sabato 31 luglio 2021

Poesia del ‘900 e scienza (4): “E ora arriva Einstein con un’idea”


Relatività, particelle e onde

La formulazione della teoria della relatività di Albert Einstein impose una diversa concezione del mondo e le certezze logico-matematiche che avevano permesso la visione deterministica e ottimista del positivismo ottocentesco e delle “sorti magnifiche e progressive” della scienza. Non era più possibile una rappresentazione della realtà rigorosamente definita nei suoi contorni oggettivi. Il “tempo” divenne, nel campo della fisica, una quarta dimensione di un continuum spazio-temporale in cui le distanze e gli intervalli temporali variavano al mutare del sistema di riferimento. Altri scienziati apportarono contributi fondamentali: Max Planck elaborò la teoria della quantizzazione dell’energia, Wolfgang Pauli formulò il principio di esclusione, Paul Dirac intuì l’esistenza dell’antimateria, Erwin Schrödinger fondò la meccanica ondulatoria e Karl Heisenberg teorizzò il principio di indeterminazione, per il quale certe grandezze non si possono misurare contemporaneamente. I paradigmi scientifici fino ad allora utilizzati furono sconvolti e mutarono definitivamente. La rassicurante visione univoca della realtà non esisteva più ed emerse la consapevolezza di una molteplicità di prospettive. Ciò si riflette nell’ultima strofa della poesia di Eugenio Montale Non chiederci la parola che squadri da ogni lato (da Ossi di seppia, 1923), in cui l’uomo sembra ormai potersi definire solo per negazione:

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Queste scoperte rappresentarono il fondamento da cui emersero i nuovi movimenti culturali che si affermarono all’inizio Novecento. Anche nella letteratura, il tempo, che era stato sempre rappresentato come un’entità esattamente quantificabile, progressiva e misurabile, e lo spazio, che era stato definito con precisione analitica, non erano più veritieri. Il tempo acquistò una dimensione sempre più interiore e aveva valore solo nella misura in cui era vissuto dalla coscienza dell’autore o del personaggio, allo stesso modo lo spazio, ben lontano dalle rappresentazioni naturalistiche, assunse solo una valenza simbolica, con contorni sfuggenti. Sempre Montale si farà interprete di questi sentimenti in Tempo e tempi (da Satura, 1971):

Non c'è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s'intersecano. È quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell'unico tempo. Ma in quell'attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.


Nei primi decenni del Novecento la molteplicità e la commistione delle forme letterarie, sia nella prosa che nella poesia, diventarono sempre più frequenti e necessarie per dare espressione alla scoperta di una realtà esterna e interiore estremamente complessa. 

Gli atteggiamenti nei confronti di Einstein rappresentano una sorta di indicatore di queste nuove prospettive. Drinking Song (1928) di Thomas Hardy vede il fisico tedesco come il culmine del processo di eliminazione dell'illusione umana iniziato con Copernico: 

And now comes Einstein with a notion —
Not yet quite clear
To many here —
That's there's no time, no space, no motion,
Nor rathe nor late,
Nor square nor straight,
But just a sort of bending-ocean.

E ora arriva Einstein con un’idea -
non ancora molto chiara
a molti qui -
che non c'è un tempo, non c'è uno spazio, non c'è movimento,
né presto né tardi,
né quadrato né dritto,
ma solo una sorta di oceano piegato

In St. Francis Einstein of the Daffodils, William Carlos Williams descrisse il clima primaverile di aprile con fiori, giardini e frutteti, il tutto con un titolo che combina il santo di Assisi con lo scienziato più famoso della sua epoca. L’autore, in questo caso meno sperimentale del solito, spiega nel sottotitolo che la poesia fu scritta in occasione del viaggio che Einstein fece negli Stati Uniti nel 1921. Lo scienziato teorico e il poeta visionario stavano cercando ciascuno di cogliere qualche nuova metafora del mondo. Einstein stava cambiando la fisica nel tempo in cui Williams e i modernisti stavano cercando di cambiare l'arte. Williams elaborò questo tema con descrizioni vivide dell’arrivo di una nuova stagione, ricca di promesse. Einstein giunge a New York sotto “il braccio morto” della Statua della Libertà, "alto come una viola” ed emerge “trionfante” dal mare come una Venere dalla conchiglia. Lui è la nuova nascita della Primavera.

