venerdì 28 febbraio 2014

Riconoscere nell’immenso il piccolo, quanta voluttà!


Otto anni dopo la morte di Jacob Bernoulli (1654-1705), nell’agosto 1713, fu pubblicato in latino a Basilea il testo, lasciato incompiuto, dell’Ars Conjectandi, l’opera che fondò il moderno calcolo delle probabilità, che conteneva una teoria delle permutazioni e delle combinazioni, i cosiddetti numeri di Bernoulli, dai quali egli ricavò le serie esponenziali, lo studio della prevedibilità matematica e morale, lo studio della probabilità con la cosiddetta legge dei grandi numeri. Assieme ai quattro libri sull’«arte di fare previsioni» basate sulla matematica nel campo dei giochi e della vita civile, sociale ed economica, il volume conteneva anche il Tractatus de seriebus infinitis, che costituiva una ristampa unitaria delle cinque “dissertazioni” sull’argomento pubblicate separatamente (ma concepite come un tutt’uno) dal matematico svizzero tra il 1686 e il 1704. Concludeva l’edizione una lettera in francese sul Jeu de Paume, un antenato del tennis. 

Una serie è la somma degli elementi di una successione (una lista ordinata di elementi, detti termini). Le successioni e le serie finite hanno il primo e l’ultimo termine definiti (ad esempio, i numeri naturali da 1 a 100), mentre le successioni e le serie infinite continuano indefinitamente (ad esempio i numeri pari). Nel secondo caso, data una successione infinita di numeri {an}, una serie è informalmente il risultato ottenuto sommando tutti i termini: a1+ a2+ a3+ … L’operazione si può scrivere in modo più compatto utilizzando il simbolo Σ. Il risultato può essere un valore finito (allora la serie è detta convergente), può essere infinito (serie divergente), oppure, se il limite non esiste, la serie si dice indeterminata o oscillante.

Nel trattato sulle serie infinite, Bernoulli vuole dare una struttura euclidea alla teoria delle serie, cioè organizzarla come una successione di proposizioni derivate da certi assiomi. Sul modello degli Elementi di Euclide, egli basa il suo studio su diversi principi impliciti (ad esempio, la possibilità di estendere all’infinito regole valide per processi finiti) e su nozioni indefinite (così egli non fornisce una definizione di somma o di limite). Il testo inizia con tre assiomi: 

1. Ogni quantità può essere divisa in parti più piccole; 
2. Data una quantità finita, si può assumere una quantità che sia più grande di questa quantità; 
3. Data una quantità, se si toglie una sua parte e si sottrae da essa ciò che rimane, si ottiene quella parte (cioè: dato A, se A – B = C, allora A – C = B). 

Le prime due proposizioni sono: 

a) Una quantità più piccola di qualsiasi altra quantità è nulla; 
b) Una quantità più grande di qualsiasi altra quantità è infinita. 

Per dimostrare il primo teorema, Bernoulli sostiene che, se una quantità più piccola di qualsiasi altra quantità non fosse nulla, allora potrebbe essere divisa in parti più piccole e ciò è contrario all’ipotesi. Allo stesso modo, nel secondo teorema, se una quantità è più grande di qualsiasi altra quantità fosse finita, allora non potrebbe essere aumentata, il che è contrario all’assioma 2.

Dopo aver affermato che ogni progressione geometrica può essere continuata all’infinito, perché si possono aggiungere sempre nuovi termini (diversi da zero o da infinito), Bernoulli dimostra che: 

c) Date una progressione geometrica A, B, C, D, E e una progressione aritmetica A, B, F, G, H, se i primi due termini di entrambe le progressioni sono identici, allora i termini C, D, E di una progressione geometrica sono più grandi dei corrispondenti termini F, G, H della progressione aritmetica. 

Se poniamo A = 1 e B = 1 + a, questo teorema fornisce la disuguaglianza di Bernoulli

(1 + a)n > (1 + a) 

La dimostrazione di Bernoulli è la seguente. Dato che A : B = B = C, allora A + C > 2B = A + F e CF. Inoltre:
A + D B + C > B + F = A + G

Da cui DG, e così via. 

Poi il matematico svizzero dimostra i due seguenti enunciati: 

d) Una progressione geometrica crescente a1, a2 può essere continuata fino a un termine an maggiore di ogni dato numero Z

e) Una progressione geometrica decrescente a1, a2 può essere continuata fino a un termine an minore di ogni dato numero Z.

