mercoledì 31 ottobre 2012

Il 6174 e il 495 di Kaprekar

Dattaraya Ramchandra Kaprekar (1905–1986) era un insegnante indiano di matematica. Pur non avendo una specializzazione accademica, fece molte scoperte nella teoria dei numeri, tra i quali una costante e una classe di numeri che da lui hanno preso il nome, divulgati attraverso una serie di articoli su riviste di modesto prestigio scientifico. Si occupò anche di quadrati magici e matematica ricreativa. Studioso solitario e poco apprezzato dai colleghi indiani, diventò famoso quando Martin Gardner nel 1975 si occupò di lui in un articolo della rubrica Mathematical Games che teneva sullo Scientific American

Nel 1949 fu resa nota una tra le più famose scoperte di Kaprekar, che riguarda la curiosa proprietà del numero 6174, che ricorre come risultato finale di una serie di semplici operazioni con i numeri di quattro cifre, purché non siano tutte uguali. Ecco il procedimento, che ha lo stesso gusto perverso della congettura di Collatz

1. Prendiamo un qualsiasi numero di quattro cifre, usandone almeno due diverse. (Si possono inserire degli zero anche all'inizio.) 
2. Sistemiamo le cifre in ordine decrescente e poi in ordine crescente così da ottenere due numeri di quattro cifre, aggiungendo degli zero iniziali se necessario. 
3. Sottraiamo il numero più piccolo da quello più grande. 
4. Ripetiamo il processo partendo dal punto 2. 

Questo processo, conosciuto come operazione di Kaprekar, andrà sempre incontro al suo punto fisso, o kernel, il 6174. Una volta raggiunto il 6174, il processo continuerà a dare 7641 – 1467 = 6174. Per esempio, consideriamo il numero 2155: 

5521 – 1255 = 4266 
6642 – 2466 = 4176 
7641 – 1467 = 6174 
7641 – 1467 = 6174

Facciamo un altro esempio, questa volta con il numero 8082: 

8820 – 0288 = 8532 
8532 – 2358 = 6174 
7641 – 1467 = 6174 

Il numero fisso si raggiunge con 7 iterazioni al massimo, come nel caso del numero 2005: 

5200 – 0025 = 5175 
7551 – 1557 = 5994 
9954 – 4599 = 5355 
5553 – 3555 = 1998 
9981 – 1899 = 8082
8820 – 0288 = 8532 
8532 – 2358 = 6174 
7641 – 1467 = 6174 


Notiamo che, in ogni iterazione dell’operazione di Kaprekar, i due numeri di cui si fa la differenza hanno la stessa somma delle cifre, e quindi lo stesso resto (mod 9). Pertanto il risultato di ogni iterazione è un multiplo di 9. 

Il matematico giapponese Yutaka Nishiyama, con un programma specifico, ha verificato già nel 1975 le occorrenze del numero di iterazioni per tutti gli 8891 8991 numeri di quattro cifre da 1000 a 9999 nei quali non si hanno tutte le cifre uguali. Ne ha ricavato la seguente tabella: 


Si può dimostrare che 6174 è l’unico numero verso il quale convergono le successive iterazioni dell’operazione di Kaprekar. Consideriamo che per un numero di quattro cifre la combinazione ascendente può essere generalizzata come:

9 ≥ a b c d ≥ 0 

dove a, b, c, d non sono la stessa cifra. Così il massimo numero che si ottiene è abcd e il minimo è dcba. Quando eseguiamo la sottrazione, si ha che: 


che dà le relazioni: 

D = 10 + d a (poiché a > d
C = 10 + c – 1 – b = 9 + c b (poiché b > c – 1) 
B = b –1 – c (poiché b > c
A = a d 

Per i numeri in cui a>b>c>d.

Per trovare i numeri limite dell’operazione di Kaprekar, bisognerà considerare tutte le possibili combinazioni delle cifre di {a, b, c, d} e verificare che soddisfino le relazioni sopra scritte. Ciascuna delle 4! = 24 combinazioni dà luogo a un sistema di quattro equazioni con quattro incognite. Ne risulta un’unica combinazione che soddisfa 9 ≥ a b c d ≥ 0. Questa combinazione è bdac, con a = 7, b = 6, c = 4 e d = 1. Perciò ABCD = 6174. Non ne esistono altre: questo numero è unico. 

E se le cifre del numero non sono quattro? Lo stesso Kaprekar scoprì che un numero di due cifre non converge verso un solo valore, ma si impantana nel loop 9→81→63→27→45→9. Le cose cambiano con tre cifre: l’operazione questa volta converge verso un solo valore, il numero 495. Ad esempio, prendiamo 586. In ordine decrescente le cifre danno 865 e in ordine crescente danno 568. 

865 – 568 = 297. 
972 – 279 = 693. 
963 – 369 = 594 
945 – 459 = 495 
945 – 459 = 495. 

Con le cifre 4, 5 e 9 la cifra finale sarà sempre 495. 

Attraverso lo stesso procedimento usato per il caso delle quattro cifre e del numero 6174, si può dimostrare che 495 è l’unica soluzione possibile per un numero di tre cifre.

Per numeri con un numero di cifre superiore a 4 si è scoperto quanto riportato nella tabella, sempre fornita da Yutaka Nishiyama:


Notate la somiglianza tra i numeri che sono multipli di 2 e quella tra i numeri che sono multipli di 3: chissà che cosa c’è dietro. Dimostrazioni più avanzate e generali le trovate qui.