… April Einstein
through the blossomy waters
rebellious, laughing
under liberty's dead arm
has come among the daffodils
shouting
that flowers and men
were created
relatively equal.
Old fashioned knowledge is
dead under the blossoming peach trees.

Einstein, tall as a violet
in the lattice arbor corner
is tall as a blossomy
pear tree! The shell
of the world is split
and from under the sea
Einstein has emerged
triumphant, St. Francis
of the daffodils! ...

… Einstein d’Aprile
attraverso le acque fiorite
ribelle, ridente
sotto il braccio morto della libertà
è arrivato tra i narcisi
urlando
che fiori e uomini
sono stati creati
relativamente uguali.
La conoscenza antiquata è
morta sotto i peschi in fiore.

Einstein, alto come una viola
nell'angolo del pergolato
è alto come un fiorente
pero! La conchiglia
del mondo è divisa
e da sotto il mare
Einstein è emerso
trionfante, San Francesco
dei narcisi! ...


In
Einstein, pubblicato in sole 150 copie numerate nel 1929, l’americano Archibald MacLeish presenta una giornata di meditazione che ricapitola le fasi principali della lotta fisica e spirituale di Einstein per comprendere l'universo fisico, dall'empirismo classico all'empatia romantica, fino alla moderna, introspettiva, fisica analitica. MacLeish lo considera un Prometeo solitario, alle prese con i segreti dell'universo. In versi sciolti, elaborati, evocativi, con inserti di prosa epigrammatica e con una ricca trama di immagini spaziali, la poesia narra la ricerca di Einstein della conoscenza.

… The Virgin of Chartres whose bleaching bones still wear
The sapphires of her glory knew a word—
That now is three round letters like the three
Round empty staring punctures in a skull.
And there were words in Rome once and one time
Words at Eleusis.
Now there are no words
Nor names to name them and they will not speak
But grope against his groping touch and throw
The long unmeaning shadows of themselves
Across his shadow and resist his sense.
    (Einstein hearing behind the wall of the Grand Hotel du Nord the stars discovers the Back Stair)

Why then if they resist destroy them. Dumb
Yet speak them in their elements. Whole,
Break them to reason.
He lies upon his bed
Exerting on Arcturus and the moon
Forces proportional inversely to
The squares of their remoteness and conceives
The universe.
Atomic.
He can count
Ocean in atoms and weigh out the air
In multiples of one and subdivide
Light to its numbers.
If they will not speak
Let them be silent in their particles.
Let them be dead and he will lie among
Their dust and cipher them—undo the signs
Of their unreal identities and free
The pure and single factor of all sums—
Solve them to unity.
Democritus
Scooped handfuls out of stones and like the sea
Let earth run through his fingers. Well, he too,
He can achieve obliquity and learn
The cold distortion of the winter's sun
That breaks the surfaces of summer.
    (Einstein on the terrasse of The Acacias forces the secret door) …

… La Vergine di Chartres le cui ossa sbiancate ancora indossano
gli zaffiri della sua gloria conosceva una parola:
che ora sono tre lettere rotonde come i tre
fori rotondi e vuoti in un teschio.
E una volta c'erano parole a Roma e ancora
parole a Eleusi.
Ora non ci sono parole
né nomi per indicarle, ed esse non parleranno
ma brancoleranno al suo tocco incerto e proietteranno
le lunghe ombre senza senso di sé stesse
attraverso la sua ombra e resisteranno alla sua perspicacia.
    (Einstein udendo le stelle dietro il muro del Grand Hotel du Nord scopre il Segreto)

