mercoledì 23 marzo 2022

Metanogenesi e riscaldamento globale

 


La metanogenesi (produzione di metano) è un'antica via metabolica svolta esclusivamente da un gruppo di Archaea (archeobatteri) anaerobici noti come metanogeni. Gli studi geologici suggeriscono che i metanogeni si sono evoluti più di 2,5 miliardi di anni fa, prima che l'ossigeno diventasse abbondante nell'atmosfera terrestre. I metanogeni sono onnipresenti nei suoli, anche in ambienti desertici asciutti. Tuttavia, la loro attività, che produce poca energia, è limitata ad ambienti a bassa ossidoriduzione creati dall'esaurimento degli accettori di elettroni più energeticamente favorevoli. 

I tassi di produzione di metano nel suolo sono più alti quando i suoli sono saturi (poiché l'ossigeno si diffonde 10.000 volte più lentamente nell'acqua rispetto all'aria) o ricchi di materia organica labile che può alimentare la domanda biologica di ossigeno dalla respirazione eterotrofica. Ciò porta a condizioni anossiche e alle condizioni redox basse necessarie per la metanogenesi. Pertanto, a scala di ecosistema, la presenza persistente e la profondità della falda freatica controllano il volume del suolo in cui può verificarsi la produzione di metano. Tuttavia, anche in un suolo insaturo o povero di sostanza organica, le condizioni anossiche possono svilupparsi su una scala molto piccola (μm) in cui vivono i metanogeni. Questo spiega come la produzione di metano possa avvenire in suoli ricchi di ossigeno con un potenziale redox alto, anche se a tassi inferiori rispetto ai suoli anossici. 


La produzione di metano è sensibile a una serie complessa di fasi di decomposizione anaerobica, anche se i metanogeni stessi utilizzano solo il più semplice dei substrati. I substrati per la produzione di metano includono H2/CO2 (idrogenotrofico), in cui H2, formiato, alcol o CO sono usati come donatori di elettroni, cioè come riducenti; acetato (acetoclastico), dove viene ridotto il gruppo metile dell’acetato; e, più raramente, composti metilati (metilotrofici), in cui i metanogeni riducono anche il gruppo metilico da metanolo, dimetilsolfuro, mono-, di- e trimetilammine. I metanogeni nel suolo producono metano attraverso due vie principali: 




Sia l'acetato che l'idrogeno sono sottoprodotti della fermentazione anaerobica; quindi, la metanogenesi dipende da una catena alimentare complessa. La maggior parte dei detriti vegetali è costituita da polimeri scarsamente solubili, come cellulosa, lignina, lipidi e proteine. Questo materiale deve essere prima scomposto in unità solubili o monomeri, di solito da enzimi extracellulari, prima che possa essere metabolizzato dai microbi del suolo. I monomeri devono quindi essere fatti fermentare per produrre i substrati metanogenici, principalmente idrogeno e acetato. Le radici delle piante rilasciano anche composti di carbonio che i microbi possono decomporre anaerobicamente per produrre acetato. La produzione di metano dipende quindi dalla decomposizione anaerobica e dalla fermentazione per fornire i substrati, piuttosto che direttamente dalla quantità o dalla qualità della materia organica.

L'energetica della metanogenesi idrogenotrofica sembra in teoria essere relativamente favorevole, ma, in pratica, i tassi di crescita e le rese cellulari sono inferiori a quanto previsto da considerazioni termodinamiche. Ciò è in parte dovuto al fatto che la crescita autotrofica richiede l'uso di parte del substrato per l'assimilazione del C, inclusa una quantità significativa di ATP. L'energia della metanogenesi acetoclastica è meno favorevole di quella della metanogenesi idrogenotrofica, risultando in tassi di crescita ancora più lenti e rese cellulari inferiori. In generale, è stato anche riportato che l'aumento della salinità inibisce i metanogeni idrogenotrofici, ma migliora la metanogenesi acetoclastica.

In presenza di ioni nitrato o ioni solfato, i metanogeni sono superati dai batteri che respirano più accettori di elettroni che producono energia. Ad esempio, i riduttori di Fe(III) interferiscono con il metabolismo dei metanogeni competendo per il carbonio organico e sopprimono la metanogenesi poiché la riduzione di ferro produce più energia libera rispetto alla metanogenesi. Anche i batteri riduttori di solfato sono un gruppo che interagisce strettamente con i metanogeni nelle sacche anaerobiche dei sedimenti. L'interazione è competitiva per i substrati, e dipende dalla presenza di solfato e salinità dell'ambiente. La metanogenesi è influenzata da vari fattori ambientali e favorita da condizioni fortemente riduttive. Tuttavia, negli habitat anaerobici impoveriti di solfato, in particolare nei sedimenti d'acqua dolce e, a una certa profondità, nei sedimenti marini, i metanogeni svolgono un ruolo centrale come scavenger (spazzini) di H2 e nella mineralizzazione terminale dell'acetato. In quanto tali, contribuiscono in modo significativo al ciclo del carbonio. 

La metanogenesi eseguita dagli Archaea anaerobici rappresenta la più grande fonte biogenica di metano sulla Terra. Questo processo è una componente chiave del ciclo globale del carbonio e svolge un ruolo importante nei cambiamenti climatici, a causa dell'alto potenziale di riscaldamento del metano. 

I previsti aumenti della temperatura e le variazioni delle precipitazioni dovute al cambiamento climatico altereranno la produzione di metano nel suolo, il che potrebbe avere effetti di feedback sul cambiamento climatico. Tuttavia, questi feedback sono difficili da prevedere. I tassi di metanogenesi aumenteranno a temperature più elevate, come è generalmente vero per i processi microbici del suolo, ma l'entità dell'aumento è incerta. I climi più caldi potrebbero portare a stagioni di crescita più lunghe, aumentando la produttività delle piante e quindi maggiori emissioni di metano dovute all'aumento dell'apporto di materia organica. Inoltre, poiché la produzione di metano richiede condizioni anossiche, i cambiamenti nei modelli di precipitazione che alterano l'estensione della terra allagata cambierebbero notevolmente le emissioni di metano del suolo. L'essiccazione del suolo a causa della riduzione delle precipitazioni rallenterebbe la produzione di metano e aumenterebbe l'ossidazione aerobica del metano, riducendo così le emissioni. L'aumento dell'intensità e della frequenza delle precipitazioni già verificatesi in alcune regioni del mondo potrebbe invece aumentare l'estensione delle zone umide, aumentando così le emissioni globali di metano nell'atmosfera. 

Con lo scioglimento del permafrost (il suolo perennemente ghiacciato), anche l'estensione delle zone umide e la produzione di metano possono aumentare. Negli ultimi anni, gli scienziati del clima hanno avvertito che lo scongelamento del permafrost in Siberia e in Canada potrebbe essere una "bomba a orologeria a metano" che esplode lentamente. Il riscaldamento delle temperature nelle regioni artiche sta rilasciando enormi quantità di metano, solo parzialmente prodotto da metanogenesi recente in zone diventate umide, ma soprattutto quello fossile intrappolato negli antichi calcari. Oggi questi giacimenti metaniferi sono naturalmente sigillati verso l'alto dalle vaste estensioni di terreni congelati, impermeabili quindi ai gas. Nel territorio artico dell'emisfero boreale (dove sono la maggior parte di terre emerse del pianeta, e quindi esposte al congelamento e scongelamento), si teme la liberazione di grandi quantità di metano nell'atmosfera terrestre, che si aggiungerebbe agli altri gas che già favoriscono l'effetto serra, innescando così, in un circolo vizioso, un ulteriore aumento delle temperature medie terrestri.




lunedì 21 marzo 2022

Attacco allo spettro di Sheldon

 


Il 19 novembre 1969, la nave di ricerca Hudson salpò dalle gelide acque del porto di Halifax in Nuova Scozia e si inoltrò in mare aperto. La nave iniziava ciò che molti scienziati marini a bordo consideravano l'ultimo grande viaggio di esplorazione oceanica: la prima circumnavigazione completa delle Americhe. La nave era diretta a Rio de Janeiro, dove avrebbe imbarcato altri scienziati prima di attraversare Capo Horn, il punto più meridionale delle Americhe, e poi dirigersi a nord attraverso il Pacifico per attraversare il periglioso Passaggio a Nord-Ovest fino al porto di Halifax, dove tornò il 16 ottobre 1970. 


