martedì 27 giugno 2023

Antonio Garbasso, contro la separazione tra scienza e umanesimo

 


Non è vero che nel nostro paese il pregiudizio crociano e gentiliano contro le scienze fosse incontrastato e che la separazione tra le ”due culture”, con il primato assegnato a quella umanistica, non ebbe oppositori. Poche figure, abbastanza isolate, si spesero per difendere l’idea che il sapere è unico. Del matematico e filosofo Federigo Enriques ho già parlato in un’altra occasione, ma ci fu anche il fisico e politico (fascista) Antonio Garbasso, del quale penso sia utile conoscere le idee. Certo, è poco consolatorio constatare che entrambi provenivano dall’ambito scientifico (come del resto, più tardi, a suo modo, l’ingegner Carlo Emilio Gadda), e che nessuna voce si levò tra i letterati, ma almeno qualcuno ci fu.

Il vercellese Antonio Garbasso (1871-1933) aveva studiato all’Università di Torino, laureandosi in Fisica nel 1892. Formatosi in Germania con Hertz ed Helmholtz, dopo aver insegnato fisica a Pisa, a Torino e a Genova, nel 1913 ottenne la cattedra di fisica sperimentale dell’Università̀ di Firenze, dove contribuì̀ a far potenziare l’Istituto di Fisica di Arcetri. Fra gli allievi di Garbasso vi furono Lo Surdo, Occhialini, Rasetti e Ronchi. Il ‘Laboratorio di ottica pratica e meccanica di precisione’ fu inaugurato ad Arcetri nel 1918 e diverrà poi Istituto Nazionale di Ottica del CNR.

Per i suoi interessi sulla natura e propagazione della luce accolse con entusiasmo i lavori di Bohr sull’emissione degli spettri a righe e dal 1913 si fece promotore della concezione quantistica che ancora restava ostica per scienziati formati con una mentalità classica della meccanica.

Nel 1914 si dedicò all’effetto scoperto nel suo laboratorio da Antonino Lo Surdo e contemporaneamente da Johannes Stark in Germania (effetto Stark-Lo Surdo). Fu il suo ultimo lavoro scientifico, rimasto l’unico sull’argomento fino al 1931.

Garbasso fu protagonista di uno dei pochissimi tentativi italiani di teorizzazione critica e storica rispetto al dialogo fra le «due culture». Con una serie di saggi e di conferenze scritte negli anni ’10, e che sarebbero stati raccolti postumi nel volume Scienza e poesia (1934), egli offriva una prospettiva critica ed estetica che, anche se di carattere divulgativo, si conciliava con un certo razionalismo e con un paradigma di integrazione fra epistemologia e arti.


Garbasso fu convinto sostenitore della necessità di una seria divulgazione scientifica, per la quale era necessario costruire un ponte di dialogo e di comunicazione fra letteratura, filosofia e scienza, in un esercizio critico e storico capace di rendere conto della «totalità» della cultura, richiamando ognuna di queste discipline alla vocazione più propria della tradizione italiana. A questo proposito il suo nazionalismo conservatore lo portò a nutrire un interesse particolare per la tradizione italiana come, ad esempio, quella degli storici fiorentini, «naturali e positivi», quali «il Guicciardini e il Machiavelli», che è una vocazione di scambio pluridisciplinare e di interazione culturale. Uno dei problemi che affliggeva la cultura italiana di inizio secolo era, secondo Garbasso, il rifarsi della speculazione nazionale all’idealismo tedesco, filosofia del tutto estranea alla nostra tradizione culturale più profonda. Per l’idealismo tutta la realtà̀ è misura e proiezione, morale e epistemica del singolo, ma mentre «un idealista può̀ concedersi, senza peccare contro la logica, di scegliere la sua filosofia; un realista non può̀. A noi spetta, logicamente, un compito solo, di continuare la tradizione dei padri».

Secondo il fisico piemontese, “l’arte e la storia è la scienza e la filosofia sono una cosa sola e una cosa armonica e una cosa nostra”, perché “davanti al problema dell’Universo le attitudini che il pensiero umano può assumere si riducono in sostanza a due: o si ammette insieme a quella del soggetto la realtà del mondo esterno, o si afferma che lo spirito costruisce la natura. Si è realisti nel primo caso, e nel secondo idealisti”.

