lunedì 26 settembre 2011

L’Aritmetica del Bambino. Uno, Due e Tre!

Il 5 ottobre 1914 la casa editrice Salani di Firenze pubblicava, all’interno di una meritoria collana di libri per l’infanzia, L’Aritmetica del Bambino. Uno, Due e Tre! di Enrichetta Susanna Brés, nome italianizzato della pedagogista francese Henriette Susanne Brés, la collaborazione della quale il lungimirante editore si era assicurato già da due anni con un contratto di 4379,05 franchi insieme a La Storia Sacra del Bambino e La Storia Naturale del Bambino. L’edizione italiana, riccamente illustrata con 585 incisioni in bianco e nero con 4 tavole fuori testo a colori, constava di 64 pagine e riprendeva quella francese, che era stata pubblicata da Hachette nel 1912. La copertina, litografata su cartoncino, era illustrata da un disegno rappresentante una coppia di bambini intenti a giocare con alcuni giochi di società. Data la bellezza del libricino, non ho resistito alla tentazione di procurarmene la copia che ho visto sulla bancarella di un venditore, nell’ormai tradizionale appuntamento mensile con i libri usati e antichi che si svolge a Milano intorno a Piazza Diaz la seconda domenica del mese.

La Brés (1855-1919) fu una figura importante della pedagogia transalpina d’inizio secolo, cui contribuì con alcuni testi teorici e con una serie di pubblicazioni dedicate ai bambini, tutte edite da Hachette, che coprivano un po’ tutto lo scibile umano, dalla grammatica, alla religione, dalle scienze all’aritmetica. Collaborò intensamente con Pauline Kergomard, colei che con perseveranza e intelligenza aveva fatto sì che gli Asili francesi diventassero Scuole materne. Entrambe condividevano l’impostazione educativa derivata da Pestalozzi e, soprattutto, da Froebel, che per molti aspetti anticipò il metodo di Maria Montessori. Così ad esempio scriveva Friedrich Froebel ne L’Educazione dell’uomo (1826):

“Il giocare, il giuoco costituisce il più alto grado dello sviluppo del bambino, dello sviluppo dell'uomo in questo periodo, Poiché è la rappresentazione libera e spontanea dell'interno, la rappresentazione dell'interno per necessità ed esigenza dell'interno stesso. Il giuoco è la manifestazione più pura e spirituale dell'uomo in questo periodo e insieme l'immagine e il modello della complessiva vita umana, dell'intima, segreta vita naturale nell'uomo e in tutte le cose. Esso procura quindi gioia, libertà, contentezza, tranquillità in sé e fuori di sé, pace con il mondo”.

Per la Brés il gioco, la creatività artistica e l’attività fisica erano elementi fondamentali dell’azione pedagogica per i bambini in età prescolare, idee che trovarono applicazione nei suoi libri per l’infanzia, ricchi di giochi, indovinelli, quesiti divertenti, filastrocche e canzoncine di cui veniva persino fornita la partitura.

L’Aritmetica del Bambino si apre con una lunga prefazione rivolta alle mamme, considerate le principali educatrici dei bambini di quattro, cinque o sei anni, e persino di tre, anche in campo aritmetico. Ad esse la Grés dice che le quattro operazioni possono benissimo esser insegnate senza menzionarle, bastando l’osservazione dei disegni e la pratica quotidiana con tutto ciò che circonda il bambino. Importante è la sottolineatura che il primo calcolo da fare è quello mentale, essendo poi più facile passare a quello scritto. Il passaggio dall’operazione di contare alla rappresentazione con le cifre è mediato con le tessere del domino, di più facile comprensione.

Meglio di tante parole (anch’io adotto il metodo dell’autrice!) è comunque lo sfogliare qualche pagina che riproduco con lo scanner, nella convinzione che il lettore saprà cogliere la modernità pedagogica di un libro scritto all’inizio della Grande Guerra, quasi cent’anni fa, assai prima dei noiosissimi sussidiari sui quali si sono formate generazioni di scolari, compreso, ahimè, il sottoscritto.











domenica 25 settembre 2011

Qualche rima sul neutrino



World Record

Neutrino, giovane velocista dell’Atletica Chivasso
batté il record di Fotone al meeting del Gran Sasso.
Ci fu grande sensazione
per l’inaspettata prestazione
e i tecnici dichiararono che era proprio un asso.



Il tunnel

Nel tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso,
giuro sulle corna di Satanasso,
ho visto la Gelmini
a cavallo di neutrini
sfrecciare in corsia di sorpasso.

(di Roberto Pesce)


Clerihew ministeriale

Maria Stella Gelmini
porta buffi occhialini
che in modo narcisistico
celano un vuoto quantistico.

(termine ornamentale
per dir vuoto mentale)


Procedere con metodo

Il record di Neutrino non è stato ancora omologato
perché va ricontrollato, da molti analizzato,
rivoltato dentro e fuori
perché non ci siano errori:
non piace ai titolisti, ma così fa lo scienziato.


Al neurino della ministra
(non si tratta di errore di battitura)

Non c’ho mica scritto in fronte “giocondo”:
non si tratta, Gelmini, di record del mondo:
se il dato è confermato
è tutto rivoluzionato
ma Maxwell ed Einstein mica vanno a fondo.

giovedì 22 settembre 2011

Mani indegne

“Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare.


Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri... Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l'ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere.

Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo”.