Lungo la strada, l'Hudson faceva frequenti soste in modo che i ricercatori potessero raccogliere campioni ed effettuare misurazioni. Uno di quegli scienziati, Ray Sheldon, era salito a bordo dell'Hudson a Valparaíso, nel Cile meridionale. Ecologista marino presso il Bedford Institute of Oceanography in Canada, Sheldon era affascinato dal plancton microscopico che sembrava essere ovunque nell'oceano: quanto erano diffusi questi minuscoli organismi? Per scoprirlo, Sheldon e i suoi colleghi raccoglievano e portavano secchi di acqua di mare fino al laboratorio dell'Hudson e utilizzavano un congegno per rilevare le dimensioni e il numero di creature planctoniche. 

La vita nell'oceano, scoprirono, seguiva una semplice regola matematica: l'abbondanza di un organismo è strettamente legata alle dimensioni del suo corpo. Per dirla in altro modo, più piccolo è l'organismo, più ce n’è. Ciò che era più sorprendente fu il modo in cui questa regola sembrava funzionare. Quando Sheldon e i suoi colleghi classificarono i campioni di plancton per ordini di grandezza, scoprirono che ogni intervallo di dimensioni conteneva esattamente la stessa massa di creature. In un secchio di acqua di mare, un terzo della massa del plancton era compreso tra 1 e 10 micrometri, un altro terzo era compreso tra 10 e 100 micrometri e l'ultimo terzo era compreso tra 100 micrometri e 1 millimetro. Ogni volta che scalavano di un intervallo di dimensioni, il numero di individui in quel gruppo diminuiva di un fattore 10. La massa totale rimaneva la stessa, mentre la dimensione delle popolazioni cambiava. Ad esempio, mentre il krill è 12 ordini di grandezza (circa mille miliardi) più piccolo del tonno, è anche 12 ordini di grandezza più abbondante del tonno. Quindi ipoteticamente, tutta la carne di tonno nel mondo sommata (biomassa di tonno) è più o meno la stessa quantità (almeno entro lo stesso ordine di grandezza) di tutta la biomassa di krill nel mondo. 


Sheldon pensava che questa regola potesse governare tutta la vita nell'oceano, dal più piccolo batterio alle più grandi balene. Questa intuizione si è rivelata vera. Lo spettro di Sheldon, come è stato chiamato, è stato osservato anche nel plancton, nei pesci e negli ecosistemi di acqua dolce. (In effetti, uno zoologo russo aveva osservato lo stesso schema nel suolo tre decenni prima di Sheldon, ma la sua scoperta passò per lo più inosservata). 

Lo spettro di Sheldon è una distribuzione a legge di potenza (power law distribution) cioè una relazione del tipo: 


dove 
µ indica proporzionale, cioè uguale a meno di un fattore moltiplicativo, a (>1) è chiamato esponente della legge di potenza e L(x) è una funzione "che varia lentamente". Quando L(x) è una costante, la distribuzione diventa: 


con C costante di normalizzazione. 

Una distribuzione che obbedisce alla legge di potenza è denominata anche scale-free distribution (distribuzione a invarianza di scala), o anche distribuzione di Pareto. La particolarità di questo tipo di distribuzione sta proprio nell'assenza di una scala caratteristica dei fenomeni. Le leggi di potenza hanno vasta applicazione in biologia, dai modelli di attività neurale ai viaggi alla ricerca di cibo di varie specie. 

Di solito le distribuzioni power-law sono rappresentate su un grafico log-log, cioè un grafico in cui entrambe le variabili sugli assi sono espresse in logaritmi. Trasformando in logaritmi si ha infatti: 


e la relazione diventa lineare. 

Tornando allo spettro di Sheldon, il rapporto rimane approssimativamente lo stesso man mano che ci si sposta più in alto nella catena alimentare. Solo alle estremità estreme dello spettro (i batteri più piccoli e le balene più grandi) le misurazioni hanno iniziato a variare. Un altro modo per comprendere la relazione tra dimensioni e numeri è esaminare il peso dei singoli organismi: 


Biomassa oceanica totale (peso umido) suddivisa in classi dimensionali rilevanti (g, peso umido) per ciascun gruppo per stimare lo spettro dimensionale globale. Ciò è mostrato come il numero totale di individui in ogni classe di grandezza dell'ordine di grandezza sulla piattaforma epipelagica e continentale dell'oceano (superiore a ~ 200 m), dando un esponente di -1,04 (IC 95%: da -1,05 a -1,02). La fascia grigia di confidenza include l'incertezza della biomassa in ciascuna classe dimensionale e l'incertezza nella distribuzione dimensionale di ciascun gruppo. Si noti che gli assi nel grafico sono logaritmici. Come mostra l'equazione nell'angolo in alto a destra, le due grandezze sono legate da una legge che è quasi di proporzionalità inversa. (da Hatton, Heneghan, Bar-On, Galbraith. The global ocean size spectrum from bacteria to whales. Sci Adv. 2021 Nov 12).

Da quando è stato proposto per la prima volta nel 1972, questo modello era stato testato solo all'interno di gruppi limitati di specie in ambienti acquatici, su scale relativamente piccole. Dal plancton marino, ai pesci in acqua dolce, lo schema è rimasto valido: la biomassa delle specie più grandi e meno abbondanti era più o meno equivalente alla biomassa delle specie più piccole ma più abbondanti. 

Ora, l'ecologo Ian Hatton del Max Planck Institute e colleghi hanno cercato di vedere se questa legge riflette anche ciò che sta accadendo su scala globale. Una delle maggiori sfide nel confrontare gli organismi che vanno dai batteri alle balene sono le enormi differenze di scala. I ricercatori hanno stimato gli organismi all'estremità piccola della scala da più di 200.000 campioni d'acqua raccolti a livello globale, ma una vita marina più ampia richiedeva metodi completamente diversi. 

Utilizzando i dati storici, il gruppo ha confermato che lo spettro di Sheldon si adatta a questa relazione a livello globale per le condizioni oceaniche preindustriali (prima del 1850). In 12 gruppi di vita marina, inclusi batteri, alghe, zooplancton, pesci e mammiferi, oltre 33.000 punti della griglia dell'oceano globale, si sono verificate quantità approssimativamente uguali di biomassa in ciascuna categoria di dimensioni dell'organismo. Si è scoperto che ogni classe di dimensioni dell'ordine di grandezza contiene circa 1 gigatonnellata di biomassa a livello globale. 

Hatton e la sua squadra hanno discusso le possibili spiegazioni per questo fatto, comprese le limitazioni imposte da fattori come le interazioni predatore-preda, il metabolismo, i tassi di crescita, la riproduzione e la mortalità. Molti di questi fattori si adattano anche alle dimensioni di un organismo. Ma a questo punto sono tutte speculazioni. Ciò che stupisce è la costanza della regola: perché il rapporto tra numero e dimensioni è questo e non un altro? 

Vi erano tuttavia due eccezioni alla regola, ad entrambi gli estremi della scala dimensionale esaminata. I batteri erano più abbondanti di quanto previsto dalla legge e le balene molto meno. Ancora una volta, il perché è un mistero completo. 

I ricercatori hanno quindi confrontato questi risultati con la stessa analisi applicata ai campioni e ai dati attuali. Sebbene la legge di potenza fosse per lo più ancora verificata, c'era una netta interruzione nello schema, evidente con organismi più grandi. 

"L’impatto umano sembra aver tagliato in modo significativo il terzo superiore dello spettro", ha scritto il gruppo nell’articolo. "Gli esseri umani non hanno semplicemente sostituito i principali predatori dell'oceano, ma hanno invece, attraverso l'impatto cumulativo degli ultimi due secoli, alterato radicalmente il flusso di energia attraverso l'ecosistema"


Sebbene i pesci rappresentino meno del 3% del consumo annuale di cibo umano, il gruppo ha scoperto che abbiamo ridotto la biomassa di pesci e mammiferi marini del 60% dal 1800. È anche peggio per gli animali più grandi della Terra: la caccia storica ha determinato una riduzione del 90% delle balene.