AGGIORNAMENTO DEL 2/11/2012

Gli amici di Webfract mi segnalano di aver reso disponibile online un calcolatore del procedimento di Kaprekar, che offre la possibilità di studiare il comportamento di interi positivi fino a un massimo di 16 cifre. Li ringrazio anche per avere segnalato il mio articolo.

giovedì 25 ottobre 2012

Storie di analisi dimensionale e di leggi di scala


ResearchBlogging.orgL’analisi dimensionale è uno strumento utilizzato per trovare o verificare relazioni tra grandezze fisiche utilizzando le loro dimensioni, che sono associate a simboli come M, L, e T (rispettivamente per massa, lunghezza e tempo), ciascuna elevata a un esponente razionale. Queste, con quelle per l'intensità di corrente (I), la temperatura assoluta (Θ), la quantità di sostanza (N) e l'intensità luminosa (J), costituiscono le cosiddette grandezze fondamentali. Tutte le altre grandezze fisiche possono essere espresse come combinazioni (prodotti) di queste, e sono perciò considerate derivate. Ad esempio, la velocità è dimensionalmente un rapporto tra una lunghezza e un tempo, e si può esprimere come [v] =LT-1, oppure una forza si esprime in meccanica come il prodotto di una massa M per una accelerazione, che dimensionalmente è una lunghezza diviso il quadrato del tempo. Perciò: [F] = MLT-2.

Come si vede, il concetto di dimensione è più astratto di quello di unità di misura: la massa è una dimensione di una grandezza, mentre il kilogrammo è una unità scalare di misura nella dimensione della massa. Analogamente, nella dimensione della forza, si utilizza il newton come unità scalare di misura. Si tratta di concetti diversi: le unità di misura di una quantità fisica sono definite per convenzione e fanno riferimento a qualche standard (ad esempio nel Sistema Internazionale la lunghezza viene misurata in metri, dove il metro è definito come la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/299.792.458 di secondo). Una lunghezza può essere misurata in chilometri, micron, miglia, pollici, anni-luce, ma ha sempre dimensione L, indipendentemente dall'unità scelta per misurarla. In ogni caso, le leggi della fisica sono indipendenti dal sistema di unità di misura utilizzato nella loro espressione.

Le dimensioni possono essere trattate come grandezze algebriche, cioè le grandezze possono essere sommate o sottratte fra loro solamente se hanno le stesse dimensioni (non si può sommare un tempo con una velocità). Inoltre, poiché una legge fisica deve essere indipendente dalle unità di misura delle variabili, una semplice conseguenza è che in ogni equazione (o disequazione) fisica i due membri devono avere la stessa dimensione.

Dal punto di vista matematico, i simboli dimensionali, come L, formano un gruppo, che ha la sua identità, L0=1, l'inverso, 1/L o L-1; inoltre L elevato a qualsiasi esponente razionale p è un membro del gruppo, che ha come inverso L-p o 1/L elevato allo stesso esponente p. L'operazione del gruppo è la moltiplicazione, con le normali regole per trattare gli esponenti.

Esiste anche il gruppo 1, quello delle quantità prive di dimensioni. Il gruppo adimensionale è una quantità che descrive un determinato sistema fisico, ed è un numero senza alcuna unità fisica, un numero puro. Esempi di questo gruppo sono il numero di Avogadro in chimica o il numero di Fourier nella conduzione del calore. Tale gruppo viene generalmente definito come prodotto o rapporto di opportune quantità dimensionali, in modo tale che il risultato sia privo di dimensione. In questo modo si ottengono numeri adimensionali che hanno ordine di grandezza unitario e tali che, rapportando due numeri adimensionali qualsiasi, è possibile ottenere una misura dell'importanza relativa dei fenomeni cui i numeri fanno riferimento. Quantità adimensionali si possono ottenere anche integrando alcune equazioni differenziali.

La riduzione o l’eliminazione delle dimensioni è consentita dal teorema di Buckingham, che, nella sua forma più semplice, afferma che ogni legge fisica può essere espressa come una identità che implica solamente combinazioni (rapporti o prodotti) prive di dimensioni delle variabili coinvolte dalla legge. Conseguenza fondamentale del teorema è che possiamo studiare il medesimo problema usando un numero inferiore di variabili, eliminando le dimensioni delle grandezze secondarie, riducendole alle essenziali grandezze numeriche (i "veri" parametri fisici).

Questo è il pregio principale dell’analisi dimensionale: essa consente di verificare la plausibilità di calcoli ed equazioni, ma soprattutto di formulare ipotesi ragionevoli riguardo a problemi fisici complessi, concentrandosi sulle grandezze (e i numeri) davvero fondamentali e non considerando le altre. Essa è largamente utilizzata in gran parte dei settori scientifici: matematica, fisica, chimica, ingegneria, biologia, ecc., ma anche nell’economia e nella finanza.

L’analisi dimensionale è uno strumento fondamentale anche nei problemi di scala, perché tutte le quantità adimensionali (o scalari), e le leggi fisiche che ne derivano, sono invarianti per la scala. Ecco alcuni esempi e qualche considerazione, che riprendo dall’articolo Of Bombs and Boats and Mice and Men. A random tour through some scaling laws di Niall MacKay, che verrà pubblicato su Mathematics Today.

