giovedì 28 gennaio 2010

Le 22 domande di Aldo Piombino al creazionista De Mattei



Rilancio l’articolo dell’amico Aldo Piombino con 22 questioni per il professor De Mattei perché, come molti, ne ho le scatole piene dell’offensiva creazionista portata avanti da settori della galassia clerico–leghista–fascista con lo sguardo benevolo del Presidente del Consiglio, che ospita i loro vaneggiamenti sui suoi giornali. L’Italia sta rapidamente scendendo nella scala internazionale della credibilità scientifica per iniziative estemporanee come il convegno antievoluzionista organizzato dal vicepresidente del CNR Roberto De Mattei, che di scienza sa poco o nulla (è professore di Storia del Cristianesimo e della Chiesa presso l’Università Europea di Roma, quella dei Legionari di Cristo) ed evidentemente è stato messo dove si trova per bilanciare politicamente l’elezione (contrastata dalla destra zichichiana) alla presidenza del CNR di una figura prestigiosa come quella del fisico Luciano Maiani.


L’indirizzo del professor De Mattei è pubblico. Aldo Piombino gli ha anche scritto una e–mail sollecitando una risposta. Invito i miei lettori a considerare l’ipotesi di fare altrettanto.

mercoledì 27 gennaio 2010

Piccola antologia, ecc. (5): il caso Spallanzani


Elia Spallanzani

Le notizie che è possibile raccogliere sul ravennate Elia Spallanzani sono disperse in una miriade di rivoli cartacei ed elettronici, al punto che il lavoro di restituire loro forma organica è tale da scoraggiare anche i più volenterosi. Hanno un bel dire quelli della Fondazione Elia Spallanzani, dedicata all'informazione e alla promozione dello scrittore e della letteratura d'inganno, combinatoria, interattiva e ricorsiva, che “in omaggio alle idee e allo stile di Elia Spallanzani, [si è] deciso di non raccogliere le informazioni su questo autore in un unico luogo [e di proporre] invece un percorso combinatorio e ipertestuale tra diverse pagine Internet”. In realtà fanno buon viso a cattivo gioco, perché su molti aspetti della vita e dell’opera dello Spallanzani grava ancora una fitta nube elettronica nella quale lo scrittore cercò sempre di occultare i particolari più intimi e basilari del suo essere e che costituisce forse il capolavoro più grande che ha lasciato.


Ritratto alternativo di Elia Spallanzani

Sappiamo che Spallanzani nacque nel 1920 da una benestante famiglia di origini contadine. In Raccontalo alla cenere afferma di essere un discendente di Lazzaro Spallanzani, lo scienziato settecentesco affossatore della teoria della generazione spontanea dei viventi e autore della prima fecondazione artificiale tra batraci. Le ricerche genealogiche intraprese con zelo dal Filicori, durate più di un lustro, non sono tuttavia riuscite a stabilire la verità di quanto affermato dal nostro, per cui rimane il dubbio che tale parentela fosse solo un’invenzione, forse stimolata dal fascino di uno Spallanzani per uno Spallanzani in bilico tra cielo e terra, tra l’essere gesuita e l’occuparsi di vita microscopica.

Durante gli studi liceali emersero i primi interessi letterari dello scrittore, particolarmente evidenti, secondo qualcuno, nel quaderno dalla copertina nera risalente agli anni 1936–37 che egli dichiara di possedere. Tra le varie poesie citate sarebbero interessanti i tredici componimenti di tre versi ciascuno che figurano sotto il titolo complessivo di Enigmata (sic), che rivelano il precoce interesse di Spallanzani per gli enigmi e i giochi con le parole :

Io stesso, nella vita.

Da familiari unioni
Dura necessità sospinge l’uomo
Nascosto su una nave che lo ignora.

La cui chiave è:

Da familiari unioni = clan
Dura necessità sospinge l’uomo = destino
Nascosto su una nave che lo ignora = clandestino

Così come lo è il settimo:

La musa del mattino

Alta, forte, coronata di pietra,
Opposta ad altre, ed in continua lotta
Da lei spira, eccitante, un profumo di terre conquistate .

Che nasconde la seguente soluzione:

Alta, forte, coronata di pietra = torre
Opposta ad altre, ed in continua lotta = fazione
Da lei spira eccitante un profumo di terre conquistate = torrefazione

Dopo gli studi liceali, quelli accademici in lettere furono interrotti dai tragici avvenimenti della guerra: Spallanzani fu inviato come fante a spezzare le reni ai greci. Di quel periodo nulla ci è dato sapere, se non qualche voce non controllabile che parla delle conseguenze di un tradimento all’alba. In nessuno dei suoi scritti compaiono informazioni su quel periodo drammatico. Quel che si può indovinare è il rifiuto angosciato per ogni forma di violenza, tale da non lasciare dubbi sull’importanza di quegli anni nella sua formazione di scrittore e di uomo.



Campagna di Grecia

Tornato a casa, Spallanzani disertò inaspettatamente la sessione in cui avrebbe dovuto laurearsi in Lettere, per iscriversi invece, il giorno stesso, a Fisica. Tale scelta ha spinto alcuni commentatori a ravvisare il sintomo di una profonda disillusione verso la letteratura, vista come eccessivamente effimera: nella scienza egli avrebbe cercato solide basi sulle quali costruire l’edificio della sua vita. La scoperta di incertezze, paradossi, indeterminazioni nella meccanica quantistica e nella relatività avrebbe presto minato il suo entusiasmo. Altri interpreti sostengono invece che lo Spallanzani non si illudeva sulla possibilità di accedere alla verità attraverso la scienza, ma che semplicemente era alla ricerca di una sintesi tra le due culture o, come aveva detto Coleridge, voleva "arricchire il suo bagaglio di metafore”. Comunque sia andata, lo Spallanzani terminò il corso col massimo dei voti, riprendendo parallelamente gli studi di lettere, con una nuova tesi. Per un caso del destino, si laureò nello stesso giorno sia in Lettere sia in Fisica, rispettivamente con una dissertazione sul ruolo del lettore nella letteratura e con una ricerca sui paradossi della fisica relativistica. Questi elementi si sarebbero intrecciati inestricabilmente nella sua poetica.

Negli anni successivi diventò insegnante di materie scientifiche presso il Liceo Galvani di Bologna, professione che gli lasciava sufficiente tempo libero per dedicarsi alle lettere. Verso la fine degli anni '50 sposò Alice Degli Esposti. La vita di coppia non avrebbe lasciato tracce nella sua produzione, se non quando il rapportò si sarebbe rotto, nel 1979, portando alla separazione.

Spallanzani iniziò l’attività di scrittore pubblicando articoli di saggistica e racconti brevi sulle riviste letterarie della fine degli anni ’50. Solo più tardi decise di cimentarsi con la narrativa lunga. Scrisse così, nel 1963 o nel 1964, Crocevia, un romanzo organizzato su una rete di diversi pezzi brevi a sfondo fantastico. Le copie dattiloscritte che circolarono presso gli amici del Gruppo '63 suscitarono per il romanzo numerosi consensi. Calvino lodò l’opera in una delle lettere che scambiò con il nostro, Arbasino ne citò due frasi nella prima stesura de L’anonimo lombardo, per poi decidere che il riferimento era troppo evidente, Balestrini ne apprezzò le tecniche che anticipavano la letteratura ipertestuale. Purtroppo la sorte dei romanzi non dipende solo dalla bravura del loro autore: spesso direttori editoriali ciechi e motivi economici fanno sì che anche opere di pregio giacciano dimenticate o neglette nel cassetto di qualche ufficio editoriale. Crocevia era troppo sperimentale per quei tempi e tutte le case editrici interpellate negarono la pubblicazione.


Riunione del Gruppo '63

Sempre sicuro del valore della propria opera, Elia Spallanzani sparì da un giorno all'altro senza dare notizie di sé. In realtà aveva preso il primo treno per Parigi, dove voleva conoscere da vicino i membri dell'Oulipo e migliorare le sue tecniche combinatorie. Pare che Queneau lo abbia presentato una sera a una riunione di quel gruppo dopo aver letto l’adattamento italiano che il nostro aveva preparato dei suoi Cent mille milliards de poèmes. Il caso ha purtroppo voluto che siano scomparsi sia il verbale di quella riunione (sembra con Queneau, Le Lionnais, Bens, Ducheteau, Anquetil, Lescure e Queval) sia i Centomila miliardi di poemi di Spallanzani.

