Sappiamo che il Seicento fu epoca di esuberanze in ogni campo artistico. Tra i poeti, ai più viene in mente il nome del napoletano Giovanbattista Marino, a cui dobbiamo i versi che sono successivamente stati considerati come lo specchio di una mentalità se non un vero programma poetico:
E’ del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo,
chi non sa far stupir, vada alla striglia!
Nei versi di Marino e dei marinisti abbondano i virtuosismi verbali, le allitterazioni, le rime interne, le metafore impensate, al punto che i critici hanno espresso in molti casi giudizi fortemente negativi su una corrente letteraria per la quale la tecnica prevaleva sul messaggio, intenta a dir niente nel modo più complicato possibile, al punto da annoiare il lettore più che stupirlo. Eppure la loro è talvolta una poesia seducente, a tratti anticipatrice in qualche modo degli esperimenti delle numerose avanguardie dei secoli successivi o dei giochi dei ludolinguisti.
Tra i poeti che operarono in quel periodo bizzarro, un posto a parte merita indubbiamente, sia per fantasia sia per abilità tecnica, lo straripante Ludovico Leporeo (1582–1653 circa). Friulano del pordenonese, studiò giurisprudenza a Padova, vestì l’abito talare, e nel 1602 approdò come scrivano alla corte papale di Roma, città nella quale visse la maggior parte della vita (anche se con lunghi rientri nella terra natale). La sua prima opera edita, un panegirico per la canonizzazione di Carlo Borromeo è del 1611, cui fa seguito, per lunghi anni, solo produzione poetica celebrativa e d'occasione.
La musa della poesia, che scalpitava dentro il Leporeo, decise di premiarlo solo nel 1634, quando fu accolto con molto favore il Decadario Trimetro, raccolta di poesie di dieci versi contenenti ciascuno tre rime uguali, due interne e una finale, che si susseguono in ordine alfabetico: a e i o u. Questa «nuova et inaudita inventione di poesia volgare» colpì il pubblico per il vortice di rime, assonanze, allitterazioni, giochi di parole nei quali l’autore si dimostrò un vero maestro.
Nel 1639, uscì il
Leporeambo Alfabetico Eroico, «una poesia alfabetica, mia nuova inventione, che dal mio cognome ho nomata LEPOREAMBO» ricalcando il nome su quello degli inni greci in onore di Dioniso (e che invece il Leporeo credeva essere il nome di un poeta). I leporeambi portano a compimento, elevandola a potenza, la scelta stilistica tracciata cinque anni prima: si tratta di poesie di forme diverse (molto spesso sonetti), piene di termini inusitati e bizzarri, parole sdrucciole e bisdrucciole, rime interne, assonanze, allitterazioni, un funambolico meccanismo al quale l’autore pensava di affidare la propria fama d'inventore di un nuovo modo di far poesia.
Seguirono negli anni altre raccolte di leporeambi, tra le quali bisogna senza dubbio segnalare i
Leporeambi Alfabetici Musicali pubblicati nello stesso 1639, i
Leporeambi nominali (1641) «alle Dame ed Academie italiane», 106 sonetti dedicati a donne dal nome sempre diverso e perciò detti nominali, e la
Centuria di Leporeambi alfabetici, lirici, satirici, faceti; decasillabi, endecasillabi, duodecasillabi, tredecasillabi; unìsoni, trìsoni, quadrìsoni, cinquìsoni, sestìsoni, settìsoni; canzonieri, equidistanti, trimembri, trimetri, similitudinarii, irrepetiti (1651), la sua raccolta di maggior successo, che precedette di pochi anni la morte.
Ecco una piccola raccolta delle poesie di Ludovico Leporeo, dalla quale si può riscontrare il talento linguistico e il gusto dell’eccesso che caratterizzano l’autore, considerato un “minore” nei giardini di Parnaso, ma che forse può ancora divertire noi contemporanei.
Leporeambi Alfabetici Musicali
Trisillabo, quadrisono, accentato, irrepetito
Amante ravveduto
Chi mi fa
crudeltà,
né mi dà
libertà,
a mia fé
non credé,
né mi diè
mai mercè;
non m'udì,
s'incrudì,
mi schernì,
mi tradì;
non più, no,
seguirò,
servirò,
ché ben so
morir fu
soffrir più
servitù,
schiavitù.