Questo fatto mette davvero in evidenza l'inefficienza della pesca industriale. Le nostre attuali strategie stanno sprecando molta più biomassa, e l'energia che contiene, di quanta ne consumiamo effettivamente. Inoltre, non abbiamo sostituito il ruolo che una volta svolgeva la biomassa, nonostante ora siamo una delle più grandi specie di vertebrati per biomassa. 

Circa 2,7 gigatonnellate sono state perse dai più grandi gruppi di specie negli oceani, mentre gli esseri umani costituiscono circa 0,4 gigatonnellate. Sono necessari ulteriori ricerche per capire come questa massiccia perdita di biomassa influenzi gli oceani. 

In particolare, la riduzione di grandi animali sembra guidare l'evoluzione di pesci più piccoli o di quelli che diventano sessualmente maturi in giovane età, o entrambi. Molte popolazioni di pesci stanno cambiando drasticamente, con una dimensione media che si riduce del 20% e vite medie più brevi del 25%. Le specie raccolte mostrano i cambiamenti di tratto più bruschi mai osservati nelle popolazioni selvatiche, hanno riferito di recente Michael Kinnison dell'Università del Maine e colleghi. 

Tali cambiamenti sono stati documentati in molti luoghi, tra cui: sardine al largo dell'Africa occidentale; platessa americana al largo di Terranova; salmone atlantico in Canada e Regno Unito; aringhe e temoli al largo della Norvegia; salmone keta in Giappone; sogliola, eglefino e passera di mare nel Mare del Nord; coregone in Alberta; salmone rosso in Alaska; varie specie di salmone nella Columbia Britannica; crostacei in California e merluzzo un po' ovunque. Inoltre, questo lungo elenco include solo i casi in cui sono stati condotti studi rigorosi. È probabile che tali cambiamenti si stiano verificando in ogni popolazione in cui sono presi di mira i pesci di grandi dimensioni. 

Quindi questi cambiamenti sono davvero il risultato dell'evoluzione, o semplicemente una risposta temporanea alle pressioni ambientali? "È molto probabilmente un misto dei due", afferma Kinnison. "L'evoluzione è una componente sostanziale." 

In molti casi, ad esempio, i ricercatori hanno dimostrato che una volta che i pesci raggiungono una certa taglia ed età, è più probabile che diventino prima sessualmente maturi rispetto alle generazioni precedenti. Ciò esclude la maggior parte delle spiegazioni ambientali, come il fatto che i pesci maturano in età precoce perché trovano più cibo e crescono più velocemente. 

Non vi è inoltre alcun dubbio sulla plausibilità di un'evoluzione così rapida. Uno studio decennale sui latterini orientali tenuti in vasche ha dimostrato che un'intensa azione mirata su individui di grandi dimensioni può dimezzare la taglia media in sole quattro generazioni. 

In realtà il tracciamento dei cambiamenti genetici coinvolti non era fattibile fino a poco tempo fa, ma ora è stato fatto per il merluzzo bianco al largo dell'Islanda. I merluzzi con una variante del gene Pan I vivono in acque costiere poco profonde, mentre quelli con un'altra variante vivono in acque più profonde più al largo. Poiché i pescherecci prendono di mira il merluzzo nelle acque costiere poco profonde, la variante poco profonda sta rapidamente diventando meno comune. 

Alcune delle misure di gestione stanno peggiorando le cose. Il merluzzo che vive in profondità si sposta nelle zone costiere poco profonde per deporre le uova, ma queste aree sono chiuse alla pesca durante la deposizione delle uova; quindi, i pesci che vivono in profondità sopportano sempre il peso maggiore della pesca. Nella peggiore delle ipotesi, i pesci poco profondi potrebbero scomparire in 15 anni. Ciò potrebbe portare al collasso della pesca, perché il merluzzo che vive in profondità è molto più difficile, e quindi più costoso, da catturare. 

Esistono altri motivi di preoccupazione, oltre a quello della pesca indiscriminata delle specie più grandi.

La plastica, ad esempio, che galleggia nell'acqua di mare assomiglia molto al cibo per gli uccelli marini (non considerati dalla carta) e per alcune specie di pesci e mammiferi. Le microplastiche hanno effetti ancor più subdoli e deleteri sulle reti alimentari. 

Un altro impatto degli esseri umani sullo spettro di Sheldon è molto meno chiaro, ma il cambiamento climatico antropogenico sta alterando sia la temperatura dell'acqua che la chimica dell'acqua degli oceani. La maggior parte dei microrganismi si è evoluta per un intervallo di temperatura abbastanza ristretto; alterare la temperatura dell'acqua può avere un impatto su di loro. E la CO2 atmosferica disciolta acidifica l'oceano; con troppa acidificazione, gli organismi dipendenti dalla generazione di carbonato di calcio per gli esoscheletri – molti organismi planctonici e la maggior parte dei molluschi – non possono sopravvivere. Quale sarà l'impatto della scomparsa delle creature marine con esoscheletri?

Qual è l'effetto della distruzione dello spettro di Sheldon? Nessuno lo sa, ma sicuramente non è una buona cosa.

venerdì 18 marzo 2022

Il trifoglio bianco e il cambiamento evolutivo globale indotto dall’uomo

 


Prove crescenti suggeriscono che gli esseri umani sono oggi una delle principali forze che influenzano l'evoluzione sulla Terra. Dall'allevamento selettivo alle modifiche ambientali, dalla pesca delle specie più grandi alla distruzione della variabilità genetica, stiamo alterando così tanto il nostro mondo che ora non stiamo solo cambiando il clima, ma la direzione della vita stessa. 

L'urbanizzazione è un motore di cambiamento sia ambientale che evolutivo. I paesi e le città si stanno espandendo rapidamente in tutto il mondo per accogliere la crescita della popolazione umana. Queste aree urbane rappresentano nuovi ecosistemi, in cui lo sviluppo urbano altera molteplici fattori ambientali. Ricerche recenti mostrano che il cambiamento ambientale urbano può influenzare quattro processi evolutivi: mutazione, deriva genetica, flusso genico e adattamento dovuto alla selezione naturale. Nonostante i numerosi esempi di come l'urbanizzazione influenzi la deriva genetica e il flusso genico, gli effetti dell'urbanizzazione sull'evoluzione adattiva hanno ricevuto meno attenzione. L'adattamento agli ambienti urbani può influire sulla conservazione delle specie, sulla diffusione di parassiti e malattie e sui feedback eco-evolutivi, oltre che sulla pianificazione urbana e sulla società umana. Tuttavia, i pochi esempi di adattamento agli ambienti urbani si concentrano solo su una o su un piccolo numero di città in una singola regione. Non è quindi chiaro se le popolazioni possano adattarsi agli habitat urbani in modi simili nelle città di tutto il mondo, spingendo l'evoluzione nella stessa direzione. 

Ora, in un vasto progetto internazionale a guida canadese, che ha coinvolto 287 scienziati in 160 città in 26 paesi, i ricercatori hanno esaminato come l'urbanizzazione abbia influenzato l'evoluzione su scala globale. Il modello usato è il trifoglio bianco (Trifolium repens), una pianta originaria dell'Europa e dell'Asia occidentale, ma che si trova nelle città di tutto il mondo. 

Raccogliendo più di 110.000 campioni lungo direttrici che si estendevano dalle città, attraverso i sobborghi e la campagna, gli studiosi hanno scoperto che il trifoglio nelle città di emisferi diversi è ora più simile rispetto a quello che si trova nei terreni agricoli o nelle foreste vicini a una data città, indipendentemente dal clima. 

Città campionate per il cambiamento ambientale ed evolutivo urbano. I punti blu indicano le città con cline positivi per la produzione di acido cianidrico lungo gradienti urbano-rurali (HCN urbano < HCN rurale). I punti rossi mostrano cline negativi (HCN urbano > HCN rurale). I punti grigi indicano le città senza un cline. Le piante delle 26 città segnate in nero sono state sottoposte a sequenziamento dell'intero genoma.