Minacciato di licenziamento dal preside del Galvani, che, chissà come, era riuscito a rintracciarlo telefonicamente, Spallanzani tornò in Italia dopo tre mesi, più sicuro di sé e molto più sereno: iniziò a collaborare con la Feic di Bologna, che pubblicò nel 1969 l'antologia Altri crocevia, insistendo per questo titolo nonostante Crocevia risultasse ancora inedito, forse come auspicio. L'antologia raccoglieva cose comparse qua e là in precedenza e conteneva diversi racconti e saggi inediti, tra i quali Il corsivo di Dvigrad, quattro paragrafi di un testo incompiuto di ambientazione nordica, nel quale si intrecciano eventi mondani e altri chiaramente fantastici, Interpretazione quantistica del delitto della camera chiusa, un classico della letteratura d’indagine rivisto alla luce del paradosso di Schroedinger, e Trittico circolare, un triplice racconto basato sulla lettura in ordine differente degli stessi tre paragrafi. Degno di nota è inoltre Dietro un sipario nero, saggio dedicato al teatro, in cui il nostro espone le sue idee sulla contaminazione tra finzione e realtà, sulla necessità di confrontarsi con una scienza relativistica e sulla molteplicità. Altri crocevia fu il primo vero successo letterario di Spallanzani, che coincise con i giorni più felici della sua vita. Firmò anche un contratto con la Hoax di Arezzo per la plaquette di 16 poesie di metrica diversa intitolata Piazza con fontana. La strage del 12 dicembre 1969 indusse gli editori a sospendere la pubblicazione. Spallanzani interpretò l’evento come un segno del destino, pensando che forse era meglio così, e gettò contratto e poesie nel caminetto acceso.

Spinto dall’improvviso e insperato successo, Spallanzani decise, improvvisamente come suo solito, di fondare una propria casa editrice, la Bomarzo dal nome vagamente misterico, per poter finalmente pubblicare Crocevia. Con grande sacrificio economico e qualche amicizia perduta riuscì nel 1970 a dare alle stampe alcune migliaia di copie del romanzo. Le ali dell’Icaro Spallanzani furono però improvvisamente bruciate da un sole che si chiamava Guardia di Finanza. Inadempimenti fiscali portarono alla chiusura della Bomarzo e molte copie di Crocevia finirono al macero. Il romanzo aveva comunque fatto in tempo a circolare in una piccola cerchia di amici e ammiratori, che si passavano le poche copie esistenti creando un effimero e sotterraneo caso letterario. Nel 2003 si parlò sui giornali di una nuova edizione del testo, ma a tutt'oggi nulla si sa di certo. Sono solo in grado di riprodurre l’incipit del romanzo, dai toni che ricordano il Calvino di quegli anni:

Le storie sono, principalmente, vie di comunicazione.
In quanto tali si possono presentare in infinite varietà, proprio come infinitamente varie sono le strade. Ci sono percorsi rettilinei, che vanno senza svolte da un punto A a un punto B; ci sono sentieri perduti nel bosco, che si limitano a indicare vagamente una direzione per uscire dalla vegetazione, mentre nel contempo invitano il frequentatore a soffermarsi ad ammirare ciò che si offre agli occhi e, ancor più, all'immaginazione; ci sono strade che in realtà sono anelli, e dopo un tragitto accidentato riportano al punto di partenza. Ci sono strade in salita, strade in discesa; ci sono strade che non portano in alcun luogo. Poi ci sono gli incroci. Molti incroci, in realtà.
Ogni storia non è altro che l'incrociarsi del lettore con una possibilità.


Da Il resto del Carlino

Spallanzani tornò al quotidiano lavoro di docente, con qualche saltuaria collaborazione a riviste. Nel 1972 Luciano Anceschi lo cercò per una collaborazione al Verri, ma il nostro cortesemente rifiutò per motivi che non si sono mai saputi, sembra per l’opposizione della moglie. Per qualche tempo si parlò di un possibile adattamento televisivo di Santo in 19 mosse (racconto da Altri crocevia, ripubblicato separatamente nel 1974), ma il progetto si perse nei meandri intricati della sede RAI.

Alla fine degli anni '70 uscirono, sempre per FEIC, due opere fondamentali: Promesse mantenute (1978), un saggio-romanzo che riprende La Promessa di Friedrich Durrenmatt, studiando sei scenari alternativi su chi sia il vero colpevole, e Raccontalo alla cenere (1979) una sorta di zibaldone dove lo scrittore raccoglie materiale disomogeneo (pagine di diario, racconti, poesie, sceneggiature, annotazioni, addirittura formule chimiche e derivate parziali), ma venato da una amara visione della vita, cui aveva contribuito la separazione da Alice.

Spallanzani continuò a insegnare fino al giorno della pensione, in occasione del quale il “suo” Liceo Galvani volle festeggiarlo con una medaglia. Oramai aveva perso interesse per lo scrivere. La pubblicazione di un'antologia di poesia sperimentale, I fiori di loto, prevista per i primi mesi del 1980, fu interrotta per sua volontà. Il caso ci ha restituito fortunatamente una delle sue opere, forse l’ultima, dall’accentuata costruzione permutatoria:

Girotondo della maturità

Non sappiamo il nostro inizio
che quando siamo alla metà.
Vediamo profilarsi la fine
assai più vicina alla metà
di quanto lo sia all’inizio.

Inizio della fine, alla metà
sembra più vicina la fine
di quanto sia l’inizio.
La meta, il fine della fine,
inizia alla sua metà.

Di una troppo odiosa fine
rimpiangiamo il suo inizio
o lamentiamo la sua metà.
Se invece è un buon inizio
meno amara sarà la fine.



Sparì per l'ennesima volta e si ritirò in un podere nel ravennate. Morì il 10 maggio 1997 per un infarto mentre passeggiava per i sentieri della sua campagna, proprio nel mezzo di un crocevia. E chi ha conosciuto Elia Spallanzani sa che in un crocevia “il vero e il falso sono ancora la stessa identica cosa”.

lunedì 25 gennaio 2010

Piccola antologia dei poeti inesistenti (4)

Il poeta inesistente di questa puntata è stato un talento precoce e sfortunato, una giovanissima meteora nel cielo del Parnaso. Si tratta di Gerald Bostock (nato circa nel 1964), autore del poema utilizzato come testo nel concept album Thick as a brick dei Jethro Tull (1972). Il giornale locale utilizzato come copertina del long playing, il St. Cleve Chronicle & Linwell Advertiser, spiega nella prima pagina come Gerald, allora di otto anni, soprannominato “il piccolo Milton”, ricevette un premio per il poema e come il premio fosse stato revocato perché il giovane autore aveva pronunciato la parola volgare "g…r" durante una trasmissione televisiva. Non si sa con esattezza quale fosse la parola sotto accusa, anche se alcuni sostengono che essa fosse goer, termine che può indicare una donna che gode sessualmente in modo esagerato. Il giornale riporta l’intero poema, sostenendo che i Jethro Tull avevano deciso di usarlo come testo del loro album (recensito nelle pagine interne). Ecco i versi della prima parte:

Thick As A Brick

Really don't mind if you sit this one out.

My words but a whisper – your deafness a SHOUT.
I may make you feel but I can't make you think.
Your sperm's in the gutter – your love's in the sink.
So you ride yourselves over the fields
and you make all your animal deals
and your wise men don't know how it feels
to be thick as a brick.


And the sand-castle virtues are all swept away
In the tidal destruction – the moral melee.
The elastic retreat rings the close of play
as the last wave uncovers the newfangled way.
But your new shoes are worn at the heels
And your suntan does rapidly peel
And your wise men don't know how it feels
to be thick as a brick.


And the love that I feel is so far away:
I'm a bad dream that I just had today
and you shake your head
and say it's a shame.

Spin me back down the years
and the days of my youth.
Draw the lace and black curtains
and shut out the whole truth.
Spin me down the long ages:
let them sing the song.

See there! A son is born
and we pronounce him fit to fight.
There are black-heads on his shoulders,
and he pees himself in the night.
We'll make a man of him
put him to trade
teach him
to play Monopoly
and to sing in the rain.


The Poet and the painter
casting shadows on the water
as the sun plays on the infantry
returning from the sea.
The do-er and the thinker:
no allowance for the other
as the failing light illuminates
the mercenary's creed.

The home fire burning:
the kettle almost boiling
but the master of the house is far away.
The horses stamping – their warm breath clouding
in the sharp and frosty morning of the day.
And the poet lifts his pen
while the soldier sheaths his sword.


And the youngest of the family
is moving with authority.
Building castles by the sea,
he dares the tardy tide
to wash them all aside.


The cattle quietly grazing
at the grass down by the river
where the swelling mountain water
moves onward to the sea:
the builder of the castles
renews the age-old purpose
and contemplates the milking girl
whose offer is his need.
The young men of the household
have all gone into service
And are not to be expected for a year.
The innocent young master –
thoughts moving ever faster –
has formed the plan to
change the man he seems.
And the poet sheaths his pen
while the soldier lifts his sword.


And the oldest of the family
is moving with authority.
Coming from across the sea,
he challenges the son
who puts him to the run.


What do you do
When the old man's gone
– do you want to be him?
And your real self sings the song.
Do you want to free him?
No one to help you get up steam –
and the whirlpool turns you `way off-beam.

Duro come un mattone

Davvero non m’importa se a questa non fate caso.

Le mie parole non sono che un sussurro – la vostra sordità un URLO.
Posso farvi percepire, ma non posso farvi pensare.
Il vostro sperma è nello scarico – il vostro amore è nel lavandino.
E così vi cavalcate per i campi
e concludete le vostre faccende animalesche
e i vostri saggi non sanno come ci si sente
ad essere duri come un mattone.

E le virtù fatte di castelli di sabbia sono tutte spazzate via
nella distruzione della marea – la mischia morale.
L’elastico riflusso annuncia la fine del gioco
mentre l’ultima onda svela la via troppo nuova.
Ma le vostre scarpe nuove hanno i tacchi consumati
e la vostra abbronzatura si spela rapidamente
e i vostri saggi non sanno come ci si sente
ad essere duri come un mattone.