Da La democrazia in America di Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville (1805 – 1859).

martedì 20 settembre 2011

Le ricreazioni chimiche di J.J. Griffin

Penso che ogni appassionato di chimica, per studi o per diletto, dovrebbe leggere Zio Tungsteno – Ricordi di un’infanzia chimica di Oliver Sacks (Adelphi, Milano, 2002), nel quale il neurologo e scrittore inglese (chi non ricorda Risvegli, da cui è stato tratto l’omonimo film con Robin Williams e Robert de Niro, oppure L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello?) ripercorre con nostalgia e humour la sua formazione scientifica sin dalla più tenera età, da quando fu attratto prima dai metalli e poi dalla chimica. Una trama sommaria del libro si trova su una pagina di Wikipedia, per cui ve la risparmio. Infatti il libro di cui mi voglio occupare oggi è un altro. Lo lascio però presentare a Sacks, che nel capitolo 7 di Zio Tungsteno, parla del suo incontro con lo “spettacolo” della chimica:

“Il mio primo piacere fu per lo spettacolare – le schiume, le incandescenze, le puzze e gli scoppi, che più o meno esprimono un primo ingresso nella chimica. Una delle mie guide furono le Chemical Recreations di J. J. Griffin, un libro degli anni intorno al 1850 che avevo trovato in un negozio di libri usati. Griffin aveva uno stile semplice, pratico e soprattutto giocoso: la chimica era per lui chiaramente un divertimento, ed egli la rendeva un divertimento per i suoi lettori, lettori che dovevano essere stati spesso, decisi, dei ragazzi come me, perché egli aveva scritto sezioni come “Chimica per le vacanze” – che comprendeva il “Budino di prugne volatile” (“quando si toglie il coperchio.. esso abbandona il piatto e sale verso il soffitto”), “Una fontana di fuoco” (utilizzando il fosforo – “L’operatore deve stare attento a non bruciarsi”) e “Brillante deflagrazione” (anche in questo caso si era avvertiti di “togliere le mani istantaneamente”). Mi divertiva la citazione di una formula speciale (tungstato di sodio) per far diventare incombustibili i vestiti delle signore e le tende – i fuochi erano comuni nell’età vittoriana? – e la usai per rendere ignifugo un mio fazzoletto. Il libro si apriva con “Esperimenti elementari”, esperimenti prima con coloranti vegetali, per vedere i loro cambiamenti di colore con gli acidi e gli alcali. Il colorante vegetale più comune era il tornasole – Griffin diceva che deriva da un lichene. Utilizzai alcune cartine di tornasole che mio padre teneva nel suo laboratorio, e vidi come esse diventavano rosse con acidi differenti e blu con la basica ammoniaca”.

“Griffin suggeriva esperimenti con i candeggianti – io usai la polvere candeggiante di mia madre al posto della soluzione di cloro che suggeriva Griffin e con questa sbiancai cartine al tornasole, succo di cavolo, e un fazzoletto rosso di mio padre. Griffin suggeriva anche di tenere una rosa rossa su dello zolfo incendiato, in modo che il biossido di zolfo prodotto l’avrebbe sbiancata. Immergendola in acqua, miracolosamente, avrebbe ripristinato il suo colore”.

"Da qui Griffin si spostava (e io con lui) verso gli “inchiostri simpatici”, che diventavano visibili solo quando erano riscaldati o trattati in modo speciale. Giocai con alcuni di essi - sali di piombo, che diventavano neri con l’acido solfidrico; sali d’argento, che si annerivano se esposti alla luce; sali di cobalto, che diventavano visibili quando asciugati o riscaldati. Tutto ciò era divertente, come lo era la chimica”.

Ecco come Griffin descriveva l’esperimento della rosa citato da Sacks: Privare una rosa rossa del suo colore e restituirglielo di nuovo – Tenete una rosa rossa sopra la fiamma blu prodotta dallo zolfo incendiato. Potete farlo fissando la rosa in cima a un barattolo di vetro tenuto al contrario. Questa fiamma diffonde un gas che ha la proprietà di privare i vegetali del loro colore. Esso è chiamato gas acido solforoso. Quando esso viene in contatto con la rosa, il colore è così indebolito da renderla o meravigliosamente variegata o interamente bianca. Se poi immergete la rosa in acqua, il suo colore rosso le viene restituito”.

Il libro di John Joseph Griffin fu davvero un long-seller, e la sua importanza per la divulgazione della chimica nel mondo anglosassone fu enorme: la prima edizione uscì nel 1834 e quella in possesso di Sacks bambino (del 1854) era la decima. Il testo fu ristampato fino alla prima guerra mondiale. Il suo autore era nato a Londra nel 1802 e aveva iniziato la carriera come libraio scientifico e fornitore di apparati chimici a Glasgow, in Scozia, assieme al fratello maggiore Richard. Nel 1852 il sodalizio si ruppe e l’attività libraria fu portata avanti dal nipote Charles, mentre John Joseph fondò un’azienda di produzione di strumentazioni per la chimica che ebbe un grande successo commerciale e che dura tuttora. Egli progettò diversi tipi di apparati per il laboratorio, e si attivò per introdurre il metodo scientifico nei processi produttivi e industriali. Griffin tuttavia non abbandonò mai la passione per la divulgazione per la chimica, che era iniziata in giovane età con la traduzione dell’Handbuch der analytischen Chemie (1829) del mineralogista e chimico tedesco Heinrich Rose, e che proseguì per tutta la vita. Dopo le Chemical recreations, pubblicò infatti importanti libri per rendere popolare la disciplina, come, ad esempio, System of Crystallography (1841), The Radical Theory in Chemistry (1858), e Chemical Handicraft (1866 e 1877). Griffin fu anche l’autore di nove articoli che apparvero in diverse riviste scientifiche tra il 1840 ne il 1860. Morì nel 1877.

