martedì 12 marzo 2019

Charles Babbage, la Macchina Analitica e Ada Lovelace


Nel 1864, Charles Babbage (1791–1871) che abbiamo già incontrato tra i membri della Analytical Society, dal 1828 al 1839 professore a Cambridge, pubblicò a Londra un’autobiografia, Passages From The Life of a Philosopher, dedicata al Re d’Italia Vittorio Emanuele II, in memoria di suo padre. Ciò perché: 
“Nel 1840, il re, Carlo Alberto, invitò i sapienti d'Italia a riunirsi nella sua capitale [allora era Torino]. Su richiesta del suo Analista più dotato, ho portato con me i disegni e le spiegazioni del Macchina Analitica. Questi sono stati accuratamente esaminati e la loro verità è stata riconosciuta dai migliori figli d’Italia. Al re, Vostro padre, sono debitore per il primo riconoscimento pubblico e ufficiale di questa invenzione”. 
Più oltre, ci informa che: 
“Nel 1840 ricevetti dal mio amico Signor Plana una lettera che mi invitava con insistenza a raggiungere Torino per l'allora prossimo incontro dei filosofi italiani. In quella lettera, Plana dichiarò di aver chiesto con ansia a molti miei compatrioti le funzioni e il meccanismo della Macchina Analitica”. 

Plana era il vogherese Giovanni Plana (1781-1864) matematico e astronomo, allievo del grande Joseph-Louis Lagrange e amico di gioventù di Henry Beyle, il futuro Stendhal, con il quale aveva studiato a Grenoble. Dopo aver dimostrato le sue qualità all’École Polytechnique di Parigi, nel 1811 Lagrange lo raccomandò per la cattedra di Astronomia a Torino, dove fu anche insegnante di matematica alla scuola di artiglieria. Nello stesso anno diventò socio dell’Accademia delle Scienze di Torino. Sarebbe rimasto nel capoluogo piemontese per il resto della vita. I suoi interessi furono molteplici, e comprendevano l’analisi matematica, la fisica matematica la geodesia, oltre alla meccanica celeste. Plana fu famoso soprattutto per aver pubblicato nel 1832 a Torino i tre massicci volumi della Théorie du mouvement de la lune, opera per la quale ebbe numerosi riconoscimenti internazionali. 

L'incontro a cui aveva invitato Babbage ebbe luogo all'Accademia delle Scienze di Torino. Si trattava del secondo congresso degli scienziati italiani. L'invito a Babbage nel 1840 fu quindi il riconoscimento del suo lavoro ai più alti livelli internazionali all'interno della comunità scientifica. Babbage non ebbe bisogno che glielo chiedessero due volte: imballati i suoi progetti, i disegni e le descrizioni della Macchina Analitica, si recò a Torino. 

Quella dell’Accademia torinese non era l’oggi consueta conferenza di sessanta minuti, compreso il tempo per le domande. Babbage trascorse diversi giorni a Torino con l'élite della comunità scientifica e tecnica italiana. La presentazione appassionò gli scienziati italiani e proseguì in seminari ristretti. Particolarmente interessato a questi seminari, nei quali per la prima volta si discusse di concatenamento delle operazioni di calcolo, ci fu l'ingegnere e matematico Luigi Federico Menabrea (1809-1896), il quale in seguito descrisse il progetto di Babbage in un'opera che pubblicò in francese a Ginevra nel 1842, Notions sur la machine analytique de Charles Babbage. Essa può essere considerata la prima nella disciplina dell'informatica. 


Alla carriera scientifica, Menabrea affiancò quella di militare, che gli valse onori e gloria. Diventato generale e poi senatore del Regno e nobile, fu posto nel 1867 da Vittorio Emanuele II a capo del governo. Menabrea, monarchico convinto e appartenente alla Destra Storica, per ottenere il pareggio di bilancio dopo le costosissime spese militari della Seconda Guerra d'Indipendenza, introdusse la famigerata tassa sul macinato, che andava a colpire soprattutto le classi popolari. Ci furono numerose proteste e dimostrazioni in Emilia-Romagna, sedate dall'esercito con un bilancio di 250 morti e 1000 feriti. Menabrea insomma contribuì in modo significativo alla nascita dell'informatica e fu contemporaneamente il propugnatore del più odioso balzello della storia italiana. Così gira il mondo.

La Macchina Analitica, che faceva seguito alla Macchina Differenziale progettata negli anni precedenti e mai realizzata per insormontabili problemi tecnici e finanziari, occupava dal 1834 quasi interamente l’interesse del matematico e inventore inglese. Anch’essa non fu mai realizzata concretamente, ma è un parere universalmente condiviso che essa anticipò i moderni computer. 