Per dimostrare il teorema e), Bernoulli considera una progressione geometrica crescente b1, b2 tale che b1 = Z e il rapporto b1 : b2 sia il reciproco del rapporto a1 : a2. Questa progressione può essere continuata fino a un termine bn > a1 (per l’enunciato d). Ora, continuando la progressione a1, a2 fino a an, dato che: 
e  a<  bnsi ottiene an < b1 = Z 

Bernoulli fornisce anche due corollari ai due ultimi teoremi: 

f) L’ultimo termine di una progressione geometrica crescente è ∞. 

g) L’ultimo termine di una progressione geometrica decrescente è 0. 

Non si preoccupi il lettore: qui sopra ho riassunto solo le prime 3 delle 66 pagine del trattato! Nelle rimanenti, egli raggiunge altri importanti risultati, quali:

h) la somma della serie armonica è infinita, cioè:


è divergente (Bernoulli credeva che la dimostrazione fosse nuova, ma in realtà era già stata fornita dal bolognese Pietro Mengoli quarant’anni prima); 

i) la somma della serie dei reciproci dei numeri quadrati, vale a dire:


è convergente, ma Bernoulli non è in grado di trovare una forma chiusa (cioè una formula), perché è un problema “più difficile di quanto ci si aspettasse”, anche se riesce a dimostrare che essa converge a un limite finito più piccolo di 2. Egli afferma: “Se qualcuno la trova, ce la comunichi, perché il nostro sforzo è stato vano, e avrà tutta la nostra riconoscenza”. Fu in seguito Eulero, nel 1737, a ottenere la soluzione di questo che divenne noto come il problema di Basilea, calcolando che la somma converge a π2 / 6. 

La seconda parte del trattato si intitola De usu serierum infinitarum in quadraturis spatiorum et rectificationibus curvarum, e riguarda le applicazioni dei suoi risultati sulle serie infinite, che egli utilizza per la rettificazione di alcune curve algebriche e il calcolo di alcune funzioni notevoli. Così, dopo aver introdotto il concetto di serie mista (in cui, date due serie, ciascun termine della prima è moltiplicato per il corrispondente termine della seconda), Bernoulli dimostra ad esempio come le serie infinite possano consentire di rettificare un arco di circonferenza o calcolare il logaritmo di un numero o, ancora, calcolare i punti su una curva catenaria o su una lossodromica. 

Naturalmente Jacob Bernoulli non era il solo a studiare le serie infinite, perché dell’argomento si erano già occupati, tra gli ultimi, Pietro Mengoli e l’olandese Christiaan Huygens. Nello stesso periodo Gottfried Wilhelm von Leibniz, il suo maestro, gli inglesi John Wallis e, naturalmente, Isaac Newton stavano ponendo le basi del calcolo infinitesimale, il Calculus per eccellenza. Eppure, in tutti questi uomini, man mano che procedevano le scoperte, rimaneva un senso di meraviglia per il fatto che una somma infinita potesse dare un risultato finito o che proprio il calcolo di grandezze estremamente piccole potesse rivelare connessioni inaspettate tra campi diversi come l’algebra, la geometria o la teoria dei numeri. 

Questo sentimento è bene espresso dalla poesia in latino che Bernoulli volle porre a conclusione e commento del suo trattato: 


Come una serie infinita cinge una finita 
sommetta, e nell'illimitato un limite esiste: 
così persistono le vestigia dell’immensa divinità
in un piccolo corpo e nell'angusto limite il limite scompare. 
Riconoscere nell'immenso il piccolo, quanta voluttà! 
Nel piccolo l’immenso Dio discernere, quanta! 

Nota: La traduzione è mia, mi perdonino i latinisti, perché quella fornita da Piergiorgio Odifreddi non mi è sembrata abbastanza fedele; inoltre, “numinoso”, termine inventato dallo storico delle religioni e teologo Rudolf Otto nel 1917, poco ci coglie in un’opera della fine del Seicento.


martedì 18 febbraio 2014

La vita secondo Boileau

L’uomo, la cui vita intera
è di novanta e sei anni,
dorme un terzo della carriera,
che è giusto trentadue anni.

Aggiungiamo per infermità,
processi, viaggi, vari danni,
almeno un quarto dell’età
che fa altri ventiquattro anni.