L’energia di Trinity - Poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Commissione per l’Energia Atomica americana diffuse un filmato di Trinity, il primo test di una bomba a fissione nucleare, effettuato ad Alamogordo, nel deserto del New Mexico, il 16 luglio 1945, venti giorni prima dell’attacco a Hiroshima. Dopo i lavori di preparazione alla torre su cui era collocata la bomba, dal minuto 8:50 si può vedere la drammatica ripresa dell’esplosione:

 

Nel 1947 furono anche pubblicati dei fotogrammi del filmato dell’esperimento, ciascuno associato dal fisico Julian Ellis Mack a un tempo t dallo scoppio, espresso in millisecondi. La quantità di energia rilasciata rimaneva segreta, anche perché era stata calcolata con molte difficoltà. Gli americani rimasero pertanto assai sorpresi quando, nel 1950, l’esperto britannico di meccanica dei fluidi Geoffrey Taylor pubblicò l’articolo The formation of a blast wave by a very intense explosion, la cui seconda parte conteneva una stima accurata dell’energia rilasciata basandosi semplicemente sulle immagini. L’episodio divenne quasi mitico e fu abbellito da particolari assai dubbi, come l’allarme della CIA, il sospetto che egli potesse essere venuto in possesso di documenti riservati, la perquisizione della sua abitazione nel bel mezzo della notte per rovistare tra le sue carte.


Oggi sappiamo che la tecnica utilizzata da Taylor non aveva nulla di segreto, essendo basata sull’analisi dimensionale. Supponiamo che, al tempo t, il raggio r dell’onda d’urto dipenda solo da t, cioè dal tempo trascorso dalla detonazione, dalla densità dell’aria ρ e dall'energia E rilasciata (indipendentemente dalla natura della sua causa). L’energia equivale a una massa moltiplicata per una velocità al quadrato, in termini dimensionali: [E] = ML2T−2. La densità può essere espressa come una massa divisa per un volume, cioè [ρ] = ML−3. Per cancellare la massa, combiniamo le due espressioni con il rapporto E/ρ. Si ottengono le dimensioni [E/ρ] = L5T−2, in modo che, per ottenere la lunghezza, dobbiamo considerare l’espressione (Et2/ρ)1/5 e, infine,
 
Dove C è una costante adimensionale, universale per questo tipo di onde d’urto, che può essere ottenuta dallo studio delle onde di esplosioni convenzionali. Utilizzata assieme a immagini come quella della figura, che fornisce lunghezze e scale dei tempi, questa formula permise a Taylor di ottenere una buona stima di E, che egli indicò in 16.800 tonnellate di tritolo equivalenti (16,8 chilotoni). Il calcolo, che colpisce particolarmente per l’inaspettata comparsa dell’esponente 1/5, può sembrare semplice, ma l’analisi dimensionale di Taylor fu il frutto di uno studio pluriennale assai più profondo, che comprendeva le equazioni differenziali alle derivate parziali (EDP) e un’attenta analisi della fisica coinvolta.

I tempi di cottura al forno – Un altro esempio di analisi dimensionale riguarda i tempi di cottura. Quanto tempo in più ci vuole per cuocere un tacchino di 5 Kg rispetto a un fagiano di 1 Kg? La maggior parte delle ricette fornisce una formula lineare, con i minuti di cottura in funzione della massa, più un tempo fisso. Tuttavia questa è solo un’approssimazione di un problema di ordine di grandezza che può essere affrontato con l’analisi dimensionale. Supponiamo che i due uccelli siano simili come forma, con carne simile che cuoce allo stesso modo, e che i loro centri raggiungano la stessa temperatura per essere cotti a puntino. Allora il tempo di cottura t dipende dalla distanza l dal centro alla superficie e da un solo parametro fisico, la diffusività termica ĸ. Questa è associata all'unica legge della fisica microscopica che serve per risolvere il problema, l’equazione del calore, un'equazione differenziale alle derivate parziali che modellizza l'andamento della temperatura in una regione dello spazio sotto opportune condizioni. Secondo tale equazione, la velocità di variazione della temperatura è proporzionale (attraverso ĸ) al suo operatore di Laplace, così che [ĸ] = L2T−1 (infatti nel Sistema Internazionale ĸ, come tutti i coefficienti di diffusione, è misurata in m2/s). Non ci interessa conoscere precisamente come ĸ dipenda dalla conducibilità termica, dalla densità e dalla capacità termica della carne. Ci interessa invece che l’equazione del calore ci dà che t l2/ĸ. Siccome la massa degli uccelli è m l3, abbiamo che t = C’m2/3/ĸ, dove C’ è una costante priva di dimensioni. Così, se il tempo di cottura del fagiano tf è ≃ 1h, allora:

 
 e il tempo di cottura del tacchino è 52/3 ≃ 3 ore.

L‘analisi dimensionale è legata in modo sostanziale al concetto di riscalamento, che è fondamentale nella matematica applicata. Ad esempio, supponiamo di voler portare un esperimento chimico di laboratorio alla scala di un processo industriale. Se la reazione produce calore, è evidente che l’apparecchiatura non può semplicemente essere una replica identica e ingrandita di quella di laboratorio, poiché il calore prodotto in più (in proporzione al volume dei reagenti) non sarà compensato dalla capacità di dissiparlo in sicurezza (in proporzione alla superficie laterale del reattore). Piuttosto dovremo identificare le grandezze adimensionali che caratterizzano il problema e mantenerle invariate durante il cambio di scala.

Topi e orsi in caduta - Certe volte nella scienza divulgativa si dà l’idea che l’invarianza di scala sia spesso una proprietà delle reti ramificate. Così, ad esempio, un ramoscello ha la stessa architettura di un albero. In realtà la possiamo trovare in qualsiasi processo che sia invariante nel riscalamento di una grandezza dimensionata. È notevole come scali bene la struttura di base dei mammiferi: il topo (m ∼20 g) e l’orso (∼200 kg, anche se nella foto fa il ritroso) condividono la stessa architettura, sebbene la loro massa differisca di quattro ordini di grandezza.