Ma che cos’era in realtà la Macchina Analitica di Babbage? L’autobiografia ce ne fornisce una descrizione abbastanza completa prima e dopo aver parlato del suo viaggio a Torino. 
“Per descrivere i successivi miglioramenti della Macchina Analitica sarebbero necessari molti volumi. Propongo qui di indicare solo alcune delle sue funzioni più importanti e di dare a coloro le cui menti sono debitamente preparate alcune informazioni che rimuoveranno quelle vaghe nozioni di meraviglia, e persino della sua impossibilità, con le quali è circondata nelle menti di alcuni dei più illuminati. 
A coloro che hanno familiarità con i principi del telaio Jacquard e che hanno familiarità con le formule analitiche, un'idea generale dei mezzi con cui il motore esegue le sue operazioni può essere ottenuta senza troppe difficoltà. Nell'Esposizione del 1862 c'erano molti splendidi esempi di telai simili. 
È noto come il fatto che il telaio Jacquard sia in grado di tessere qualsiasi disegno immaginato dall’uomo. È anche pratica costante per artisti esperti essere impiegati dai produttori nella progettazione di modelli. Questi modelli vengono quindi inviati ad un artista particolare, che, mediante una determinata macchina, esegue dei buchi in una serie di schede di cartoncino in modo tale che, quando quelle carte vengono posizionate in un telaio Jacquard, esso esegue i sui suoi prodotti secondo il modello esatto progettato dall'artista. 
Ora, il produttore può usare, per l'ordito e la trama del suo lavoro, fili che sono tutti dello stesso colore; supponiamo che siano fili bianchi o non sbiancati. In questo caso il tessuto sarà di un solo colore; ma su di esso ci sarà un modello damascato, come l'artista ha progettato. Ma il produttore potrebbe usare le stesse carte e inserire nell’ordito fili di qualsiasi altro colore. Ogni filo potrebbe anche essere di un colore diverso o di una diversa tonalità di colore; ma in tutti questi casi la forma del modello sarà esattamente la stessa, solo i colori saranno diversi. L'analogia della Macchina analitica con questo processo ben noto è quasi perfetta. 
La Macchina analitica è composta da due parti: 
1. L’archivio (store) in cui sono collocate tutte le variabili su cui operare, nonché tutte quelle quantità derivanti dal risultato di altre operazioni. 
2. Il mulino (mill), in cui vengono sempre portate le quantità che devono essere utilizzate per il calcolo. 
Ogni formula che si può richiedere di calcolare alla Macchina Analitica consiste in determinate operazioni algebriche da eseguire su determinate lettere e in alcune altre operazioni a seconda del valore numerico assegnato a tali lettere. 
Vi sono quindi due serie di carte. La prima serve a comandare la natura delle operazioni da eseguire: queste sono chiamate carte operative. L'altra serve a comandare le particolari variabili su cui tali carte sono obbligate a funzionare: queste ultime sono chiamate carte variabili. Ora, il simbolo di ogni variabile o costante è posto in cima a una colonna capace di contenere qualsiasi numero di cifre richiesto. 
In base a questa disposizione, quando si deve calcolare una formula, deve essere messa insieme una stringa di schede operative, che contengono la serie di operazioni nell'ordine in cui si verificano. Un altro gruppo di carte deve quindi essere preparato, per richiamare le variabili nel mulino, secondo l'ordine in cui devono essere eseguite. Ogni carta operazionale richiederà altre tre carte, due per rappresentare le variabili e le costanti e i loro valori numerici su cui deve agire la scheda dopo l’operazione precedente e una per indicare la variabile su cui deve essere posizionato il risultato aritmetico di questa operazione.
Ma ogni variabile ha al di sotto di essa, sullo stesso asse, un certo numero di ruote marcate sui loro denti con le dieci cifre: su queste si può collocare qualsiasi numero che la macchina è in grado di memorizzare. Ogniqualvolta le variabili vengono ordinate nel mulino, queste cifre verranno introdotte e su di esse verrà eseguita l'operazione indicata dalla carta precedente. Il risultato di questa operazione verrà quindi sostituito nell’archivio.
La Macchina Analitica è quindi una macchina di natura più generale. Qualunque sia la formula che è necessario sviluppare, la legge del suo sviluppo deve essere indicata ad essa da due serie di carte. Quando queste sono stati posizionate, la Macchina lavora su quella particolare formula. Il valore numerico delle sue costanti deve quindi essere collocato sulle colonne delle ruote sotto di esse e, quando viene impostata, la Macchina in movimento, calcolerà e stamperà i risultati numerici di quella formula. Ogni insieme di carte realizzato per qualsiasi formula, in qualsiasi momento futuro, ricalcolerà quella formula con qualsiasi costante richiesta.