Ogni giorno due ore di letture,
o di lavori – fanno otto anni,
nere tristezze, ore dure  -
fanno in totale sedici anni

Per gli affari che uno progetta,
mezz’ora - ancora due anni.
Cinque quarti d’ora di toeletta:
barba, eccetera – cinque anni

Ogni giorno, per bere e mangiare,
due ore fanno certo otto anni.
Ciò porta il nostro daffare
fino ai novantacinque anni.

Resta ancora un anno per fare
come gli uccelli al primo tepore.
Così ci resta, ogni dì da campare,
un quarto d’ora di buonumore.

Nicolas Boileau (1636 – 1711),  poeta, scrittore e critico letterario francese del tempo di Luigi XIV, era destinato agli studi di giurisprudenza, ma, per amore della letteratura, abbandonò la professione di avvocato appena ricevette la ricca eredità paterna. Dapprima uomo di corte, poi sempre più interessato alla religione, criticò violentemente i gesuiti da posizioni gianseniste. Sul piano della critica letteraria, nella discussione sugli antichi e i moderni, prese posizione per i primi, diventando il più strenuo difensore del classicismo, «il legislatore del Parnaso». Dal punto di vista poetico fu autore soprattutto di versi satirici, talvolta feroci, talvolta invece venati di una leggera e malinconica partecipazione per la sorte dell’uomo.

Chi conosce il francese apprezzerà di sicuro il testo originale: 

L'homme, dont la vie entière 
Est de quatre-vingt-seize ans, 
Dort le tiers de sa carrière, 
C'est juste trente-deux ans. 

Ajoutons pour maladies, 
Procès, voyages, accidents 
Au moins un quart de la vie, 
C'est encore deux fois douze ans. 

Par jour, deux heures d'études 
Ou de travaux - font huit ans, 
Noirs chagrins, inquiétudes – 
Pour le double font seize ans. 

Pour affaires qu'on projette 
Demi-heure, - encore deux ans. 
Cinq quarts d'heures de toilette: 
Barbe et cætera – cinq ans. 

Par jour, pour manger et boire 
Deux heures font bien huit ans. 
Cela porte le mémoire 
Jusqu'à quatre-vingt-quinze ans. 

Reste encore un an pour faire 
Ce qu'oiseaux font au printemps. 
Par jour, l'homme a donc sur terre 
Un quart d'heure de bon temps.

mercoledì 12 febbraio 2014

Il problema del trasporto ottimale (nel piano)

Figlio di un venditore ambulante, Gaspard Monge nacque a Beaune nel 1746 durante l’Ancien Régime. A causa delle sue notevoli doti matematiche, le autorità militari lo ammisero come assistente in una scuola di formazione militare per il disegno geometrico, alla quale non avrebbe potuto iscriversi per le sue umili origini. Inventò da solo la geometria descrittiva, e l’utilità del metodo era così evidente che fu nominato professore all’età di 22 anni, a patto che la sua teoria fosse rimasta segreto militare, ad uso esclusivo degli ufficiali di più alto grado. Nel 1780 gli fu assegnata la cattedra di matematica all’Università di Parigi. 

Monge fu un ardente rivoluzionario, ministro della Marina, membro del Direttorio, si occupò della riforma del calendario, della riforma delle unità di misura, di lavori pubblici e di istruzione. Scampò per un pelo alla ghigliottina durante il Terrore e, tornato a Parigi, divenne docente all’École Normale e poi all’École Polytechnique, che aveva fondato. Era amico intimo di Napoleone che seguì anche durante la spedizione in Egitto. Dopo il 18 Brumaio, fu membro del Senato conservatore. La maggior parte della sua opera fu dedicata alla geometria, che trattò in diverse opere pubblicate a cura dell’École Polytechnique. Tra di esse Applicazione dell'algebra alla geometria (1805) e Applicazione dell'analisi alla geometria (1816). La quarta edizione di quest’opera, rivista da Monge poco prima della sua morte, contiene tra l’altro la soluzione di un'equazione differenziale alle derivate parziali del secondo ordine. Privato di ogni carica dopo la restaurazione, morì a Parigi il 28 luglio 1818. 