Le Chemical recreations erano introdotte da una Prefazione in cui l’autore spiegava che il suo manuale era rivolto ai principianti, con particolare attenzione a due categorie di lettori: gli studenti dei corsi propedeutici di chimica e gli insegnanti di chimica. Non si trattava tuttavia di un libro di chimica sistematica e teorica, ma un libro di esperimenti disposti in sequenza e collegati da una spiegazione della disciplina. Esso, data la sua natura introduttiva, tralasciava volutamente i dettagli della chimica organica. Gli esperimenti, secondo Griffin, erano stati scelti perché efficaci e convincenti, oltre ad essere facili ed economici da realizzare. L’autore assicurava di essersi preoccupato anche della loro sicurezza, ma, come si è visto dal commento di Sacks, il concetto all’epoca era assai diverso da quello odierno. Un apparato di centinaia di illustrazioni veniva in soccorso del lettore nella comprensione degli esperimenti.


Nella successiva Introduzione, Griffin affrontava in primo luogo la “Natura della Chimica”, in un paragrafo che merita di essere tradotto integralmente per conoscere quale fosse lo stato dell’arte della disciplina alla metà del XIX secolo (mi riferisco alla nona edizione del testo, del 1847) e come essa, dopo mezzo secolo di straordinario sviluppo dai tempi eroici di Lavoisier, Dalton e Davy avesse ormai assunto i connotati di scienza moderna e dalle vaste applicazioni:

“La Chimica è la scienza che ci rende conosciute le proprietà delle particelle componenti tutti i corpi naturali. Non parlo solo di quelle particelle composte che sono il risultato dell’organizzazione, ma delle particelle fondamentali, indivisibili, o elementari. Essa tratta delle diverse specie di sostanze che esistono in natura, e dell’esatta determinazione delle loro differenze. Essa insegna in che modo le parti componenti dei corpi composti possono essere separate le une dalle altre, o come gli elementi dei composti possono essere combinati assieme. Infine, essa mostra con quali procedimenti i corpuscoli, le particelle solide che costituiscono le sostanze materiali del mondo, possono essere nella maniera più benefica applicate al servizio dell’uomo”.

Ci sono i primi accenni alla teoria atomica e, a scanso di equivoci, bisogna precisare che le “particelle elementari” di cui parla Griffin non sono quelle subatomiche di oggi, ma gli elementi chimici stessi, o almeno gli atomi “chimici” degli sperimentatori, distinti in base al loro peso, cui ancora si opponevano forti resistenze dei teorici e dei fisici. La differenza tra sostanze semplici e sostanze composte è oramai acquisita, anche se ancora non sono ancora ben chiari la natura e il comportamento di tutti i “corpuscoli” che si organizzano a comporre la materia.

Sempre nell’Introduzione, interessante è anche il paragrafo “Motivi per lo studio della chimica”: essa è qualificata per esercitare sia la mente che le mani dei giovani alle consuetudini della laboriosità, della regolarità e dell’ordine. “Essa insegna la dottrina che l’accurata e ampia osservazione è necessaria per l’acquisizione dei fatti; che la scrupolosa ed esatta comparazione è necessaria per la riduzione di questi fatti a enunciazioni generali; che la precisione logica è necessaria per stimare il valore relativo di diversi enunciati problematici sui punti in cui manca un’informazione positiva; che, di conseguenza, il chimico deve studiare per diventare capace di giudicare secondo l’evidenza ragionevole, e in questo modo abituarsi alla formazione di solide opinioni su tutti i soggetti che siano di sua competenza”. La chimica, secondo Griffin, è una scienza a tutti gli effetti, ed è una scienza autonoma, capace oramai di affrancarsi dalla tutela delle discipline al cui interno veniva precedentemente insegnata, come la medicina o la fisica. “C’è, nella disciplina mentale e morale che affronta il suo studio, un forte incentivo per fare della Chimica una branca riconosciuta dell’educazione liberale”.

In un libro di chimica ricreativa, basato soprattutto sulle esperienze pratiche, non poteva mancare anche un paragrafo intitolato “Differenti categorie di esperimenti”, in cui l’autore distingueva tra:
- esperimenti determinativi, fatti per stabilire la composizione di una sostanza, dal punto di vista solo qualitativo oppure anche dal punto di vista quantitativo (esperimenti di ricerca);
- esperimenti dimostrativi, impiegati nella comunicazione del sapere chimico, sia da parte di chi fa una scoperta e la comunica agli altri membri della comunità scientifica, sia da chi insegna la chimica a studenti e appassionati;
- esperimenti produttivi, che hanno per oggetto la produzione di determinate sostanze, come avviene nella farmacopea o nella preparazione di composti utili nella vita quotidiana o nell’industria.