E l’amore che provo è così lontano:
sono un brutto sogno che ho avuto proprio oggi
e scuotete la testa,
e dite che è una vergogna.

Fatemi girare indietro negli anni
e nei giorni della mia giovinezza.
Tirate il cordone e le tende nere
e chiudete fuori tutta la verità.
Giratemi verso età antiche:
che siano loro a cantare la canzone.

Guardate! Un figlio è nato
e lo dichiariamo pronto per la battaglia.
Ci sono punti neri sulle sue spalle,
e di notte si fa la pipì addosso.
Faremo di lui un uomo
Lo metteremo nel commercio
gli insegneremo
a giocare a Monopoli
e a cantare sotto la pioggia.

Il Poeta e il pittore proiettano ombre sull’acqua
mentre il sole gioca sulla fanteria che ritorna dal mare.
L’uomo d’azione e l’uomo di pensiero: non c’è altra scelta
mentre la luce calante illumina il credo del mercenario.

Il fuoco a casa brucia: il bollitore quasi bolle
Ma il padrone di casa è lontano.
I cavalli scalpitano – il loro alito caldo si addensa
nel mattino freddo e pungente del giorno.
E il poeta alza la penna mentre il soldato ripone la sua spada nella guaina.

E il più giovane della famiglia si muove con autorevolezza.
Costruendo castelli in riva al mare,
egli sfida la lenta marea
a spazzarli tutti via.

Il bestiame pascola quieto
sull’erba giù al fiume
dove impetuosa l’acqua di montagna
avanza verso il mare:
chi ha eretto i castelli rinnova l’antico intento
e contempla la ragazza mentre munge, la cui offerta è il suo bisogno.
I giovani della famiglia si sono tutti arruolati
e non ritorneranno prima di un anno.
L’innocente giovane signore – i pensieri corrono troppo veloci –
ha deciso di cambiare l’uomo che sembra.
E il poeta rinfodera la penna mentre il soldato sguaina la spada.

E il più vecchio della famiglia
si muove con autorevolezza.
Venendo da attraverso il mare,
sfida il figlio
che lo mette in fuga.

Che cosa farai quando il vecchio se ne sarà andato – vuoi diventare (come) lui?
E il vero te stesso canta la canzone.
Vuoi liberarlo?
Nessuno ad aiutarti a raccogliere le forze –
e il vortice ti spazza via, lontano dalla meta.

Qui il video, con l’interpretazione di Ian Anderson e dei Jethro Tull:

https://youtu.be/H-hnVeq9FTg

La pagina interna del giornale riportava poi un articolo intitolato “Little Milton e le voci sulla gravidanza di una studentessa”, che riferiva delle accuse per il suo stato rivolte a Gerald Bostock dalla quattordicenne Julia Fealey (a sinistra di Gerald nella foto di copertina), anche se il suo medico dichiarava che la ragazza “stava ovviamente mentendo per proteggere il vero padre". È proprio vero che quando si cade in disgrazia si attirano gli avvoltoi.

A Gerald Bostock, che dopo questa vicenda non ha più prodotto alcuna opera ed è scomparso dalla scena poetica, va la mia grande comprensione perché anch’io a otto anni scrivevo poesie (anche se aliene da certe problematiche e meno mature) e anche perché, pettinatura a parte, un poco gli assomigliavo, occhialini compresi.

sabato 23 gennaio 2010

La scienza in famiglia nel 1862



Il francese Louis Figuier (1819-1894) medico, chimico e professore di scienze naturali, era assai famoso alla fine dell’Ottocento per una serie di libri sul mondo della natura e sulle scoperte della scienza, che vennero tradotti in numerose lingue. Scritti con prosa semplice e attenta, riccamente illustrati da pregevoli incisioni, i libri di Figuier divennero dei classici della letteratura divulgativa scientifica.

Nel 1862 Figuier pubblicò per Hachette di Parigi Le Savant du foyer ou Notions scientifiques sur les objets usuels de la vie, testo originale di merceologia che illustrava i principi scientifici e tecnologici che erano alla base di oggetti, sostanze, apparecchiature e tecniche di uso quotidiano nelle case borghesi. L’opera fu tradotta in italiano e annotata da Carlo Anfosso, medico e naturalista torinese, che aveva frequentato i circoli positivistici della città natale e poi aveva intrapreso la carriera di insegnante di scienze naturali a Venezia, poi a Milano e infine a Roma, al liceo Mamiani, tra il 1905 e il 1918, dove avrebbe organizzato il museo di scienze e il laboratorio. Docente appassionato, lungimirante anticipatore delle mappe concettuali, scrisse molti libri scolastici e di divulgazione (Fantasie scientifiche, 1882, La fisica per ridere, 1906, I mestieri strani, 1911, La Terra e i suoi segreti, 1912, La fisica dilettevole, 1913, La chimica dilettevole, 1923, questi ultimi largamente ispirati dall’opera di Tom Tit, ecc.). Collaborò anche al Giornalino della Domenica di Vamba nel biennio iniziale 1906–1907.

Il testo del Figuier tradotto dall’Anfosso fu pubblicato dall’editore Treves di Milano nel 1876 con il titolo LA SCIENZA IN FAMIGLIA – Nozioni scientifiche sugli oggetti comuni della vita, un bel volume di 343 pagine in 4° grande (un formato quasi simile a quello dei moderni fogli A4), e copertina in tela editoriale, arricchito da 325 incisioni nel testo, alcune delle quali a piena pagina. Sono in possesso da pochi giorni di un esemplare in discrete condizioni di conservazione, che mi consente di illustrarne i contenuti.


La prima nota va senz’altro alla prefazione, che riflette il clima culturale nel quale Figuier e il suo traduttore erano immersi. La reazione al predominio della cultura classica è evidente sin dai primi periodi, nei quali l’autore dichiara con ragione che:

In conseguenza del modo d'istruzione che si segue nelle scuole, la nostra generazione è quasi estranea all'elemento materiale ond'è circondata, malgrado l'ordine variatissimo di conoscenze che comprende. Noi abbiamo studiato l'antichità, la letteratura, la storia, e la filosofia della Grecia e di Roma. Siamo perfettamente, iniziati alle imprese di Alessandro e di Cesare, alle gesta di Catone l'antico e di Dionigi il tiranno, e possiamo dire il numero delle galee che erano presenti alla battaglia di Salamina. Conosciamo il valore del sesterzio romano, del talento e della mina d'Egitto, di Corinto e d'Atene. Ma per contro siamo ignorantissimi riguardo alla natura ed alle proprietà dell'aria che ci fa vivere, dell'acqua che beviamo, degli alimenti che soddisfanno alla nostra fame, dei combustibili che c'illuminano e ci riscaldano. Se un bimbo c'interroga col suo sguardo chiaro e fisso sul nostro, semplicemente sopra un oggetto usuale, sulla causa d'un fenomeno fisico comunissimo, quante volte saremo costretti di restare muti alla sua ingenua interrogazione!

Appunto per diffondere nella gioventù quest'ultimo ordine di cognizioni, questo libro è stato scritto. In esso ci proponiamo di dare delle informazioni scientifiche sull'origine, la natura e le proprietà delle sostanze, degli agenti, degli apparecchi usati nella vita ordinaria. Noi introduciamo la scienza nella famiglia; la facciamo sedere al focolare domestico, affinché ci porga la spiegazione dei diversi atti che si compiono nel corso della nostra esistenza.

Tale impostazione sarebbe stata fatta propria dalla scuola italiana dell’epoca liberale, assai meno sensibile alle sirene umanistiche di quanto oggi si pensi. Le odierne critiche alle ingenuità del positivismo sono condivisibili, ma dovrebbero tener conto di quanto esso contribuì alla diffusione delle scienze a livello dell’opinione pubblica (almeno di quella che aveva accesso all’istruzione). La scuola italiana, e la società in generale del nostro paese, pagano tuttora le conseguenze della reazione della cultura idealista elitaria e antiscientifica a questa stagione, rappresentata dalla riforma Gentile del 1923, non a caso considerata da Mussolini “come la più fascista fra tutte quelle approvate dal mio governo” e ben vista in Vaticano e di cui Gramsci sottolineò “il grave torto di separare la scienza dalla tecnica, il lavoro intellettuale da quello manuale”.

La prefazione del Figuier prosegue con l’esposizione degli argomenti trattati nel volume, distribuiti secondo l’ordine per cui “Respirare, nutrirsi, vestirsi, riscaldare ed illuminare il nostro ambiente, reagire contro le influenze fisiche esterne, combattere le malattie eventuali; in questo circolo sono contenute quasi tutte le operazioni e gli atti della vita comune”. Ecco il contenuto dei capitoli nelle parole dell’autore:

Il primo capitolo si occupa dell'Aria atmosferica, della sua composizione, de'suoi effetti sull'uomo e sugli animali.

Nel secondo capitolo, che tratta degli Alimenti, studiamo il pane e le sue numerose varietà, il latte, il burro, il formaggio, le uova. Poi consideriamo le carni, che comprendono le bestie macellate, la selvaggina, il pollame. Di là passiamo ai pesci di mare e d'acqua dolce che servono d'alimento. Vengono quindi i legumi ed i frutti alimentari. Diamo delle informazioni scientifiche sulle diverse specie animali e vegetali che son passati in rassegna.

