifica il testo in questo modo:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato,
era il rivo strozzato che gorgoglia.
Bene non seppi, fuori del prodigio
era la statua della sonnolenza.
–
Che schiude la divina Indifferenza.
Ora invertiamo l’ordine delle due permutazioni:
Con il seguente risultato:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era la statua della sonnolenza,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato,
era il rivo strozzato che gorgoglia.
Bene non seppi, fuori del prodigio.
–
Del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato
che schiude la divina Indifferenza.
Calcoliamo infine il commutatore di R3–1 e C2, cioè [R3–1, C2] = C2–1R3 C2 R3–1, ovvero l’azione inversa di R3 seguita dall’azione di C2 seguita dall’azione di R3 poi da quella inversa di C2, nell’ordine indicato dalla formula da destra verso sinistra.
Con tre cifre permutate: (5, 8, 9).
Come la teoria degli insiemi e quella dei grafi, anche quella dei gruppi può esplorare le enormi possibilità della combinatoria applicata a un testo. La matematica può essere utilizzata per giocare a scombinare la struttura di un testo esistente, come ho fatto in questo caso, ma può anche servire per guidare e costruire la struttura di un testo da creare. La cosa più sorprendente è osservare come l’applicazione di regole auto–imposte (le contraintes dell’Oulipo), lungi da limitare la creatività di un autore, può essere un potente strumento per la sua manifestazione.
giovedì 27 dicembre 2012
La quadratura del quadrato (con poesia oulipiana)
La quadratura del quadrato consiste nel tassellare un quadrato il cui lato è un numero intero con altri quadrati di lato intero. Il nome al problema fu dato da William Tutte (1917-2002) per analogia scherzosa con quello della quadratura del cerchio. Senza altre condizioni, la quadratura del quadrato è un compito relativamente semplice. Se tuttavia si richiede che la quadratura sia perfetta, allora le dimensioni dei quadrati più piccoli devono essere tutte diverse e il problema è assai più complicato. Solo nel 1982 si è potuto dimostrare che il quadrato di lato 112 della figura è il più piccolo quadrato quadrato perfetto.
Il primo riferimento alla dissezione di quadrati in quadrati fu fatto dall’inglese Henry Dudeney, uno dei primi grandi esperti di matematica ricreativa. Nella rivista Strand del gennaio 1902 comparve infatti il rompicapo Lady Isabel's Casket (Lo scrigno di Lady Isabel), che riguardava la dissezione di un quadrato in quadrati di diversa dimensione e in un rettangolo. Il quesito fu poi pubblicato in volume da Dudeney in The Canterbury Puzzles (1907, al n. 40):
La giovane parente e pupilla di Sir Hugh, Lady Isabel de Fitzarnulph, possiede uno scrigno il cui coperchio è perfettamente quadrato. Esso è intarsiato con tessere di legno e una striscia d’oro, lunga 10 pollici e larga un quarto di pollice. Tutti i giovani che si recano da Sir Hugh per chiedere la mano di Lady Isabel devono risolvere il problema di suddividere il quadrato, a parte la striscia d’oro, in un certo numero di quadrati perfetti, tutti di dimensioni diverse. Solo un giovane riesce dove in molti hanno fallito prima di lui. Ecco la soluzione:
Il topologo e geometra tedesco Max Dehn si era invece occupato del problema della quadratura del rettangolo, in un articolo pubblicato sui Mathematische Annalen del settembre 1903. Dehn dimostrò che:
- Un rettangolo può essere suddiviso in quadrati se e solo se i suoi lati sono commensurabili.
- Se un rettangolo può essere suddiviso in quadrati, allora esistono infiniti modi perfetti (con quadrati di dimensioni tutte diverse).
Il termine commensurabile significa in proporzione razionale, con entrambi i numeri interi che hanno un sottomultiplo comune.