Il primo capitolo, “Elementary Experiments” (quello che tanto ha deliziato Sacks) era scritto appositamente con un linguaggio semplice, “per mostrare come si possono insegnare gli elementi di chimica pratica a grandi fasce di studenti nelle scuole”. Poi, sempre partendo dalle esperienze di laboratorio, di cui era descritta con cura meticolosa la strumentazione, i capitoli successivi introducevano il giovane lettore, o il suo insegnante, alla chimica “spettacolare”, poi all’analisi qualitativa, alle teorie, alle leggi, all’analisi quantitativa e matematica della chimica.

Che in quegli anni un chimico “pratico” come Griffin parlasse senza problemi di “mathematical arrangements of chemistry” dimostra la sua modernità, di fronte a posizioni allora ancora molto influenti come quella del padre del positivismo Auguste Comte che, ancora nel 1830, rifiutava l’idea stessa di unità della materia e condannava ogni ricerca volta a determinarne la struttura, al punto di criticare l’uso del microscopio, arrivando a sostenere che “Ogni tentativo di utilizzare metodi matematici nello studio dei problemi chimici è da considerarsi profondamente irritante e contrario allo spirito della chimica”. Griffin, con lo spirito pragmatico di un buon anglosassone, ignorava di proposito le disquisizioni di filosofi, dottori e sapienti per dedicarsi, con risultati davvero apprezzabili, all’illustrazione degli esperimenti che avrebbero potuto introdurre i giovani al mondo della chimica. Una lezione anche per i giorni nostri, soprattutto per la scuola italiana.

venerdì 16 settembre 2011

Foscoliana



Sarà forse perché della quiete fatale
tu sei l’imago, e all’uom mortale
ricordi lutti vetusti,
timor ci incuti, o Sallusti
e il testicolar maneggio appar normale.


Un dì, se tu non andrai sempre fuggendo
da procura e procura, quel dì tremendo
in cui sarà il processo,
vorrò vederti reo confesso,
il tuo occulto pannolon di timor riempiendo.


Né più mai toccherai le sacre sponde
della poltrona a dir cose immonde,
Minzolini mio, or che luna
gira e con lei fortuna,
servo dei servi che al padron risponde.

martedì 13 settembre 2011

La cimice verde (Nezara viridula L.)


Vive la cimice di glorie antiche,
fissata sopra giacche d’orbace,
gloria del Duce e di Starace,
poi finita in mezzo alle ortiche.

Verde eterottero, fetido insetto,
attratta dai lumen come falena,
brama un ritorno sulla scena,
e già si illude col suo scudetto.

Si crede degna di antichi allori
la ria Nezara, pena dell’orto,
ma il suo trionfo ha il fiato corto:
metto il piretro sui pomodori.

Formiche


Salgon le formiche fin sopra il bidet
per loro è il Falzarego, il Tourmalet;
procedono in fila lunga e ordinata,
senza corda è la loro cordata.

Vanno in cerca di qualche cibaria,
forse un nettare di virtù straordinaria,
se no non farebbero tanta fatica
e quella vita di merda che fa la formica.

venerdì 9 settembre 2011

Una mappa per orientarsi in vent'anni di politica italiana


He had bought a large map representing the sea,
Without the least vestige of land:
And the crew were much pleased when they found it to be
A map they could all understand.

What's the good of Mercator's North Poles and Equators,
Tropics, Zones, and Meridian Lines?"
So the Bellman would cry and the crew would reply
"They are merely conventional signs!

"Other maps are such shapes, with their islands and capes!
But we've got our brave Captain to thank"
(So the crew would protest) "that he's bought us the best—
A perfect and absolute blank!"

This was charming, no doubt but they shortly found out
That the Captain they trusted so well
Had only one notion for crossing the ocean,
And that was to tingle his bell.


"This shows the Bellman's map, which, being blank, is equally useful everywhere, unlike normal maps". - "Ecco la mappa del Capitano, che, essendo vuota, è ugualmente utile dovunque, diversamente dalle altre mappe". (Illustrazione originale di Henry Holiday).


Aveva comprato una grande carta del mare
senza la minima traccia di terra emergente
e la ciurma era felice, potendo constatare
che la mappa era capita da tutta la  gente.

"Dove son i Poli e gli Equatori del buon Mercatore,
i Tropici, i Meridiani e le Zone boreali?"
E la ciurma rispondeva all'urlo del Banditore
"Son solamente simboli convenzionali!"

"Le altre mappe isole e capi han segnato!
Ma ringraziamo il nostro Capitano valente -
la ciurma così diceva - che il meglio ci ha dato:
un perfetto e assoluto bel niente!"

Era davvero bello, ma dovettero constatare
che il Capitano in cui credevano ciecamente
aveva una sola idea per attraversare il mare,
che era suonar la campana continuamente.


Da The Hunting of the Snark di Lewis Carroll, 1876.  L'adattamento italiano è mio, abbiate comprensione. 


giovedì 8 settembre 2011

Shakespeare e la supernova di Tycho


Nella piazzola davanti al castello di Elsinore fa freddo ed è notte fonda. Bernardo arriva a dare il cambio a Francesco nel posto di guardia. Poco più tardi arrivano Orazio, amico fidato di Amleto, e Marcello. Parlano delle strane apparizioni dello spettro del padre di Amleto, il re di Danimarca morto due mesi prima. Ma c’è anche dell’altro:

Horatio
Well, sit we down,
And let us hear Bernardo speak of this.
Bernardo
Last night of all,
When yond same star that's westward from the pole
Had made his course to illume that part of heaven
Where now it burns, Marcellus and myself,
The bell then beating one,--

Orazio
E va bene,
sediamoci e ascoltiamo quel che dice
il nostro buon Bernardo. Allora, parla.
Bernardo
Ecco, la scorsa notte,
quando la stella a occidente del polo
aveva ormai compiuto il suo percorso
in quella parte del cielo ove brilla,
la campana batteva il primo tocco,
Marcello ed io...