Oltre che al suo lavoro di geometra, la fama di Gaspard Monge si deve oggi soprattutto alla “memoria” del 1781 intitolata Mémoire sur la théorie des déblais et des remblais, il primo lavoro in cui ci si occupa di trasporto ottimale di una massa. Il problema affrontato è esposto dall’autore all’inizio dell’opera: 

«Quando si deve trasportare della terra da un luogo all’altro, è d’uso chiamare Déblai il volume di terra che di deve trasportare, e quello di Remblai allo spazio che essa deve occupare dopo il trasporto. Siccome il prezzo del trasporto di una molecola, a parità di tempo impiegato, è proporzionale al suo peso e allo spazio che si deve farle percorrere, e perciò il prodotto del trasporto totale deve essere proporzionale alla somma dei prodotti delle molecole moltiplicate per lo spazio percorso da ciascuna, ne consegue che, essendo il déblai e il remblai dotati di forma e posizione, non è indifferente che una certa molecola del déblai sia trasportata in un luogo o in un altro del remblai, esiste invece una certa distribuzione da seguire delle molecole dal primo al secondo, in modo che la somma dei prodotti sia minima possibile, e il prezzo del trasporto totale sia altrettanto minimo. […] È la soluzione a questo problema che mi propongo di trovare qui».


Con un linguaggio più semplice e conciso, la domanda è la seguente: dato uno scavo di terra (déblai), qual è la maniera migliore di estrarlo e trasportarlo in un posto dove possa essere utilizzato come materiale per una nuova costruzione (remblai)? Il problema è di grande importanza perché il trasporto è caro, e lo si vuole rendere il meno costoso possibile. Nonostante la sua intenzione dichiarata, Monge non diede una soluzione soddisfacente del problema. Alla fine della sua opera, non esitò a riconoscere di non aver risolto il problema pratico, ma si dichiarava comunque soddisfatto d’aver trovato qualche nuova proprietà delle superfici curve.

Il trasporto nel piano - Il testo è diviso in due parti, a seconda che il problema si ponga nel piano o in uno spazio a 3 dimensioni. In questa prima parte ci occuperemo solamente del problema nelle 2 dimensioni. 

Spostare della terra da un luogo all’altro del piano è un problema concreto, che nasceva da una effettiva esigenza nell’ambito delle costruzioni militari. Indichiamo con D1 il luogo del déblai, che supponiamo limitato da una curva giacente nel piano. Allo stesso modo, il remblai D2 è limitato da una curva. Per semplificare, Monge suppone che la densità del materiale sia costante e che D1 e D2 abbiano la stessa superficie. 

Per trasportare la terra da D1 a D2, bisogna inviare la “molecola di terra” situata in un punto (x,y) di D1 verso il punto F(x,y) di D2. F rappresenta una certa applicazione di D1 verso D2. Ciò significa che per ogni sottodominio D di D1, l’area di D (proporzionale alla massa del materiale) è uguale a quella di F(D). 

Il prezzo di un tale trasporto F è “proporzionale alla somma dei prodotti dei [pesi delle] molecole moltiplicati per lo spazio percorso”. La molecola situata nel punto (x,y) possiede un peso (proporzionale a) dxdy e viene trasportata per una distanza || F(x,y) – (x,y)||. In formula, il prezzo del trasporto è pertanto proporzionale a:

Il problema di Monge consiste perciò nel trovare il trasporto ammissibile che possiede il costo minore.

La prima grande intuizione del saggio, semplice e bella, oggi la chiameremmo un lemma:

«Le traiettorie seguite da due punti qualunque non possono incontrarsi tra le loro estremità».


La prova risiede nel fatto che la linea retta è il cammino più corto tra due punti. Se un trasporto invia il punto A su a e B su b e se i segmenti Aa e Bb si intersecano, si può modificare il trasporto decidendo di inviare la molecola A sulla molecola b e B su a; il prezzo del trasporto sarà minore perché la somma delle distanze Ab + Ba è minore di Aa + Bb. Si tratta di un’idea feconda. 

Consideriamo ora una retta che incontra prima il déblai e poi il remblai. Se le parti dei due domini che sono dallo stesso lato di questa retta hanno la stessa area, si dice che la retta è equisecante. Sulla figura di Monge, BDbd è una equisecante che taglia i déblais e i remblais in due parti BAD e bad che hanno la stessa area. Monge afferma che il trasporto ottimale deve necessariamente trasportare BAD su bad.