Leporeambi Nominali alle Dame & Academie italiane
XXX
Leporeambo alfabetico, cinquisono, irrepetito
Per la signora Delia
(-ante, -ente, -inte, -onte)
Cupido infido! io grido e strido avante
beltà che ha crudeltà, pietà non sente
di chi ferì, svenì, seguì fuggente
rea Medea che parea l'idea beante:
dama che ama e disama, e brama ovante
mirar, penar, mancar, spirar gemente
ognor un cor d'ardor; d'amor languente
preso, acceso, prosteso, offeso amante.
Queste infeste, modeste, oneste finte
dànno affanno, hanno inganno e sanno pronte
schernir, schermir, dir e disdir convinte;
non però vo' mal pro: terrò disgiunte
magìe, malìe d'arpìe natìe, recinte
d'ostrin rubin, d'or fin lustrin la fronte.
Leporeambo alfabetico, trisono, irrepetito
Per la signora Elena
(-eca, -ica, -oca, -uca)
Elena bella, avanzi quella greca
poiché tu sei vie più di lei pudica,
di cui memoria fa l'istoria antica
che di scempi e di stragi esempi reca;
il tuo brio vago e rio gli amanti acceca
e di chi t'ama sei dama nemica,
né vale ad ammansarte arte o fatica,
pïerio di Libetro, o metro, o deca;
il tuo baleno l'alma e 'l seno infoca,
che qual torrente vampa ardente sbuca
che per prieghi o per lai mai non s'apoca.
Per fuggir di martìr non trovo duca,
e la fiamma di Troia è dramma poca,
ch'ardo al tuo sguardo in guisa di festuca.
LXV
Leporeambo alfabetico, trisono, irrepetito
Per la signora Lidia
(-èdia, -ìdia, -òdia, -ùdia)
L'empio Amor, del mio cor la rocca assedia
co'i dardi rei de gli occhi bèi di Lidia,
e (a) la mia vita senza aita insidia
e prende, ohimé, a far di me tragedia;
ma l'ingegnier Sdegno guerrier rimedia
e a difesa ed offesa ei mi sussidia:
chiude le porte e 'l fronte mi presidia,
ch'io non cadrò né mi morrò d'inedia.
Questa crudele ed infedele m'odia
e con inganni a farmi danni studia
e rider spera udir la palinòdia;
ma invan con ambe man plaude e tripudia,
ché 'l mio Campion, de la ragion custodia,
la sua beltà senza pietà ripudia.
Leporeambo alfabetico, trisono, irrepetito
Per la signora Ottavia
(-ella, -illa, -olla, -ulla)
Otto son le cagion, Ottavia bella
onde il mio cor di dolce ardor sfavilla:
per le due labbra tue; per la tranquilla,
che ne molce e raddolce, alma favella;
per l'una e l'altra tua scaltra facella
che l'alma entro la salma non distilla;
per le due gote ove percuote e brilla
il lusinghier Arcier con sue quadrella;
per questa e quella man ch'invan m'accolla,
che m'attinge, distringe e mi trastulla
onde avvien che dal sen l'alma tracolla.
Mentre t'adoro e imploro, empia fanciulla,
e in fiere tempre arda mai sempre e bolla,
non allenti il mio foco o poco o nulla.
Centuria di Leporeambi
Leporeambo alfabetico trisono endecasillabo satirico irrepetito
Si finge ferito da Cupido
(–astro, –estro, –istro, –ostro)
Son fatto per amor Batto sordastro,
sordo più d'aspe d'arimaspe alpestro,
e da lontan, ma in van miro e sbalestro
colei che a' sospir miei sembra un pilastro.
Per risanarmi e farmi un dolce empiastro
dal lato manco, over dal fianco destro,
Flora ed Aurora colsero un canestro
di scilla, camomilla, appio e mentastro.
Per crudeltà che mai non ha registro
ardo sin dentro il centro, e nol dimostro,
e mi corrode il cor l'umor salmistro.
Con foglie non si toglie il neo d'inchiostro,
nulla vale al mio male arpa, né sistro,
né quante corbe d'erbe ha l'orbe nostro.