Pertanto, la Macchina Analitica possiede una propria libreria. Ogni insieme di carte, una volta creato, riprodurrà in qualsiasi momento i calcoli per i quali è stato in precedenza organizzato. Può quindi essere inserito Il valore numerico delle sue costanti”.
La spiegazione continua con l’esempio, fatto di persona all’amico fisico e matematico irlandese James MacCullagh (1809–1847), che lo accompagnò a Torino, di come la macchina poteva eseguire calcoli per valutare funzioni trigonometriche e logaritmiche, una volta fornita degli opportuni comandi sotto forma di schede perforate che essa stessa poteva preparare. Babbage era in grado anche di valutare i tempi di esecuzione: 
"Supponendo che la velocità delle parti mobili del meccanismo non sia superiore a quaranta piedi al minuto, non ho dubbi che:
• Sessanta addizioni o sottrazioni possono essere completate e stampate in un minuto.
• Una moltiplicazione di due numeri, ciascuno di cinquanta cifre, in un minuto.
• Una divisione di un numero con 100 cifre per un altro di 50 in un minuto.
(…) 
È impossibile costruire macchine che occupano uno spazio illimitato; ma è possibile costruire macchine finite e usarle in un tempo illimitato. È questa sostituzione dell'infinito del tempo per l'infinito dello spazio di cui ho fatto uso, per limitare le dimensioni della Macchina e tuttavia per mantenere il suo potere illimitato".

Fateci caso: la Macchina Analitica possedeva già tutti gli elementi di un moderno computer come si imparano in un corso di alfabetizzazione informatica. Dal punto di vista dell’hardware, essa possedeva delle unità di ingresso (schede perforate), una memoria (archivio), un’unità centrale di elaborazione (mulino) e l’unità di uscita (stampante). Il software era costituito dall’insieme delle istruzioni e dei dati perforati sulle schede, secondo un determinato algoritmo.

Torniamo alla relazione di Menabrea del 1842 e alle conseguenze del viaggio di Babbage a Torino per parlare del contributo fornito allo sviluppo della Macchina Analitica dalla seconda importante protagonista di questa storia, Augusta Ada Byron, meglio nota come Ada Lovelace (1815-1852). Il suo ruolo come “madre dell’informatica” per aver collaborato con Babbage è stato messo in discussione recentemente, soprattutto dopo che in Gran Bretagna si era proposto di mettere il suo ritratto sulla banconota da 50 sterline come tributo alla scienza al femminile. Si è acceso un rovente dibattito tra denigratori e agiografi, questi ultimi rappresentati soprattutto da femministe. 


Ada Lovelace era la figlia legittima di Lord Byron e di Anne Isabella Milbanke, chiamata Annabella, un'ereditiera colta e appassionata di matematica, con la quale si sposò e andò ad abitare a Londra. Come molte delle relazioni sentimentali del’eccentrico poeta, l’unione (che a Byron interessava per motivi economici e sociali) ben prestò terminò, non prima che i due avessero una figlia, Ada, che non vide mai il padre, Giovane debole e malata, Ada ebbe un’educazione matematica discreta, per volere della madre che era angosciata dalla paura che potesse diventare poetessa come il padre, “pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare”

Ada ebbe vari maestri di matematica, tra i quali l'anziano William Frend, suocero di Augustus De Morgan e insegnante di Annabella quando era giovane. Nessuno di questi riuscì davvero a infondere alcun vero entusiasmo o abilità nella ragazza. Più tardi Ada conobbe Mary Somerville, la traduttrice matematica e divulgatrice scientifica e, nel 1833, Charles Babbage e rimase affascinata dalle scienze matematiche. Ricevette alcune lezioni informali dalla Somerville che diventò la sua ispiratrice. Intanto, l'8 luglio 1835 sposò William King-Noel, conte di Lovelace, diventando così Ada Lovelace.