Il terzo capitolo è dedicato alle Bevande. Qui trova il suo posto la storia dell’acqua, considerata sotto i varii rispetti, fisico, chimico ed economico; quella del vino, della birra, del sidro, ai quali abbiamo aggiunto l'acqua gasosa, liquido che al dì d'oggi tiene un certo posto fra le bevande.

Il quarto capitolo ha per oggetto i Condimenti, sostanze che non sono precisamente dei commestibili, ma che entrano nell'alimentazione come base dei condimenti di cucina. Il sale marino è studiato qui nella sua origine, nelle sue proprietà e nei differenti modi d'estrazione. L'aceto, le spezie, lo zucchero, il cioccolatte, sono esaminati rispetto sia alla scienza, sia all'industria.

Il capitolo quinto abbraccia lo studio delle differenti sostanze che s'impiegano pegli usi della teletta [toeletta, NdR]: sapone, pomate, pettine, acque d'odore e profumi.

Lo studio delle materie tessili componenti i Vestiti ed i Tessuti, e che forma la materia del sesto capitolo, presentava molte difficoltà per un'esposizione elementare.
Per introdurre qualche chiarezza in questo complicato soggetto, abbiamo diviso in tre gruppi i tessuti serventi a fabbricare le stoffe dei vestiti o d'ornamento : 1° le tele, 2° le lane, 3° le seterie. Parlando delle tele consideriamo successivamente il cotone, la canapa ed il lino, e facciamo conoscere i processi che servono nell' industria a trasformare in tessuti queste materie vegetali. Nelle lanerie, descriviamo la fabbricazione de'panni e delle stoffe di lana: nelle seterie, diamo un'idea delle differenti operazioni che compongono la bella industria della fabbricazione della seta.
In aggiunta al capitolo dei tessuti e dei vestiti, abbiamo posto la storia del cuoio e quella del cautsciù, materie essenziali alla fabbricazione delle calzature e d'altri oggetti di vestiario.

I capitoli settimo ed ottavo sono dedicati alla descrizione degli apparecchi o strumenti che servono a darci calore e luce. Riguardo al riscaldamento, consideriamo a parte i camini, le stufe, i camini-stufe ; il riscaldamento col gas e coi caloriferi.

Le sostanze minerali, i minerali ed i metalli forniscono preziosi strumenti all'economia domestica. Il capitolo nono, intitolato: i Minerali utili ed i Metalli usuali, ha per iscopo di far conoscere le specie minerali e metalliche che rendono i maggiori servigi all’uomo. Li abbiamo divisi in tre gruppi : pietre, corpi combustibili e metalli.

II decimo capitolo ha per titolo: i Giojelli, le Monete e le Pietre preziose. Le cognizioni scientifiche acquistate dal lettore nei precedenti capitoli, trovano le loro applicazioni nello studio delle monete, la composizione ed il valore delle quali devono essere note a tutti; nello studio dei gioielli e delle pietre preziose che compongono gli ornamenti personali o servono a decorare le abitazioni.

Nell'undecimo capitolo, si tratta degli Eccitanti, cioè delle sostanze usate da tutti i popoli antichi e moderni, e che producono l'effetto di risvegliare e stimolare il sistema nervoso. Il tabacco, il caffè, il thè, le diverse acqueviti ed i liquori sono gli eccitanti che passiamo in rassegna, sono i più sovente usati nella società attuale.

Abbiamo distribuito in dodici gruppi gli agenti principali cui ricorre la medicina, e che noi studiamo nell'ultimo capitolo sotto il titolo di Medicamenti. Questi dodici gruppi sono: i narcotici, i tetanici, i sedativi, i purganti, gli emetici, i diuretici, i sudorifici, gli emollienti, gli stimolanti, gli astringenti, i tonici ed i modificatori.

Tale è il complesso delle nozioni che, abbraccia la scienza in famiglia. 325 figure eseguite colla massima cura, completano ed animano le nostre descrizioni. Saremo lieti se quest'opera modesta sveglia in alcune giovani menti il gusto delle scienze positive, e sopratutto se giova a dare ai nostri lettori delle nozioni precise sopra soggetti troppo trascurati nella educazione. (…)

Riporto l’ottavo capitolo, quello dedicato agli apparecchi di illuminazione, che ancora non considera l’uso dell’elettricità: il brevetto della prima lampada ad incandescenza sarebbe stato registrato da Edison solo nel gennaio del 1880, come suo solito senza riconoscere che l’invenzione non era sua. Di tutte le altre materie trattate da Figuier avrò modo di parlare in altri articoli, sulla base delle reazioni e degli interessi dei lettori.



VIII.

GLI APPARECCHI DI ILLUMINAZIONE

L'olio abbruciato nelle lampade, il sego o l’acido stearico modellati in candele, il gas fornito dalla decomposizione del carbon fossile, infine liquidi combustibili conosciuti sotto il nome di idrocarburi, tali sono i diversi prodotti che servono all'illuminazione, pubblica o privata. La storia abbreviata e la descrizione dei varii istrumenti e sistemi ai quali l'uomo è ricorso per procacciarsi una luce artificiale fu già esposta in altri volumi di questa collezione che trattano delle grandi invenzioni. Qui considereremo in modo generale la questione dell'illuminazione, portando la nostra attenzione sullo studio fisico e chimico della fiamma, nella quale sta tutta la potenza dell'illuminazione.

Che cosa è la fiamma? Dice la chimica che è un gaz riscaldato sino al punto di divenir luminoso. Tutti i corpi, qualunque sia il loro stato fisico, diventano luminosi, cioè si trovano incandescenti, allorché sono portati o mantenuti ad una temperatura sufficientemente elevata. Allorché un gas è molto riscaldato, si arroventa: da invisibile, che era, se incolore, diviene visibile e luminoso, ed allora forma la fiamma.

La temperatura rossa dei corpi gassosi, cioè quella della fiamma, è superiore al calore bianco dei corpi solidi. Volete provarlo? avvicinate alla fiamma d'una lampada un filo di platino o d'amianto, e prima di toccar la fiamma questo filo diventa rosso, ossia s'arroventa. Se fate arroventare al calore un tubo di vetro, e fate passare una corrente d'aria attraverso questo tubo, l'aria non s'arroventa; ma se proiettate allora dei corpi solidi in quest'aria oscura, que' corpi solidi diventano incandescenti; il che prova che: il grado di temperatura che basta per produrre l'incandescenza d'un corpo solido, è insufficiente a produrre l'incandescenza d'un gas, o, in altri termini, che la temperatura della fiamma è superiore al calor bianco dei corpi solidi.

La luce essendo l'effetto d'un accumulamento di calorico, pare, a priori, che quanto più un gas abbruciando sviluppa calore, tanto più deva essere luminoso; in altri termini, che una fiamma deva essere tanto più risplendente quanto più è calda. Ma l'esperienza insegna che questa relazione non è fondata. Ciò che produce sovratutto lo splendore d'una fiamma, è il deposito fatto nel suo interno, d'un piccolo corpo solido; in questo caso, il corpo solido divenendo luminoso aggiunge il suo proprio splendore a quello della fiamma.

In appoggio di questo principio, citiamo alcuni fatti.

L'idrogeno è di tutti i gas quello che, abbruciando, sviluppa la maggior quantità di calore: eppure la fiamma del gas idrogeno è appena visibile: dipende da ciò, che il prodotto della combustione del gas idrogeno è il vapore d'acqua cioè una sostanza non solida. L'alcool produce, abbruciando, una temperatura molto elevata; tuttavia la fiamma dell'alcool è estremamente pallida, poiché, durante la sua combustione, il suo idrogeno ed il suo carbonio abbruciano intieramente senza lasciare residuo solido. L'etere solforico abbrucia con una fiamma splendida, perché esso contiene più carbone che l'alcool, ed una parte del carbonio non abbruciato si deposita nell'interno della fiamma.

Il fosforo abbruciando diffonde per l'aria uno splendore straordinario, perché il prodotto della sua combustione è un corpo solido e non volatile, l'acido fosforico. Lo zinco, come il fosforo, abbrucia all'aria con uno splendore straordinario, perché il prodotto della sua combustione, l'ossido di zinco, è un corpo solido e non volatile. Il gas dell'illuminazione è luminosissimo, perché contiene molto carbonio, ed una parte di questo carbonio si deposita nella fiamma; al contrario l'ossido di carbonio brucia con una luce pallidissima, perché tutto il carbonio che contiene, si disperde durante la sua combustione in molecole di un composto gassoso, l’acido carbonico. Tutti questi esempi provano, che lo splendore d'una fiamma non dipende unicamente dalla sua temperatura, ma anche da piccoli corpi solidi che si depositano nel gas in combustione.