Quali leggi di scala si possono allora applicare in generale ai mammiferi? In un classico saggio, On being the right size, J. B. S. Haldane (1929) notò che ‘Si può gettare un topo in un pozzo di miniera di mille iarde ed esso, giunto in fondo, dopo un piccolo shock, se ne va via, a patto che il terreno sia abbastanza soffice”. Consideriamo allora la velocità terminale di caduta: quando un corpo cade liberamente in un fluido come l’aria, acquista velocità per effetto dell'accelerazione di gravità. Nel suo procedere in questo moto, il corpo incontra la resistenza del fluido che lo rallenta. Questa resistenza aumenta con il crescere della velocità del corpo. Ad un certo punto si verificherà che la forza di gravità e la resistenza dell'aria avranno la stessa intensità. Da quell'istante in poi il corpo, soggetto ad una risultante di forze nulla, procederà ad una velocità costante, detta appunto velocità terminale di caduta. In che modo essa è in relazione con la massa? 

Supponiamo uno scalamento auto-simile, in modo che per un animale di lunghezza di scala l si abbia m l3. La resistenza dell’aria è proporzionale alla superficie della sezione perpendicolare alla direzione del movimento (cioè a l2) e al quadrato della velocità v. Allora, alla velocità limite, con la resistenza dell’aria che bilancia la gravità, abbiamo l2v2 l3 e quindi v l1/2m1/6. Se la velocità limite dell’orso è più o meno di 67 m/s, allora quella del piccolo roditore è circa 13,5 m/s. Come disse lo stesso Haldane: “Il topo muore, l’uomo si rompe, il cavallo va in pezzi”. Certo che Haldane poteva evitare di pensare di far cadere animali, ma la sensibilità in questo campo dipende dai tempi e dai luoghi in cui si vive.

Niall MacKay (2012). Of Bombs and Boats and Mice and Men: A Random tour through some scaling laws Mathematics Today arXiv: 1210.5067v1

lunedì 22 ottobre 2012

Lima la Rima mi stima

Mi è stato comunicato che ho vinto un concorso di limerick. Si tratta della quarta edizione di Lima la Rima!, organizzato dall’Associazione Fantariciclando, in collaborazione con la cooperativa sociale Gulliver, il patrocinio del Comune di Forlì - Assessorato alla Cultura, Politiche Europee e Rapporti Internazionali, e del Comune di San Mauro Pascoli. 


Ho partecipato con due poesie tratte da Giovanni Keplero aveva un gatto nero, la raccolta di rime umoristiche matematiche e fisiche pubblicata da Scienza Express nel 2011. La poesia vincente è risultata questa: 

Fine del retto 

Un angolo retto si credeva perfetto 
e in un triangolo si sentiva costretto. 
S’allontanò con una scusa 
dalla povera ipotenusa. 
In un intestino, poveretto, ora fa il retto. 

Un assaggio del libro lo trovate qui e qui.

martedì 16 ottobre 2012

Due storie di dissolutezza matematica


Che i matematici siano sempre alla ricerca di stimoli per creare i loro strani oggetti è cosa nota. L’irrompere sulla scena delle geometrie n-dimensionali e di quelle non euclidee mise a dura prova la capacità immaginativa di molti di essi, impegnati nel tentativo di tradurre le loro intuizioni numeriche e geometriche in oggetti reali, o almeno possibili. Non sorprende pertanto che alcuni padri della topologia abbiano cercato aiuto nelle sostanze in grado di “aprire le porte della percezione”, con il rischio concreto di rimanerne schiavi. Se la maggior parte di essi cadde nell'oblio provocato dalla loro dissolutezza, almeno due di loro riuscirono a diventare famosi, associando il loro nome a concetti e oggetti assai conosciuti. 

A tutti è noto ad esempio l’alcolismo di Felix Klein, del quale si racconta che spesso si presentava alle lezioni o alle conferenze reggendosi a stento in piedi. Ispirato da una bottiglia appena scolata durante uno dei frequenti deliri provocati dall'abuso di liquore di assenzio, immaginò di piegarne il collo in modo che rientrasse nella superficie laterale: Klein aveva inventato una superficie non orientabile, per la quale non c’è distinzione tra interno ed esterno. Forse per scherno (il suo vizio era notorio), il suo oggetto fu chiamato “bottiglia di Klein”, con un maligno gioco tra le parole tedesche per superficie (Fläche) e per bottiglia (Flasche). Il poveretto, ormai diventato lo zimbello del gruppo di matematici dell’Università di Gottinga (il noto gruppo di Lie), si sottopose anche a un programma di disintossicazione in una clinica di Erlagen, nei pressi di Norimberga, di cui diede conto in un fascicolo che scrisse in quei mesi (Il programma di Erlagen). Sfortunatamente, nonostante i buoni propositi, non riuscì a porre termine alla sua dipendenza, e passo il resto della sua misera vita dirigendo un giornalucolo dal nome pretenzioso di Mathematische Annalen e cercando una bevanda alcolica che fosse in grado di riempire il suo insolito recipiente. 

Ancor più grama fu la dipendenza di cui patì, tre generazioni prima, August Ferdinand Möbius, al quale fu fatale la frequentazione di un fumettista visionario di cui era parente (si veda l'immagine iniziale). Iniziato all'uso della cocaina, girava sempre con tutto l’armamentario per poterla assumere in ogni occasione. In una memoria presentata alla Académie des Sciences riguardo ad alcune proprietà dei poliedri, egli stesso raccontò le circostanze di una sua importante scoperta. Giocando con un rettangolo allungato di carta (per prudenza omise di dire che si trattava di una cartina Rizla Blu King Size), incollò i lati minori imprimendo nel contempo un mezzo giro di torsione. Aveva così inventato una curiosa superficie a un solo bordo e una sola faccia, che gli consentiva di sniffare una striscia di polvere bianca senza sollevare la cannuccia. Chiamò la sua creazione “la mia magica striscia”, ma in seguito si preferì indicare l’oggetto, la “striscia” di Möbius, con il meno equivoco termine di “nastro”. Devastato dalla droga, introdusse concetti oscuri come le coordinate omogenee e la trasformazione di Möbius in geometria proiettiva, o la funzione di Möbius e la formula di inversione di Möbius nella teoria dei numeri. Giunto ad un punto di non-ritorno, morì suicida a soli 78 anni, tagliandosi le vene con un rasoio di Occam, scegliendo così la spiegazione meno complicata ai problemi della sua esistenza.