Determinata a conoscere finalmente la disciplina, Ada riuscì a persuadere Sophia, moglie di De Morgan, a diventare sua insegnante per corrispondenza. Le lettere superstiti della loro relazione matematica a distanza mostrano chiaramente che, anche se Ada era ovviamente in possesso di una mente brillante e curiosa, non riusciva a far propri molti importanti concetti fondamentali e la sua preparazione non andò mai oltre quella di uno studente del primo anno di università. Definirla una matematica è perciò abbastanza esagerato. Dorothy Stein, che ha analizzato in dettaglio la corrispondenza matematica De Morgan - Ada, scrive nella sua biografia Ada: A Life and a Legacy (1985): 
“A ventotto anni, [...] e dopo dieci anni di studio intermittente ma a volte intensivo, Ada era ancora una promettente "giovane principiante".” 
Non essendo riuscita a penetrare i segreti della matematica, Ada rivolse la sua attenzione all'occupazione principale dell’amica e ispiratrice Mary Somerville: la traduttrice scientifica. Su consiglio del fisico Charles Wheatstone, amico di Babbage, decise di tradurre dal francese la Memoria di Menabrea. Ecco che cosa scrisse Babbage a questo proposito: 
“Qualche tempo dopo l’uscita della Memoria (…), la defunta Contessa di Lovelace mi informò che aveva tradotto il libro di Menabrea. Le chiesi perché non aveva scritto lei stessa un articolo originale su un argomento di cui era così intimamente a conoscenza. A ciò, la signora Lovelace rispose che l’idea non le era mai venuta in mente. Ho quindi suggerito di aggiungere alcuni appunti alla Memoria di Menabrea; un'idea che fu immediatamente adottata. 
Discutemmo assieme i vari chiarimenti che avrebbero potuto essere introdotti: ne ho suggeriti diversi, ma la selezione era interamente sua. Così fu per la trattazione algebrica dei vari problemi, tranne, in effetti, quello relativo ai numeri di Bernoulli, che mi ero offerto di fare per togliere Lady Lovelace dall’incombenza. Su ciò mi segnalò una correzione, avendo rilevato un grave errore che avevo commesso nella trattazione. Le note della Contessa di Lovelace si estendono per circa tre volte la lunghezza della Memoria originale. La loro autrice è entrata pienamente in quasi tutte le difficilissime e astratte questioni connesse all'argomento. (…) 
Queste due memorie prese insieme forniscono, per coloro che sono in grado di comprendere il ragionamento, una dimostrazione completa: che tutti gli sviluppi e le operazioni di analisi sono ora in grado di essere eseguiti da macchine. [evidenziato nell’originale] 
Quando venne a sapere della traduzione di Ada, Babbage si rese conto di avere una grande opportunità per un po’ di pubblicità e suggerì che la Lovelace avrebbe dovuto abbellire il suo lavoro con le proprie note sulla Macchina Analitica, un consiglio che la giovane donna lusingata colse con destrezza. È evidente dall'ampia corrispondenza tra di loro e dall’autobiografia, che Babbage controllava e supervisionava ogni singolo punto delle note di Lovelace ed è difficile dire quanto fossero l'originale contributo di Ada e quanto Babbage esprimesse attraverso di lei. 

Per valutare le note alla traduzione del saggio di Menabrea sulla Macchina Analitica si dovrebbe prendere in considerazione soprattutto questo fatto: tutto ciò che la Lovelace sapeva dell’invenzione lo aveva appreso da Babbage o, indirettamente, da Menabrea. A questa traduzione Ada Lovelace aggiunse una serie di annotazioni che descrivevano i possibili usi della Macchina. Ma il calcolatore era stato concepito, progettato e parzialmente costruito da Babbage ben prima che lei fosse coinvolta nella vicenda. 


Il Memoriale di Menabrea, che Ada aveva tradotto, conteneva già esempi di programmi per la Macchina Analitica che Babbage aveva usato per illustrare le sue lezioni a Torino e aveva sviluppato alcuni anni prima. L'unico nuovo esempio di programma sviluppato nelle note è quello di determinare i cosiddetti numeri di Bernoulli. Nell’autobiografia, Babbage sostiene che Ada suggerì il programma, che poi scrisse. La corrispondenza suggerisce che Ada fu coinvolta attivamente nello sviluppo del programma, ma questa unica circostanza non fa di lei il primo programmatore di computer. La sua luce, per quanto vivida, fu solo riflessa.

sabato 2 marzo 2019

La grigia estate del 1816


Questa storia inizia nell’aprile 1815 nella lontana isola indonesiana di Sumbawa, dove il vulcano Tambora, uno dei più pericolosi della Terra, si risvegliò dopo una lunga fase di quiescenza, con esplosioni intense e abbondanti emissioni di cenere che oscurarono il cielo dell'intera regione per giorni e provocarono potenti accumuli su tutti i villaggi circostanti. Tre mesi di simili manifestazioni violente provocarono nel Tambora una diminuzione di quota di 1.300 metri; da più dei 4.100 metri originari, l’edificio vulcanico era passato agli attuali 2.850. Complessivamente, vennero proiettati in aria circa 150 miliardi di metri cubi di roccia, cenere e altri materiali, oltre a impressionanti quantità di gas, soprattutto anidride solforosa (SO2). Le continue esplosioni crearono catastrofi in aree lontane anche più di mille chilometri, con una stima di 60-70 mila morti, dovuti sia direttamente all'esplosione che alle pesanti carestie che seguirono il disastro.

L'eruzione del Tambora si andava ad aggiungere ad altri eventi vulcanici recentissimi: nel 1812 era esploso con violenza il Soufrière, nei Caraibi, mentre nel 1814 fu il Mayon, nelle Filippine, ad entrare in attività. Tutte queste eruzioni sparsero enormi quantitativi di cenere e polvere nell'atmosfera, producendo un denso "velo" di polvere vulcanica nella stratosfera, che schermò parte dei raggi solari negli anni successivi, provocando un drammatico raffreddamento del clima terrestre. Agli effetti delle polveri si aggiunsero quelli dell’anidride solforosa che, quando raggiunge la stratosfera, si trasforma in particelle di acido solforico che riflettono i raggi solari, riducendo così ulteriormente la quantità di radiazione solare che raggiunge il suolo terrestre. Inoltre, l’emisfero settentrionale stava attraversando una fase fredda chiamata “piccola età glaciale”, iniziata a metà del XIV secolo e durata fino alla metà del XIX, con temperature medie inferiori a quelle odierne. Come somma di queste circostanze, il pianeta conobbe un'epoca di estati mancate ed inverni gelidi, che ebbero come effetto scarsissimi raccolti e un impoverimento considerevole di vaste aree del pianeta. Il 1816, l'anno successivo all'eruzione, fu ricordato come l'anno senza estate.


