sabato 31 marzo 2018

Il poliedro di Meglepett Egér

Il capitolo XXXIX de La vita: istruzioni per l’uso di Georges Perec (1978, in Italia Rizzoli, 1984) è dedicato alla descrizione dell’appartamento del vecchio critico d’arte e bibliovoro Léon Marcia. Tra le pubblicazioni in varie lingue che vi si trovano, una rivista jugoslava (“Arte”) riporta in copertina l’illustrazione di un’opera dello scultore ungherese Megeplett Egér:
“Sulla copertina di Umetnost, che nasconde quasi del tutto quella del Barlington, è fotografata un’opera dello scultore ungherese Megeplett Eger: placche di metallo rettangolari fissate una all’altra in modo da formare un solido con undici facce”.
Invano il lettore cercherebbe notizie di questo artista, che è completamente inventato. In ungherese, l’aggettivo meglepett significa “sorpreso”, o “stupito” e il sostantivo egér significa “sorcio”. Un “topo sorpreso”, dunque, che in francese dà origine all’allitterazione tutta perecchiana souris surprise. Invano si cercherebbe anche una riproduzione della scultura, perché, semplicemente, un solido del genere non può esistere.

Sappiamo che il capolavoro di Perec si basa su una complessa geometria di contraintes, cioè di costrizioni auto-imposte (contrassegno e precetto della letteratura potenziale degli oulipiani) che in qualche modo “guidano” la scrittura. Ognuno dei 99 capitoli dell’opera dello scrittore francese rispetta un catalogo di ben 42 di questi vincoli, che riguardano colori, forme, quadri, stili dei mobili, figure, materiali, ecc., che devono comparire più o meno esplicitamente. In ciascuna di queste liste figurano almeno due oggetti geometrici, una “superficie” (triangolo, rettangolo, ecc.) e un “volume” (piramide, cono, cubo, ecc.).

Nel capitolo di cui ci occupiamo, ad esempio, dovevano comparire, tra le altre cose, un poliedro e un rettangolo. Anzi, 11 rettangoli, secondo un’ossessione per questo numero che si riscontra in molte opere di Perec. Non sorprende che la lista di contraintes comprendeva in questo caso anche un metallo, un topo e la sensazione dello stupore!

Quanto al solido, esso non può esistere, sulla base di semplici considerazioni geometriche. Si possono accostare tre rettangoli, come nei vertici di un parallelepipedo rettangolo, o di un cubo. In un poliedro i rettangoli si uniscono per forza a gruppi di tre: quattro rettangoli (quattro angoli retti) formerebbero un piano, mentre cinque o più non darebbero niente di convesso

Con 11 rettangoli (aventi ciascuno quattro vertici), riuniti in gruppi di tre, il poliedro avrebbe 44/3 vertici! Un poliedro le cui facce sono dei rettangoli deve avere per forza un numero di facce divisibile per tre.



Il poliedro rappresentato nella figura rappresenta quanto di più vicino si può trovare alla scultura di Meglepett Egér. Esso ha dodici facce, e tutte sono dei quadrilateri. Queste facce, tuttavia, non possono essere tutte dei rettangoli: ci sono quattro vertici nei quali si raggruppano quattro facce, senza che si formi un piano. Dalla formula di Eulero per i poliedri, sappiamo che, in un poliedro convesso, se F, S e V rappresentano i numeri rispettivamente di facce, spigoli e vertici, deve essere:

F + V – S = 2

Il poliedro ha dodici facce, 24 spigoli e 14 vertici. Si possono utilizzare al massimo sei rettangoli (i tre quadrilateri in alto di fronte a noi e, simmetricamente, i tre in basso in fondo). Il solido rappresentato mostra solo undici delle dodici facce del poliedro, di cui sei sono dei rettangoli (due in realtà sono dei quadrati) e sei sono dei rombi, una è un parallelogrammo; la faccia mancante sarà anch'essa un parallelogramma, e apparirà come un buco se si volesse costruire il poliedro.

Questo poliedro può essere costruito invece con dei quadrilateri a forma di rombo. Si tratta allora di un dodecaedro rombico (o rombododecaedro). Si possono impilare dei dodecaedri rombici per riempire lo spazio, così come degli esagoni regolari possono tassellare il piano. Questa struttura geometrica si trova nei cristalli di granato. Non sembra un caso che Perec si fosse informato anche sulla cristallografia, poiché il cristallo di granato compare in La vita: istruzioni per l’uso nel capitolo XCVI, dove si può leggere:
(…) sul comò, un’opera voluminosa rilegata in cuoio bianco, il Grande Dizionario della Cucina, di Alexandre Dumas, e, in una coppa di vetro, dei modelli di cristallografia, pezzi di legno minuziosamente intagliati che riproducono qualche forma oloedrica ed emiedrica dei sistemi cristallini: il prisma retto a base esagonale, il prisma obliquo base romboidale, il cubo spuntato, il cubo ottaedro, il cubo dodecaedro, il dodecaedro romboidale, il prisma esagono-piramidale”.

