giovedì 24 novembre 2022

Il paradosso di Buzzati

 


C’è un racconto breve scritto da Dino Buzzati (1916-1972), pubblicato per la prima volta sul
Corriere della Sera il 7 ottobre 1944 e contenuto in Sessanta Racconti (1958), che, al di là dello scenario apocalittico che ogni tanto il grande giornalista, scrittore e pittore bellunese si dilettava a rappresentare con le parole o con il pennello, ricorda molto da vicino un celebre paradosso della logica. Lo si potrebbe definire “Il paradosso del confessore”. Lo riporto quasi per intero, tanto è breve, sperando di non ledere alcun diritto d’autore.


LA FINE DEL MONDO

Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve nel cielo sopra la città; si aprì poi lentamente ad artiglio e così rimase immobile come un immenso baldacchino della malora. Sembrava di pietra e non era pietra, sembrava di carne e non era, pareva anche fatto di nuvola, ma nuvola non era. Era Dio; e la fine del mondo. Un mormorio che poi si fece mugolio e poi urlo, si propagò per i quartieri, finché divenne una voce sola, compatta e terribile, che saliva a picco come una tromba.

(...) Finestre si spalancavano tra grida di richiamo e spavento, mentre l'urlo iniziale della città si placava a poco a poco; giovani signore discinte si affacciavano a guardare l'apocalisse. Gente usciva dalle case, per lo più̀ correndo, sentivano il bisogno di muoversi, di fare qualcosa purchessia, non sapevano però dove sbattere il capo. (...) Anche la maggior parte della gente era in lacrime, specialmente le donne. Soltanto due frati, vispi vecchietti, se n'andavano lieti come pasque: "La è finita, per i furbi, adesso!" esclamavano gioiosamente, procedendo di buon passo, rivolti ai passanti più ragguardevoli. "L'avete smessa di fare i furbi, eh? Siamo noi i furbi adesso!" (e ridacchiavano). "Noi sempre minchionati, noi creduti cretini, lo vediamo adesso chi erano i furbi!" Allegri come scolaretti trascorrevano in mezzo alla crescente turba che li guardava malamente senza osare reagire. Erano già̀ scomparsi da un paio di minuti per un vicolo, quando un signore fece come l'atto istintivo di gettarsi all'inseguimento, quasi si fosse lasciata sfuggire un'occasione preziosa: "Per Dio!" gridava battendosi la fronte "e pensare che ci potevano confessare." "Accidenti!" rincalzava un altro "che bei cretini siamo stati! Capitarci così sotto il naso e noi lasciarli andare!" Ma chi poteva più̀ raggiungere i vispi fraticelli? Donne e anche omaccioni già̀ tracotanti, tornavano intanto dalle chiese, imprecando, delusi e scoraggiati. I confessori più̀ in gamba erano spariti, si riferiva, probabilmente accaparrati dalle maggiori autorità̀ e dagli industriali potenti. Stranissimo, ma i quattrini conservavano meravigliosamente un certo loro prestigio benché́ si fosse alla fine del mondo; chissà̀, forse, si considerava che mancassero ancora dei minuti, delle ore; qualche giornata magari. In quanto ai confessori rimasti disponibili, si era formata nelle chiese una tale spaventosa calca, che non c'era neppure da pensarci. Si parlava di gravi incidenti accaduti appunto per l'eccessivo affollamento; o di lestofanti travestiti da sacerdoti che si offrivano di raccogliere confessioni anche a domicilio, chiedendo prezzi favolosi. Per contro, giovani coppie si appartavano precipitosamente senza più̀ ombra di ritegno, distendendosi sui prati dei giardini, per fare ancora una volta l'amore. La mano, intanto, si era fatta di colore terreo, benché́ il sole splendesse, e faceva quindi più̀ paura. Cominciò a circolare la voce che la catastrofe fosse imminente; alcuni garantivano che non si sarebbe giunti a mezzogiorno.

In quel mentre nella elegante loggetta di un palazzo, poco più̀ alta del piano stradale (vi si accedeva per due rampe di scale a ventaglio), fu visto un giovane prete. La testa tra le spalle, camminava frettolosamente quasi avesse paura di andarsene. Era strano un prete a quell'ora, in quella casa sontuosa popolata di cortigiane [qui Buzzati è molto malizioso, N.d.R.]. "Un prete! un prete!" si sentì gridare da qualche parte. Fulmineamente la gente riuscì̀ a bloccarlo prima che potesse fuggire. "Confessaci, confessaci!" gli gridavano. Impallidì̀, fu tratto a una specie di piccola e graziosa edicola che sporgeva dalla loggetta a guisa di pulpito coperto; pareva fatta apposta. A decine uomini e donne formarono subito grappolo, tumultuando, irrompendo dal basso, arrampicandosi su per le sporgenze ornamentali, aggrappandosi alle colonnine e al bordo della balaustra; non era del resto una grande altezza.