III
Leporeambo alfabetico endecasillabo sestisono trimembre irrepetito
Franciosato parla di se stesso in istufa
(–ella, –illa, –olla, –ulla)
Sudo ignudo, egro e negro, entro una cella,
cufa stufa, ove piove il grasso a spilla;
mentre il ventre ivi a rivi il sangue stilla,
grido e strido, asmo, spasmo, e muoio in quella.
Bolso ho il polso, agro, magro, e sto in barella,
strutto e brutto, irto spirto che oimè strilla,
morto a torto, unto e smunto, per Plautilla,
che mi diè questa in testa pelarella.
Scotto inghiotto arso e scarso, e carne frolla,
tosto arrosto, acqua sciacqua, e vino nulla;
scialbo e falbo, ambe gambe e 'l piè tracolla.
Piango in fango alto, smalto di pesculla;
ahi, pescai cospi e rospi, e sputo colla:
bei trofei trassi ai chiassi di fanciulla!
V
Leporeambo alfabetico duodecasillabo satirico trisono irrepetito
Si sdossa da una publica offesa
(–arico, –erico, –irico, –orico)
Mastico il fren, fantastico, e prevarico,
sofistico, umoristico, colerico,
e di cordoglio mi discioglio iterico,
se d'una ingiuria in Curia io non mi scarico.
Non barbaro reobarbaro, barbarico
può guarir il martir mio mesenterico;
se non mi sfoio, muoio climaterico,
né mi risana il male ana d'agarico.
Non mi giova erba nova d'aspergirico,
non aloè di Mesuè teorico,
non verun altro vie più scaltro empirico.
Se non sconto l'affronto io non mi corico,
e non cesso contr'esso ordir satirico
leporeambo, strambo e metaforico.
Leporeambo alfabetico endecasillabo satirico unisono irrepetito
Contra uno insignorito
(–astri, –estri, –istri, –ostri)
Tu, che usasti trattar le marre e i rastri,
rustico abitator di gioghi alpestri,
ruvido più de' Satiri silvestri,
nato a capre guidar, verri e porcastri,
Meraviglia non è se non t'ammastri
e da zoticità non ti sequestri,
né a favellare e a conversar t'addestri,
ma dal sentier politico disastri.
Son dell'organo tuo falsi i registri,
poiché in gesti, in parole e in volto mostri
rozzi costumi a civiltà sinistri.
Mentre assisti alle curie e monti i rostri,
s'arrossano apo te saggi ministri,
ché le assemblee deturpi, e oscuri gli ostri.
Leporeambo alfabetico duodecasillabo trisono satirico irrepetito
Vuole asteriscare le sue parole nuove
(–escole, –iscole, –oscole, –uscole)
Vo a caccia e in traccia di parole, e pescole
dal rio del cupo oblio, le purgo, e inciscole,
poi con ingegni degni conferiscole,
che a vederle son perle e non baltrescole.
Da ferrugine e rugine rinfrescole
e da la muffa e ruffa antica spriscole;
poi con indici ai sindici asteriscole,
e senza stento a mille, a cento accrescole.
Dalle muraglie d'anticaglie sboscole,
minime, semiminime, e minuscole,
e sappi il mondo attondo che io conoscole.
Ciarlino pure le censure cruscole,
ché a genti intelligenti e a torme toscole
le vo' mettere a lettere maiuscole.
Altri leporeambi pubblicati postumi
Leporeambo unimetro unisono endecasillabo eroico Geroglifico del mondo e d'Italia
(–ante, –ente, –inte, –onte)
Questo smembrato mondo in parti tante
da meriggio, aquilone, euro e ponente,
d'aure spirante e di calor vivente,
di Natura e del Ciel figlio gigante,
prosteso fu da Giove fulminante
con diluvio di foco in giù cadente,
ché sormontar volea non degnamente
l'eterne vie con temerarie piante.
Le sue polpe cangiarsi in polve estinte,
le rigid'ossa in alpe, in rupe, in monte,
e le sue scheggie in isole distinte.
Di sì gran mole coscia e gamba gionte
giacquer colà da doppio mar recinte,
de l'Istria a fianco, e de la Libia a fronte.