Città campionate per il cambiamento ambientale ed evolutivo urbano. I punti blu indicano le città con cline positivi per la produzione di acido cianidrico lungo gradienti urbano-rurali (HCN urbano < HCN rurale). I punti rossi mostrano cline negativi (HCN urbano > HCN rurale). I punti grigi indicano le città senza un cline. Le piante delle 26 città segnate in nero sono state sottoposte a sequenziamento dell'intero genoma.


Questo è un esempio di evoluzione adattativa parallela, quando popolazioni separate sono modellate dalla stessa pressione selettiva per tratti specifici in luoghi diversi. Ciò dimostra che i modi in cui gli esseri umani hanno cambiato l'ambiente stanno avendo un'influenza maggiore nel plasmare questi tratti rispetto a fenomeni naturali come la genetica della popolazione locale e il clima. Uno degli autori dello studio, l'ecologo James Santangelo dell’Università Mississauga di Toronto, sostiene che ciò accade, spesso in modi simili, su scala globale: affinché l'urbanizzazione guidi l'evoluzione parallela, le aree urbane devono sviluppare caratteristiche ambientali che influiscono sull’adattamento di un organismo, hanno spiegato i ricercatori nel loro articolo pubblicato su Science il 17 marzo scorso. 

Santangelo e collaboratori hanno raccolto dati sulle popolazioni di trifoglio bianco per testare risposte coerenti agli ambienti urbani. Il team internazionale ha identificato che una delle caratteristiche che cambiano lungo le linee urbane e rurali è la produzione da parte della pianta di acido cianidrico (HCN), una difesa chimica antierbivora controllata da due geni . Il trifoglio bianco usa questa sostanza sia come meccanismo di difesa contro gli erbivori sia per resistere alla siccità. Le piante nelle popolazioni rurali più lontane avevano il 44% in più di probabilità di produrre acido cianidrico rispetto a quelle nel centro delle città. Sembra che il pascolo stia favorendo la produzione di più acido cianidrico nelle aree rurali rispetto alle città, dove la pressione degli erbivori non è così forte; in assenza di questa pressione, la siccità diventa il fattore trainante. 


Cambiamento ambientale ed evolutivo urbano nelle città. 

(A) Analisi delle componenti principali (PC1 e PC2) che mostrano le differenze ambientali tra gli habitat urbani (punti arancioni) e rurali (punti verdi); gli ovali rappresentano l'intervallo di confidenza (CI) del 95%. Le linee collegano gli habitat urbani e rurali della stessa città. 

(B) Gli autovettori per variabili ambientali, colorati in base al loro contributo a PC2. Le variabili ambientali includevano vegetazione invernale (NDV Iwinter) ed estiva (NDV Isummer), accumulo di neve (NDSI), temperatura superficiale invernale (LST winter) ed estiva (LST summer), indice di aridità (AI), potenziale evapotraspirazione (PET), superficie impermeabile (GMIS) ed elevazione (DEM). 

(C) Istogramma delle pendenze da regressioni binomiali del rapporto tra produzione di HCN all'interno delle popolazioni e distanza dal centro cittadino. La distanza è stata standardizzata in modo da variare tra 0 (centro urbano) e 1 (popolazione rurale più lontana) in ciascuna città, in modo che le città di dimensioni diverse fossero confrontate sulla stessa scala. La linea verticale tratteggiata corrisponde alla pendenza media tra le città e la sovrapposizione tra le barre che mostrano le città con cline significativi (blu e rosso) e non significativi (grigio) è mostrata con colori tenui. 

(D) Il rapporto tra la produzione di HCN all'interno delle popolazioni e la distanza per ciascuna città; i colori corrispondono a quelli in (C). La linea nera mostra l'effetto principale positivo della distanza tra le città (P < 0,001). 


Il sequenziamento di 2074 genomi di 26 città ha rivelato che l'evoluzione dei cline urbano-rurali era meglio spiegata dall'evoluzione adattiva, ma il grado di adattamento parallelo variava tra le città. Questi risultati dimostrano che l'urbanizzazione porta all'adattamento su scala globale. Ciò è avvenuto nonostante il forte flusso genico tra le popolazioni di trifoglio bianco lungo ogni gradiente, il che significa che i livelli di acido cianidrico vengono fortemente selezionati, più e più volte. 

lunedì 14 marzo 2022

La travagliata storia della parola “scienziato”

 


La parola “scienziato”, che usiamo correntemente come se fosse sempre esistita, ha in realtà una storia relativamente recente e contrastata. Anche se si trova (assai raramente) in italiano sin dai tempi del Boccaccio come sinonimo di esperto (“Noi, e gli altri uomini idioti, e non letterati, siamo a comparazione di lui, e degli altri uomini scienziati peggio, che uomini morti”, nel Decameron, nov. 59.6), essa, nel suo significato attuale (“Chi ha acquisito profonda conoscenza di una o più scienze, attraverso studî intensi e costanti, e con serietà di metodo e d’indagine” secondo la Treccani) fu infatti coniata nel 1833 dal mineralogista, filosofo e storico della scienza William Whewell (1794-1866), che in seguito fu rettore del Trinity College a Cambridge e mentore di Darwin e Faraday. 

Whewell presentò il termine durante il terzo incontro annuale della British Association for the Advancement of Science “in risposta alla forte obiezione di Samuel Taylor Coleridge [il grande poeta romantico] al fatto che gli uomini di scienza usino la parola filosofo per definirsi”. In quel periodo non esisteva una designazione generale per i vari ricercatori e sperimentatori nelle diverse aree che si stavano sviluppando sempre più velocemente dopo i progressi della Rivoluzione Scientifica del secolo precedente: geologi, mineralogisti, botanici, paleontologi, zoologi, chimici, naturalisti, fisiologi, fisici, anatomisti, ecc.: tutti operavano in quel campo onnicomprensivo definito come “filosofia naturale”. “Una curiosa illustrazione di questo fatto - scriveva - si può osservare nel desiderio di qualsiasi nome che possa designare collettivamente gli studiosi del mondo materiale”. Proponeva allora “scientist”, in analogia con “artist”, come la parola che poteva fornire unità linguistica a coloro che investigavano le varie branche delle scienze. 

Subito dopo averlo proposto nella riunione del 1833, Whewell lo mise per iscritto nella recensione anonima che fece del fortunato On the Connection of the Phisical Sciences di Mary Sommerville nel numero di marzo del 1834 del Quarterly Review. Whewell sosteneva che la scienza stava diventando troppo divisa, che i chimici e i matematici e i fisici avevano sempre di meno cose in comune. 

“Siamo informati che questa difficoltà è stata avvertita in modo molto opprimente dai membri della British Association for the Advancement of Science, nei loro incontri (…) Non c'era un termine generico con cui questi gentiluomini potessero descriversi con riferimento alle loro occupazioni. Filosofo era ritenuto un termine troppo esteso e troppo alto, e il signor Coleridge lo aveva giustamente proibito, sia nella sua qualità di filologo sia di metafisico; savans era piuttosto presuntuoso, oltre ad essere francese invece che inglese; qualche ingegnoso gentiluomo propose che, per analogia con artist, potessero dire scientist, e aggiunse che non poteva esserci scrupolo a sentirsi liberi di questa scelta quando abbiamo parole come sciolist, economist e atheist - ma questo non era generalmente appetibile; altri hanno tentato di tradurre il termine con cui si sono descritti i membri di associazioni simili in Germania, ma non è stato facile trovare un equivalente inglese per natur-forscher”. 


Curiosamente, mentre la maggior parte dei ricercatori scientifici in Gran Bretagna continuarono a rifiutare il termine, preferendo “uomo di scienza” in modo parallelo a “uomo di lettere”, una designazione considerata prestigiosa, in America la reazione fu esattamente quella opposta. Dagli anni ‘70 del secolo, “scienziato” aveva soppiantato “uomo di scienza” negli Stati Uniti, dove era riferito specificatamente alla persona dedita alla scienza “pura”, per amore della conoscenza, in opposizione a chi usava la conoscenza scientifica per scopi commerciali. Oltreoceano, “scienziato” divenne così largamente usato che molti osservatori britannici, tra i quali Alfred Russel Wallace, pensavano che la parola fosse stata coniata negli Stati Uniti. 