mercoledì 10 ottobre 2012

Il paracadutista spaziale di Thule


La tentata impresa di Felix Baumgartner di gettarsi con un paracadute da 20 miglia d’altezza (ca. 36,5 km), per ora annullata a causa del forte vento, ha precedenti antichissimi. La prima notizia di una discesa paracadutistica nello spazio si trova nella Descrizione iperborea dello scrittore greco Medoro di Cipro, vissuto ai tempi del regno di Tolomeo I Sotere. Tra le pittoresche narrazioni degli usi e costumi dei pallidi e biondi popoli nordici, e dei loro misteriosi riti presso i templi megalitici, un capitoletto dell’opera, purtroppo giuntaci incompleta, riporta la vicenda di Laringidès, un marinaio al seguito della spedizione del marsigliese Pitea che raggiunse le estremità artiche di Thule. 

Questo Laringidès avrebbe raggiunto da solo un alto monte che segnava il limite settentrionale del disco terrestre e si sarebbe lanciato verso l’abisso, tenendo per le mani i quattro capi della vela di una nave, scomparendo nel nulla infinito. Secondo Medoro, l’uomo era convinto che in quel modo avrebbe raggiunto l’angolo sud-orientale del mondo, perché ciò che sta in basso è come ciò che sta in alto, per le meraviglie di una cosa unica. 


Esisterebbe infatti un legame segreto tra le nove parti del mondo, che deriva dal modo in cui esse sono state abitate a partire dalla prima. Ogni parte del disco terrestre, secondo i saggi egizi e i gimnosofisti indiani, sarebbe infatti numerata, in modo che la somma della righe, delle colonne e delle diagonali della loro rappresentazione su un quadrato dia sempre lo stesso valore. Trovandosi nella parte identificata con il numero 1, e perciò considerata la più antica, dimora artica della prima civiltà umana, Laringidès era certo che, a somiglianza della maniera con la quale era stato abitato il disco terrestre, egli, gettandosi nell'abisso partendo dalla patria dei primi uomini, sarebbe atterrato nell'angolo del mondo identificato con il numero 2, quello collocato nella parte da cui proviene il vento di scirocco, nelle terre al di là dell’Etiopia e dell’Arabia.

Medoro non dice se Laringidès raggiunse la sua meta, o se stia precipitando all’infinito nell’abisso eterno.

lunedì 8 ottobre 2012

Due rime matematiche con contraintes

Ancora due poesiole di ispirazione matematica, questa volta costruite alla maniera dell’Oulipo, con delle restrizioni supplementari (contraintes). Il primo si ispira al romanzo lipogrammatico La disparition di Georges Perec (1969), trecento pagine scritte interamente senza usare la lettera “e”, che è la lettera più frequente della lingua francese. La mia sfida è stata quella, molto meno ardita, di creare un limerick che fosse allo stesso tempo un lipogramma in “e” (scritto appunto senza usare quella vocale) e parlasse della e matematica, base dei logaritmi naturali e della funzione esponenziale ex

 La scomparsa 
(omaggio a Georges Perec) 

Sono alcuni logaritmi privi di sostanza 
quando di tal cosa provano la mancanza: 
la quinta a partir da “a” 
dà la forma, lo si sa, 
alla curva di cui conosci l’importanza. 

Il secondo limerick trae spunto dai rebus descritti di Edoardo Sanguineti, di cui mi sono occupato in un precedente articolo. Anche Sanguineti giocava con le restrizioni formali autoimposte, ed è stato per lungo tempo, e fino alla morte, il presidente dell'Oplepo, il sodalizio italiano figlio dell’Oulipo. Un rebus descritto utilizza le parole e non il disegno, ma segue le stesse regole del rebus classico. Sulla base del testo e delle lettere inserite in maiuscolo, il lettore deve trovare la soluzione, della quale è fornita la chiave sotto il titolo. Anche in questo caso l’oggetto della poesiola è una famosa costante matematica, di cui si esplicita una proprietà. 

Viaggio in Grecia 
(Chiave: 2, 2, 5, 1, 2, 6, 12) 

Sul traghetto IL che a Paros vien da Santorini 
l’iniziale è scritta a loro modo: tre trattini. 
Sigla d’Europa, N. Con esso conti, 
naturale, reale, complesso, e dai ponti 
guardi oltre l’umano, infinito, di là dai confini.

sabato 6 ottobre 2012

Tre nuove rime matematiche


Il prodotto di Eulero

Vestito della sua rigata camicia da notte di seta, 
Eulero pensava agli esponenti della funzione zeta. 
Trasformò allora di botto 
la somma infinita in un prodotto 
in cui compaiono solo primi: che teoreta! 


Famiglia bacchettona 

C’era un polinomio nei pressi di Vado 
che era stanco di vivere in un terzo grado: 
per non finire in manicomio 
si divise da un binomio 
con grande scandalo nel parentado. 



Applied Maths 

There were some mathematicians called Maddmaths 
Tired of being considered like lonely black cats, 
Sleeping in a distant sky 
With numbers running by, 
So they applied what they knew to everyday facts. 