Di quale stella parla Bernardo? Secondo tre ricercatori della Texas State University, nell’articolo The stars of Hamlet pubblicato su Sky and Telescope nel novembre del 1998, la scena, scritta dal genio di Stratford intorno al 1600, si riferirebbe alla supernova che comparve nei cieli europei nel 1572, la quale potrebbe aver colpito l’immaginazione di Shakespeare bambino (aveva allora otto anni) al punto da ricordarla nella prima scena del primo atto dell’Amleto.

Bernardo parla di una stella luminosa indicando la sua posizione nel cielo in una fredda notte. I fisici Don Olson e Russell Doescher e l’anglista Marilynn Olson, utilizzando i riferimenti climatici e astronomici della sua descrizione, ritengono che la scena iniziale del più noto capolavoro di Shakespeare possa esser stata ambientata nel mese di novembre. In quella porzione del cielo ("westward from the pole") si trova la costellazione di Cassiopea, le cui stelle non posseggono una brillantezza tale da attirare particolare attenzione. Una “stella” degna di nota, una delle sole otto supernovae visibili ad occhio nudo di cui si ha testimonianza storica, tuttavia brillò per sedici mesi dalle parti di Cassiopea: quella che fu visibile nel 1572-73 proprio a partire dai primi giorni di novembre, il che corrisponde esattamente con il racconto del personaggio della tragedia.

La “stella” fu osservata e studiata dai più eminenti astronomi del tempo. Per il danese Tycho Brahe, allora ventiseienne, la comparsa dell’astro segnò il suo futuro come astronomo. Non a caso i moderni astronomi si riferiscono alla supernova del 1572 (N1572, o B Cassiopeiae) come “la supernova di Tycho”, proprio perché egli fece studi dettagliati sulle caratteristiche di quel nuovo oggetto celeste. Secondo quanto riferisce lo stesso Tycho Brahe nella Astronomiae instauratae progymnasmata (1610), egli osservò il fenomeno nella sera dell’11 novembre: “Improvvisamente e inaspettatamente vidi presso lo zenit una stella insolita con una luce brillantissima”. La nuova stella aveva una luminosità come quella di Venere e poteva essere notata ad occhio nudo anche nel cielo diurno. Tycho notò che il nuovo corpo celeste non possedeva parallasse diurna rispetto alle stelle fisse. Ciò dimostrava che si trovava molto al di là della Luna e degli altri pianeti che mostrano tale parallasse, in aperta contraddizione con coloro che affermavano, sulla scorta delle tesi di Aristotele, che il cielo oltre la Luna fosse immutabile. Egli notò anche che l’oggetto non cambiava la sua posizione relativa rispetto alle stelle fisse in tutti i diversi mesi di osservazione che gli dedicò, contrariamente a ciò che facevano i pianeti nei loro periodici movimenti orbitali, anche quelli esterni che non possedevano una parallasse diurna apprezzabile. Ciò gli suggerì l’idea che l’oggetto non fosse un pianeta, ma una nuova stella posta al di là di tutti i pianeti. Pubblicò i suoi primi studi nel 1573, nel volumetto De nova stella (da cui derivò il termine astronomico novae per denotare tali eventi, che oggi sono invece chiamati supernovae). In aperta denuncia di coloro che non volevano arrendersi all’evidenza dei fatti e perseveravano nelle loro false dottrine, più o meno gli stessi che avrebbero poi portato Galileo a giudizio, il testo portava in esergo la frase “O crassa ingenia. O caecos coeli spectatores”. La “nuova stella” di Tycho, riprodotta con “I” nella mappa celeste che accompagnava il testo, si spense lentamente nel corso del 1574.


Torniamo a Shakespeare. Non si sa se abbia mai incontrato l’astronomo danese, ma esistono prove che egli abbia conosciuto le sue opere. Il più noto ritratto di Brahe, realizzato nel 1586 da Jakob de Gheyn e posto sulla copertina dell’Astronomiae instauratae mechanica (1598), lo mostra circondato dagli stemmi dei suoi antenati. Ebbene, due dei blasoni portano i cognomi Rosenkrans e Guldensteren, straordinariamente simili ai nomi di due personaggi dell’Amleto, Rosencrantz and Guildenstern, i due compagni di studi del protagonista invitati dal re e dalla regina per indagare sulle ragioni della sua malinconia, che lo tradiranno e saranno uccisi dal loro stesso piano. C’è da dire, in verità, che i due cognomi erano piuttosto diffusi nella nobiltà danese: i resoconti dell'incoronazione del 1596 mostrano che un decimo degli aristocratici intervenuti appartenevano ad una delle due casate.