Il capitolo descrive l’appartamento del dottor Dinteville, il cui bagno è pavimentato proprio da piastrelle esagonali.

mercoledì 21 marzo 2018

e a te x (ex)


Questa poesia è stata condivisa dai sempre degni di lode Rudi Mathematici sulla loro pagina Facebook. Si tratta di un piccolo, grazioso, capolavoro di umorismo poetico-matematico dedicato al numero e, che viene fatto parlare in prima persona, e alla funzione esponenziale. L’originale inglese, scritto da Zoe Griffiths (“a maths communicator who visits schools with Think Maths to give engaging talks and workshops. She likes poetry!”), corredato dai simpatici disegni che ho riprodotto, si trova su una recente pagina della rivista elettronica Chalkdust, dedicata alle curiosità matematiche. Su invito dell’amica matematta Annalisa Santi, ho provato a tradurla in italiano.

e a te x

Sono e,
se non conosci me
io vivo
tra il due e il tre.

Questa è la mia storia.

Sono incompreso,
mi credono un mero 2,71
ma c’è qualcosa di me
che non vede nessuno
e vorrei che fosse inteso.

E il chiamarsi come una lettera
rende le cose un macello!
Gli altri numeri mi burlano anche per quello.

Così dico loro – guardate cosa posso fare,
intendo, sono certo il solo numero
che ha camminato sulla terra
e che si è espresso in rime?

Ma non è così attraente, non è elitario,
si tratta invece d’essere bravi
ad esprimersi in modo frazionario.

Altrimenti dicono che in te c’è qualcosa di sbagliato.
Sei pazzo,
irrazionale.

I numeri naturali possono considerarsi fortunati.
Essi possono facilmente trovare il loro spazio
perché il nostro posto
su quella linea
è definito
dalle nostre cifre
e io non so nulla del mio.

Ma ci fu un tempo
in cui eravamo in tre a non adattarsi.
Anche π non sapeva
esattamente dove stare, o collocarsi,
e poi c’era i.
Lei era in una sua propria dimensione!

Pensai che noi tre
eravamo predestinati,
eravamo tutti parte della stessa identità.

Ma poi crescemmo.

Incominciai a vedere π da un diverso angolo
aveva delle belle gambe,
amavo quel resto del suo corpo che era essenzialmente un rettangolo.

Uscimmo assieme un paio di volte.

Ma poi venne il Pi Day:
tre, quattordici.
Lasciò che la approssimassero!

E lei diventò
una sensazione notturna,
un nome famigliare,
uno di quei volti
che tutti conoscono.

E perduta in quel mondo di approssimazione insensata
di se stessa non mi avrebbe lasciato più di due decimali!

Passò del tempo,
e anche la mia vecchia amica i ed io ci allontanammo,
la spensieratezza della giovinezza
sostituita dalla fermezza
dell’età,
cominciai a vedere ciò che mi avevano detto
e che mi rifiutavo di credere:
i era immaginaria!

Potreste chiedervi che ne penso di t.
Lei è due volte il numero che π per sempre sarà,
ma π t sono simili
e per me tutto ciò era un po’ famigliare:
è solamente troppo π.

Ora basta, torniamo a me solitario.
È stata dura
e dire che non sono un numero negativo.

Ma poi
la incontrai,
x.

Disse “sono x
Chiesi “sei un simbolo di moltiplicazione?”
Ridacchiò, “Lo sento tutte le volte”,
“No, sono x arricciata,”
Disse.

Lei la riccia x, è una sorta di x formosa,
ma non è questo,
non sono uno che dà giudizi
basati su cifre o forme,
lei è diversa,
è divertente.

Ed è vero,
posso sempre far conto su di lei
e ciò mi piace pure.
Con lei è dove ho sempre voluto stare,
voglio che lei sia la mia quantità incognita!

Così le ho scritto una poesia,
e a te x”,
(era meglio di così).

La aprì, con esitazione,
la lesse, con imbarazzo,
ad alta voce,
altri numeri poteva sentirla!
Mai avrei voluto così tanto
davvero
sparire.

e a te x, questa poesia che ho scritto,
questa parte di me che ho dato
era fatta per far sentire proprio bene,
ma si rivelò il contrario.
Era l’inverso del naturale
(logaritmo?)

In realtà quella poesia non è mai esistita.
L’ho solo sognata.
È il ventunesimo secolo:
le ho fatto una videochiamata.