Le inusuali condizioni climatiche del 1816 furono disastrose nell'America nord-orientale, e nell’Europa centro-settentrionale, dove la primavera e l’estate furono segnate da grandi tempeste, piogge continue e insistenti, inondazioni, così come da nevicate inusuali e la presenza di ghiaccio in agosto. Il cielo era quasi sempre grigio e talvolta con riflessi giallo-brunastri, come è ben rappresentato dai quadri dipinti in quel periodo da William Turner. 


I raccolti furono distrutti e molti capi di bestiame morirono. Il continente, che stava ancora riprendendosi dalle guerre napoleoniche, soffrì per la mancanza di cibo: in Gran Bretagna e in Francia ci furono rivolte per il cibo e i magazzini di grano vennero saccheggiati. Anche nella pacifica Svizzera si registrarono violenze tali da indurre il governo a dichiarare l'emergenza nazionale.


Proprio in Svizzera si trovava nell’estate di quell’anno il poeta e pari del Regno George Gordon Noel Byron, meglio noto come Lord Byron (1788 –1824). Il suo carattere difficile, le sempre più insistenti accuse di bisessualità, altri scandali di ordine morale (incesto con la sorellastra Augusta Maria, dalla quale ebbe una figlia, adulterio, sodomia, amore libero e altro ancora), la vita sentimentale assai poco regolare e la ostentata eccentricità lo avevano circondato di un diffuso sospetto, se non una vera e propria antipatia, tra i membri dell’élite aristocratica e letteraria che frequentava. Così, il 25 aprile, subito dopo la separazione dalla moglie Annabelle (la madre di Ada, futura contessa Lovelace) era partito per un secondo Gran Tour nell’Europa meridionale dopo quello intrapreso tra il 1809 e il 1811. Non avrebbe più rivisto la madrepatria.


Giunto sul lago di Ginevra, si stabilì, insieme al fedele domestico William Fletcher e al giovane medico personale John Polidori, nell'elegante villa Diodati, a Cologny. In una villa non molto distante, alla Maison Chapuis, fu raggiunto in giugno da Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822), la sua futura moglie Mary Godwin Wollstonecraft (1797 – 1851) e la sorellastra di lei, Claire Clairmont (1798–1879), allora amante di Byron, incinta di lui e organizzatrice dell’incontro. In quel periodo Byron aveva perso interesse per Claire ma in Percy Shelley trovò un buon amico. Shelley scrisse che la vicinanza di Byron lo portò a raggiungere una propria espressione poetica, e che, un giro in barca fatto insieme, lo ispirò a scrivere l’Inno alla Bellezza Intellettuale.

Il tempo inclemente di quella “gloomy summer” limitò le possibilità della comitiva di fare gite nei dintorni o sul lago. Passavano le serate a leggere insieme un’antologia tedesca di racconti di fantasmi, Fantasmagoriana, finché, il 16 giugno, a Byron venne l’idea di invitare gli amici a scrivere una storia terrificante da leggere nelle sere successive. Il genere “gotico” (caratterizzato da storie soprannaturali di solito ambientate in edifici e cimiteri medievali) era iniziato in Inghilterra con il grande successo de Il castello di Otranto (1765) di Horace Walpole, cui fecero seguito i romanzi di Ann Radcliffe, il cui Misteri di Udolpho (1794) è tra i migliori esempi del genere. Un tipo più fantastico di romanzo gotico che sfruttava horror e violenza fiorì in Germania e fu introdotto in Inghilterra da Matthew Gregory Lewis con Il Monaco (1796).

Non sappiamo se tutti aderirono, né che cosa scrissero. Di certo c’è che in quelle cupe giornate estive del 1816 nacquero in bozza due dei libri più importanti del genere gotico, che, per motivi diversi, lo hanno superato, diventando delle riflessioni sulla condizione umana: Il Vampiro di John Polidori e Frankenstein di Mary Godwin Shelley.


 La biografia di John William Polidori (1795 - 1821) è da sola un romanzo gotico, soprattutto verso la fine. Era figlio di Gaetano Polidori, un letterato toscano che era stato segretario di Vittorio Alfieri, emigrato in Inghilterra e stabilitosi a Londra come insegnante di italiano. John, la cui sorella Frances avrebbe sposato l’esiliato Gabriele Rossetti, fu lo zio dei fratelli Rossetti, tra i quali Dante Gabriel e Christina Georgina, nati dopo la sua morte.