Questo ci porta alla figura che è, per molti versi, il secondo eroe della storia: Fitzedward Hall (1825-1901), l'orientalista e filologo americano che difese il termine "scienziato" contro i suoi critici inglesi. Hall aveva iniziato la sua vita lavorativa come laureato in Ingegneria Civile. Apparentemente alla ricerca di un fratello perduto, andò in India, dove divenne professore di sanscrito e inglese al college governativo a Benares e ricoprì altri importanti incarichi pubblici. Stabilitosi in Inghilterra nel 1862, fu nominato alla cattedra di sanscrito, hindi e giurisprudenza indiana al Kings College di Londra. Fu anche nominato bibliotecario presso l'India Office. Hall fu un prolifico autore di molti libri e diede un contributo straordinario al progetto dell’Oxford English Dictionary sulla base di una vita passata a raccogliere citazioni che illustrano l'uso di parole, frasi e modi di dire. 

Hall era un appassionato studioso di americanismi e preoccupato per quella che chiamava la "sciattezza" della lingua nella sua terra natale. Tuttavia, era anche critico nei confronti della tendenza di molti inglesi a condannare come americanismo qualsiasi parola o idioma che non piaceva loro. In effetti, Hall passò molti decenni a raccogliere esempi di questo tipo di disprezzo e gli esempi relativi a "scienziato" avevano un posto di rilievo nella sua collezione. Nel 1895 Hall pubblicò privatamente un'opera che attingeva a questo archivio personale. Oltre a esplorare le origini del termine "scienziato", Hall raccolse i vari argomenti a favore e contro di esso e organizzò un dibattito immaginario e divertente tra Huxley e il fantasma di Whewell (Whewell’s Ghost) sull’origine della parola. 


Ancora sessant’anni dopo che Whewell aveva proposto il termine, iniziò in Gran Bretagna un dibattito serrato, iniziato da J. T. Carrington, editore della popolare rivista scientifica Science-Gossip, che trovò per una volta l’antidarwinista Duca d’Argyll e Thomas Huxley, il “mastino di Darwin”, concordi nel rifiutarlo. Carrington aveva notato la diffusione di “scientist”, che, a suo giudizio, “non era soddisfacente" e scrisse a otto eminenti scrittori e scienziati per chiedere se lo ritenevano legittimo. Risposero in sette. Huxley e Argyll facevano parte della maggioranza di cinque contro due che condannavano il termine. "Lo considero con grande avversione", proclamò Argyll. Huxley commentò con spirito che la parola in questione "deve essere piacevole quanto Elettrocuzione”

Naturalmente non si trattava solo di una polemica terminologica, ma il rifiuto o l’accettazione di “scientist” comportava anche il posto che la scienza stessa e i suoi praticanti dovessero avere nella società. 

Il pregiudizio contro “scientist” rimase ancora nel XX secolo inoltrato, come risulta dal nuovo dibattito avviato nel 1924 dal principale giornale scientifico britannico, Nature, con alcuni che rifiutavano la sua adozione sostenendo il giudizio espresso dal naturalista E. Ray Lancaster, secondo il quale “scienziato ha acquisito (forse ingiustamente) il significato di un trucco da ciarlatani”. Non è difficile leggere i residui di paternalismo e pregiudizio classista in questo giudizio, condiviso da un numero di membri della comunità scientifica britannica così significativo da tenere la parola ostracizzata sulla rivista, da quasi tutte le istituzioni scientifiche inglesi e dalla Cambridge University Press. Fu solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che la stessa Nature avrebbe usato “scientist” come “il termine britannico accettato per una persona che faccia ricerca scientifica”.

giovedì 10 marzo 2022

L’evoluzione regolata dalla geometria di Giovanni Schiaparelli

 


Il saggio Forme organiche naturali e forme geometriche pure dell’astronomo Giovanni Schiaparelli (1835-1910) rappresenta un curioso caso isolato nel dibattito di fine Ottocento sulla teoria dell’evoluzione, perché combina il linguaggio della matematica con una eterodossa interpretazione delle idee di Charles Darwin. 

Pubblicato nel 1898 dall’editore Hoepli, questo studio era ospitato all’interno delle Peregrinazioni antropologiche e fisiche, una raccolta di articoli dell’amico antropologo e filosofo Tito Vignoli (1824-1914), all’epoca direttore del Museo Civico di Storia Naturale di Milano. 


Nel 1863 Vignoli aveva pubblicato il Saggio di una dottrina razionale del progresso, in cui inquadrava l’evoluzionismo in una visione di progresso generale dell’universo, proponendo una catena di trasformazioni che si muove sullo sfondo dell'infinitezza cosmica. Vignoli indicava tre cause prime del processo: il moto, l’evoluzione temporale e la vita. Quest'ultima era il modello delineato più chiaramente nel senso che “da una forma organica, unica primitiva, durante tempi incalcolabili, provennero tutte le maravigliose forme che ora abbellano ed avvivano la terra. Fu quella immensa battaglia della vita, che la stessa vita mutò, variò. diffuse, moltiplicò, crebbe, perfezionò”

Il contributo di Schiaparelli, una memoria di una novantina di pagine, comparve in un momento di accesa discussione, che investiva alcuni nodi ancora irrisolti del darwinismo. Se la teoria di Darwin era generalmente accettata, più complessi erano invece i fattori e le leggi che determinano il processo evolutivo, come il ruolo della selezione naturale o del caso. Oscure erano inoltre, prima della riscoperta delle leggi dell’ereditarietà di Gregor Mendel, le modalità tramite cui avviene la trasmissione dei caratteri tra le generazioni. Questi fattori scatenarono la nascita di diverse teorie che, pur innescate dall’evoluzionismo, andavano spesso in direzioni opposte, in alcuni casi contrarie alle tesi Darwin. 

In questo differenziato e talvolta acceso quadro, il contributo di Schiaparelli fu originale, in primo luogo perché egli non era un biologo o un filosofo, ma un autorevole astronomo, direttore dell’Osservatorio milanese di Brera e noto in tutto il mondo per le sue osservazioni su Marte. 

L’idea di Forme organiche naturali e forme geometriche pure nacque nella primavera 1897, durante una conversazione a proposito dell’ordinamento sistematico degli esseri viventi. Vignoli aveva elaborato una teoria ispirata alla sistematica classificatoria, incentrata su un’idea di evoluzione che avviene solo all’interno dei quattro tipi, o forme fondamentali invariabili (vertebrati, articolati, molluschi, radiati), in cui si organizza in maniera necessaria la materia vivente sulla base di determinate forme geometriche di struttura, esattamente "come le sostanze minerali non cristallizzano in più che sette sistemi di figure poliedriche". Nel sistema di Vignoli, la materia, grazie a precise caratteristiche geometriche, è divisa in quattro gruppi strutturali invariabili tra i quali non può esistere alcun passaggio evolutivo. Schiaparelli rimase colpito da queste idee e confidò a Vignoli che anche lui, ormai da molto tempo, stava riflettendo su questi problemi arrivando a "congetturare relazioni fra le strutture organiche e quella Geometria, che tutto informa il Cosmo, così nel grande come nel piccolo". L’astronomo promise all’amico di scrivere alcuni appunti in proposito e gli fece avere qualche nota. 