Secondo gli studiosi americani, il drammaturgo, nella fase di raccolta della documentazione necessaria per ambientare storicamente e geograficamente la tragedia, potrebbe aver consultato il Civitates orbis terrarum del tedesco Georg Braun, un atlante riccamente illustrato da Franz Hogenberg il cui quarto volume, pubblicato nel 1588, contiene una stampa dello Øresund, lo stretto che separa l’isola danese di Sjaelland dalla Scania svedese. Nell’illustrazione è visibile Uraniborg, il castello in cui si trovava l’osservatorio di Brahe (regalo del re Federico II di Danimarca all’astronomo per i suoi meritori studi), che sorgeva su un’isola nello stretto, Hven, posta al largo del castello di Elsinore (oggi Helsingør), dove è ambientato l’Amleto.


Esistono anche prove che Shakespeare conoscesse le opere del matematico e astronomo inglese Thomas Digges, il quale espose in Alae seu Scalae Mathematicae (1573) le sue scrupolose osservazioni sulla supernova, che riconobbe come fenomeno celeste e di cui calcolò la posizione con precisione superiore a quella dello stesso Tycho Brahe. Si sa anche che Digges e Brahe avevano legami epistolari. Digges fu il diffusore delle idee copernicane in Inghilterra, che rese ancor più radicali con l’affermazione dell’infinità dell’universo. In effetti, Shakespeare viveva vicino a Digges, e i biografi del drammaturgo hanno accertato i suoi legami con la famiglia dell’uomo di scienza. 


Un famoso passo della scena 2 del secondo atto dell’Amleto (quello della “follia” di Amleto) parla dell’infinità dei cieli con un linguaggio che rivela l’adesione di Shakespeare al sistema copernicano propagandato da Digges:

Hamlet:
Denmark's a prison.
Rosencrantz:
Then is the world one.
Hamlet:
A goodly one, in which there are many confines,
wards and dungeons, Denmark being one o' the
worst.
Rosencrantz:
We think not so, my lord.
Hamlet:
Why, then, 'tis none to you; for there is nothing
either good or bad, but thinking makes it so. To me
it is a prison.
Rosencrantz:
Why then, your ambition makes it one; 'tis too
narrow for your mind.
Hamlet:
O God, I could be bounded in a nutshell and count
myself a king of infinite space, were it not that I
have bad dreams.
Guildenstern:
Which dreams indeed are ambition, for the very
substance of the ambitious is merely the shadow
of a dream.
Hamlet:
A dream itself is but a shadow.

Amleto:
La Danimarca è tutta una prigione.
Rosencrantz:
Tutto il mondo n’è una, allora.
Amleto:
Infatti, come si deve; in cui son molte celle,
molti posti di guardia, molti masti.
La Danimarca è fra le sue peggiori.
Rosencrantz:
A noi non pare affatto, monsignore.
Amleto:
Si vede allora che non lo è per voi:
niente è buono o cattivo
se non è tale nel nostro pensiero.
Per me è una prigione.
Rosencrantz:
È l’ambizione che ve la fa tale.
La Danimarca è troppo angusto spazio
per una mente come quella vostra.
Amleto:
Oh, Dio! Io potrei viver confinato
in un guscio di noce, e tuttavia
ritenermi signore d’uno spazio
sconfinato, non fossero i miei sogni.
Guildenstern:
E questi sono appunto l’ambizione,
perché nient’altro che l’ombra d’un sogno
è la sostanza dell’uomo ambizioso.
Amleto:
Il sogno già in se stesso è solo un’ombra.

(traduzione di Goffredo Raponi)

Shakespeare utilizzò spesso immagini astronomiche nelle sue opere. I tre ricercatori americani ritengono quindi che egli possa aver usato uno degli eventi celesti più spettacolari dei suoi tempi (e uno dei più importanti di tutta la storia dell’astronomia) nella sua tragedia più importante. L’apparizione di un nuovo oggetto celeste nel cielo era motivo di una vasta preoccupazione, come capitava anche per le comete, in quanto tali “segni” erano interpretati come presagi funesti. E’ assai probabile che Shakespeare abbia utilizzato questo sentimento di sciagura imminente per i suoi scopi drammatici.


Il lettore curioso potrebbe ora chiedersi che fine abbia fatto la supernova N1572, la “stella di Tycho”, e che cosa si sia riusciti a sapere nel frattempo su questo oggetto celeste. Fino al 1952 la ricerca dei resti dell’esplosione stellare non aveva dato esiti, fino a quando si incominciò a studiare le emissioni di quella parte del cielo nella banda delle radiofrequenze. Sì identificò l’oggetto 3C10 come il resto della supernova del 1572, determinandone la distanza tra i 2,5 e i 3 kiloparsec (tra gli 8000 e i 9800 anni luce). Nel 1960 l’oggetto fu identificato anche otticamente dal telescopio di Monte Palomar come una nebula assai debole. Gli astronomi hanno classificato la supernova N1572 come appartenente al tipo Ia, risultante cioè dall’esplosione di una nana bianca che ha superato la massa limite di Chandrasekhar risucchiando materia da un’altra stella con la quale costituiva un sistema binario. Nel 2005 gli astronomi sarebbero riusciti anche a identificare la stella compagna, chiamata Tycho G, abbastanza simile al nostro Sole, ma che prima dell’esplosione doveva essere una subgigante, ma l’identificazione è stata contestata.