Un altro grande matematico ricreativo, Sam Loyd, fu il primo a proporre un quesito di quadratura del quadrato, The Darktown Patch Quilt Puzzle (Il rompicapo della trapunta a pezze di Darktown), che fu pubblicato su Cyclopedia of Puzzles nel 1914 dal figlio dopo la sua morte. Una trapunta quadrata fatta da 12 x 12 pezze quadrate della stessa dimensione deve essere divisa nel più piccolo numero possibile di in 11 pezze quadrate tagliando lungo i lati dei quadrati esistenti. Esistono due possibili soluzioni con 11 quadrati, ma la quadratura non è semplice né perfetta.
Nel 1925 il problema della quadratura fu affrontato dal polacco Zbigniew Moroń nell’articolo O Rozkladach Prostokatow Na Kwadraty (Sulla dissezione di un rettangolo in quadrati), nel quale fornì i primi esempi di rettangoli divisi in quadrati diversi, senza tuttavia fornire la procedura di costruzione. Il rettangolo I, di dimensioni 33 x 32 è suddiviso in 9 quadrati, mentre il rettangolo II, di lati 65 x 47, è diviso in 10 quadrati. Più tardi avrebbe raccontato che in quel periodo trovò altri risultati su questo argomento, provando che è impossibile costruire un rettangolo con meno di 9 quadrati diversi. Sostenne anche di essere riuscito a ottenere la prima quadratura perfetta di un quadrato, anni prima che fosse nota la prima soluzione “ufficiale”.
Moroń notò che aggiungendo un quadrato con lo stesso lato a ciascun lato del rettangolo, esso può essere ingrandito indefinitamente. Il matematico americano Pasquale Joseph Federico in seguito avrebbe scoperto che, continuando la procedura per lati alterni, i quadrati corrispondono alla sequenza di Fibonacci e pertanto il rapporto dei lati in questa sequenza infinita si avvicina a phi, il numero aureo.
Un posto a parte nella vicenda è occupato dal giapponese Michio Abe. Pur lavorando da solo, egli conosceva la scarsa letteratura pubblicata sull'argomento e riuscì nel 1930 a tassellare più di 600 rettangoli perfetti. In un articolo in inglese del 1931 egli dimostrò che si può costruire una serie infinita di rettangoli perfetti composti partendo da un singolo rettangolo perfetto nel quale il rapporto tra i lati si avvicina al limite di 1, ad esempio di dimensioni 191 x 195. Dopo questa pubblicazione, Abe sparì nel nulla.
Il problema fu affrontato infine da un gruppo di dottorandi in matematica all'Università di Cambridge nel triennio 1936-39. I quattro, Rowland Leonard Brooks, Cedric Smith, Arthur Stone e William Tutte, adottarono un metodo assai originale per i tempi, trasformando la tassellatura quadrata in un circuito elettrico equivalente (che chiamarono diagramma di Smith), considerando i quadrati come resistenze collegate a quelle vicine ad entrambe le estremità, quindi applicarono al circuito le leggi di Kirkhoff e le tecniche di decomposizione circuitale.
L’analogia con le reti circuitali merita un piccolo approfondimento, per il quale mi avvalgo della testimonianza di William Tutte, che si trova nel dettagliato articolo Squaring the Square pubblicato da Martin Gardner in More Mathematical Puzzles and Diversions (1961). Dopo aver adottato un metodo algebrico, che consentiva di costruire un numero considerevole di rettangoli perfetti, Brooks, Smith, Stone e Tutte abbandonarono questo approccio un po’ empirico in favore di uno più teorico. Smith propose allora un diagramma per rappresentare i rettangoli perfetti come circuiti elettrici. La figura mostra un rettangolo perfetto con a fianco il suo diagramma di Smith. Ogni segmento orizzontale nel disegno è rappresentato nel diagramma da un punto, o “nodo“. Nel diagramma di Smith ogni nodo giace su una proiezione (a destra) del segmento orizzontale corrispondente nel rettangolo.