Vignoli trovò stimolanti le tesi di Schiaparelli, che considerava una conferma importante delle sue riflessioni. Dopo il primo scambio di idee, il filosofo continuò a seguire da vicino le fasi di gestazione della memoria, preoccupandosi anche di prestare a Schiaparelli le opere di Darwin, insistendo perché pubblicasse qualcosa sull’evoluzionismo. Giocò anche un piccolo colpo basso, perché durante una conferenza del 2 maggio 1897 in cui presentò la sua teoria evolutiva, introdusse brevemente anche le idee dell’amico. L’astronomo era ormai vincolato dall’annuncio fatto da Vignoli, riportato anche un noto quotidiano, che il giorno seguente dava come probabile la pubblicazione da parte di Vignoli di "un largo cenno della nota scientifica del suo illustre amico e cooperatore scientifico". Alla fine di maggio a Schiaparelli non restava che comunicare rassegnato a Vignoli: "Fiat voluntas tua"

Schiaparelli il 13 luglio spedì a Vignoli il risultato del suo lavoro. Come comunicato un mese prima, egli aveva preparato due versioni: una breve, in forma di lettera, di quattordici pagine; l’altra, invece, "un piccolo libro di 90 pagine con 20 figure geometriche, che appena ho il coraggio di farle vedere", anche se "in questa ho potuto spiegarmi assai meglio che nell’altra"

La scelta ovviamente cadde sulla versione più estesa. Il 21 luglio, Vignoli comunicava a Schiaparelli la decisione dell’editore, che era ovviamente interessato a pubblicare qualcosa di uno degli autori più prestigiosi e venduti della sua scuderia: all’inizio del 1898 il volume di Vignoli contenente il saggio di Schiaparelli era nelle librerie. 


Schiaparelli basava la sua teoria, da lui chiamata dell'evoluzione regolata o per tipi fissi, su un’inedita lettura geometrica del mondo vivente, una sorta di "platonismo evolutivo" (Schiaparelli stesso scherzò su questa discendenza filosofica). Nonostante il saggio continuasse a ribadire che tra questo evoluzionismo geometrico e la teoria darwiniana esistevano punti di contatto, Schiaparelli in realtà rifiutava alcuni aspetti centrali della teoria di Darwin. L’astronomo dedicava infatti alcuni capitoli a una puntuale comparazione tra la sua ipotesi e quella del naturalista inglese. 

L’argomentazione di Schiaparelli era articolata come in una dimostrazione matematica. L’intero ragionamento si basava su un’analogia logica tra le curve algebriche e gli enti organici: come l’infinita varietà delle forme geometriche pure dipende dalla variazione dei parametri di una stessa forma fondamentale, da lui chiamata anche principio di costruzione, così gli esseri viventi sono variazioni delle proprietà che caratterizzano uno stesso tipo organico. 
“Una forma geometrica dicesi pura quando tutti i suoi punti derivano da una medesima legge, cioè da un medesimo metodo di costruzione. Così la linea retta (in tutta la sua indefinita lunghezza), il circolo, la parabola, la superficie sferica costituiscono altrettante forme pure; perché tutti i loro punti si costruiscono colla medesima regola, e godono delle stesse proprietà. Invece un poligono rettilineo è una forma mista, perché i tratti rettilinei onde è composto, avendo diverse giaciture e direzioni, i punti dell'uno son descritti con norma diversa da quelli dell'altro. Similmente è una forma mista la superficie di un poliedro qualsiasi, di un segmento di sfera, di un tronco di cono, ecc. 

Carattere essenziale e distintivo di tutte le forme pure è questo: che data una parte quanto si voglia piccola, purché finita, di una forma pura, il resto di essa è intieramente determinato. Così, dato un tratto anche brevissimo di linea retta, si potrà facilmente descriverla tutta intiera, e prolungarla indefinitamente da una parte e dall'altra. Similmente da un piccolissimo arco di circolo si può dedurre la costruzione del circolo intero; e da una piccolissima porzione di superficie sferica, la costruzione di tutta la sfera. Lo stesso dicasi dell'ellisse, della parabola, di un ellissoide qualunque. Tanta grande è il vincolo, che unisce in modo stretto ed assoluto tutte le parti dello forme pure, e ne costituisce un tutto omogeneo ed armonico. 

Lo stesso invece non si potrebbe dire, per esempio di un poligono; del quale la parte data ABC non basta a discriminare il resto, che può essere ARC o AMSC o ANVPC ecc.; e neppure d’un poliedro, né in generale d'una forma mista qualsiasi. 

In tutto quello che seguirà noi ci occuperemo delle sole forme pure, essendo queste le sole, per cui l’uniforme modo di generazione e in stretta correlazione fra le parti permetta una comparazione, sotto qualche riguardo plausibile, cogli organismi della natura. Si potrebbe anzi dire in un certo senso, che anch’esse sono creazioni organiche; nel senso cioè che in ciascuna di esse tutte le parti, anche minime, sono coordinate secondo un medesimo principio”. 

Rispetto all’universo matematico delle curve, nella realtà contingente le cose sono complicate dai fattori dell’evoluzione, che nella spiegazione dell’astronomo rivestono più che altro una funzione perturbatrice. Tuttavia, nonostante questo "limite", per Schiaparelli gli enti della natura sono determinati a priori per “necessità logica”, allo stesso modo in cui in una formula matematica sono implicate tutte le infinite possibili combinazioni. Ogni nuova specie è quindi contenuta in potenza nel proprio tipo di appartenenza, manifestandosi di volta in volta a seconda delle circostanze. La natura come la vediamo non sarebbe altro che una combinazione di caratteri potenzialmente illimitata, un insieme dei frammenti sparsi di uno schema più grande, che non si realizza mai tutto in una volta. 
“L'idea principale del presente studio è di esaminare sotto quali rapporti si possa instituire una comparazione fra un sistema di curve aventi origine da una medesima formula (o da un medesimo principio di costruzione) e un sistema qualunque di enti della natura organica, rispondenti a certi caratteri comuni e classificati quindi sotto una medesima divisione sia poi questa designata col nome di genere, di famiglia. di ordine, di classe, di Regno. Qui si presenta subito alla considerazione la grande diversità che esiste fra una curva e un tipo qualsiasi di organismo naturale. Per la curva ogni studio è contenuto in quello delle pura forma geometrica: negli organismi, oltre all’elemento geometrico della forma, è da considerare la costituzione fisica, chimica, chimica o fisiologica delle parti, e il carattere delle funzioni che costituiscono la loro vita, non escluse le funzioni d’ordine psicologico. La curva deriva da un concetto matematico rigoroso e puramente ideale; per gli organismi non esiste, rappresentato da uno. né da più esemplari, un tipo puro e assoluto; gli individui in cui è tradotto in realtà il concetto che li informa, sono soggetti a mille influenze modificatrici e perturbatrici di effetto temporaneo o permanente. La curva, definita una volta nella legge della sua descrizione e nei suoi parametri, è intieramente immutabile: gli organismi durante il tempo della loro esistenza percorrono diversi stadi o seguono una progressiva evoluzione dallo stato embrionale a quello del loro massimo sviluppo, che si suole più spesso considerare come il loro stato normale. Nessuna di queste differenze deve essere negletta nella considerazioni comparative che si tratta di fare. 

(...) In ogni famiglia di curve ogni forma individuale è distinta dalle altre pel valore speciale che assumono in essa certi elementi fondamentali, detti parametri, Ora questo concetto ed altri parecchi da esso dipendenti io credo che si possano trasportare ai sistemi degli esseri organizzati, malgrado la grande diversità che corre fra questi e le curve. Penso adunque, che i tipi organici naturali, benché variabili sotto l'impero di numerose influenze, sono anch’essi determinati nei loro caratteri da un certo numero di elementi fondamentali secondo una legge o formula definita per ciascuna categoria o divisione. L’identità della formula stabilisce, come per le curve, i caratteri comuni della categoria; come nelle curve, i caratteri propri a ciascuna suddivisione dipendono dalla varietà degli elementi fondamentali. A quel modo che le diverse specie curve d'una stessa famiglia sono determinate dalle varie combinazioni che possono prendere i valori dei parametri, così credo, che dalle varie combinazioni degli elementi fondamentali e dalla maggiore o minor parte che ciascuno di essi può avere nella costituzione e nelle funzioni di ciascun organismo speciale, siano determinate le differenze specifiche entro i limiti della stessa categoria”. 
Così, per Schiaparelli, che concentra la sua attenzione sulle coniche, curve del piano i cui parametri sono dettati da equazioni di secondo grado, se si percorre il piano in una direzione qualsiasi, le forme corrispondenti variano in modo continuo, e non per salti. Quella regione del piano a cui corrispondono tutte le forme di una data specie, deve formare un’area continua. Ogni specie (S, S’, S’’, ecc.) ha un campo determinato, in cui si trovano i punti delle forme che le appartengono e da cui sono escluse le forme appartenenti ad altre specie. Le specie delle curve di secondo grado sono due: le ellissi e le iperboli, oltre che le parabole, che sono un caso limite. Se si esaminano tutti i punti del piano che corrispondono ad ellissi, essi si trovano in una certa parte, mentre nella rimanente sono raccolti tutti i punti che corrispondono a iperboli. Sono questi i campi delle ellissi e delle iperboli. Il confine tra queste regioni appartiene alla forma che costituisce il passaggio tra le ellissi e le iperboli, cioè delle parabole, i cui punti non occupano aree del piano, ma soltanto i punti della linea limite. Quindi non si potrà passare dalle ellissi alle iperboli per successive modificazioni se non attraversando la linea limite, passando cioè per la forma della parabola, che è un tipo di transizione. 