Quest’ultima è un omaggio agli amici di Maddmaths e alla loro infaticabile e preziosa opera di divulgazione della matematica, applicata oppure no. L’omaggio è stato apprezzato.

venerdì 5 ottobre 2012

Anderson e la nova scomparsa


ResearchBlogging.orgNella notte del 9 maggio 1923 l’astrofilo scozzese Thomas David Anderson (1853-1932), allora settantenne, stava osservando i campi stellari della costellazione del Cigno quando notò con sorpresa una stella che non aveva mai visto prima. Nei giorni successivi inviò un telegramma a R.A. Sampson, Astronomo reale per la Scozia presso l’Osservatorio di Edimburgo:

Nova Cygni, mezzo grado a Nord, seguendo 70 Cygni, quinta magnitudine. Più luminosa di 70, ma meno di 72. Prima stima della posizione con un binocolo. Ascensione retta 21 gradi, 25 min, 25 sec. Declinazione Nord 37 gradi, 6 min. Anderson, Thurston Mains, Innerwick”

Un analogo telegramma fu inviato all’Osservatorio Reale di Greenwich. Una nova nella Costellazione del Cigno: sembrava l’ennesima grande scoperta di Anderson, che non era nuovo a imprese simili. Inaspettatamente, tuttavia, il giorno seguente l’astronomo di Greenwich W. H. Steavenson, fece alcune fotografie della zona di cielo indicata, ma le lastre non rivelarono alcuna traccia di nuovi oggetti celesti di magnitudine superiore alla dodicesima. Altre fotografie, scattate dagli astronomi di varie parti del mondo nei giorni successivi, non rilevarono alcuna variazione significativa rispetto a ciò che si conosceva. 

L’opinione della maggioranza degli astronomi fu che Anderson aveva preso un abbaglio, fatto che poteva capitare anche a un esperto osservatore del cielo come lui, forse a causa dell’età. Altri, sulla base della reputazione del grande dilettante, non riuscivano neanche a immaginare che un uomo con una così approfondita conoscenza del cielo notturno potesse aver commesso un errore così grossolano. Sì, perché Anderson aveva credibilità da vendere. 

Thomas David Anderson
Anderson era noto nella comunità astronomica britannica e internazionale per aver scoperto tre novae (Nova Aurigae nel 1891, Nova Persei nel 1901 e Nova Aquilae nel 1918), una cometa (17P/Holmes nel 1892, per la quale fu preceduto di soli due giorni dal londinese Edwin Holmes) e più di cinquanta stelle variabili. L’accuratezza e la serietà delle sue osservazioni, condotte nell'arco di una vita interamente dedicata alle stelle, erano fuori discussione. Di famiglia agiata, si era laureato in lettere ed era diventato predicatore della Chiesa Congregazionista scozzese, attività e missione che aveva abbandonato dopo pochi mesi per potersi dedicare completamente alla sua passione astronomica: nella sua lettera di dimissioni aveva scritto di non poter più essere in grado di scrivere i sermoni a causa di una forte miopia! Nel 1902 era stato insignito della medaglia Jackson-Gwilt della Royal Astronomical Society. Quando si recò a Londra per ritirarla, dichiarò di non considerarsi un astronomo ma un appassionato astrofilo. Si diceva che conoscesse a memoria l’intera volta celeste. 

Torniamo agli avvenimenti di quella notte primaverile del 1923, dei quali Anderson fornì un resoconto in una lettera inviata quattro giorni dopo all'Astronomo Reale, sir Frank Dyson: 

(…) con mia grande sorpresa (…), puntando lo strumento verso 69 e 70 Cygni, invece di due stelle ne vidi tre, disposte in linea retta, con l’eccezione di B (quella centrale), che era leggermente spostata verso Sud, e la distanza di ogni stella dalla sua vicina era circa di mezzo grado (…). Si trattava di stelle di magnitudine tra la quinta e la sesta, con A più brillante di B, e B di C.” 

A questo punto il vecchio astrofilo commise allora un banale errore procedurale, che doveva costargli caro:

“Dopo aver subito lo shock inevitabile nelle occasioni in cui si assiste a un grande rivolgimento nella natura, feci una cosa stupida. Mi affrettai in casa, dal sentiero esterno dove stavo, per poter annotare il tempo esatto della mia osservazione (…) invece di accertarmi subito per mezzo delle adiacenti stelle più deboli quali delle tre fossero 69 e 70 e quale la nuova arrivata. Quando tornai di nuovo fuori per scrutare il cielo, tutta la metà del Cigno era, ahimè, coperta di nuvole, che si erano spostate da sud in una lunga e faticosa cavalcata.” 

Dopo aver considerato il problema con l’aiuto di alcuni atlanti e cataloghi stellari, Anderson giunse alla conclusione che la nova era A, la più brillante delle tre stelle che aveva visto. Si decise allora di mandare i telegrammi di cui abbiamo parlato. Poi cambiò idea, e decise che era “abbastanza certo che la nova era C” e inviò una nuova coppia di telegrammi con la posizione ritenuta corretta. 

Esplosione di una nova

La mancanza di prove osservazionali di una nova nella costellazione del Cigno sollevò la discussione riguardo a possibili spiegazioni della sua scomparsa. Con il passare dei giorni, la maggior parte degli astronomi si convinse che Anderson aveva commesso un errore e anche i suoi primi difensori, come Sampson e lo stesso Dyson, dovettero arrendersi all'evidenza dei fatti, almeno alla luce delle conoscenze astronomiche dell’epoca. Il tempo smorzò il dibattito, e, in assenza di ogni prova, la scoperta fu dimenticata. Anderson continuò a dichiararsi convinto di aver visto una nuova stella, sebbene essa “si fosse spenta con miracolosa rapidità”, ma pian piano il suo nome fu dimenticato e la sua morte nel 1932 passò pressoché inosservata. 