Perché allora se resistono distruggile. Sciocco
eppure, parla loro nei loro elementi. Interi,
rompili per ragionare.
È sdraiato sul suo letto
esercitandosi su Arturo e la Luna
forze inversamente proporzionali ai
quadrati della loro distanza e concepisce
l'universo.
Atomico.
Può contare
l’oceano di atomi e pesare l'aria
in multipli di uno e suddividere
la luce nei suoi numeri.
Se non parleranno
lascia che siano silenziosi nelle loro particelle.
Lascia che siano morti e egli giacerà tra
la loro polvere e li numererà - annullerà i segni
delle loro identità irreali e libererà
il puro e unico fattore di tutte le somme -
risolvili all'unità.
Democrito
scavò manciate di pietre e come il mare
lascia che la terra scorra tra le sue dita. Ebbene, anche lui
può raggiungere l'obliquità e imparare
la fredda distorsione del sole invernale
che rompe le superfici dell'estate. ...
    (Einstein sulla terrazza delle Acacie forza la porta segreta)

The Student (1932) di Marianne Moore mostra lo scienziato tedesco come l'incarnazione dell'apertura mentale scientifica:

… He might not say
it of the student who shows interest in the stranger’s resumé

by asking “when will your experiment be finished, Doctor Einstein?”
and is pleased when Doctor Einstein smiles and says politely
“science is never finished.” …

… Potrebbe non dirlo
dello studente che mostra interesse per il curriculum dello straniero

chiedendo "quando sarà finito il suo esperimento, dottor Einstein?"
ed è contento quando il dottor Einstein sorride e dice educatamente
“la scienza non è mai finita”. …

La scienza e la tecnologia fornivano nuove metafore per la comunicazione poetica: telegrafia, telefonia, radio e televisione hanno suggerito le possibilità di una trasmissione delle idee più rapida e meno mediata; così come fece la relativa pseudoscienza dello spiritualismo, sempre importante nel modernismo con il nuovo vigore fornitogli dalle “realtà invisibili”. Nella Lettre–Ocean di Apollinaire (1914) il testo, affiancato dalla sigla TSF (telegrafo senza fili), è disposto a partire da un centro di irradiazione da cui si dipartono parole come onde hertziane. 


Mentre in Italia si scontava l’arretratezza scientifica (tranne rare eccezioni) e il prevalere culturale e politico dell’idealismo nella sua declinazione crociana, oltremanica le cose andarono diversamente. Il poeta più importante nella diffusione delle idee scientifiche all'interno del modernismo anglofono fu indubbiamente Ezra Pound, che firmò alcuni dei suoi saggi “Helmholtz” e che utilizzò nel corso della sua carriera un vocabolario derivato dalla scienza, dall'ingegneria alla medicina. La scienza per Pound serviva a due scopi: rafforzare l'autorità culturale del critico e fornire metafore che potessero spiegare o dare energia a un nuovo stile. 

I poeti modernisti erano tutti affascinati dalle forme d'onda come modello per il trasferimento delle energie. Nel 1912 Pound aveva dichiarato che “L'uomo è – la parte sensibile di lui – un meccanismo… piuttosto come un apparecchio elettrico, interruttori, cavi, ecc.”. L'idea di "immaginazione senza fili" di F. T. Marinetti è ripresa nell'entusiasmo di Pound per le trasmissioni radiofoniche come modalità di comunicazione diretta. Nel Canto 38, Pound raffigura Marconi che incontra (e in un certo senso soppianta) il papa.

… Marconi knelt in the ancient manner
like Jimmy Walker sayin’ his prayers.
His Holiness expressed a polite curiosity
as to how His Excellency had chased those
electric shakes through the a’mosphere. …

… Marconi si inginocchiò alla maniera antica
come Jimmy Walker* che dice le sue preghiere.
Sua Santità espresse una cortese curiosità
su come Sua Eccellenza avesse inseguito quelle
scosse elettriche attraverso l'atmosfera. …

(*) sindaco di New York tra il 1926 è il 1932

L’inglese William Olaf Stapledon, ispiratore di molti scrittori di fantascienza, tra il 1912 e il 1926 pubblicò poesie, prima di dedicarsi completamente ai romanzi. La sua opera maggiore in questo campo fu la raccolta Astronomical Posters, 23 poesie filosofiche e scientifiche riguardanti soprattutto il rapporto dell’uomo con le immensità cosmiche, Le poesie furono dattilografate, ma mai date alle stampe tutte insieme. Poem 2 è un esempio perfetto del suo stile:

Children suppose that chairs and tables
are an audience to their play;
and we, children always,
must still pretend
that the stars
care.
And yet we know them globes of gas,
immense and fervid,
but vapid.
We call them fixed,
and ancient.
And yet they fly like dust on the wind;
and each in its phases
is a cloud changing,
and like a man must end.
Not always was the heaven this wide
fire-pricked void.
Once was a closer, glimmering darkness,
whence the stars
crystallised.
In that beginning the sun was not,
life was not spawned,
nor anywhence
looked mind.
Nor Russell, Wells, nor Freud, nor Bernard Shaw
gospelled as yet through dark suburbia.