Ogni specie di curva, a cui corrispondono i punti di un determinato campo, può assumere infinite forme (o varietà), ma sempre rispettando i parametri (l’equazione generale) di quella determinata curva. Non possiamo assegnare valori arbitrari ai parametri di una ellissi senza evitare che essa si trasformi in un’altra specie di curva. Le curve i cui punti sono collocati sulla linea di confine sono soltanto forme di transizione, che esistono solo in casi particolari [povere parabole! NdR]. In analogia con le curve algebriche, il passaggio da una specie organica all’altra è, secondo Schiaparelli, consentito solo all’interno delle stesso campo di forme, “essendo separata in modo abrupto dalle circonvicine”

Date queste premesse, Schiaparelli si confrontava direttamente con alcuni temi cardine dell’evoluzionismo, quali il ruolo del caso e della selezione naturale, l’emergenza di nuove variazioni, l’atavismo, le forme intermedie della serie evolutiva, l’unità o la molteplicità dei centri di creazione delle specie. Su questi aspetti propose un’alternativa alla teoria darwiniana, la quale, ai suoi occhi, se spiegava bene alcuni aspetti, ne lasciava in ombra altri: si trattava di carenze della teoria evidenziate dallo stesso naturalista inglese e ancora in discussione a quasi venti anni dalla sua morte. A queste difficoltà avrebbe tentato di dare una risposta con la sua evoluzione regolata, attestandosi in realtà su posizioni anti-darwiniane. 

Per Schiaparelli la natura non può essere guidata dal caso, abbandonata a un processo cieco, ma è il risultato delle variazioni dei parametri propri del tipo organico a cui ciascun individuo appartiene (e che ancora non si conoscono). Su questa base. l’astronomo intendeva quindi ipotizzare una direzionalità nelle trasformazioni in natura. Nel suo modello matematico, bastavano poche leggi, in particolare la legge di discontinuità della materia organica, ricavata grazie a un’analogia con il mondo inorganico dei cristalli e degli elementi chimici, e la legge di correlazione, secondo cui, date certe variazioni, ne sono determinate o escluse altre. Queste poche leggi limitavano e guidavano a priori gli effetti dell’evoluzione. 

Come ribadì più volte, anche dopo la pubblicazione, Schiaparelli era consapevole che, rispetto all’universo matematico, il mondo dei viventi è infinitamente più complicato, non da ultimo per il fattore del tempo, completamente assente nella geometria. Di fronte all’immutabilità imperturbabile delle curve, gli organismi appaiono contingenti, mutevoli, complessi dal punto di vista fisico, fisiologico e psicologico, soggetti a continue modificazioni e perturbazioni esterne. Eppure, al di là di queste differenze, la comparazione sul piano logico era per lui possibile: come emergeva chiaramente nel corso del testo, gli organismi per Schiaparelli mutano seguendo precise traiettorie nel tempo e nello spazio, nel contesto di una natura segnata dall’evoluzione discontinua e dalla separazione netta tra classi zoologiche. Per l’astronomo, "in natura il continuo geometrico non esiste", allo stesso modo in cui la materia è un sistema discontinuo. 
“Quale sia l’importanza di questo fatto così semplice per determinare nel mondo fisico divisioni e classificazioni d’ogni genere, è facile vedere. In primo luogo, si trova. che applicando gradi crescenti di calore ad una porzione di materia, si determinano in essa tre stati e non più; il solido, il liquido e l’aeriforme, dall’uno dei quali si passa a all’altro non per gradi continui, ma per salti; gli stadi intermedi essendo di carattere instabile ed accidentale. Ed in secondo luogo avviene che quando in un corpo solido le molecole si dispongono secondo il loro naturale equilibrio, esso non può che cristallizzare che sotto forme geometriche, classificabili in sette sistemi di poliedri assai semplici e capaci di definizione precisa. E queste sono le forme naturali che si |potrebbero chiamare anche organiche, della materia; l'equilibrio nei corpi amorfi essendo sempre il risultato di azioni perturbatrici e non del libero sviluppo delle loro forze interiori. Ed in terzo luogo osserviamo che le varie forme, in cui può cristallizzare una data sostanza, oltre all’appartenere (generalmente parlando) ad un identico sistema, sono collegate tra loro dalla legge di Haüy, secondo la quale i parametri omologhi di queste forme (quantità che determinano l’inclinazione delle facce del cristallo rispetto ai suoi assi principali) stanno fra loro in rapporti esprimibili con una serie di numeri interi. Ma quando invece di uno si considerano due corpi (o due classi di atomi) e facendoli entrare in combinazione chimica, se ne forma un terzo corpo diverso dai due primi; la proporzione in peso delle parti componenti non sarà arbitraria, come in una miscela qualsiasi: ma dovrà farsi secondo uno od un altro di certi determinati rapporti; e questi rapporti (che soli danno luogo ad un organismo chimico propriamente detto) qualunque sia il loro numero anch’essi sono rappresentabili per mezzo di una serie di numeri intieri (legge delle proporzioni definite e delle proporzioni multiple di Dalton)...” 


Tutti questi fatti ed altri analoghi avvengono soltanto ammettendo che la materia non è continua, ma è costituita da atomi discreti. Anche il sistema chimico consente solo un certo numero di diversi tipi di atomi e non altri: sono gli elementi chimici, che, come Mendeleev ha scoperto, si dispongono in un sistema periodico. 

La spiegazione darwiniana in termini di variazioni casuali, selezione naturale, lotta per la sopravvivenza ed ereditarietà sembrava a Schiaparelli troppo arbitraria e accidentale per rendere conto di fenomeni che ai suoi occhi presentavano invece un rigore quasi matematico. Sotto l’effetto di un’evoluzione libera e senza freni (diremmo al di fuori dei parametri necessari) la natura produrrebbe una popolazione di “mostri”. Darwin aveva dato troppo spazio alle circostanze in cui l’organismo vive e si sviluppa, circostanze complesse che l’astronomo paragonava alle "onde nel mare in burrasca", che allontanano la biologia dalla possibilità di ottenere una conoscenza certa dei viventi. Per comprendere il mondo organico, Schiaparelli guardava allora all’universo della matematica, della fisica classica e delle leggi che regolano il mondo della materia, dalla chimica alla cristallografia. L’evoluzione per lui non era assolutamente libera, "ma è legata ad una formula fondamentale; i suoi risultati sono liberi soltanto entro i limiti concessi da una tal formula; il tipo trasformato si adatterà all’ambiente tanto, quanto da quella gli è concesso"

Il saggio non passò inosservato, come mostrano le recensioni apparse all’epoca su riviste scientifiche nazionali e straniere. Alla discussione sulla teoria dell’evoluzione regolata parteciparono biologi, filosofi e matematici, anti-evoluzionisti ed evoluzionisti di diversi orientamenti. Il dibattito tra i diversi attori fece emergere un educato, ma fermo confronto tra l’impostazione matematico-morfologica di Schiaparelli e quella fisico-biologica dei naturalisti, per lo più dubbiosi riguardo la legittimità di applicare la matematica alla conoscenza della complessità del vivente. Se lo psichiatra Enrico Morselli, pur esprimendo un certo interesse, diceva di non essere affatto convinto che la semplicità della geometria possa davvero cogliere la complessità della sfera organica, il filosofo pragmatista, matematico e storico della scienza Giovanni Vailati. non nascondeva le sue perplessità e non di meno recensì il saggio come un lavoro "denso di preziose suggestioni e di geniali vedute", che aveva il merito di dare un rinnovato impulso alla ricerca evoluzionistica in un momento di difficoltà come quello della fine del secolo. 