“Il fisico matematico, quali si siano le sue tendenze filosofiche particolari, o magari la convinzione o il proposito di non essere filosofo, appartiene però, a ragion veduta, ad una delle grandi famiglie nelle quali si suddivide il popolo degli uomini che non furon nati a vivere come bruti, ma a cercare virtude e conoscenza.

Chi assume di chiudere la legge di un fenomeno naturale in una formula matematica, cioè quantitativa, assume infatti, implicitamente, se anche non se ne renda conto, che la formulazione abbia valore per tutti e per tutti abbia il medesimo valore. Implicitamente il fisico matematico nega la costruzione individuale, o, in altri termini, è realista”.

Garbasso, dedicò a proposito alcune lezioni pubbliche alla Commedia di Dante discutendo di quelle conoscenze astronomiche, di cromatica e di meccanica presenti nel testo dantesco, e sottolineando, contro Croce, che Dante aveva «lo spirito scientifico; uno spirito non dissimile, in fondo, da quello di Galileo». Analogamente, mise in risalto una regola generale che caratterizza «tutti i nostri grandi Italiani, nel Medioevo e nel Rinascimento, Dante e Francesco d’Assisi, Galileo e Niccolò̀ Machiavelli, [che] ebbero tutti un tratto spirituale in comune che è il senso profondo della realtà̀».


La scienza poi possiede un proprio valore estetico:

“Il contrasto tra ciò che è bello e ciò che è vero, è di origine dottrinale, è non deriva dalla realtà delle cose. Che l’attività scientifica e l’estetica sieno essenzialmente distinte è appena un pregiudizio di pochi pensatori unilaterali, il quale non ha radici, da quella in fuori, profondissima senza dubbio, della loro personale ignoranza specifica.

Gli scopi invece delle arti figurative e della scienza sono identici come sono identici i mezzi. Perché artisti e scienziati cercano di intendere l’universo esteriore e per intenderlo e per farlo intendere procurano di darne una rappresentazione. Che questa poi si concreti in un quadro o in un modello meccanico, o in un’equazione differenziale, tocca la forma e non altera la natura logica del procedimento”.

Garbasso anticipò poi alcune questioni sociologiche molto generali che sarebbero state riprese da vari commentatori durante il Novecento. Cinquanta anni prima di C.P. Snow, propose una delle sue più note argomentazioni polemiche, sottolineando come:

“Una persona mezzamente colta, che si terrebbe disonorata quando non fosse capace di distinguere la maniera di Sandro Botticelli da quella di Paolo Veronese, o quando dovesse confessare di non conoscere l’Evolution créatrice o l’altra merce simile di fabbrica nazionale, trova invece naturalissimo di non sapere come si muovano in cielo i pianeti, o come si determini la figura della terra.”

Con un argomento che ritornerà̀ anche nelle memorie del fisico Carlo Bernardini, Garbasso deplorerà̀ il fatto che «i nostri grandi giornali danno notizia ai loro lettori di ogni giovinetto scrittore di novelle e di ogni pittore futuristeggiante; ma nessuno pubblicò regolarmente una rivista delle novità̀ scientifiche o tecniche».

A questo proposito, lamentandosi sia della cronica carenza di fondi destinati alla ricerca scientifica in Italia, che della sua marginalizzazione nei programmi scolastici del Regno, Garbasso esprimette a più̀ riprese la preoccupazione per il mutamento sostanziale dell’impianto pedagogico operante nella scuola italiana. Confrontando l’organizzazione didattica tedesca, austriaca e francese, dove esisteva «una letteratura matematica, fisica e meccanica, dedicata espressamente ai filosofi, ai medici e ai naturalisti», in Italia di inizio secolo venne invece ridotto «ad un terzo il programma d’algebra e di geometria nel Liceo, e gli sviluppi matematici furono sostituiti con una serie di lezioni su la cultura ellenica. Se il corso è fatto con coscienza, i giovinetti retori della terza Italia vi impareranno almeno, che certi ministri della pubblica istruzione non avrebbero potuto entrare nella scuola di Platone ateniese».