I bambini immaginano che sedie e tavoli
siano il pubblico alla loro recita;
e noi, bambini per sempre,
dobbiamo ancora pensare
che le stelle
ci guardano.
Tuttavia sappiamo che esse sono globi di gas,
immense e ferventi,
ma insulse.
Le diciamo fisse
e antiche.
Ma volano come polvere nel vento;
e ciascuna nelle sue fasi
è una nube che cambia,
e come un uomo deve finire.
Non sempre fu il cielo questo vasto
vuoto punteggiato di fiamme.
Una volta era una più chiusa, baluginante tenebra,
dalla quale le stelle
si cristallizzarono.
In quell’inizio il sole non era,
la vita non era seminata,
né da qualche parte
guardava la mente.
Né Russell, Wells, né Freud o Bernard Shaw
predicavano ancora tra le buie periferie.


Quando insegnava letteratura all’Amherst College, Robert Frost conobbe il premio Nobel Niels Bohr, che vi tenne due conferenze nel 1923 sulla struttura atomica e la fisica quantistica. Scrisse allora
For once, then, something ("Per una volta, allora, qualcosa") interpretando poeticamente l’evanescenza delle particelle atomiche, o della Verità stessa.

Others taunt me with having knelt at well-curbs
Always wrong to the light, so never seeing
Deeper down in the well than where the water
Gives me back in a shining surface picture
Me myself in the summer heaven godlike
Looking out of a wreath of fern and cloud puffs
Once, when trying with chin against a well-curb,
I discerned, as I thought, beyond the picture,
Through the picture, a something white, uncertain,
Something more of the depths—and then I lost it.
Water came to rebuke the too clear water.
One drop fell from a fern, and lo, a ripple
Shook whatever it was lay there at bottom,
Blurred it, blotted it out. What was that whiteness?
Truth? A pebble of quartz? For once, then, something.

(da New Hampshire, 1923)

Gli altri mi prendono in giro perché mi chino sulle vere dei pozzi
sempre in sfavore di luce, quindi senza mai vedere
più in profondità nel pozzo rispetto a dove l'acqua
mi restituisce un'immagine in una superficie splendente
di me, me stesso nell’estivo paradiso divino
che guarda fuori da una corona di felci e sbuffi di nuvole.
Una volta, spingendo con il mento contro una vera,
ho scorto, come pensavo, al di là dell'immagine,
attraverso l'immagine, qualcosa di bianco, incerto,
qualcosa di più profondo e poi l'ho perso.
Dell’acqua è giunta per rimproverare l'acqua troppo limpida.
Una goccia è caduta da una felce ed ecco che un'increspatura
ha scosso qualunque cosa fosse là in fondo,
l’ha offuscato, cancellato. Cos'era quel candore?
Verità? Un ciottolo di quarzo? Per una volta, allora, qualcosa.

La consapevolezza di questa vera e propria rivoluzione gnoseologica permette di comprendere la complessità di pensiero che caratterizza i personaggi di Luigi Pirandello, la cui caratteristica è un radicale relativismo. L’autore coglie perfettamente il crollo delle certezze prima possedute affermando l’”universale ed eterno fluire della vita”. La personalità che crediamo coerente ed unitaria è solo un’illusione, infatti gli altri ci vedono secondo la loro particolare prospettiva, che è in realtà una costruzione fittizia, una maschera.  