Polidori fu educato in una scuola cattolica nello Yorkshire, e successivamente frequentò l'Università di Edimburgo, dove studiò medicina, scrivendo una tesi sul tema molto romantico del sonnambulismo. Ottenne la laurea alla giovane età di 19 anni. L'anno successivo, ancora non ancora legalmente adulto, accompagnò Lord Byron nel viaggio dell’estate del 1816. Il fatto che Byron si sia presto stancato dell'immaturità del suo protetto (“Polly Dolly”) è ben noto, ma Polidori era, in effetti, piuttosto inesperto, scontroso e anche abbastanza piantagrane.

Il giovane, nel settembre dello stesso anno, lasciò la Svizzera per l'Italia, dove viaggiò per molti mesi, tornando in Inghilterra la primavera successiva, ma era scontento della sua professione e pensò di dedicarsi alla giurisprudenza. Nel frattempo, come frutto dell'estate letteraria che aveva passato sul continente, iniziò una breve, ma produttiva carriera di scrittore. La sua prima opera, Un saggio sulla fonte del piacere positivo (1818), manifestò il suo interesse per la psicologia. L'anno successivo pubblicò un volume di poesie, Ximenes, the wreath: and other poems, il romanzo Ernestus Berchtold, e il racconto Il Vampiro.

Quest’opera, ispirata a tradizioni greche e balcaniche, non era certamente un capolavoro, ma stabilì il canone della figura del vampiro come la intendiamo oggi, molto di più del Dracula di Bram Stoker, benché la fama abbia favorito il secondo. Inoltre, essa fu attribuita a Lord Byron quando fu pubblicata sul New Monthly Magazine. Quando scoprì che il racconto stava per essere pubblicato in forma anonima da Byron, Polidori fece di tutto per rivendicare l’opera come sua, ma il sospetto di impostura lo perseguitò da allora in poi.

Il breve romanzo racconta le disavventure del giovane e ricco Aubrey dopo l'incontro con l'enigmatico Lord Ruthven, una creatura gelida e demoniaca, dallo sguardo «grigio e freddo come la morte». Polidori alludeva a Byron stesso, che intendeva sbeffeggiare per una specie di vendetta personale. In Ruthven ci sono già i caratteri che saranno di Dracula, uomo di freddo fascino:
"Nonostante il pallore mortale del suo viso, che mai fu colorato dall’amabile incarnato del pudore, né arrossito da un'emozione vivace, la bellezza dei suoi lineamenti induceva nelle donne l'idea di sedurlo, o di ottenere da lui almeno alcuni segni di ciò che è chiamato affetto”.
Viaggiando con lui a Roma, Aubrey si rende conto che egli possiede un vizio contagioso: il suo "personaggio profondamente depravato" e "i suoi talenti per la seduzione" lo rendono "pericoloso per la società".

Volendo distaccarsi da tale figura, Aubrey va in Grecia, dove si innamora della giovane Ianthe, che gli racconta storie di vampiri. Durante una notte tempestosa, sorprende un uomo che attacca una donna in una casa. Dopo la fuga dell'uomo, scopre inorridito che la donna morta è proprio Ianthe. Tormentato, Aubrey si ammala. È Lord Ruthven che viene a curarlo. Più tardi, durante una spedizione archeologica, Lord Ruthven viene ferito dai briganti. Prima di morire delle sue ferite, Lord Ruthven fa in modo che Aubrey prometta di "non rendere noti a nessun essere vivente [i suoi] crimini e [la] sua morte". Egli giura senza capire. Rovista tra le cose di Lord Ruthven: scopre che è lui ad aver ucciso Ianthe, ed è probabilmente un vampiro.

Aubrey torna a Londra e rimane stupito dall'incontrare Lord Ruthven, vivo e vegeto, sotto il nome di Conte di Marsden. Ruthven ricorda al giovane il suo giuramento. Poco dopo quest'incontro, Ruthven conosce e corteggia la sorella di Aubrey mentre questi, disperato, cade in depressione, e sprofonda nella follia. La sorella di Aubrey e Lord Ruthven si fidanzano; la data delle nozze è fissata per il giorno in cui termina il giuramento. Poco prima di morire, Aubrey scrive una lettera alla sorella, rivelando la natura e il passato di Ruthven. La missiva però non arriva in tempo e i due si sposano. Durante la prima notte di nozze, la sorella di Aubrey viene trovata morta, prosciugata del suo sangue. Ruthven è svanito nel nulla.