Anderson aveva visto un oggetto che egli considerò una stella della quinta o sesta magnitudine, che in 24 ore era scesa a meno della dodicesima: con la terminologia moderna parleremmo di transiente ottico. Egli era convinto di aver visto una nova con velocissimo tempo di spegnimento, il più veloce fino ad allora mai rilevato. In realtà, anche oggi, i tempi di decadimento di una nova sono normalmente considerati dell’ordine di giorni o settimane, pertanto la sua idea può essere tranquillamente scartata. Assai probabilmente non aveva visto una nova, ma, ammettendo per ipotesi che egli non avesse commesso errori macroscopici nella sua osservazione, potrebbe aver visto qualcosa di diverso? Negli anni ’20 del Novecento, oggetti dal così rapido declino erano considerati impossibili, ma le nostre attuali conoscenze astronomiche consentono di considerare plausibili ipotesi alternative: abbiamo imparato a essere molto cauti nell'osservazione del cielo e ad aspettarci scoperte apparentemente anomale. 

Conosciamo infatti alcuni fenomeni astronomici che possono dar luogo a transienti assai rapidi e abbastanza luminosi da poter essere visti. La prima ipotesi è che potrebbe essersi trattato di un super-brillamento (superflare): i super-brillamenti sono violente eruzioni di materia che esplode dalla fotosfera di una stella di tipo solare, con un'energia dell’ordine dei milioni di volte quella riscontrata nei comuni brillamenti solari. Questi fenomeni causano per alcuni minuti aumenti della luminosità della stella interessata da venti a mille volte, con tempi di decadimento dello stesso ordine di grandezza, ma l’aumento è modesto se paragonato a quello della nova di Anderson. 

Superflare

Egli potrebbe allora aver osservato un episodio di microlensing gravitazionale, cioè un fenomeno in cui la presenza di una massa posta tra la sorgente e l'osservatore provoca la deflessione della radiazione emessa. La variazione indotta da un corpo massivo sulla curvatura dello spazio-tempo genera effetti che possono andare dalla deformazione apparente della sorgente, allo sdoppiamento o alla visione multipla della sua immagine, con una separazione angolare così piccola da non poter essere risolta con gli strumenti a disposizione dell’osservatore.. Il microlensing gravitazionale può fare in modo che il corpo celeste interessato si illumini di diversi gradi di magnitudine per periodi di alcuni giorni. Ad esempio, nell'ottobre 2006 una stella poco luminosa nella costellazione di Cassiopea passò da 11,4 a 7,5 nel giro di una settimana, con un analogo tempo di ritorno alla normalità. Anche in questo caso, tuttavia, ampiezza e velocità del fenomeno sono relativamente modesti rispetto a quanto avrebbe visto Anderson, ma è possibile che possano esistere fenomeni più intensi e veloci. 

Microlensing

La spiegazione oggi più plausibile per il transiente ottico osservato da Anderson potrebbe risiedere in una delle più esotiche classi di oggetti conosciuti dalla moderna astrofisica: i Gamma Ray Burst (GRB), o esplosioni di raggi gamma, il fenomeno più energetico finora osservato nell'universo. Un GRB è un intenso lampo di raggi gamma, talvolta visibile anche nel campo ottico, che può durare da pochi millisecondi a diverse decine di minuti. Queste potenti esplosioni, forse causate dall'accrescimento di materia intorno ai buchi neri, avvengono con frequenza (all'incirca uno al giorno) e con distribuzione isotropa (“in ogni angolo del cielo”) in galassie esterne alla Via Lattea e talvolta molto lontane. Dal punto di vista ottico, il più luminoso GRB finora osservato è stato il GRB 080319b nel 2008, che ebbe un picco di magnitudine pari a 5,3 e avrebbe potuto essere visibile a occhio nudo per mezzo minuto da un eventuale osservatore che avesse guardato nella giusta direzione. I tempi di decadimento dei GRB sono dell’ordine delle ore fino al alcuni giorni. 

Gamma Ray Burst (GRB)

Secondo il gruppo di ricerca del radioastronomo olandese Richard Strom, numeri significativi di GRB visibili a occhio nudo potrebbero essere stati osservati nel corso della storia umana e sarebbe opportuno rivisitare le fonti storiche alla ricerca di eventuali registrazioni. Forse in questo catalogo potrebbe avere un posto anche il telegramma di Anderson, astrofilo e grande osservatore dei cieli (watcher of the skies).


Jeremy Shears (2012). The astronomizings of Dr. Anderson and the curious case of his disappearing nova Accepted for publication in the Journal of the British Astronomical Association arXiv: 1209.4057v2


martedì 2 ottobre 2012

Una notte particolare, di Anna Maccagni


Alice si rigirò nel letto, rannicchiandosi sotto le coperte. Assumeva sempre quella posizione, quasi raccolta su se stessa, quando stava per addormentarsi o tra una fase di sonno e l'altra. Le dava sicurezza, come se quella tiepida nicchia scavata tra le lenzuola fosse un accogliente grembo amoroso. 
Mosse impercettibilmente le palpebre, che guizzarono sotto la spinta dei sogni. Alice dava l'impressione di avere una vita onirica più intensa di tante altre persone, ma forse era soltanto una questione di memoria. Riusciva a ricordare quasi tutti i suoi sogni e le loro immagini, nitide e precise come fotografie, avevano la bellezza delle fiabe. C'erano stati, è vero, dei periodi in cui gli incubi venivano a trovarla, spuntando dal nulla come funghi velenosi: rammentava ancora i pallidi fantasmi degli "uomini bianchi" o quando aveva sognato che suo papà si era fatto male. Adesso, però, era diventata grande e non era più necessario che la lampada sul comodino restasse accesa per tutta la notte. 
Una grande pace regnava in casa e ancora più tranquilla era la camera che Alice occupava con i genitori, quando facevano visita ai nonni. Si udivano soltanto gli scricchiolii dei mobili antichi, scuri e massicci, il cui legno sembrava gemere per il peso degli anni. 