La società appare artificiosa e di conseguenza in tutta l’opera pirandelliana si riscontra il rifiuto dei ruoli, delle regole e delle forme che essa impone, da quelli familiari a quelli economici. Poiché nella visione pirandelliana domina un radicale relativismo conoscitivo, ne deriva un’inevitabile incomunicabilità tra gli uomini, che finiscono col rimanere confinati in un senso di dolorosa solitudine, che li porta ad essere “nessuno”. 

È curioso notare che Pirandello non concordava con chi avvicinava il relativismo esistenziale dei suoi personaggi alla teoria della relatività di Einstein: in un’intervista del 1922 dichiarò “… ebbene, quei problemi erano unicamente miei, erano sorti nel mio spirito, si erano naturalmente imposti al mio pensiero. Solo dopo, quando i miei primi lavori apparvero mi fu detto che quelli erano i problemi del tempo, che altri, come me, in quello stesso periodo si consumavano su di essi. E oggi ancora io non conosco Einstein”. In seguito in due ebbero modo di incontrarsi fugacemente più volte. Nell’agosto del 1935 i due si videro a Princeton, dove il fisico tedesco insegnava e Pirandello era stato invitato a latere del suo viaggio negli Stati Uniti per accordi, poi rivelatisi infruttuosi, con le major hollywoodiane per gli adattamenti delle sue opere al cinema. Einstein una volta gli aveva detto “siamo parenti”, ma Pirandello condivideva a fatica l’associazione che si faceva tra il suo relativismo conoscitivo ed esistenziale e la teoria della relatività. In realtà, questo isomorfismo era uno specchio dei tempi, ma non era cercato. Il rendez-vous di Princeton fu segnato da una reciproca incomprensione, umana e politica.



lunedì 26 luglio 2021

Poesia del ‘900 e scienza (3): “Ardenti di elettricità”

 


La città 

Secondo lo scrittore e critico inglese Malcolm Bradbury, “la letteratura del modernismo sperimentale emersa negli ultimi anni del XIX secolo era un'arte delle città, specialmente delle città poliglotte che, per varie ragioni storiche, avevano acquisito alta attività e grande reputazione come centri di scambio intellettuale e culturale”. Le grandi città come Berlino, Vienna, Parigi, Londra e New York, capitali culturali affermate, avevano al loro interno tutte le tensioni prodotte dal nuovo ambiente della vita metropolitana moderna. Esse concentravano le forze del cambiamento che dilagavano nel mondo, erano fermento di attriti, anzi di "caos culturale", focolai della dissoluzione di vecchi legami e identità; centri di migrazione, riunivano uomini di situazioni e condizioni ampiamente contrastanti. Impossibile da definire o trasmettere in forme tradizionali, la città moderna sembrava richiedere una rivoluzione nella sensibilità artistica e nell'espressione estetica.


Sintomi di questa esigenza, secondo il geografo, antropologo, sociologo e politologo britannico David Harvey, furono l'accelerazione del tempo e la compressione dello spazio che sono caratteristiche della città moderna. Per quanto riguarda la dimensione dello spazio, si può citare l'interazione sempre più complessa che risulta dalla giustapposizione di comunità diverse, di classe, etniche o religiose, i cui percorsi si intersecano nelle affollate strade cittadine. Inoltre, i mutevoli confini della città moderna, man mano che nuove popolazioni vi giungono, provocano uno spaesamento tale che il suolo “cambia sotto i piedi” degli abitanti. Così la mobilità geografica e sociale (inclusa l'esclusione sociale) può verificarsi anche se gli abitanti restano fermi, così che potrebbero non sentirsi più "a casa", anche se non si sono trasferiti. Alfred Döblin, in Berlin Alexanderplatz (1929) descrive lo spaesamento del protagonista Franz Biberkopf, che ha scontato una pena di quattro anni e che vive in una realtà sottoproletaria. La Berlino di Weimar è cambiata, e lui non trova più il suo posto. È diventato un escluso. Il romanzo, con tecniche espressive espressioniste, montaggi di tipo cinematografico, mescolanze e accostamenti di forme e stili diversi, descrive la sua lotta per il riscatto sociale tra mille peripezie in un contesto in cui la tecnologia, che aveva portato una notevole crescita della produzione industriale meccanizzata, viene vista come la fonte principale dell'alienazione dell'uomo. 