Tra coloro che criticarono apertamente la teoria di Schiaparelli, associata a quella di Vignoli, ci fu in particolare il filosofo Erminio Troilo, all’epoca seguace del positivista Roberto Ardigò. Troilo contestò la visione discontinua del processo evolutivo che emerge dal saggio. La questione assumeva "un carattere filosofico universale", che si risolveva nella considerazione che "la legge di discontinuità non si possa applicare nel campo organico, e tanto meno si possa assumere come legge del cosmo. Come legge universale resta, nell’unità, la continuità universale". Per di più, Troilo considerava del tutto illegittimo il passaggio logico dal piano inorganico a quello dei viventi, operato da Schiaparelli: 
“La considerazione della discretezza degli atomi della materia, dei rapporti delle combinazioni chimiche, dei sette tipi di cristallizzazione ecc., non può estendersi alla considerazione del campo dei viventi. Le relazioni che corrono tra il sistema esagonale e il monoclino sono tutt’altro che quelle che corrono per esempio tra il tipo vertebrato e l’invertebrato: e mentre a nessuno viene in mente di dire che la forma cristallografica esagonale è una evoluzione genetica della forma monoclina, la scienza pone invece per i viventi chiaro il problema che il vertebrato si svolga dall’invertebrato”.
Tra i biologi la principale voce critica fu quella dello zoologo dell’Università di Bologna Carlo Emery, autore di uno dei più fortunati manuali di zoologia del tempo. Secondo Emery, la teoria di Vignoli era "una pura astrazione della mente che da una somma di osservazioni concrete ricava un disegno generale, non sempre rispondente al vero". Quanto a Schiaparelli, faceva notare che: 
(...) attribuire a ciascun organismo la sua equazione specifica, alle cui variazioni corrispondano modificazioni dell’organismo stesso, è un pensiero che, nella sua arditezza mi piace: esso tende a creare nuovi simboli, sui quali la mente possa lavorare con ragionamenti astratti, che dovrebbero poi, per non rimanere vana speculazione, essere ricondotti a concetti concreti, quindi suscettibili di controllo empirico”. 
Nel confronto si fecero sentire anche le voci contrarie alla teoria dell’evoluzione. Il filosofo cattolico Lucio Gabelli nel 1900 sosteneva che la "genesi matematica della specie" non mancava certo di seduzione, ma l’errore di Schiaparelli era piuttosto quello dell’evoluzionismo: se le forme geometriche sono tenute insieme da una formula generale e non da un nesso genetico, perché questo non può valere anche per gli esseri viventi? Perché non ammettere che "alla formula unica, all’ordine" non può che conseguire "l’esistenza di un ente ordinatore, che nel caso nostro è Dio creatore?" 

Gli anni del dibattito intorno alle idee di Schiaparelli furono segnati da un vivace interesse intorno alla possibilità di applicare la matematica alla biologia, all’economia e alle scienze sociali. In particolare, fu il matematico e filosofo Vito Volterra, pioniere della biomatematica. Non a caso, quindi, nel 1901 Volterra si richiamava, nel suo discorso intitolato Sui tentativi di applicazione delle matematiche alle scienze biologiche e sociali, anche all’"ardito tentativo del più illustre astronomo dei nostri giorni, lo Schiaparelli, di costruire un modello geometrico atto allo studio delle forme organiche e della loro evoluzione”, equiparato ai modelli meccanici della fisica di Maxwell e Boltzmann. 


Per Volterra, Schiaparelli aveva fatto bene a pubblicare Forme organiche naturali e forme geometriche pure perché un matematico ha il dovere di aiutare le discipline più giovani, in particolare le scienze biologiche e sociali, avendo a disposizione un metodo certo e prezioso che può dissolvere le dense nebbie in cui sono ancora avvolti alcuni problemi. La matematica, utile per ottenere leggi generali e immaginare nuove ipotesi di lavoro, appariva allora come "la chiave che può aprire il varco a molti oscuri misteri dell’Universo, ed un mezzo per riassumere in pochi simboli una sintesi che abbraccia e collega vasti e disparati risultati di scienze diverse". Per muoversi in territori ancora inesplorati, era utile avere dei modelli, come quello di Schiaparelli, che "più che risolvere, apre ed aggiunge una nuova e particolare questione alle tante che già tengono il campo della biologia”

La ricezione del saggio si propagò anche nel nuovo secolo. Il lavoro di Schiaparelli attirò l’attenzione di Agostino Gemelli, il quale nel 1906 nell’introduzione all’edizione italiana del volume del gesuita tedesco Erich Wasmann La biologia moderna e la teoria dell’evoluzione, si richiamava proprio alla teoria di Schiaparelli, indicandola come una via intermedia tra l’ipotesi evoluzionistica e l’invariabilità delle specie. L’interesse da parte di Gemelli rispecchia l’attenzione crescente dei cattolici per una versione più "mite" dell’evoluzione, ripensata (faute de mieux) in senso deterministico e teleologico. 

Il saggio di Schiaparelli fece discutere non solo a cavallo del secolo, ma anche sul lungo periodo, alimentando una tradizione di studi che in Italia cercavano di coniugare biologia e scienze esatte. Nei primi decenni del Novecento, due figure di spicco della zoologia italiana si ispirarono infatti a Schiaparelli in alcuni loro lavori: la zoologa Rina Monti, una delle prime donne in Italia ad avere una cattedra universitaria, e il biologo Daniele Rosa, padre della teoria finalistica dell’ologenesi, secondo cui l’evoluzione degli organismi sarebbe avvenuta per processi interni e preordinati, a partire dagli organismi più semplici. 

Nel 1915 la Monti vedeva nella teoria dell’evoluzione regolata un’affascinante spiegazione fisico-matematica, logica e necessaria, di alcuni nodi problematici dell’evoluzionismo, come la mancanza delle forme intermedie o l’origine delle specie da uno o più antenati comuni. Le idee di Schiaparelli furono riprese e arricchite dal punto di vista biologico da Daniele Rosa, il quale nell’introduzione a Ologenesi del 1918, per avvalorare la sua teoria si richiamava proprio all’opera dell’astronomo. Schiaparelli era già stato chiamato in causa nel 1913 nel discorso intitolato L’Arca di Noè e l’evoluzione, pronunciato da Rosa a Firenze. In questa occasione, per spiegare il concetto di evoluzione predeterminata proprio dell’ologenesi, Rosa utilizzò le parole di Schiaparelli, paragonando le specie presenti in potenza nel primo organismo esistito sulla Terra alle infinite proprietà geometriche contenute a priori in una formula matematica. 

Ad affascinare zoologi come Monti e Rosa era la possibilità di applicare "nuovi metodi fisici allo studio dei fenomeni della vita", cercando anche per il mondo dei viventi leggi certe e necessarie, come quelle della gravitazione universale, della termodinamica o della cristallografia, senza rinunciare all’osservazione diretta o all’esperimento. Ai loro occhi, l’ipotesi di Schiaparelli offriva un modello di scientificità fisico-matematica, una chiave per leggere il mondo dei viventi. 

Nella vasta letteratura evoluzionistica del tempo, Schiaparelli cercava esempi e conferme a sostegno della direzionalità e discontinuità del processo evolutivo. L’astronomo rifiutava il caso e la cieca selezione, da cui, a suo parere, non può nascere alcun ordine, abbracciando l’idea di una "meccanica teleologica", intesa come "un principio da cui tutti gli organismi si possano dedurre per catena di causa ed effetto"

Lo faceva ammettendo la sua ignoranza in biologia, con l’atteggiamento di chi vuol dare una mano da fuori, scrivendo di non sapere valutare neppure lui la portata della propria teoria e di sentirsi "nella curiosa posizione di uno, il quale avendo raccolto nella polvere della strada qualche cosa di luccicante, non sa troppo giudicare quanto valga, ed è obbligato a darlo in mano ai gioiellieri per sapere se è vetro vile, o pietra di qualche pregio".