In una fiamma è solamente la superficie esterna del gas che trovasi in combustione ; il rimanente del corpo gassoso è poco riscaldato. In una fiamma (fig. 198) vi sono tre spazii, tre zone, di diversa temperatura; la zona interna A è affatto oscura; essa è formata dal gas o dai vapori del corpo grasso che dileguano nella combustione, poiché i gas essendo cattivi conduttori del calorico, il calore della zona esteriore non penetra più sino a questo strato. Per questo motivo la zona interna A e oscura ed appena calda. Ciò si prova introducendo nell'interno di questo spazio un po' di polvere da fuoco raccolta in un piccolo cucchiaio e assicurata in questo con un piccolo coperchio, che si ritirerà dopo aver introdotta la polvere nel centro della fiamma; questa polvere si conserverà senza abbruciare. La zona esterna C è quella che raggiunge il più elevato grado di temperatura; difatti è la parte che trovasi da tutte le parti a contatto dell'aria, e che per conseguenza subisce una combustione completa. Qui la temperatura è elevatissima, ma il grado di splendore è debole, perché tutto il carbonio è consumato abbruciando, e nel centro della fiamma non si deposita alcun corpo solido che possa dargli splendore. La zona di mezzo B è meno calda della zona esterna, perché l’aria non vi penetra che in parte, e la combustione è incompleta: ma considerevole è il suo potere illuminante, il suo grado di splendore, perché, a causa appunto di quest'incompleta combustione, un corpo solido, cioè il carbonio, si deposita in questa parte della fiamma, il che la rende luminosa.


Da che proviene la forma conica che presentano tutte le fiamme? Essa proviene da ciò, che il corpo che abbrucia è un gas, ovverossia dei vapori combustibili che sfuggono dal corpo grasso che impregna lo stoppino. Il gas che, sviluppandosi, traversa la zona infiammata, abbrucia in questo punto continuando sempre a sollevarsi nell'aria: ma a misura che s'innalza, la combustione, che subisce, lo diminuisce di volume ad ogni istante; questa specie di cilindro di vapori combustibili va sempre più riducendosi, il suo diametro continua a diminuire o termina a punta. Da ciò, la forma conica sotto la quale appaiono tutte le fiamme.

Tenendo una campana di vetro od un bicchiere, al disopra d'una fiamma, sia fiamma di lampada, o di candela, o di gas, ecc., bentosto scorgerete che le pareti interne del vaso si ricoprono d'acqua liquida. Perché? perché i prodotti risultanti dalla combustione delle materie che ci danno l'illuminazione, sono l'acido carbonico ed il vapore d'acqua: in questa esperienza l'acido carbonico, corpo gassoso, si spande per l'aria senza lasciar traccia alcuna: ma. il vapore d'acqua, incontrandosi con un corpo freddo, vi si condensa, e produce nell'interno del vaso di vetro le piccole gocciole che avete osservate.

Varie sostanze danno alla fiamma un colore speciale : i sali di stronziana la colorano in rosso, i sali di rame in colore azzurro, i sali di barite in giallo verdastro, l'acido borico in verde. Mescolando questi sali nei fuochi artificiali ne escono fuochi di color rosso, azzurro, ecc. L'abilità del pirotecnico sta nel disporre saviamente ed acconciamente questi sali per dare alle fiamme svariati colori.


Una fiamma, quando i vapori combustibili si sviluppano senza essere intieramente consumati, diviene fumosa. Quest'inconveniente succede sovratutto nella candela e nelle lampade mal costrutte. La candela fuma, perché lo stoppino, mutato in una massa voluminosa di carbone, sta nell’interno della fiamma; questo corpo estraneo, voluminosissimo, posto in mezzo alla fiamma, ne abbassa continuamente la temperatura; quindi i vapori del corpo grasso non sono abbruciati completamente; il fumo che apparisce è l'effetto di questa combustione incompleta. Le lampade munite d'un tubo-caminetto di vetro, diventano fumose, se la corrente d'aria, provocata da questo tubo-caminetto, è troppo debole per l'intiera combustione del corpo grasso.

A noi basti questo sguardo generale sulla fiamma sotto il rispetto chimico. Queste considerazioni, per essere applicate a tutti i casi speciali dell’illuminazione, richiederebbero uno sviluppo maggiore di quanto possano concedere i limiti di questo libro.



domenica 17 gennaio 2010

Piccola antologia dei poeti inesistenti (3)



Nel suo ultimo romanzo in russo, Il dono, scritto a Berlino fra il 1935 e 1937, e pubblicato a puntate a Parigi sulla rivista ufficiale della diaspora russa antirivoluzionaria, Nabokov descrive la formazione alla vita, alla letteratura e all'amore dello scrittore russo Fyodor Konstantinović Godunov-Cherdyntsev, nato a Lešino il 12 luglio 1900 ed emigrato a Berlino negli anni Venti.

Godunov-Cherdyntsev è l’autore di Poesie (1952), volumetto di circa cinquanta poesie di dodici versi, tutte sul tema dell'infanzia. In questa raccolta dall'apparente ovvietà dei versi, Godunov-Cerdyncev cerca di generalizzare i propri ricordi, tipici di ogni infanzia felice, senza contaminazioni.

La raccolta si apre con la poesia II pallone perduto:

Sotto un armadio l'uomo nero
ha inghiottito il mio pallone.
Lo cerco invano, mi dispero,
piango. «Aspetta, porto un lume!».
E con lo sghembo attizzatoio
la njanja fruga, poi si china
e trova: un laccio di cuoio,
un ago, un chiodo, una forcina.
E a un tratto quello salta fuori
nel buio trepidante, rotola
per terra come vivo, e poi –
in una nuova, ignota botola.

E si chiude con la poesia II pallone ritrovato:

Soltanto quadri, icone, tende,
restarono ai loro posti.
Nel '16 qualcosa avvenne
in casa: zitte, di nascosto,
le stanze andavano a scambiarsi
credenze, paraventi, letti,
sofà, specchiere con intarsi,
ed altri ingombranti oggetti.
Di dietro un lavabo di legno
comparve sulle nude assi
il mio pallone perso: pegno
di un misterioso compimento.

Godunov-Cherdyntsev è stato anche l’autore di un libello scritto contro lo scrittore Nikolaj Gavrilovič Černyševskij (1828-1899), autore del romanzo Che fare?, che esercitò una grande influenza sulle generazioni di rivoluzionari russi della seconda metà dell’Ottocento. Lenin, che nel 1905 scelse lo stesso titolo per il trattatello in cui delineava la teoria dell'organizzazione del partito rivoluzionario, considerava Černyševskij un precursore, mentre Stalin fece del suo realismo letterario l’estetica ufficiale dell’Unione Sovietica proprio negli anni in cui Godunov-Cherdyntsev iniziava la sua carriera di scrittore. Černyševskij è per Godunov-Cherdyntsev il caposcuola di tanta robaccia zdanovista. Per questo lo mette alla berlina, criticando soprattutto la sua estetica e l’incomprensione per l’arte, anche se ammira il coraggio della sua opposizione al regime zarista, che lo esiliò in Siberia. Secondo me comunque i russi potrebbero scegliersi dei nomi e cognomi meno complicati.

Non fu mai pubblicata invece la biografia, mai portata a termine, che lo scrittore preparò a lungo del padre, il conte Konstantin Godunov-Cherdyntsev, famoso esploratore ed esperto di lepidotteri (come Nabokov), scomparso durante una spedizione in Asia centrale nel 1917.


Fyodor Godunov-Cherdyntsev: si noti l'impressionante somiglianza con l'argentino Federico Juan Carlos Loomis

Sempre Vladimir Nabokov, vero scopritore di talenti, parla di John Shade, poeta e letterato statunitense, professore universitario e autore di Fuoco pallido (1962), poema in quattro canti della lunghezza totale di 999 versi, il cui titolo è ripreso da un verso di Shakespeare. Il componimento è preceduto da una prefazione e seguito da un commento scritti da Charles Kinbote, esule dal paese nordeuropeo di Zembla, recente amico e collega di Shade nella medesima università americana. La prefazione ci informa che Shade fu assassinato per errore da un sicario, che voleva uccidere lo stesso Kinbote, solo poche ore dopo che ebbe finito il poema. L’amico ha pubblicato in seguito il manoscritto con il proprio commento.

Il poema di Shade è autobiografico. Il primo canto descrive i suoi precoci incontri con la morte e accenna alla sua idea di sovrannaturale. Egli immagina di duplicarsi oltre la morte di un uccello che si schiantato contro la sua finestra, proiettandosi nell’azzurro del cielo:

Ero l’ombra del beccofrusone ucciso
dal falso azzurro nel vetro:
ero il fumo denso di peli bruciati – e io
vivevo, volavo, nel cielo riflesso.
E dall’interno, poi, avrei duplicato
me stesso…

Nel secondo canto parla della sua famiglia e del suicidio della figlia Hazel; il terzo si concentra sulla ricerca di conoscenza riguardo l’aldilà e culmina in una “debole speranza” di poteri superiori “che giocano con i mondi”, come dimostrerebbero le coincidenze apparenti:

Ma tutto in una volta mi divenne chiaro che ciò
era il punto reale, il tema del contrappunto;
solo questo: non un testo, ma una tessitura;
non il sogno ma coincidenza disordinata,
non un fragile nonsenso, ma una rete di senso.