Riguardo all'altra dimensione, quella del tempo, sono la rapidità e l'attesa del cambiamento che inevitabilmente trasformano la concezione di passato, presente e futuro. Il rapporto città-campagna non è solo spaziale, ma ancor più temporale: il ritorno in campagna dello scrittore è anche un viaggio nel passato; Cultura e Natura sembrano appartenere a scale temporali diverse piuttosto che coesistere nello stesso mondo. Eppure, sono legati nello spazio dalle innovazioni tecnologiche: le ferrovie, le poste e i fili del telegrafo, la radio, il cinema e la fotografia trasformano i ritmi della vita quotidiana e la natura dell'interazione sociale.


La città moderna installa così il movimento nel cuore della vita e in questo vortice fa precipitare l'artista, affascinato e inorridito dalla sua promessa e dal suo pericolo. Da qui la fondamentale ambivalenza dell'atteggiamento degli artisti nei confronti della città: da un lato, può essere vista come liberatoria e ispiratrice, vibrante di movimento, colore e immagine, una ricca fonte di metafore e narrativa. La città, la metropoli, diviene il nuovo palcoscenico della vita culturale; le sue strade sommerse di gente ed automobili, le sue vetrine ricche e attraenti, le sue luminarie accecanti, divengono un modello estetico plausibile: la strada diviene l’odierno e dinamico «museo del presente». Un tema significativo della letteratura modernista è quello dell'emancipazione artistica dentro e attraverso la città: il viaggio di scoperta e di scoperta di sé che termina "ai margini di una ridefinizione urbana di sé stessi - come se la ricerca di sé e dell'arte allo stesso modo potesse essere solo realizzata nel bagliore e nell'esposizione esistenziale della città” (Harvey).



D'altra parte, l'esperienza predominante può essere quella della disconnessione, del distacco, persino dell'alienazione, magari venata di nostalgia per la comunità che si è persa. E su tutto incombe l’intimità e vicinanza della folla sempre presente che, con i suoi gusti banali, rischia di fagocitare l'unicità della coscienza artistica. Questo sentimento è espresso da una breve poesia imagista simile agli haiku, forse la sua più famosa, che Ezra Pound pubblicò nel 1913, In a Station of the Metro:


The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.

L’apparire di questi volti nella folla,
petali su un umido, nero ramo.

Non è necessario parlare di disumanizzazione delle masse da parte degli scrittori modernisti per riconoscere nella letteratura dei primi decenni del secolo l’attrazione mista con il risentimento e la paura verso la folla. L’ammirazione e diffidenza di William Carlos Williams così si esprimono riguardo a The Crowd At The Ball Game, la folla allo stadio del baseball (1939):