Sfortunatamente, questa affermazione è falsa, nel senso che non è così generale come sembra. Anche Monge lo sa e, otto pagine più avanti, si legge che “la soluzione precedente è illusoria”. Più precisamente, non è sempre valida. La prova si vede dalla figura: se un punto K di BAD è trasportato da un’altra parte, ad esempio in k, poiché le aree delle due parti sono le stesse, bisogna allora che un punto esterno a BAD, ad esempio L, sia trasportato all’esterno di bad in l. Monge conclude che Kk e Ll si incrociano, come nella figura, ma in realtà non è difficile trovare delle situazioni che smentiscono questo assunto. In ogni caso, questo secondo “lemma” è vero in molti casi interessanti, e possiamo procedere come se Monge avesse ragione. 

Una retta nel piano dipende da due parametri, come risulta dall’equazione generale esplicita y = mx + q. La condizione che una retta sia un’equisecante esprime una relazione tra m e q. Monge afferma che le equisecanti formano una famiglia che dipende da un solo parametro. 

La descrizione delle famiglia di rette a un parametro nel piano era ben nota a Monge. Supponiamo che si abbia una retta Δ(t) che dipende dal parametro t. Le due rette infinitamente vicine Δ(t) e Δ(t+dt) si incontrano in un certo punto p(t) che descrive una curva al variare di t. Questa curva è chiamata inviluppo della famiglia di rette Δ(t). Allo stesso modo, data una curva, si può considerare la famiglia delle sue tangenti in punti diversi: si tratta di una famiglia a un solo parametro. Nella figura, l’inviluppo è rappresentato a sinistra. La situazione ottimale, quella in cui la soluzione di Monge funziona, è quella in cui il déblai e il remblai si trovano dallo stesso lato rispetto all’inviluppo. La soluzione di Monge è allora molto semplice: per ogni equisecante, si trasporta BD su bd

Rimane da sapere come trasportare ciascuno degli intervalli BD sull’intervallo bd corrispondente. La sola restrizione è di fare in modo che la massa sia preservata. Lo si può fare in molte maniere, se non si impongono delle condizioni di continuità, ma Monge suggerisce di trasportare in maniera crescente, in modo che il punto B sia trasportato nel punto b, e il punto D in d

Se l’inviluppo penetra nel luogo del déblai o in quello del remblai, la dimostrazione non funziona più. Monge lo sa. Egli suggerisce di dividere il déblai e il remblai in parti scelte opportunamente (non dice come) e di applicare il metodo precedente alle singole parti. 

Le figure che seguono, che dovrebbero chiarire la situazione, sono tratte da una memoria di Charles Dupin pubblicata nel 1822. A sinistra si tratta di trasportare in modo ottimale la forma ovoidale superiore sul dominio a forma di fagiolo. Bisogna innanzitutto chiarire perché nella figura le traiettorie non sono segmenti: Dupin, per superare il suo maestro, considera un caso un po’ più realistico in cui il terreno non è perfettamente piano e le traiettorie sono allora ciò che noi oggi chiamiamo geodesiche invece che dei segmenti. Ciò nonostante, il problema trattato da Dupin è sostanzialmente lo stesso. Si osserva che le equisecanti si tagliano all’interno del déblai: l’inviluppo è mal posizionato.


A destra Dupin rappresenta il trasporto ottimale, che non è continuo. Esso presenta una discontinuità lungao una curva di rottura DD’D’’D’’’. Bisogna immaginare che il trasporto ottimale comporti in qualche modo la rottura del dominio ovoidale lungo questa curva. 

Riferimento principale: Étienne Ghys, «Gaspard Monge» — Images des Mathématiques, CNRS, 2012.

lunedì 10 febbraio 2014

Le radici di Boris Vian

Ci sono radici di tutte le forme: 
la puntuta, la rotonda, la difforme. 
Quella dell’altea è angelica, 
c’è una Racine (1) che è classica 
e la mandragora è diabolica: 
anche se è invadente 
non ci si può fare niente. 
Ma la radice che io adoro 
che si estrae senza fatica, 
è la radice quadrata, la mia preferita. 
Una radice di aspetto peggiore 
è quella dell’albero motore. 
Il drogato fa fuoco e fiamme 
per quella dell’albero a camme. 
Se ha la radice della manioca 
qualcosa a che fare con la tapioca, 
evitiamo con grande attenzione 
(di mangiare) quelle del dente di leone (2). 
Ci sono delle radici a mazzi cedute,
i ravanelli, le carote, le  rape barbute. 
Quella dell’erica voi conoscete 
dalla quale si creano pipe discrete. 
C’è la radice della canna per pescare: 
coltivatela, su, chi ve lo sta a vietare? 
Ma la radice che io adoro 
che si estrae senza fatica, 
è la radice quadrata, la mia preferita. 