Poi giunse dal corridoio un sommesso mormorio e, qualche istante dopo, si aprì la porta della camera. Un rumore smorzato di passi riempì il quieto silenzio della stanza, seguito dal cigolio del letto più grande e dal fruscio delle lenzuola. 
Alcune parole sussurrate, che avevano la carezza lieve e indistinta delle preghiere bisbigliate nell'ombra delle chiese, scivolarono chissà come attraverso la barriera impalpabile del sonno, fino a quella piccola parte di Alice che non dormiva mai. Come se qualcuno l'avesse chiamata, la bambina aprì gli occhi, ma non vide altro che l'oscurità buia e pesante che colmava ogni spazio. 
Frammenti di frasi, sospiri bagnati dalle lacrime... Alice rimase immobile, quasi trattenendo il respiro, tentando di capire perché la mamma, la nonna e la zia fossero lì, insieme, nel letto dei suoi genitori. 
"Povero babbo!" 
Le parole riecheggiarono dentro di lei, lasciandola stordita, e le piccole antenne di cui era dotata vibrarono dolorosamente, in sintonia col timbro di quella voce. Non ebbe bisogno di sentire altro per comprendere che il nonno non c'era più. 
Alice non aveva un'esperienza diretta della morte; sapeva che per tutti c'era una fine, ma non si era mai soffermata a riflettere sul suo reale significato. Moriva una pianta, moriva un animale e, soprattutto, a morire erano degli estranei. Ma ora era toccato al nonno... 
Si rese conto che mai più l'avrebbe visto sorridere, che non sarebbero più andati in giro mano nella mano o in bicicletta; era una parte di lei che se ne andava. Questa volta non esistevano rimedi e la consapevolezza che non ci si poteva opporre all'inevitabile evoluzione delle cose la fece sentire fragile e indifesa. Si raggomitolò ancora di più su se stessa per non sentire quel dolore sordo, di fronte al quale si sentiva impotente. 

Poi udì la voce della mamma e allora si lasciò cullare dai suoi accenti morbidi e rotondi che raccontavano cose già dette, eppure sempre nuove e bellissime. 
"Vi ricordate quella volta, quando il babbo è finito tra i partigiani su in collina? Quindici giorni senza dare notizie di sé..." 
"Oh, io ormai credevo che non sarebbe più tornato!" sussurrò la nonna. 
"Poi ecco che riappare, come se niente fosse". 
"E tu, mamma, com'eri arrabbiata, perché non aveva mandato nessuno ad avvertirci che stava bene!" disse la zia con l'ombra di un sorriso nella voce. 
Eh, già! Il nonno era fatto così: serio e sereno, ma con quella punta di bizzarria che gli faceva scordare lo scorrere del tempo quando si trovava in compagnia. Alice immaginava la bicicletta, che lo accompagnava sempre nel suo lavoro di capoguardia, appoggiata al tronco di un albero e vedeva lui, avvolto nel nero tabarro, che chiacchierava amabilmente con gli uomini armati di fucile. Le piaceva pensare che, mentre lontano da lì le ore e i giorni passavano veloci, tra quelle colline il tempo aveva smesso di esistere; e come capitava a coloro che facevano ritorno dal paese delle fate, forse anche il nonno, tornando a casa, aveva creduto di essere stato via solo un giorno... 
 "E quel giorno di mercato ve lo ricordate? L'ora di pranzo era passata da un pezzo e lui non si faceva vedere". 
"Sì, e poi è arrivato portando con sé quelle persone... 'Hanno perso la corriera e devono mangiare ha detto il babbo". 
"E solamente a tavola abbiamo scoperto che non conosceva nemmeno il loro nome!" 

Alice sorrise nel buio. Anche lei avrebbe potuto raccontare tante cose: i lunghi giri in bicicletta, di quella volta,che avevano guadato il torrente o di quando, in giro per Milano, avevano smarrito la strada e il senso del tempo. Erano talmente tanti i ricordi che la legavano al nonno! 
"Voi non sapete che un giorno..." 
Ecco, erano queste le parole con cui avrebbe voluto cominciare il suo racconto. Tuttavia c'era qualcosa che la tratteneva e le impediva di rivelare che era sveglia; non sapeva perché, ma sentiva che la nonna, la mamma e la zia avevano bisogno di sentirsi sole per ricordare. 
Udì scorrere il rosario. I grani di madreperla, scivolando l'uno sull'altro, frusciavano come chicchi di riso passati al vaglio. 
"Questa è la nonna" pensò la bambina. 
Le parve di vederla, così minuta e sottile, stesa al centro del letto con le figlie intorno. Immaginava la mamma che le teneva la mano, comunicando il calore del suo cuore generoso, e la zia che si aggrappava a lei, cercando il balsamo che potesse alleviare le ferite del suo spirito eternamente fanciullo. 
Nella fantasia di Alice esse diventavano le tre regine di un mondo incantato; le loro parole avevano il potere di evocare fatti, cose e persone che prendevano vita come per magia, illuminando l'oscuro fondale della notte. E il nonno era lì con loro e sorrideva... 
Quando finalmente si addormentò, anche la bambina sorrideva e aveva quell'immagine nel cuore.