The crowd at the ball game
is moved uniformly

by a spirit of uselessness
which delights them —

all the exciting detail
of the chase

and the escape, the error
the flash of genius —

all to no end save beauty
the eternal —

So in detail they, the crowd,
are beautiful

for this
to be warned against

saluted and defied —
It is alive, venomous

it smiles grimly
its words cut —

The flashy female with her
mother, gets it —

The Jew gets it straight— it
is deadly, terrifying —

It is the Inquisition, the
Revolution

It is beauty itself
that lives

day by day in them
idly —

This is
the power of their faces

It is summer, it is the solstice
the crowd is

cheering, the crowd is laughing
in detail

permanently, seriously
without thought


La folla al gioco della palla
è mossa uniformemente

da uno spirito di inutilità
che li delizia —

tutto il dettaglio emozionante
della caccia

e la fuga, l'errore
il lampo di genio —

tutto senza scopo tranne la bellezza
l'eterno —

Quindi in dettaglio loro, la folla,
sono belli

per questo
da essere messi in guardia

salutati e sfidati —
È viva, velenosa

sorride cupamente
le sue parole feriscono —

La donna appariscente con sua
madre, capisce —

L'ebreo lo capisce bene...
è mortale, terrificante —

È l'Inquisizione, la
Rivoluzione

È la bellezza stessa
che vive

giorno per giorno in loro,
pigramente —

Questo è
il potere dei loro volti

È estate, è il solstizio
la folla sta

esultando, la folla sta ridendo
in dettaglio

permanentemente, seriamente
senza pensare


Le città industriali, con i loro mali, ma anche con le loro grandezze, sono descritte anche da Gabriele D'Annunzio, il quale coglie l'orrore quotidiano delle metropoli, ma anche un aspetto glorioso (orrida gloria, gloria delle città terribili) ed eleva la città a nuovo mito. In Maia. Laus Vitae, un lungo poema autobiografico pubblicato nel 1903, D’Annunzio (che in quanto a maschilismo nulla aveva da imparare da Marinetti) esalta un superomistico ardore di sperimentazioni e di avventura, non senza informarci delle sue numerose conquiste femminili, dee o mortali. Al ritorno da un lungo viaggio in nave nell’Egeo, il poeta si trova di fronte a una città orribile, industrializzata tanto che la definisce come il livello peggiore di decadimento dell'uomo, dove tutto è ridotto alla produzione e al mercato. 


Uomini fetidi e robusti,
altri smorti e scarni
e curvi, combusti
dal calore dei forni
e delle caldaie infernali,
inverditi dai sali
del rame, inazzurrati
dall’indaco, arrossati
dalle conce delle pelli,
inviscati dai grumi
e dai carnicci dei macelli,
corrosi dagli acidi, morsi
dal fosforo, fatti ciechi
dalle polveri e dai fumi,
fatti sordi dai fischi
del vapore dilaceranti
o dai tuoni iterati
dei martelli giganti,
dai fragori e dagli stridori
di tutto il ferro attrito,
venian del lavoro fornito.


Per D’Annunzio la bellezza non abita nelle città, dove domina invece la corsa, l'energia. Alla sera, la luce che prevale è quella artificiale dei lampioni, che appaiono come lune penzolanti e i cavalli sono quelli di acciaio delle macchine, che lavorano tutto il giorno senza mai stancarsi.


Rappresentare qualcosa di così grande e amorfo come la città moderna, in continua e rapida trasformazione, richiede un'innovazione consapevole nella forma, nel tema e nei generi, una sperimentazione che rischia di lasciare perplesso il grande pubblico. Come fa lo scrittore a competere con il richiamo delle sirene dei mass media con la loro offerta di facile fruizione e sensazioni forti? Una risposta può essere quella del flâneur, che ogni scrittore adatta la figura alla propria particolare esperienza storica e tradizione letteraria. Baudelaire, già nel 1850, sosteneva che i cambiamenti sociali ed economici portati dall'industrializzazione richiedevano che l'artista si immergesse nella metropoli e diventasse, per usare le sue parole, "un botanico del marciapiede", un conoscitore analitico del tessuto urbano. Egli coniò il termine riferendosi ai parigini, ma questa figura è stata adottata in tutto il mondo per descrivere il borghese curioso e senza fretta che bighellona nella città osservandone gli aspetti sociali, urbanistici, estetici. 


Guillaume Apollinaire seguì da vicino l'ingiunzione di Baudelaire di essere il "poeta della vita moderna": catturare l'epica nel mondano. Celebrando nella sua poesia le macchine e la tecnologia della Belle Époque, le routine della vita urbana, le trasformazioni del paesaggio urbano parigino, le sue innovazioni, sia nel contenuto che nella forma, lo hanno reso uno dei poeti francesi più influenti. La dialettica dell'immersione e della distanza dalla folla, dell'apertura al nuovo venata di nostalgia per il perduto, che caratterizzano i suoi scritti sulla città, rivelano inoltre tutta la complessità e l'ambiguità dell'impegno dell'artista con la modernità.


Composta nel 1903-1904, con successive modifiche, pubblicata per la prima volta sul Mercure de France il 1° maggio 1909, la poesia La chanson du mal-aime è la più lunga della raccolta Alcools (1913). La fine di questo lungo poema contrappone, in un contrasto simultaneo, un racconto, quello della morte di Ludovico II di Baviera, alla flânerie peregrina per Parigi.