Al riguardo, Garbasso critica quei filosofi contemporanei che pretendono di essere «i moderatori supremi del movimento scientifico contemporaneo», ma, zavorrati da una preparazione inadeguata ricevuta nelle facoltà̀ filologiche, sanno poco o nulla di matematica, fisica o scienze. Soprattutto «hanno posto in oblio, i filosofi, [...] che i magni spiriti della Grecia erano sapienti prima di essere savi; che Talete Milesio trovò la teoria delle proporzioni e costruisse un telemetro [...] che il divino Platone risolse il problema della duplicazione del cubo [...]. I filosofi filologizzati non lo rammentano più, ma presso i Greci, per un mirabile simbolo, anche gli Dei si occupavano di Geometria». Per Garbasso bisognava inoltre andare contro la leggenda sulla incapacità̀ dei giovani italiani di capire la matematica e la fisica, e a qualsiasi presunta distinzione programmatica fra intuizione e ragione:

“Che le attitudini dello scienziato da una parte e quelle dell’artista dall’altra siano essenzialmente distinte è così essenzialmente falso che nel nostro Rinascimento i precursori della scienza moderna furono tutti quanti artisti e grandi artisti. Se poi un filosofo ci viene a raccontare che il meccanico e il fisico non ha quasi bisogno di intuizione mentre ne ha bisogno l’artista, tanto peggio per il filosofo e per la sua filosofia”.

All’entrata in guerra dell’Italia si arruolò come volontario. Da sottotenente del Genio ritornò col grado di Maggiore per avere creato il servizio ‘fonotelemetrico’ che permetteva di individuare la postazione di batterie lontane.

Fu Presidente della Società Italiana di Fisica dal 1912 al ’14 e dal 1921 al ’25, membro della settima Conferenza generale Pesi e Misure nel 1927, presidente del Comitato di Fisica del CNR. In questa carica incoraggiò e sostenne l’invio dei giovani più promettenti verso i più notevoli centri di ricerca e studio europei e ristabilì il contatto tra la fisica italiana del primo dopoguerra e le grandi correnti della ricerca sperimentale e teorica.

«Cattolico, ma non scolastico», Garbasso era informato del dibattito epistemologico in corso a livello internazionale, compendiato in Fisica d’oggi, filosofia di domani (1910) che sottolineava come la conoscenza scientifica, dopo il periodo del «materialismo infantile» dei positivisti di fine Ottocento, riacquistava un interesse particolare per il discorso filosofico grazie soprattutto ai nuovi problemi della fisica, con particolarmente riferimento agli studi di Helmholtz, Mach, Poincaré́, Boltzmann, Duhem, Enriques.

Dopo la guerra si dedicò alla vita pubblica, secondo una concezione del mondo che definiva naturale e positiva, romana, italiana e toscana. Aderì al fascismo, pur opponendosi alla riforma Gentile dell’istruzione perché trascurava le discipline scientifiche:

“Un ministro della Pubblica Istruzione rese facoltativo, or sono alcuni anni, l’insegnamento delle matematiche nel liceo, e alle matematiche sostituì un corso di lezioni sulla cultura ellenica; gli era sfuggito senza dubbio che Euclide e Tolomeo sono classici greci quanto Tucidide ed Aristofane (per citare due nomi a caso), e che anzi essi hanno avuto sulla civiltà contemporanea una più grande influenza che non abbiano avuto Tucidide ed Aristofane.

D’altra parte, nella civiltà contemporanea sono fusi con gli elementi greci e latini anche quelli che furono aggiunti dal Rinascimento, principalissimo il metodo delle scienze sperimentali. E le scienze sperimentali, come scuola di una logica più complessa della aristotelica, sono dunque indispensabili alla formazione spirituale dell’uomo moderno”.


Fu sindaco e poi primo podestà di Firenze dal 1920 al 1928. In queste vesti contribuì alla nascita delle società calcistica Fiorentina: lui, un piemontese.

domenica 4 giugno 2023

La Madonna del Manganello

 


Una delle rappresentazioni più diffuse in epoca tardo medievale e moderna della Madonna del Soccorso è stata quella in cui la Vergine, armata di un bastone, allontana il Diavolo per proteggere un bambino.