L’ho inviata e in essa ho gridato,
finché l’ha letta, e ha replicato.

Su che cosa ha detto non dirò niente
Ma il poco che si è impresso nella mia mente
È la riga finale, una stringa di x.

La prima era la x formosa,
che è il suo nome,
le altre erano per dire
che voleva vedermi ancora.

E se ti preoccupa che ciò che è in fondo
uno scherzo sui numeri
abbia fatto qualcosa d’imprevisto al tuo cuore,
allora vergogna!
Anche i numeri provano sentimenti.

Così questa storia riguarda me e x
E il numero che mi ha mostrato che posso essere,
sono e, vivo tra il 2 e il 3
non so dove esattamente
Non me ne importa!

Con x, vedo le cose con sguardo diverso,
rido in faccia
alla davvero ridicola coda dei numeri.

Io sono me, io sono e!

domenica 18 marzo 2018

Un sonetto per János Bolyai

L’ungherese János Bolyai (1802 – 1860) fu, con Lobachevskij, Gauss e Riemann, uno degli scopritori della geometria non-euclidea, un’assiomatizzazione diversa dalla classica geometria euclidea, basata sulla contestazione del postulato sulle parallele. Questa scoperta di una visione alternativa dello spazio, logicamente consistente, aprì la strada per l’esplorazione di nuovi mondi geometrici, che avrebbero portato alla nascita di straordinarie interpretazioni di come è fatto l’universo.

Annunciando la scoperta della geometria iperbolica, Bolyai scriveva il 3 novembre 1823 al padre Farkas, anch’egli matematico, e compagno di studi di Gauss, da Temesvár (Timişoara), allora parte dell’Impero Austro-Ungarico:
“Ho raggiunto risultati così straordinari da restare attonito io stesso, e sarebbe un gran peccato che ciò vada perduto. Quando li vedrete, caro padre, anche voi capirete. Ora posso solo dire che ho creato un nuovo, diverso, mondo partendo dal nulla.”.
Quest’ultima frase fu posta in epigrafe al sonetto che il grande poeta ungherese Mihály Babits scrisse sulla rivista Nyugat nel 1911, subito dopo la solenne traslazione delle salme dei due Bolyai.

Ora, il sonetto è scritto in ungherese, lingua quanto mai ostica che non conosco, e ne sono venuto a conoscenza tramite una versione inglese molto infedele, e a un più accessibile adattamento spagnolo, di cui è bene non fidarsi, oltre che alla solitamente inattendibile traduzione diretta di Google Translator. Chi redige queste righe non conosce a livello professionale alcuna di queste lingue, ma in base al titolo dell’opera, alla presentazione in inglese e ai molti vocaboli comprensibili del testo s’è persuaso di potersene proporre come adattatore.

Qui di seguito la versione originale in ungherese di Mihály Babits, seguita dal mio adattamento, frutto, come si è detto, di un lavoro di traduzione di traduzioni degno di Vincenzo Monti, traduttore dei traduttor di Omero.

Semmiből egy új, más világot teremtettem.......
– Bolyai János levele apjához –................

Isten elménket bezárta a térbe.
Szegény elménk e térben rab maradt:
a kapzsi villámölyv, a gondolat,
gyémántkorlátját még csak el sem érte.

Én, boldogolván azt a madarat
ki kalitjából legalább kilátott,
a semmiből alkottam új világot,
mint pókhálóból sző kötélt a rab.

Új törvényekkel, túl a szűk egen,
új végtelent nyitottam én eszemnek;
király gyanánt, túl minden képzeten

kirabolván kincsét a képtelennek
nevetlek, mint Istennel osztozó,
vén Euklides, rab törvényhozó.

Ho creato un universo nuovo, partendo dal niente
(lettera di János Bolyai a suo padre)

Dio ha chiuso nello spazio la nostra mente.
E in tale prigione rimase, ignava.
Falco bramoso, il pensiero beccava
i suoi muri di diamante inutilmente.

Io, felice come un uccello che ingabbiato
vede il sole, recluso che fila tenacemente,
un universo intero dal niente ho creato
con una rete di ragnatele consistente.

Con nuove leggi, oltre lo stretto me
ho aperto un infinito non pensato.
Non fecero di meglio i più grandi re.

Un tesoro impossibile ho trafugato
e con Dio, vecchio Euclide, rido di te,
poiché il tuo carcere ti sei creato.

martedì 13 marzo 2018

Il cervello euclideo (e lo spazio a priori)

Da Euclide ai neuroni. La geometria nel cervello, di Giorgio Vallortigara, (Castelvecchi, 2017) è un libretto di una quarantina di pagine pieno di descrizioni di ipotesi e esperimenti con varie specie di animali per indagare il modo in cui la geometria è rappresentata nel cervello. Si legge in poche ore, e ne vale proprio la pena. Innanzitutto perché l’autore è un’autorità nel campo delle neuroscienze, e si è già occupato di cervello e matematica, e poi perché mette in risalto l’enorme differenza tra le nozioni acquisite dai matematici sulle proprietà degli enti geometrici e quello che si continua a scoprire su come lo spazio sia rappresentato, vissuto, attraverso un complicato sistema di attivazione di centri neuronali.