Il y a des racines de tout' les formes 
Des pointues, des rond' et des difformes 
Cell' de la guimauve est angélique 
Il y a une Racin' (1) qui est classique 
Et la mandragore est diabolique 
Mêm' s'il nous bassin' on n'y peut plus rien 
Mais la racine que j'adore 
Et qu'on extrait sans effort-eu 
La racin'carrée, c'est ma préférée 
Une racine qu'a un aspect louche 
C'est cell' de l'arbre de couche 
Le drogué vend son âme 
Pour cell' de l'arbre à cames 
Si la racine du manioc a 
De quoi fair' du tapioca 
Evitons tout' not' vie 
(de bouffer) Celle du pissenlit (2) 
Il y a des racin' qui s'vend' en bottes
Le radis, l'navet ou la carotte 
Vous connaissez celle de la bruyère 
Dans laquell' on taille des pip' en terre 
Il y a la racin' de canne à pêche 
Cultivez-la donc, qu'est-ce qui vous empêche? 
Mais la racine que j'adore 
Et qu'on extrait sans effort-eu 
La racin'carrée, c'est ma préférée. 

(1) Jean Racine ("radice") è stato il più grande drammaturgo classico del Seicento francese. 
(2) Manger les pissenlits par la racine significa essere morto e sepolto. 

Boris Vian (1920-1959) è stato un genio poliedrico: scrittore anticonformista, poeta, inventore di parole, commediografo, jazzista, cantante a autore di canzoni, traduttore, critico, inventore e ingegnere. Il suo capolavoro letterario fu l’originalissimo e surreale La schiuma dei giorni (1947). Fu anche l’autore della splendida canzone antimilitarista Le déserteur (scritta nel 1954 subito dopo la guerra d’Indocina) e membro del Collège de Pataphysique.

venerdì 7 febbraio 2014

Un incontro


(da un mio racconto inedito di dieci anni fa, ambientato nel 1176) 

Con i nostri compagni di viaggio fummo ospiti dello Spedale del Tempio, vicino alla chiesa di Santa Maria. Fu all'ingresso di quella magione che conobbi Oberto Leccacorvi. Era di nobile famiglia e nipote di vescovo, ma si faceva chiamare fra Teofilo. 

Era un vecchio di sessant'anni, ancor più piccolo di me, con un collo gracile, il viso emaciato, gli occhi nerissimi, la fronte rugosa e aggrinzita, le narici schiacciate, la bocca prominente, le labbra tumide, il mento sfuggente e affilatissimo, la barba da capro, le orecchie villose e appuntite, i capelli irti e arruffati, i denti aguzzi, il cranio a punta, malamente ricoperto da un sudicio cappuccio; una protuberanza al centro del petto lo faceva sembrare un uccello e il suo corpo, sempre chinato in avanti, era agitato da movimenti convulsi.

Portava il saio dei penitenti e, in un certo modo, lo era: molti anni prima aveva ucciso il giovane nobile Stefano Vicedomini, della cui promessa sposa s'era invaghito. Pentitosi, si era spogliato di tutti i suoi beni, aveva risarcito la famiglia della vittima, ottenendo il perdono dei parenti e della giustizia secolare, e aveva affrontato un lungo digiuno; per più di vent'anni aveva vissuto da eremita nelle selve della pieve di Fiorenzuola. Si diceva che fosse stato lui ad indicare agli inviati di Bernardo cistercense il luogo, al Carretum, dove si era posata una colomba giunta dal cielo. E il santo colà aveva deciso di fondare la chiesa e il convento di Chiaravalle della Colomba. 

Tornato in città, ai tempi della guerra con Parma, aveva predetto la caduta di un bolide infuocato che aveva abbattuto parte della torre di Santa Maria di Campagna e si era poi perso nel Po. Tre anni più tardi sognò un'aquila di ferro che si posava sulle torri della città, presagendo la distruzione delle stesse ad opera del Barbarossa. Nonostante il suo abbigliamento e le sue doti profetiche, non apparteneva ad alcun ordine regolare o secolare ed era malvisto, se non esecrato da Vallombrosani, Ospitalieri e Benedettini. Aveva tuttavia un piccolo pugno di seguaci, attratti dal suo carisma perverso e dalle sue abilità dialettiche. 