Una delle prime opere dedicate a questa raffigurazione della Vergine è quella del folignate Nicolò di Liberatore detto l’Alunno (1430-1502), conservata presso la Galleria di Palazzo Colonna a Roma. Al centro del dipinto, la Vergine compare in cielo con un lungo bastone, che minaccia un diavolo sulla destra che sta portando via un pargoletto dalle mani della madre disperata sulla sinistra.


Al museo di San Francesco a Montefalco, in Umbria, si può vedere un esempio ancor più famoso, il quadro del 1509 di Tiberio d’Assisi in cui la Vergine con il bastone nel braccio destro alzato, con la mano sinistra tiene per mano un bambino che cerca spaventato di sfuggire alle grinfie del diavolo e di salire sull’abito della Madonna. 
Da un lato del dipinto si vede una donna in ginocchio che prega Maria. È la madre del bambino, che chiede disperatamente aiuto.

La tradizione narra che la madre, stanca per la mancanza di obbedienza del figlio, in un momento di esasperazione chiese al diavolo di portarselo via, e il diavolo si presentò immediatamente per esaudire la richiesta.

Disperata, vedendo il grande errore che aveva commesso e il figlio distrutto dalla paura, la madre, sapendo che l’anima del bambino era in grave pericolo perché non era ancora stato battezzato, pregò la Vergine. La Madonna venne subito a soccorrerla, e prese a bastonate l’orribile creatura infernale.


Questa storia e il tipo di iconografia dell’opera erano molto diffusi nel centro e nel sud Italia. Essa serviva a scoraggiare la pratica del Battesimo tardivo, un tema che preoccupava molto l’Ordine degli Agostiniani. Molti dipinti, come quello della Madonna del Soccorso di Montefalco, provengono infatti da chiese agostiniane.

Ancor più nota divenne l’immagine della grande pala d’altare risalente al 1642 attribuita al pittore toscano Andrea Piccinelli, detto il Brescianino, realizzata per la chiesa di San Biagio di Avigliano (PZ). Durante il ventennio fascista questa rappresentazione iconografica venne ripresa dagli organi del PNF che, per evidenti motivi, la elessero patrona degli squadristi e poi protettrice dei fascisti, con il nome di Madonna del Manganello. L’opera originale, in cui la vergine è circondata dai santi Biagio e Cataldo, è andata perduta dopo la guerra ed è nota solo grazie a una riproduzione fotografica in un testo del 1929.


In molti santuari dell’Italia meridionale la Madonna del Soccorso è rappresentata nelle statue, alcune molto ingenue, altre di buona fattura. La più famosa fu la Madonna del Manganello realizzata da Giuseppe Malecore (1876-1967), uno scultore di Lecce specializzato nella lavorazione della cartapesta, come arredo sacro per una chiesa non parrocchiale di Monteleone, dal 1928 diventata Vibo Valentia. La statua, del 1936, rappresentava una Madonna con bambino, nella tipica iconografia della Madonna del Soccorso che, mentre nella mano sinistra sorregge il figlio Gesù, con la destra solleva un bastone che è diventato un manganello nodoso. Ai piedi della donna si trova un secondo bambino in piedi. La statua è realizzata in cartapesta colorata, e anche dalla fotografia di questa rappresentazione furono tratte in seguito alcune serie di santini.

Sul retro di tali santini era spesso riprodotto lo stornello Il Santo Manganello, ideato dal bresciano Asvero Gravelli (1902-1956), sansepolcrista, squadrista, volontario della guerra d’Etiopia e fondatore di diverse riviste del regime e, amnistiato dopo la guerra, militante del MSI fino alla morte. Ecco l’infame testo:

«O tu santo Manganello
tu patrono saggio e austero,
più che bomba e che coltello
coi nemici sei severo.
O tu santo Manganello
Di nodosa quercia figlio
ver miracolo opri ognor,
se nell'ora del periglio
batti i vili e gli impostor.
Manganello, Manganello,
che rischiari ogni cervello,
sempre tu sarai sol quello
che il fascista adorerà.»

La Chiesa Cattolica non riconobbe mai ufficialmente tali immagini, ma, nel clima di concordia successivo ai Patti Lateranensi, tollerò questo uso improprio di un’immagine sacra, in fondo apprezzato dall’Uomo della Provvidenza.