Recentemente la “stella di Tycho”, o almeno i suoi resti, è tornata all’onore delle cronache scientifiche grazie alle scoperte effettuate dal telescopio spaziale a raggi-X Chandra, che ha rivelato una forte emissione di strisce di raggi X ad alta energia, fornendo la prima evidenza diretta che un evento cosmico come l’esplosione di una supernova può accelerare le particelle sino ad energie centinaia di volte maggiori di quanto si possa ottenere con i più potenti acceleratori sulla Terra ed essere una sorgente dei raggi cosmici che colpiscono il nostro pianeta.

La ricerca continua, ben consapevoli che "There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy."

martedì 6 settembre 2011

Perché di notte il cielo è buio?


Appena poche settimane dopo la stampa del Sidereus nuncius di Galileo, Keplero aveva già esaminato l’opera, che aveva ricevuto l'8 aprile 1610 dal poeta scozzese Thomas Seggett, amico di Galileo all'Università di Padova. Il 19 aprile, Keplero, senza nemmeno aver potuto verificare le scoperte annunziate nel libro, inoltrò allo scienziato italiano, tramite l'ambasciatore di Toscana, una lunga lettera di approvazione e commento. Essa fu poi pubblicata a Praga nei primi giorni di maggio del 1610, con notevoli varianti ed ampliamenti, con il titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo (un’edizione apparve a Firenze nello stesso anno, forse per interessamento dello stesso Galileo). Nella sua ampollosa prosa latina, assai diversa da quella elegante di Galileo, il polacco tedesco pose per primo, tra le quaranta pagine della sua lettera, una domanda apparentemente banale, soprattutto in quei tempi senza inquinamento luminoso: “Perché il cielo notturno è buio?”. Egli sapeva che la risposta altrettanto banale, e cioè “Perché di notte non c’è la luce del Sole” non è scontata.

Keplero era un convinto assertore della finitezza dell’universo. Egli utilizzò la domanda come argomento contro l’idea di un universo infinito con un numero infinito di stelle. Se l’universo fosse pieno di stelle come il nostro Sole e si estendesse senza fine, allora, sosteneva, “l’intera volta celeste sarebbe luminosa come il Sole (…) questo nostro mondo non appartiene a uno sciame indifferenziato di innumerevoli altri”. Se le stelle fossero infinite e disposte in ogni punto della volta celeste, allora il nostro sguardo dovrebbe incontrare in ogni caso le loro luci, sia di giorno che di notte.

L’osservazione di Keplero fu ripresa e discussa quando, verso la fine del XVII secolo, Newton espose il suo modello di universo infinito. Edmund Halley, amico e mentore di Newton, affrontò il problema in due brevi articoli pubblicati nel 1721. Nel primo, On the Infinity of the sphere of fix’d stars, sosteneva che solo un cosmo infinito poteva rimanere in equilibrio senza collassare a causa della gravità. Riguardo all’oscurità della notte, tentò di dare una risposta dicendo che la luminosità apparente di una stella è proporzionale al reciproco del quadrato della sua distanza: dimezzando la distanza di una stella, la sua luminosità apparente si quadruplica. Attraverso un “calcolo banale” trovò che la distanza angolare tra le stelle è proporzionale al reciproco della distanza: dimezzando la distanza delle stelle, si raddoppia la loro separazione apparente. Tutto corretto finché Halley si riferiva alla distanza angolare tra stelle uniformemente distribuite, ma tutto sbagliato quando deduceva che la differenza tra i due effetti (diminuzione della luminosità apparente in ragione del quadrato della distanza e diminuzione della distanza angolare in ragione della distanza) poteva spiegare l’oscurità del cielo. Forse rendendosi conto che l’argomentazione era poco chiara, Halley scrisse il secondo articolo, Of the number, order and light of the fix’d stars, offrendo la spiegazione alternativa che la luce delle stelle più lontane è così fioca da non poter contribuire all’illuminazione complessiva del cielo. Anche questa spiegazione di Halley tuttavia non regge a una semplice considerazione fisica: la luminosità d'irraggiamento, in un cosmo omogeneo e perfettamente trasparente, dipende esclusivamente dalla densità dei punti (le stelle) e dalla loro luminosità assoluta, non dalla loro distanza.


La questione fu riproposta nel 1744 anche dall’astronomo svizzero Jean-Philippe de Cheseaux, in una delle appendici al suo Traité de la Cométe, relativo alle osservazioni della cometa comparsa tra il dicembre 1743 e il marzo successivo. Il giovane astronomo, morto a soli 31anni nel 1751, calcolò che, assumendo per semplicità che le stelle abbiano tutte la stessa luminosità del Sole, sommando tutti i contributi per le infinite sfere concentriche di un universo infinitamente esteso, e considerando che la volta celeste è circa 180.000 volte più ampia che il disco solare apparente, si otterrebbe addirittura che la luce totale incidente sulla Terra dovrebbe essere almeno 90mila volte più intensa di quella solare, il che non è certo ciò che si osserva.