L’ultima opera di Polidori, Sketches Illustrative of Manners and Costumes of France, Switzerland, and Italy, resoconto del suo viaggio europeo, fu pubblicata nel 1821 con lo pseudonimo di Richard Bridgens. Quell'agosto, presumibilmente per aver contratto un debito di gioco che non poteva onorare, si suicidò bevendo acido prussico. Aveva venticinque anni.

Mary Shelley crebbe in un ambiente colto e illuminista. Sin da piccola studiò le grandi opere di letteratura, storia e mitologia e studiò francese e latino. Sua madre Mary Wollstonecraft (1759-1797), dopo un'adolescenza passata in una famiglia povera e afflitta dall'alcolismo del padre, si rese indipendente con il lavoro di governante e dama di compagnia e un'istruzione conseguita attraverso studi personali. Nel 1787 si trasferì a Londra e trovò un impiego nel mensile Analytical Review dell'editore e libraio Joseph Johnson. Il suo lavoro le consentì di conoscere il pensiero dei maggiori intellettuali francesi, traducendo articoli degli illuministi d'Alembert, Diderot, d'Holbach, Voltaire, Rousseau (con quest’ultimo fu anche in polemica per la misoginia espressa nell’Émile). In pochi anni divenne un’importante saggista e si affermò come teorica politica influente e controversa. Antesignana del femminismo, Mary Wollstonecraft è nota soprattutto per A Vindication of the Rights of Woman (1792), nel quale sostenne, contro la prevalente opinione del tempo, che le donne non sono inferiori per natura agli uomini, anche se sono socialmente condizionate a un ruolo di inferiorità e di dipendenza. Mary Wollstonecraft sosteneva il diritto delle donne all'autodeterminazione e all'uguaglianza nella sfera intellettuale, pubblica e domestica.


Il padre, William Godwin (1756-1836) individuò nelle istanze politiche sollevate dalla Rivoluzione francese un'opportunità per sviluppare una società egualitaria strutturata sulla ragione, sulla giustizia e sull'educazione universale. La sua casa londinese era frequentata da una cerchia che comprendeva scrittori come Samuel Taylor Coleridge e filosofi naturali come il chimico Humphry Davy, il poeta e medico Erasmus Darwin e il chimico-inventore William Nicholson. Godwin descrisse le sue idee proto-anarchiche e repubblicane nel fondamentale An Inquiry Concerning Political Justice (1793). Godwin e Mary Wollstonecraft si sposarono nel 1797; la figlia Mary nacque il 30 agosto 1797; dopo pochi giorni la madre morì di setticemia in conseguenza del parto.

Nel giugno 1816 Mary Godwin Shelley aveva ancora 18 anni. Quando concepì l’idea di Frankestein, o il Moderno Prometeo, avrebbe detto poi, l’opera le si formò nella mente come in un sogno. "Con gli occhi chiusi ma una visione mentale acuta", ricordò, "ho visto il pallido studioso di arti indecenti inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme”.


La storia è nota a tutti: un filosofo naturale e medico (la parola scienziato ancora non esisteva, perché la coniò l’erudito William Whewell nel 1833), Viktor Frankestein, porta in vita, grazie all’elettricità. una creatura con sembianze umane ottenuta assemblando parti di cadaveri, con conseguenze disastrose. La creatura è senza nome, e solo più tardi sarà identificata con il nome del suo creatore: "Frankenstein" arrivò a rappresentare il mostro tanto quanto il suo creatore.

Terminato quando aveva ancora 19 anni, il romanzo, che fu pubblicato due anni dopo, nel 1818, in forma anonima, non è mai andato fuori stampa. Solo nell’edizione del 1831 Mary Shelley comparve come autrice dell’opera. Da allora, ben poche opere letterarie hanno così conquistato l’immaginario comune, anche perché il mito è stato amplificato da altri media come il cinema, il fumetto, la televisione. È bene anche dire che il mostro subì una trasformazione. Da essere sensibile, ragionatore e articolato i cui crimini derivavano dai suoi maltrattamenti per mano dell'umanità, la creatura si trasformò in un bruto, la cui natura violenta e crudele poteva essere intesa solo come il prodotto della scienza che osava usurpare il divino potere della creazione.


In realtà il Frankenstein di Mary Shelley rifletteva l'interesse dei medici e filosofi naturali dell'inizio del XIX secolo per la dissezione umana e gli esperimenti sugli animali, esplorando le possibilità di generare vita, rianimare gli affogati e i morti recenti e rianimare i tessuti morti con l'elettricità. Questi ricercatori cercavano di far progredire l'umanità e porre fine alla morte e alle malattie attraverso le loro indagini sui "segreti della natura". Nella ricerca del principio vitale, Luigi Galvani (1737-1798), professore di anatomia a Bologna, eseguì una gran serie di esperimenti sulla "elettricità animale" negli anni ‘80 e ’90 del Settecento. Il medico Giovanni Aldini somministrò energia elettrica ai corpi di criminali appena giustiziati. La rianimazione di coloro che sembravano morti appassionava molti.