Juin ton soleil ardente lyre
Brûle mes doigts endoloris
Triste et mélodieux délire
J’erre à travers mon beau Paris
Sans avoir le cœur d’y mourir

Les dimanches s’y éternisent
Et les orgues de Barbarie
Y sanglotent dans les cours grises
Les fleurs aux balcons de Paris
Penchent comme la tour de Pise

Soirs de Paris ivres du gin
Flambant de l’électricité
Les tramways feux verts sur l’échine
Musiquent au long des portées
De rails leur folie de machine

Les cafés gonflés de fumée
Crient tout l’amour de leurs tziganes
De tous leurs siphons enrhumés
De leurs garçons vêtus d’un pagne
Vers toi toi que j’ai tant aimée


Giugno la tua lira solare infuocata
Brucia le mie dita doloranti
Delirio triste e melodioso
Vago per la mia bella Parigi
Senza avere il coraggio di morirci.

Le domeniche durano per sempre
E gli organetti di Barberia
Vi singhiozzano nei cortili grigi
I fiori sui balconi di Parigi
Pendono come la Torre di Pisa

Serate parigine ubriache di gin
Ardenti di elettricità
I tram semafori verdi sulla schiena
Musicano lungo i pentagrammi
Delle rotaie la loro follia di macchina

I caffè gonfi di fumo
Gridano tutto l'amore dei loro zingari
Di tutti i loro sifoni raffreddati
Dei loro ragazzi vestiti d’un pareo
Per te, te che ho tanto amato


Zone è la poesia di apertura della raccolta. Cambiando il titolo della raccolta da Eau de vie in Alcools e decidendo di togliere ogni punteggiatura, l'autore aggiunse all’inizio la poesia, ultima scritta. Colpisce l'aspetto del poema: alcuni versi sono staccati, altri raggruppati in strofe; non c'è una vera regolarità. Si tratta di versi liberi, le leggi della versificazione non sono rispettate. In questa lassa si trova un'evocazione modernista della capitale:


Tu lis les prospectus les catalogues les affiches qui chantent tout haut
Voilà la poésie ce matin et pour la prose il y a les journaux
Il y a les livraisons à 25 centimes pleines d’aventures policières
Portraits des grands hommes et mille titres divers

J’ai vu ce matin une jolie rue dont j’ai oublié le nom
Neuve et propre du soleil elle était le clairon
Les directeurs les ouvriers les belles sténo-dactylographes
Du lundi matin au samedi soir quatre fois par jour y passent
Le matin par trois fois la sirène y gémit
Une cloche rageuse y aboie vers midi
Les inscriptions des enseignes et des murailles
Les plaques les avis à la façon des perroquets criaillent
J’aime la grâce de cette rue industrielle
Située à Paris entre la rue Aumont-Thiéville et l’avenue des Ternes

Leggi i volantini i cataloghi i manifesti che cantano ad alta voce
Ecco la poesia stamattina e per la prosa ci sono i giornali
Ci sono pubblicazioni da 25 centesimi piene di avventure della polizia
Ritratti di grandi uomini e mille titoli diversi

Ho visto questa mattina una bella strada di cui ho dimenticato il nome
Nuova e pulita dal sole essa era la tromba
I dirigenti gli operai le belle stenodattilografe
Dal lunedì mattina al sabato sera quattro volte al giorno vi passano
Al mattino tre volte la sirena vi geme
Una campana arrabbiata vi abbaia intorno a mezzogiorno
Le iscrizioni delle insegne e dei muri
Le targhe gli avvisi urlano come pappagalli
Amo la grazia di questa strada industriale
Situata a Parigi tra la rue Aumont-Thiéville e l'avenue des Ternes



Il poeta si aggira per le strade di Parigi "questa mattina", che è il tempo del rinnovamento poetico; sorprendentemente canta un inno all'edicola. Il poeta non appare qui al suo scrittoio durante le lunghe veglie, ma, dialogando in seconda persona con sé stesso, si guarda leggere "i prospetti i cataloghi i manifesti" - l'assenza di punteggiatura accelera ulteriormente la giustapposizione di questi testi apparentemente irrisori. La città moderna offre al poeta come modelli questi schizzi di una nuova poesia: il flâneur parigino vede nel loro afflusso una felice moltiplicazione di testi: "Ecco la poesia stamattina e per la prosa ci sono i giornali".