Ogni quadrato componente del rettangolo è delimitato sopra e sotto da due dei segmenti orizzontali. Di conseguenza esso è rappresentato da una linea o “filo” che unisce i due nodi corrispondenti. Immaginiamo che una corrente fluisca in ciascun filo. L’intensità della corrente è numericamente uguale al lato del quadrato corrispondente, e il suo verso va dal nodo che rappresenta il valore più basso a quello più alto. Si può immaginare che i due lati orizzontali del rettangolo corrispondano ai poli negativo e positivo di una corrente fatta fluire nel circuito.
Così concepito, il circuito rappresentato dal diagramma di Smith rispetta le leggi di Kirkhoff per il flusso in una rete circuitale, purché si consideri ogni filo un’unità di resistenza. La prima legge di Kirkhoff afferma che, eccetto che ai poli, la somma algebrica delle correnti che fluiscono verso ogni nodo è zero (la somma delle correnti in entrata è uguale alla somma delle correnti in uscita). Ciò corrisponde al fatto che la somma dei lati dei quadrati posti al di sotto di un dato segmento orizzontale è uguale alla somma dei lati dei quadrati posti al di sopra dello stesso segmento, naturalmente con l’esclusione dei due lati orizzontali del rettangolo. La seconda legge dice che la somma algebrica delle tensioni lungo una linea chiusa (con il segno appropriato in funzione del verso di percorrenza della maglia stessa) è pari a zero. La corrente totale che entra nella rete al polo positivo e esce a quello negativo corrisponde al lato orizzontale del rettangolo, mentre la differenza di potenziale tra i due poli è uguale al lato verticale.
La scoperta di questa analogia elettrica fu importante perché consentì di collegare il problema della quadratura a una teoria fisico-matematica ben stabilita. Era possibile ottenere e prendere a prestito dalla teoria delle reti elettriche delle formule per le correnti in un diagramma di Smith, e per le dimensioni dei corrispondenti quadrati componenti. Il principale risultato di questa operazione fu la possibilità di calcolare un valore dalla struttura del sistema senza alcun riferimento a quali particolari nodi erano scelti come poli. I quattro chiamarono questo valore complessità della rete. Se si scelgono le unità di misura per il rettangolo corrispondente in modo che il lato orizzontale sia uguale alla complessità, allora i lati dei quadrati componenti sono tutti numeri interi. Inoltre il lato verticale è uguale alla complessità di un’altra rete ottenuta dalla prima identificando i due poli.
Il diagramma di Smith semplificò la procedura per produrre e classificare i rettangoli con quadratura perfetta. I quattro matematici avevano classificato i rettangoli secondo il loro “ordine”, vale a dire il numero di quadrati che li componevano. Si scoprì così che non esistono rettangoli perfetti fino all'ottavo ordine, e solo due del nono. Ce ne erano 6 del decimo ordine e 22 dell’undicesimo. Si scoprì anche che esistevano rettangoli con lati uguali che davano origine a due diverse scomposizioni, che potevano essere ridotte a una applicando opportune simmetrie. La ricerca proseguì e finalmente il gruppo di Cambridge riuscì a ottenere la quadratura di un quadrato, prima di sessantanovesimo, poi di trentanovesimo e infine di ventiseiesimo ordine, come risultato della fusione di due rettangoli perfetti. Alla fine del 1939 la teoria della quadratura del quadrato era finalmente stabilita e avrebbe dato notevoli frutti nei decenni successivi.
L’articolo che firmarono alla fine della loro ricerca, The Dissection of Rectangles into Squares (Duke Mathematical Journal, dicembre 1940), coinvolgeva una vasta gamma di discipline matematiche, dalla teoria delle reti elettriche ai grafi planari, dalla teoria dei numeri a quella delle matrici, dalla funzione determinante agli operatori rotore e divergenza, ecc. I loro principali risultati possono essere così sintetizzati:
- Ogni rettangolo quadrato possiede lati ed elementi commensurabili;
- Ogni rettangolo con lati commensurabili è perfettibile in infiniti modi diversi;
- Non esistono rettangoli perfetti di ordine inferiore a 9;
- Scoperta del quadrato perfetto semplice di ordine 39 e del quadrato perfetto composto di ordine 26;
- Generalizzazioni del problema: rettangoli rettangolati, cilindri e tori quadrati, triangoli equitriangolati e la prova che non è possibile cubare i cubi.