Il canto finale offre dettagli della vita quotidiana e del processo creativo di Shade, con riflessioni sulla sua poesia, che ritiene un mezzo per comprendere in qualche modo l’universo:

Sento di capire
l’esistenza, o almeno una minuta parte
della mia esistenza, solo attraverso la mia arte,
in termini di piacere combinatorio;
e se il mio privato universo ha una metrica corretta,
fa così il verso di galassie divine
che sospetto sia un verso giambico.
Sono abbastanza sicuro che sopravviviamo
e che la mia cara da qualche parte è viva,
così sono ragionevolmente sicuro che io
mi alzerò domani alle sei, il ventidue
giugno millenovecentocinquantanove.


John Shade

Kinbote, fuoriuscito dal suo paese a causa di una rivoluzione che ha cacciato la famiglia reale, racconta di essere stato certo che il poema sarebbe stato un inno celebrativo della storia recente di Zembla, che spesso aveva raccontato a Shade. Ha scoperto invece con disappunto che il poema non tratta minimamente del suo paese, citato di sfuggita solo una o due volte. Così, per Kinbote il commento diventa l'occasione per narrare le storie di Zembla, e il poema assume una posizione subordinata rispetto al commento, dieci volte più lungo. Esso rivela gli eccessi della saccente erudizione di Kinbote, la sua incapacità di concepire l’ovvio, la vanitosa insistenza sui propri convincimenti a spese di quelli dell’autore. Per quanto egli si dichiari devoto a Shade e alle sue opere, non è in grado di afferrare i particolari del mondo immaginativo del poeta, dimostrando di essere incapace di comprendere gli individui che non siano se stesso. Ne nasce un contrappunto (una delle parole–chiave del libro) tra i due testi, giocato sul filo dell’equivoco:

Così, i versi 137–139, che parlano del “miracolo della lemniscata lasciata sulla sabbia umida dalle ruote della bicicletta”, sono così annotati dal commentatore perplesso: "il dizionario definisce la lemniscata una quartica bicircolare e unicursale. Non capisco cosa questo abbia a che fare con il ciclismo, e sospetto che la frase non abbia nessun significato".

E ai versi 213–214, che riportano il sillogismo secondo cui “gli altri muoiono, ma io non sono gli altri, dunque non morirò”, replica: “questo potrà soddisfare un bambino, ma in seguito la vita ci insegna che noi siamo quegli altri”.

(continua)

I primi due capitoli dell’Antologia sono stati pubblicati qui e qui.

venerdì 15 gennaio 2010

Piccola antologia dei poeti inesistenti (2)



Ho concluso la prima parte di questa rassegna con un poeta venezuelano e nella seconda mi occupo di una serie di poeti argentini. In effetti, l’America Latina ha dato i natali a molti poeti inesistenti, forse per l’abbondanza dei loro esegeti. Al primo posto tra questi va senz’altro collocato il dottor Bustos Domecq. Talento precoce, avendo pubblicato le sue prime opere a dieci anni, Honorio Bustos Domecq, “brutto muso” per gli intimi, ispettore scolastico e avvocato dei poveri, romanziere e saggista argentino, è, secondo Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, l’autore della raccolta di storie poliziesche Sei problemi per don Isidro Parodi (1942) e dei saggi contenuti in Cronache di Bustos Domecq (1967). Entrambi i testi sono preceduti dalla saccente ed enfatica prefazione di Gervasio Montenegro, attore e membro dell'Accademia Argentina di Letteratura, nonché protagonista o comparsa nei due libri (1).

Nei Sei problemi per don Isidro Parodi tutte le storie ruotano attorno alla figura di un barbiere di origine italiana, condannato ingiustamente a vent’anni di reclusione per l’omicidio di un macellaio, che risolve sei casi polizieschi senza muoversi dal carcere. Dotato di grande intelligenza deduttiva come e più dei famosi Holmes e Dupin, egli riceve i suoi clienti nella cella numero 273 e, dopo averli ascoltati, li invita a tornare dopo qualche giorno: senza uscire, risolve il caso svelando l'enigma e inchiodando i colpevoli. In effetti vicende e personaggi si intrecciano in quella cella da una storia all’altra, in un groviglio di situazioni e rimandi che sembra un gioco di specchi. Negli episodi compaiono anche poeti come Carlos Anglada, autore dei sonetti di Le pagode senili (1912), delle odi panteiste di Io sono gli altri (1921) e degli Inni per milionari (1934, pubblicati in cinquecento esemplari numerati, opera di tendenza aristocratica e nel contempo operazione mercantile).

Pure nelle Cronache ogni cosa s'intreccia e si biforca, tanto è vero che, in mezzo alle biografie e alle analisi dell’attività di poeti, pittori, cuochi, scrittori e scienziati, Bustos Domecq non esita a citare se stesso o le sue opere.

Honorio Bustos Domecq

Le Cronache si aprono con un omaggio alla multiforme opera di César Paladiòn, emerito console argentino a Ginevra, autore di undici volumi tra prosa e poesia e saggistica. La sua metodologia di "dilatazione di unità" è stata oggetto di tante monografie critiche che riesce quasi superfluo esporla di nuovo. Prima di Paladiòn, l’unità letteraria che gli autori accoglievano dall’eredità precedente, il divisore comune per così dire, era la parola, o tutt’al più la frase bell’e fatta. Di altri autori gli scrittori o i commentatori citavano e inglobavano locuzioni, frasi, versi, qualche breve periodo. Paladiòn, già dalla sua prima pubblicazione nel 1909, andò oltre, annettendosi, per così dire, un’opera completa, I parchi abbandonati di Herrera y Reissig. Paladiòn gli dette il proprio nome e lo passò in tipografia senza togliere né aggiungere una sola virgola, regola alla quale si mantenne sempre fedele. Convinto di non essere all’altezza di adottare il proprio metodo con tutte le opere che gli piacevano (tra queste la Divina Commedia, che fu invece oggetto delle attenzioni di un altro artista porteño, Hilario Lambkin Formento), egli limitò la sua scelta a una decina di testi di vario genere e di varie lingue, comprese quelle che non conosceva. Così pubblicò a proprie spese e con tiratura limitata romanzi come Emile, Il segugio dei Baskerville o La capanna dello zio Tom, saggi come La provincia di Buenos Aires fino alla definizione della questione Capitale della Repubblica, oppure il De Divinatione (direttamente in latino) o ancora i versi delle Georgiche tradotte in spagnolo da Ochoa. Quando morì, stava preparando Il Vangelo secondo San Luca, opera di stampo biblico. Purtroppo della sua attività restano poche tracce, stante l’esiguità delle copie messe in circolazione. Ma il suo metodo, a torto definito plagio e invece segno di assoluta mancanza di vanità, è l’indiscussa testimonianza della sua arte originale.

Forse il suo seguace più fedele è stato il francese Pierre Menard, che volle riscrivere il Don Chisciotte, l’indimenticabile romanzo di Cervantes, e, nello sforzo di reinventare nel presente il capolavoro del passato, finì con il ripeterlo alla perfezione parola per parola.


César Paladiòn

Poeta originale fu senza dubbio anche Federico Juan Carlos Loomis, che non credette mai alla virtù espressiva della metafora, evitando accuratamente di servirsene nelle sue opere. Artista dalla disciplina e dall’opera severa, ebbe modo di dichiarare, in uno dei cenacoli letterari che frequentava, che la forza di evocazione della parola "luna" è assai superiore al "tè degli usignoli" come l’aveva mascherata Majakowskij. Tra il 1911 e il 1924 uscirono le opere del suo primo periodo, tutte nate da improbe fatiche personali: Orso (1911), preceduto dallo studio scientifico dell’animale, reiterate visite allo zoo, l’acquisto di litografie e fotografie e persino di esemplari adulti imbalsamati, Branda (1914), frutto dell’esperienza autoimposta di vivere un mese e mezzo in un povero caseggiato popolare, Basco (1916), per il quale l’autore apprese la lingua basca, Crema (1922), ispirato dal consumo di latte per curare un’ulcera al duodeno, Luna (1924), nata dall’istallazione di un telescopio sul terrazzino di casa e culmine della prima sua fase artistica. Improvviso, poi, un pluriennale silenzio, trascorso nello studio snervante, che cessò nel 1931 con l’uscita del suo capolavoro, pubblicato postumo, Forse. Fedele fino in fondo alla sua concezione di economia del linguaggio, egli pubblicò in tutto sei parole: orso, branda, basco, crema, luna e forse, perché nelle opere di Loomis non c’è conflitto tra titolo e contenuto, i due elementi coincidendo rigorosamente.


Federico Juan Carlos Loomis

Santiago Ginzberg ricorda invece i tentativi di René Ghil di ideare una lingua i cui suoni sappiano rendere sinesteticamente l’essenza del concetto, l’anima della poesia. Diceva l’argentino: «II mio proposito è la creazione di un linguaggio poetico formato da termini che non hanno esatta equivalenza nelle lingue comuni, ma che denotano situazioni e sentimenti che sono, e son sempre stati, il tema fondamentale della lirica».

l primo testo che dette alle stampe fu il libro di poesia Chiavi per tu e io (1923), una serie di sonetti che qua e là rivelavano importanti novità linguistiche:

In un gruppo noi amici nel cantone la sera paramano ci abbandona.

Dove paramano, che il dizionario definisce «parte della manica che sta più accosto al polso, e dicesi specialmente dell'interno o fodera», è invece, secondo l’autore, «l'emozione di una melodia che abbiamo ascoltata una volta, che abbiamo dimenticata e che dopo anni ritroviamo». Oppure:

Labbra d'amore, poi unite dal bacio, dissero, come sempre, nocomoco.