Mary Shelley mette nella bocca del protagonista queste parole, che riflettono il pensiero del suo tempo:
"Gli antichi insegnanti di questa scienza promettevano impossibilità e non eseguivano nulla. I maestri moderni promettono molto poco; sanno che i metalli non possono essere trasmutati e che l'elisir della vita è una chimera, ma questi filosofi, le cui mani sembrano fatte solo per riempirsi di sporcizia, e i loro occhi per sondare il microscopio o il crogiolo, hanno effettivamente compiuto miracoli”. (…) "Penetrano nei recessi della natura e mostrano come lavora nei suoi nascondigli. Salgono nei cieli; hanno scoperto come circola il sangue e la natura dell'aria che respiriamo. Hanno acquisito poteri nuovi e quasi illimitati; possono comandare i tuoni del cielo, imitare il terremoto e perfino deridere il mondo invisibile con le sue stesse ombre ".
Non c'è da meravigliarsi che queste possibilità siano state l'ispirazione per l'esperimento megalomane di Victor Frankenstein per la produzione di un essere vivente.

Quando Mary incontrò il suo amante e futuro marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, c'erano due elementi del carattere di lui che influenzarono il modo in cui avrebbe infine presentato i temi del suo romanzo. Percy Shelley era un radicale politico e un ateo convinto. L'idea di un uomo che interpreta Dio era una naturale estensione delle sue idee. Egli era interessato alla scienza più avanzata, in tutti gli aspetti della filosofia naturale. Percy Shelley era un poeta, ma anche un uomo della nuova era. Era stato educato all'amore per la scienza quando era a Eton. Un suo insegnante, James Lind, catturò la sua immaginazione con gli esperimenti di Galvani con la bioelettricità, in particolare facendo scattare una gamba di una rana attraversata da una corrente elettrica.

La rivoluzione industriale aveva già iniziato a trasformare radicalmente la civiltà occidentale. La scienza sembrava muoversi a un ritmo incalzante e uomini come Percy Shelley che volevano stare al passo dovevano essere sempre informati. Le industrie del ferro, del carbone e del cotone stavano fiorendo, spinte dall'uso del motore a vapore come fonte di energia.

Davy stava usando la nuova scienza dell'elettrochimica per scoprire sempre più elementi chimici. La scienza medica faceva passi da gigante con l'invenzione dello stetoscopio e del galvanometro. Joseph Constantine Carpue condusse la prima rinoplastica e Davy scoprì l'effetto analgesico del protossido di azoto. Nel 1814, quando Mary e Shelley iniziarono la loro relazione, George Stephenson costruì il primo treno a vapore commerciale.


All'inizio del XIX secolo, la magia della scienza sembrava essere un mistero che, con gli strumenti giusti, poteva essere compreso e controllato dall'uomo. Nell'eccitazione, la scienza diventò uno spettacolo. C'erano spesso manifestazioni pubbliche o conferenze, in cui un "professore di filosofia naturale" esponeva quelli che sosteneva essere i suoi esperimenti scientifici.

A Londra, Percy portò Mary a un’esibizione di Monsieur Garnerin (il primo paracadutista) e del suo Theatre of Grand Philosophical Recreations. Lo spettacolo era straordinario, con l’uso dell'elettricità per imitare un fulmine e produrre fuoco dall'acqua. Finì con una meravigliosa esibizione di fuochi d'artificio che non produssero né odore né fumo. Ogni giorno il Times pubblicizzava esperti come il dottor Clutterbuck, che tenevano lezioni di filosofia sperimentale, astronomia, "teoria e pratica della fisica", "chimica degli animali", "materia medica", "filosofia elettrica con applicazione al miglioramento della scienza chimica e della sua applicazione ai fenomeni naturali ". Il pubblico era entusiasta.

Queste persone non erano necessariamente uomini di scienza, spesso erano più vicini ai prestigiatori o ai ciarlatani, ma c'erano anche molte lezioni serie, specialmente alla Royal Institution, che fu aperta al pubblico nel 1811, dove Davy affascinava uomini e soprattutto donne con il suo talento e il suo carisma. C'erano teatri di anatomia che tenevano lezioni di dissezione per studenti di medicina che erano aperti al pubblico in generale.

Fu in questo ambiente di meraviglia raggiungibile che Maria fece dire a Victor Frankenstein:
"Da dove, mi chiedevo spesso, procede il principio della vita? Era una domanda audace, e che è sempre stata considerata come un mistero; eppure con quante cose siamo sul punto di conoscere, se la codardia o la noncuranza non frenano le nostre ricerche”.
Spesso, leggendo alcune notizie di nuovi sviluppi nell’ingegneria molecolare o della medicina da parte di ricercatori senza troppe remore di tipo etico, la creatura di Frankenstein sembra risvegliarsi dal suo ignoto nascondiglio polare, con la faccia di Boris Karloff.