Nel frattempo, procedendo con metodi prettamente empirici, il tedesco Roland Sprague (1894-1967). aveva trovato la prima soluzione del problema della quadratura del quadrato, pubblicandola su Mathematische Zeitschrift (1939), qualche mese prima di Brooks, Smith, Stone e Tutte. Sprague aveva costruito la soluzione utilizzando diverse copie di varie grandezze dei rettangoli I e II di Moroń, di un terzo rettangolo perfetto di dodicesimo ordine e di altri cinque rettangoli di base, creando un quadrato composto di ordine 55, con il lato di 4205 unità.
A questo punto l’articolo sarebbe finito, se i meriti di Tutte (e compagni, e anche del rompicapo di Henry Dudeney) non fossero stati riconosciuti dal matematico e scrittore dell’Oulipo Jacques Roubaud, che, nel gennaio di quest’anno, ha pubblicato sul meritorio sito francese Images des Mathématiques del CNRS una sestina lirica (che egli chiama mongine in onore di Gaspard Monge) dal titolo Tutte. La struttura della poesia, molto di fantasia, si basa sulla permutazione di sei parole-rima che si scambiano di posto nelle sei strofe dell’opera. Sfortunatamente, l’opera, il cui originale si trova al link qui sopra, è intraducibile, perché contiene omofonie e giochi di parole tipici del francese. La mia traduzione, assai zoppicante, è un tentativo di far conoscere al lettore italiano questa ennesima contaminazione matematico-letteraria.
Tutte
I
Lady Isabel de Fitzarnulph era bella
Così bella che sua padre la voleva sistemare
Egli fece battere il tamburo e da ogni lato
Annunciare che colui che riusciva con quadrati
Tutti diversi a coprire il suo scrigno d’oro (perfetto
Quadrato) aveva sua figlia. Tale fu il problema
II
Posto ai pretendenti; terribile problema
Diciamolo; tanto più che ciascuno dei quadrati
Che sulla superficie si dovevano sistemare
Avevano (allora la soluzione era bella)
Un numero intero di pollici per misura del lato,
Lo scrigno contandone sei cento otto. Perfetto
III
Rompicapo. Forse insolubile. Perfetto,
Troppo? Sir Hugh voleva la sua graziosa e bella
Bambina serbare per sempre? Quadrati
Piani ipocriti, allora. La scelta di questo problema
Lo assicurava che non l’avrebbe dovuta sistemare
E che lei sarebbe rimasta per sempre al suo lato?
IV
Dall’Irlanda, Galles, Scozia e da ogni lato
D’Inghilterra essi giungono, affrontano il problema
Giovani, vecchi, grandi, piccoli, per aver la bella,
Si spremono le meningi, Invano. Fiasco perfetto.
Ne resta uno. “E tu, Tutte?” “Tutti i miei quadrati
Vanno bene, my Lord!” Non resta che lor sistemare.
V
Tutte viveva con sua mamma, e doversi sistemare
Non cambiava nulla per lui. Con un accordo perfetto
Vissero tutti tre (senza alcun problema).
La sera contemplava sua moglie, a suo lato
L’ineguale armonia della soluzione bella
Posta sulla scrivania con i tutti i suoi quadrati.
VI
Un giorno, uscito Tutte, sua madre, i quadrati
(Erano ventisei, di differente lato)
Spostò, facendo le pulizie. Eppure l’ordine perfetto
Regnava quando rientrò, perché, per poterli sistemare,
Lei aveva risolto in altro modo il problema!
È vera la storia? Non lo so, però è bella!
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