Che Ginzberg così spiegò nei suoi taccuini: «Gl'innamorati sogliono ripetere che, senza saperlo, han vissuto cercandosi, che già si conoscevano prima di vedersi e che la loro stessa felicità è la prova del fatto che son sempre stati vicini. Per risparmiare o abbreviare simili tiritere, suggerisco che articolino nocomoco». Interessante è anche:

Cassetta! la negligenza degli astri abiura la sapiente astrologia.

Bustos Domecq, temendo errate interpretazioni della parola iniziale del bel distico (cassetta in spagnolo è buzòn), avanzò l'ipotesi che la parola fosse un mero errore e che il verso dovesse leggersi:

Tritone! la negligenza degli astri

o, se si preferisce:

Oh sorcio! la negligenza degli astri.

In realtà il termine non indica il tipico aggeggio che ingoia le lettere attraverso una feritoia; l’autore preferì l'accezione di «casualmente, fortuitamente, in modo incompatibile con un cosmo».

Il secondo libro di poesia, il cui sottotitolo è Bouquet di stelle profumate, è il risultato di una evoluzione per la quale interi versi non contengono alcuna parola che figuri nel dizionario, come:

Hloj ud ed ptà jabuneh Jróf grugnì.

In cui jabuneh denomina «la melanconica peregrinazione a luoghi un tempo divisi con l'infedele» e grugnì, preso nel suo significato più lato, vale «lanciare un sospiro, un irreprimibile lamento d'amore».


Santiago Ginzberg

Espressione di un secolo frettoloso, Tullio Herrera (1942) è l’incarnazione della massima che quel che manca non fa danno. La sua estetica era già visibile nella sua opera prima, Apologia (1959), scritta in difesa di un congiunto accusato sei volte di plagio e del quale Herrera riuscì a non fare mai il nome, omettendo anche i titoli delle opere incriminate e di quelle che gli sarebbero servite da modello. La sua seconda opera, la raccolta di versi Ci si alzi ora (1961), stupì per i risultati dello stile innovativo già dal verso iniziale:

Mostro siede folklorico mancante

vero miracolo di concisione e risultato di un lungo lavoro di cesello. I taccuini del poeta rivelano infatti qual era la prima versione di quel verso: Mostro di Creta, il Minotauro siede / in domicilio proprio, il labirinto: / invece io, folklorico e castagno, / mancante son di tetto a ogni ora. E del titolo dell’opera, Ci si alzi ora, sappiamo che è l’ellissi dell’adagio “Per quanto presto ci s’alzi fa giorno alla stessa ora”.

L’ultimo lavoro di Herrera è il romanzo Sia fu, concluso nel 1965 ma ancora non dato alle stampe. Si tratta di una storia di rivalità tra due donne omonime innamorate dello stesso uomo, che culmina nell’avvelenamento di una delle due a causa di un duplice caso di omonimia. Il titolo è biblico, derivando dalla frase “Sia la luce e la luce fu”. Il libro è la realizzazione pratica del programma dell’autore, che scrive interi periodi eliminando poi il superfluo. Il risultato è una trama in cui i personaggi sono semplici comparse, che indugiano in conversazioni di scarso peso e non sanno niente di quello che accade. Nessuno comprende nulla, e ancora meno il pubblico. Bustos Domecq, che ha acquistato i diritti del romanzo e deve attendere la morte del fin qui troppo sano Herrera per darlo alle stampe, ha già pensato al monumento funebre, che consisterà, applicando alla scultura i canoni del compianto poligrafo, di un orecchio, un mento e un paio di scarpe.


Tullio Herrera

Questa breve rassegna sui poeti immaginari argentini non può concludersi senza aver ricordato il multiforme Vilaseco, e sue opere: Pene dell’anima (1901), La tristezza del fauno (1909), Mascherina (1911), Caleidoscopio, pubblicato dalla rivista “Prua”, la satira Viperina, Evita capitana (1947) e il suo canto del cigno, Ode all’integrazione, dedicato a più uomini di governo. Tutti questi testi non furono mai pubblicati dall’autore. Vilaseco solo in articulo mortis cedette all’amichevole costrizione di Bustos Domecq affinché fosse pubblicata una plaquette con le sue opere, in cinquecento esemplari numerati da vendere per corrispondenza ai bibliofili. Fu un garzone idiota, tale Zanichelli, che, invece di limitarsi a scrivere gli indirizzi per la spedizione, volle leggere le poesie e scoprì che, salvo i titoli, erano tutte esattamente la stessa, ripetuta immutata per cinquant’anni e mai letta da nessuno.




(1) È doveroso segnalare tuttavia che alcuni sostengono che Montenegro sia uno pseudonimo adottato dallo stesso Bustos Domecq, ad onta del fatto che, nella nota al testo, quest’ultimo rimprovera Montenegro di essersi arbitrariamente incaricato di scrivere la prefazione. Altri ancora ritengono che sia Bustos Domecq sia Montenegro siano personaggi fittizi dietro i quali si nascondono Borges e Bioy Casares. Insomma, è ancora necessario un paziente lavoro di ricerca e di critica.

giovedì 14 gennaio 2010

Carnevale della Matematica n. 21, matematti e Obama



Il ventunesimo Carnevale della Matematica questo mese è ospitato da Chartitalia, blog di classifiche, politica e scienze. Il nome di questo appuntamento, Carnevale, indica la molteplicità di approcci e colori con la quale i partecipanti, blogger divulgatori e matematti, presentano argomenti di interesse matematico.

Questa volta Popinga partecipa con due contributi: il primo riguarda un'illustrazione del contenuto del manoscritto conservato all'Ambrosiana di Milano del De Divina Proportione di Luca Pacioli, arricchito dalle celebri tavole di Leonardo sui solidi platonici; il secondo, Coleridge e la Geometria, riguarda i versi che un giovanissimo Samuel Taylor Coleridge, il poeta romantico inglese, dedicò a un problema di geometria elementare, rivelando i consueti pregiudizi dei non esperti sull'"aridità" della matematica.

Strani tipi, questi matematti, tanto incompresi in Italia quanto apprezzati all’estero e particolarmente nei paesi all’avanguardia dello sviluppo scientifico. Così mentre da noi scuola, università e ricerca sono considerati una mera voce di spesa nel bilancio statale, negli USA, ad esempio, si investono soldi per potenziare le competenze matematiche e scientifiche della popolazione.

È di qualche giorno fa la notizia che il presidente americano Barak Obama ha preannunciato un piano da 250 milioni di dollari per formare diecimila nuovi insegnanti di matematica e scienze, chiarendo che, ve lo lascio in originale, "Our future depends on reaffirming America's role as the world's engine of scientific discovery and technological innovation" e che “That leadership tomorrow depends on how we educate our students today, especially in math, science, technology and engineering”. Obama è infatti preoccupato dalla discesa della popolazione giovanile del suo paese nelle classifiche internazionali delle competenze matematiche, che si riflette nel pericolo che gli usa possano cedere la loro leadership mondiale in campo scientifico e tecnologico.



La principale preoccupazione del nostro ministro dell’istruzione sembra invece l’insegnamento della religione cattolica: poi non lamentiamoci se torneremo a partire con le valigie di cartone, più poveri, per fortuna più santi.

domenica 10 gennaio 2010

Piccola antologia dei poeti inesistenti (1)



Ernesto Ragazzoni era un poeta che aspirava a non scrivere nulla, a possedere una biblioteca di libri non scritti da sfogliare comodamente nella sua mente. E che dire allora dei poeti che hanno invece lasciato opere, spesso di pregevole fattura, pur non essendo mai esistiti? Sì, perché la letteratura è anche questo, la possibilità che un componimento in versi nasca da un padre non identificabile attraverso una biografia reale. Sto parlando di poeti inesistenti, per i quali la pagina bianca non è quella di un’opera in versi, che è qui, davanti ai nostri occhi, ma è la pagina della loro esistenza, che qualcuno si è divertito a compilare con abbondanza di particolari oppure con pochi, vaghi, cenni, o, ancora, lasciando al lettore il gusto o l’onere di immaginare una vita dietro quelle righe.

Di un poeta misconosciuto e, lui davvero, maledetto, si è occupato Honoré de Balzac ne Le illusioni perdute, Rizzoli, Milano, 1999. Si tratta di Lucien Chardon de Rubempré, giovane autore della raccolta di sonetti sui fiori dal titolo Margherite. Il manoscritto fu acquistato dall’editore parigino Dauriat, che, tuttavia, non lo pubblicò mai. L’autore fu trascurato per il suo stile petrarchesco: le sue immagini risultavano incomprensibili od obsolete in un’epoca dominata dal positivismo. Tornò nella natia Angoulême, più povero di quando era partito, dopo aver rovinato anche la sua famiglia. Di de Rubempré riporto il secondo e il cinquantesimo sonetto. Qualcuno ha voluto attribuire quest’ultimo a Théophile Gautier:

La Margherita

Sono la margherita, ed ero la più bella
Dei fiori screziati nel prato vellutato.
Felice, mi si cercava solo per la mia beltà,
E lusingavo di un'aurora eterna la mia età.