La domanda di Keplero prende oggi il nome di “Paradosso di Olbers”, dal nome dell’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers, che lo espose nel 1826, anche se egli, come si è visto, non fu affatto il primo ad enunciarlo. La sua domanda “come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l'infinità di stelle presenti nell'universo?” supponeva alcune caratteristiche dell’universo che la cosmologia del suo tempo, sulla scorta del sistema di Newton, dava per scontate: l’universo è infinito (la sua estensione spaziale non ha limiti), eterno (esiste da sempre), immutabile (non si evolve e non si è evoluto verso condizioni differenti da quelle che osserviamo), omogeneo e isotropo (in esso le stelle sono distribuite più o meno uniformemente). Dato che le stelle sono distribuite in modo uniforme e sono in numero infinito, la loro luce dovrebbe brillare in tutto il cielo, rendendo indistinguibile persino la luce del Sole. Olbers, come Cheseaux e altri prima di lui, pensava che una qualche forma di polvere o gas interstellare intercettasse la luce delle stelle prima del suo arrivo sul nostro pianeta, ma ignorava che l’energia assorbita dalle particelle di materia le avrebbe in questo caso scaldate fino a renderle a loro volta incandescenti e sorgenti di energia radiante, magari di lunghezza d’onda differente. Insomma, il paradosso di Olbers era una sfida per l’infinità, l’immutabilità e l’omogeneità dell’universo.

Fu proprio l’omogeneità dell’universo la prima qualità che fu messa in discussione. Il progredire delle tecniche di osservazione mise in luce che le stelle non sono distribuite in modo uniforme, ma appartengono a sistemi che oggi sappiamo essere le galassie, che a loro volta possono appartenere a sistemi più grandi, come era già stato intuito da Kant. Nel 1848 William Herschel, recensendo il volume Kosmos di Alexander Von Humboldt, accennò alla possibilità di una struttura gerarchica dei corpi celesti come possibile soluzione al paradosso del cielo notturno. Anche se le stelle sono infinite non necessariamente il cielo deve essere luminoso in ogni punto nel modo prospettato da Olbers. La disposizione disomogenea dei corpi celesti lascia grandi spazi vuoti che noi vediamo bui.

Curiosamente, una moderna soluzione del paradosso non fu proposta da uno scienziato, ma da uno scrittore che aveva dichiarato di non amare la scienza, pur avendo una discreta conoscenza dell'astronomia della sua epoca. Nel 1848, infatti, Edgar Allan Poe pubblicò Eureka, visionario, metafisico e stravagante “poema in prosa” in cui abbondano riferimenti diretti e indiretti alle opere di alcuni tra i principali astronomi del XIX secolo (l’opera è dedicata proprio ad Alexander Von Humboldt). Poe attribuiva la nascita dell'universo alla frammentazione di una particella primitiva; una volta esauritasi l'azione della forza repulsiva iniziale, gli atomi diffusi nello spazio avrebbero cominciato ad attrarsi reciprocamente e a formare le stelle e i sistemi stellari. L'insieme di questi sistemi stellari, ciascuno dei quali è, in termini moderni, una galassia, sarebbe destinato a collassare in futuro a causa della gravità e a tornare all'unità primordiale, in una sorta di “respiro di Dio”, alternarsi di espansione e contrazione. Egli giudicava “insostenibile e tuttavia così pertinacemente seguita” l’idea che l’universo sia illimitato, e che “l’osservazione ci dimostra che c’è certamente, in numerose direzioni attorno a noi se non in tutte, un limite positivo, o, almeno, non ci fornisce alcuna prova per pensare altrimenti”. Proseguiva poi con il periodo che più ci interessa, illustrando il paradosso di Olbers e proponendo una sua spiegazione davvero anticipatoria: “Se la successione delle stelle fosse senza fine, allora il fondo del cielo si presenterebbe come una luminosità uniforme, come quella mostrata dalla Galassia [la Via Lattea, ndr], dato che non ci sarebbe assolutamente alcun punto, in tutto il cielo, nel quale non esisterebbe una stella. La sola maniera, perciò, con la quale, in questo stato di cose, potremmo comprendere i vuoti che i nostri telescopi trovano in innumerevoli direzioni, sarebbe supporre che la distanza del fondo invisibile sia così immensa che nessun raggio proveniente da esso ha potuto finora raggiungerci”. L’universo non è eterno, non è infinito, i corpi celesti si evolvono e la luce delle stelle più lontane non ha ancora avuto il tempo di raggiungere la Terra: quasi profetico, se non ci fosse il sospetto che sia casuale.

In effetti, William Thompson, Lord Kelvin, nel 1901 analizzò dal punto di vista quantitativo il legame tra la parte di cielo coperta di stelle e la sua luminosità relativa, concludendo che per avere un cielo continuamente brillante come la superficie del Sole, sarebbe necessario considerare tutta la luminosità stellare fino una distanza talmente elevata da non poter essere stata percorsa dalla luce, che viaggia a una velocità finita.

I calcoli più recenti, effettuati dal cosmologo americano Edward Harrison nel 1964, hanno confermato la sostanziale validità del ragionamento di Kelvin (e di Poe): gli oggetti più lontani distano da noi circa 13,7 miliardi di anni-luce (è l’età del Big-Bang), mentre un cielo completamente luminoso richiederebbe l’apporto della radiazione di tutti gli oggetti celesti fino a 3 milioni di miliardi di anni-luce di distanza! Ciò significa che se anche tutta la materia presente nell’universo si trasformasse in energia secondo la relazione di Einstein, il cielo notturno sarebbe solo un po’ più luminoso di quanto appare oggi. Il fatto che l’universo si espande, e l’energia che ci arriva delle galassie e dalle loro stelle è sensibilmente indebolita dal redshift man mano che la loro distanza aumenta, contribuisce in modo poco significativo al buio notturno.

La realtà è che l’universo è troppo giovane e non contiene abbastanza materia-energia per illuminare il cielo anche di notte.