Fermò il nostro gruppo e ci apostrofò con voce ispirata. "Salvate le vostre anime! Fermatevi e tornate alle vostre case! Non andate a lordarvi con lo sterco della Bestia! E' a Roma che Romolo uccise suo fratello e Nerone sua madre, che Giulio Cesare fu assassinato e i santi Pietro e Paolo suppliziati e Lorenzo arso vivo! Roma, tutti i giorni tu fai strazio del popolo di Dio! I cardinali vanno in giro ardenti di cupidigia, pieni di simonia, conducendo mala vita, senza fede e senza religione. Vendono Dio e sua madre, tradiscono il loro Maestro, divorano tutto. Troppo essi fanno disperare i fedeli! Che cosa fanno dell'oro di cui si riempiono con gli oboli? Non ne fanno certo né strade, né ponti, né ospedali! E più di tutti dannato è il figlio di Caino, il compare di Giuda, il sodale di Simon Mago, colui che indegnamente siede sul trono di Pietro e fornica con le meretrici, corrompe i giovani, depreda i sudditi! A lui non è dovuta nessuna riverenza e nessuna devozione! Fermatevi, romei, volgete il passo e abbandonate la strada di Sodoma e Gomorra!" 

Se a Piacenza la storia di Teofilo e le sue nobili origini non fossero state conosciute, sicuramente per quelle parole sarebbe stato arrestato e poi arso vivo. In più il momento politico era poco opportuno per discorsi che, criticando il papato, potevano essere intesi come filo-imperiali in una città ribelle. Ma quelle invettive potevano anche essere interpretate come rivolte all'antipapa fatto eleggere dal Barbarossa ed erano pronunciate da un duce senza esercito, da un mezzo profeta mezzo matto che non rappresentava un pericolo, come invece succedeva con i càtari e altri eretici, il cui numero aumentava di giorno in giorno in tutte le città lombarde. E quelle parole esprimevano anche un sentimento che, seppure con toni più attenuati, era condiviso da molti fedeli. 

L'impressione che quest'incontro fece sui presenti fu molto diversificata. Mentre Lanfranco rideva e io non sapevo che cosa rispondere, i poveri pellegrini fiamminghi, che non capivano il volgare dell'uomo e poco sapevano anche di latino, si guardavano l'un l'altro con fare interrogativo. Quello che sembrava il loro capo, uno spilungone biondo come il grano e dalla pesante mascella quadrata, dopo un breve conciliabolo con alcuni compagni, fece segno al gruppo di entrare nello Spedale. Abbozzando un sorriso imbarazzato, disse: "Fiat foluntas Teei. Packhs tibi, frater." 

Teofilo, non domo, fermò allora le tre donne del gruppo, in verità tutte piuttosto bruttine, investendole con la continuazione della sua predica: "E voi femmine, che siete più facili prede della lussuria e della corruzione, abbandonate la via di Roma! La maggior parte di quelle che vanno alla nuova Babilonia soccombe, poche di coloro che tornano conservano la castità. Non v'è città d'Italia in cui non ci sia una pellegrina divenuta adultera o prostituta!" Gli uomini del gruppo s'affrettarono a circondare le compagne per difenderle dall'invasato. Nel loro barbaro linguaggio lanciarono a Teofilo delle invettive catarrose e spinsero le compagne dentro l'edificio. 

Lanfranco si limitò a guardare di sbieco quell'individuo, sibilando un sintetico "Ma va' a cagà" e infilando la porta. Solo io rimasi sul posto, colpito da qualcosa d'indefinibile nelle parole che avevo udito. Cercai di calmarlo. Gli spiegai che Lanfranco ed io non eravamo romei, ma diretti a Modena per i lavori della Cattedrale. Placò un poco il suo tono apocalittico e chiese chi fossi. Mi presentai come Raimondino da Campione, apprendista scultore. Alle mie parole disse "La tua è arte vana. A che servono quelle torri di Babele, quando basta una croce in un bosco per pregare?" Mi scrutò da capo a piedi e si allontanò accennando un segno di benedizione.

sabato 1 febbraio 2014

Dov'è lo scarafaggio?

Dov'è lo scarafaggio? Sul divano o sotto il balcone? Piero lo vede oppure no?


(Rielaborazione di un disegno di David Povilaitis, trovato a pag. 70 de La quarta dimensione di Rudy Rucker, Adelphi, 1994)