Ahimè! una virtù nuova, nonostante me
Ha versato sulla mia fronte la sua chiarezza fatale;
la sorte mi ha condannata al dono della verità,
E soffro e muoio: la scienza è mortale.

Non ho più silenzio, non ho più riposo;
L'amore, con due parole, l'avvenire mi ha strappato.
Lacera il mio cuore per leggervi che è amato.

Sono il solo fiore che si getta senza rimpianto:
Si spoglia la mia fronte del suo diadema bianco,
E resta schiacciato quando il mio segreto ho rivelato.

Il tulipano

Io, io sono il tulipano, d'Olanda il fiore;
E tale è la mia bellezza che il Fiammingo avaro
Un mio bulbo più di un diamante paga caro,
Se sono dritto, grande e di un bel colore.

La mia aria è feudale, e come una Iolanda
Nella sua gonna a ricchi piegoni,
Porto su me dipinti blasoni;
Argento, oro e porpora a banda;

II divino giardiniere ha filato con le sue mani
Raggi di sole e porpora di sovrani
Per farmi un vestito dalla trama dolce e fina.

Nessun fiore del giardino eguaglia il mio splendore,
Ma la natura, ahimè!, non ha versato odore
Nel mio calice fatto come un vaso di Cina.



Uno dei poeti inesistenti più noti e prolifici è senza dubbio l’inglese Randolph Henry Ash (? – 1889), di cui parla Antonia S. Byatt in Possessione. Una storia romantica, Mondadori, Milano, 1999. L’intera vicenda del romanzo, una duplice storia d’amore, ruota intorno alla vita di questo poeta vittoriano, alle sue poesie e alla sua corrispondenza con Christabel LaMotte, anch’ella poetessa, con la quale ebbe un tormentato e clandestino amore culminato nella nascita di un figlio illegittimo.

Le poesie di Ash rivelano la possessione (presa di possesso), l’assimilazione di idee e immagini poetiche altrui e l’imitazione delle voci di altre culture e periodi, particolarmente della mitologia scandinava. Il suo stile ricalca gli accenti di poeti vittoriani come Robert Browning e, in misura minore, Tennyson, Matthew Arnold, Swinburne, e Dante Gabriel Rossetti. Ash ha pubblicato Ragnarök (1840), poema ateo e drammaticamente disperato, i versi intensi raccolti in Dèi, uomini ed eroi (1856), il lungo poema Il giardino di Proserpina (1861), meditazione sui miti della resurrezione, il poema Mummy Possest (1863), il cui titolo è una citazione di John Donne, tremendo attacco al mondo dei medium dai toni misogini:

Prendi la sfera di cristallo, dolce Geraldine.
Scrutane la superficie. Osserva come sinistra e destra,
sopra, sotto, si rovesciano in essa
e nel suo centro riluce uno spazio
come un mondo sommerso con fiamme che guizzano in basso,
questa stanza in miniatura, capovolta.
Guarda attentamente, e vedrai agitarsi
sotto i veli la visione spiritica, vedrai
ciò che non è qui, ma viene da oltre il confine.

(…)

Non sai che noi Donne non abbiamo Potere
nel freddo mondo degli oggetti governato dalla Ragione,
ove tutto è misurato e meccanico?
Là siamo ornamento, balocchi, proprietà,
fiori recisi catturati in vaso,
per splendere un giorno e poi morire. Ma vedi,
in questa stanza segreta, cinta da tende
di vaga morbidezza, fiocamente rischiarata
da barlumi e guizzi, ove ogni forma
è indistinta, ogni suono ambiguo,
qui abbiamo Potere, qui l'Irrazionale,
l'Intuizione delle Potenze Invisibili
parla ai nostri nervi di donna, fili galvanici
che raccolgono, interpretano e trasmettono
Forze invisibili e la loro Volontà nascosta.
Questo è il nostro mondo negativo, dove l'Invisibile,
l'Inudito, Impalpabile e Sconfinato
parla a e attraverso di noi - siamo noi che sentiamo,
le nostre nature vibrano della loro forza.

Vieni in questo mondo rovesciato, Geraldine,
dove il potere scorre verso l'alto, come nella sfera,
dove la sinistra è destra, le lancette ruotano al contrario,
e le donne siedono in trono e indossano la toga,
e ghirlande di rose profumate e corone,
e gioielli tra i capelli, sardonice,
pietra di luna, rubini e perle,
pietre reali, di un mondo in cui siamo sacerdotesse
e Regine potenti, e tutto è pervaso dal nostro Volere.

Tutti i maghi hanno usato stratagemmi. Non siamo
nulla di più o di meno di tutti i Grandi Sacerdoti
che trattennero le masse nella fede esibendo
fuochi d'artificio e magie per impressionare
con simboli del fulgore divino quegli occhi ottusi
che dai nostri discorsi non caverebbero alcun senso.

Infine Swammerdam, dedicato all’entomologo olandese del ‘600 Jan Swammerdam, è una riflessione con echi miltoniani sul destino dell’uomo di fronte al progresso scientifico:

Cercai di conoscere le origini della vita.
Lo ritenevo legittimo. Forse che Dio
dandomi mani e occhi non mi aveva dotato dell'abilità
di creare il mio paziente manichino di rame
che teneva ferme le lenti, variamente curve,
su molecole viventi che imparai
a scrutare e poi esaltare
in scala sempre crescente
di ingrandimento o riduzione,
finché mi apparvero piani e connessioni
di crescente vertiginosa complessità?
Potevo sezionare l'occhio di un'efemera,
distendere la cornea di un moscerino e in essa vedere
rovesciato e moltiplicato
il campanile della Chiesa Nuova,
come tante capocchie di spillo, su cui nessun Angelo danzava.
L'ala di una farfalla squamata come cotta di maglia,
gli aguzzi uncini sulle zampe delle mosche –
vidi  in questo nostro mondo un mondo nuovo –
mondo di miracoli, di verità
mostruoso e pullulante di vita insospettata.

L'acqua del bicchiere che mi accosti alle labbra
ci rivelerebbe, se avessi le mie lenti,
non la limpida chiarezza che pensiamo –
acqua pura – ma un'orda ribollente e tumultuosa
di microbi che dimenano code dragonesche
spinti da molle e spire e tentacoli capillari
come balene che solchino i mari del globo.
Il cristallo ottico è come una spada affilata.
Moltiplica il mondo, o lo divide –
vediamo i molti in uno, come qui,
e le fessure in quel che appariva piano,
scabri pozzi e crateri sulla pelle di una dama,
o peli e scaglie sui suoi capelli lucenti.

Più i Molti mi venivano rivelati
più mi affannavo nella caccia all'Uno –
Prima Materia, mutevole forma della Natura
sempre costante nelle sue metamorfosi.



Del terzo e ultimo poeta di questa prima parte si è occupato Roberto Bolaño in La letteratura nazista in America, Sellerio, Palermo, 1998, vero manuale letterario di scrittori e opere rigorosamente inventati, sul quale avrò modo di ritornare. Si tratta del venezuelano Franz Zwickau (1946–1971), che passò attraverso la vita e la letteratura come un turbine. Figlio di emigranti tedeschi, padroneggiò alla perfezione sia la lingua dei genitori sia la lingua della sua terra natale.

Pubblicò due libri di poesia. Il primo, Motociclisti (1965), è una raccolta di venticinque sonetti di stile e musicalità eterodossi incentrata su temi giovanili come la moto, gli amori disperati, il risveglio sessuale e la volontà di purezza. Il secondo, II figlio dei criminali di guerra (1967), è invece un libro raggelante, pieno di imprecazioni, maledizioni, bestemmie, incubi, che venne ovviamente ignorato se non malignamente occultato dalla critica. Alcune poesie sono memorabili, come Dialogo con Herman Goerìng all'Inferno, in cui il poeta, in sella alla moto nera dei suoi primi sonetti, arriva in un aerodromo abbandonato sulla costa venezuelana, in un posto chiamato Inferno, dove incontra l'ombra del maresciallo nazista, con cui parla di aviazione, vertigini, destino, case disabitate, coraggio, giustizia, morte. In Heimat l’autore descrive in una singolare mescolanza di spagnolo e tedesco le parti intime del suo corpo con una freddezza da medico legale che esegue un’autopsia.

Il figlio dei criminali di guerra, la lunga poesia che da il titolo al secondo libro, è un opera concitata e aberrante in cui Zwickau, che si rammarica di non essere nato venticinque anni prima, da libero sfogo alla sua inventiva verbale. In originali versi liberi l'autore descrive un'infanzia atroce, balla, canta, si masturba, fa sollevamento pesi, sogna una Berlino favolosa, recita Goethe, Jùnger, assume le voci di un montanaro alpino, di una contadina, di un carrista tedesco morto nelle Ardenne nel dicembre del 1944, di un giornalista statunitense a Norimberga.

Zwickau si schiantò con la sua moto quando non aveva ancora compiuto i venticinque anni. L’anno precedente aveva pubblicato il romanzo breve Camping Gattabuia (1970). Solo dopo la morte si venne a conoscenza delle poesie scritte in tedesco, Meine Kleine Gedichte, una raccolta di centocinquanta brevi liriche di ambientazione piuttosto bucolica.



(continua)