Nella prima parte, dedicata al comportamento dei viventi che si orientano nell’ambiente, scopriamo che esiste un esprit géometrique che consente agli animali di codificare la geometria dello spazio, un talento innato indipendente da qualsiasi forma di imprinting o di trasmissione culturale. Esso si basa fondamentalmente, a livello ambientale, sulla capacità metrica di valutare la distanza delle superfici e su quella di senso di distinguere tra destra e sinistra. Se invece si considera l’informazione geometrica locale degli oggetti, abbastanza sorprendentemente, diventa importante la capacità di valutare angoli, distanze e lunghezze, mentre la direzione, cioè il senso, è assai meno rilevante.

La seconda parte riferisce della localizzazione nel cervello delle capacità descritte. Fondamentale risulta così l’ippocampo, una regione evolutivamente molto antica del sistema nervoso dei vertebrati. Esso ospita delle place cells (“cellule dei posti”), in grado di fornire indicazioni sulla posizione, e head direction cells (“cellule della direzione della testa”) , che si attivano in base alla direzione della testa (e solo di essa). L’orientamento degli animali nello spazio non dipende tuttavia solo da indicatori esterni. Ci sono meccanismi che consentano un orientamento su base endogena, come la capacità di misurare un percorso in termini di conteggio di distanze e di angoli.

In una regione limitrofa dell’ippocampo, la corteccia entorinale, sono state scoperte le grid cells (“cellule a griglia”), in grado di comporre mappe geometriche attraverso un sistema di coordinate spaziali, e speed cells (“cellule della velocità”), ossia neuroni in grado di valutare la velocità con la quale l’animale si muove nello spazio. A questo elenco si aggiungono le border cells (“cellule dei bordi”), che consentono di valutare la distanza da un bordo o da un confine, indipendentemente dalla direzione della testa.

A questa complessa circuiteria per l’orientamento spaziale che si trova nell’ippocampo e nelle regioni limitrofe si aggiungono alcune regioni del complesso occipitale laterale e dell’area ippocampale dei luoghi, (Ppa) che rispondono rispettivamente agli oggetti ma non alle scene in cui sono inseriti e, in modo complementare, alle scene indipendentemente dagli oggetti che vi si trovano.

Quali conclusioni trae Vallortigara in questo breve ma densissimo testo? Tralascio le valutazioni cliniche, per concentrarmi su quelle che più possono interessare i cultori e i professionisti della geometria. In primo luogo, ma già era noto, il nostro cervello è euclideo, nel senso che rappresenta, abita, una geometria che è quella descritta da Euclide più di due millenni fa. In secondo luogo, e ciò ha un certo interesse filosofico, gli studi empirici suggeriscono “che lo spazio, così come il numero, il tempo, la casualità e la conoscenza degli oggetti fisici e sociali, siano pre-disposti nel nostro cervello e configurino di conseguenza la nostra psiche”.

L’autore ribadisce un concetto che ha più volte ribadito: se Kant fosse vivo oggi sarebbe senza dubbio un neuroscienziato. Nella Critica della ragion pura (1781) il filosofo tedesco scriveva infatti che:
“Lo spazio non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne. […] Pertanto, la rappresentazione dello spazio non può esser nata per esperienza da rapporti del fenomeno esterno; ma l'esperienza esterna è essa stessa possibile, prima di tutto, per la detta rappresentazione. Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne. […] Lo spazio non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale dei rapporti delle cose in generale, ma una intuizione pura. Perché, primieramente, non ci si può rappresentare se non uno spazio unico, e, se si parla di molti spazi distinti, si intende soltanto parti dello stesso spazio unico e universale”.
Questa analisi, che per decenni condizionò la ricerca sul V postulato di Euclide e in qualche maniera rallentò la ricerca sulle geometrie non-euclidee, conserva tuttavia un valore fondamentale se da essa se ne trae la considerazione che la geometria (e la matematica, come suggerirebbero le ricerche sul concetto di numerosità presso gli animali) si basano su capacità evolutivamente sviluppate e ora intrinseche del nostro cervello. Credo che mai si dovrebbe dimenticare questo legame profondo, naturale, ancestrale, tra la disciplina “astratta” per eccellenza e il mondo che siamo e nel quale siamo immersi.