Il prete cominciò a raccogliere confessioni. Rapidissimo, ascoltava le affannose confidenze degli ignoti (che ormai non si preoccupavano se gli altri potevano udire). Prima che avessero finito, tracciava con la destra un breve segno di croce, assolveva, passava immediatamente al peccatore successivo. Ma quanti ce n'erano. Il prete si guardava intorno smarrito, misurando la crescente marea di peccati da cancellare. (...)

Ma un'ansia indicibile cresceva negli uomini. Uno chiese: "Quanto tempo c'è al giudizio universale?". Un altro, bene informato, guardò l'orologio. "Dieci minuti" rispose autorevolmente. Lo udì̀ il prete che di colpo tentò di ritirarsi. Ma, insaziabile, la gente lo tenne. Egli pareva febbricitante, era chiaro che il fiotto delle confessioni non gli arrivava più̀ che come un confuso mormorio privo di senso; faceva segni di croce uno dopo l'altro, ripeteva "Ego te absolvo..." così, macchinalmente.

"Otto minuti!" avvertì una voce d'uomo dalla folla. Il prete letteralmente tremava, i suoi piedi battevano sul marmo come quando i bambini fanno i capricci. "E io? e io?" cominciò a supplicare, disperato. Lo defraudavano della salvezza dell'anima, quei maledetti; il demonio se li prendesse quanti erano. Ma come liberarsi? come provvedere a sé stesso? Stava proprio per piangere. "E io? e io?" chiedeva ai mille postulanti, voraci di Paradiso. Nessuno però gli badava.

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Povero pretino, l’unico confessore rimasto, che confessa tutti ma non può confessare sé stesso! In pratica possiamo esprimere il finale del racconto in questa forma:

“In un certo posto tutti vogliono confessarsi perché è arrivata la Fine del Mondo, ma è rimasto un solo prete, che può confessare tutti gli altri, ma non sé stesso. La domanda è: chi confessa il prete?”

Se il prete si confessasse da solo, verrebbe contraddetta la premessa implicita secondo cui il prete può confessare solo le persone che non si confessano da sole. Se invece il prete non si confessasse autonomamente, allora dovrebbe essere confessato dal prete, che però è lui stesso: in entrambi i casi si cade in una contraddizione.

Si potrebbero considerare i protagonisti della caotica situazione divisi in due insiemi:

- Quello dei preti che si confessano da soli (che è assimilabile alla categoria degli insiemi che appartengono a sé stessi).

- Quello delle persone che, non confessandosi da sole, vengono confessate dal prete (categoria degli insiemi che non appartengono a sé stessi).

Il problema è in quale categoria vada incluso il prete: infatti, sia che venisse incluso nella prima, sia che venisse incluso nella seconda, la situazione sarebbe contraddittoria. Il prete che confessa costituisce un insieme che appartiene a sé stesso se, e solo se, non appartiene a se stesso.

Sembra il barbiere di Russell.

Il paradosso del barbiere è un'antinomia formulata dal filosofo e logico Bertrand Russell per illustrare la sua famosa contestazione riguardo alla teoria degli insiemi come esposta da Gottlob Frege. L'antinomia può essere enunciata così:

«In un villaggio vi è un solo barbiere, un uomo ben sbarbato, che rade tutti e solo gli uomini del villaggio che non si radono da soli. La domanda è: il barbiere si fa la barba da solo?»

Se il barbiere si radesse da solo, verrebbe contraddetta la premessa secondo cui il barbiere rade solo gli uomini che non si radono da soli. Se invece il barbiere non si radesse autonomamente, allora dovrebbe essere rasato dal barbiere, che però è lui stesso: in entrambi i casi c’è una evidente contraddizione.

Nella sua definizione più formale il paradosso afferma:

Sia R l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi. Allora R appartiene a sé stesso se e solo se R non appartiene a sé stesso. Simbolicamente,


Allora


se e solo se


che è una contraddizione.

Sembra che Russell abbia scoperto l’antinomia nella tarda primavera del 1901, mentre lavorava ai suoi Principles of Mathematics (1903). Cesare Burali-Forti, un assistente di Giuseppe Peano, aveva già scoperto una antinomia simile nel 1897, quando rilevò che poiché l’insieme Ω degli ordinali è ben ordinato, possiede tutte le proprietà di un numero ordinale e dovrebbe quindi essere considerato a sua volta un numero ordinale. Tuttavia, questo ordinale deve sia essere un elemento dell’insieme di tutti gli ordinali sia essere maggiore di tutti i suoi elementi, generando la contraddizione:


Diversamente dal paradosso di Burali-Forti, quello di Russell non considera ordinali o cardinali, avendo invece a che fare solo con il concetto originario di insieme.

Russell scrisse del paradosso a Frege il 16 giugno 1902. Il paradosso era fondamentale per l’attività logica di Frege poiché, mostrava effettivamente che gli assiomi che Frege stava utilizzando per formalizzare la sua logica erano inconsistenti. Nello specifico, la Regola V di Frege, che stabilisce che due insiemi sono uguali se, e solo se, i valori delle loro funzioni corrispondenti coincidono per tutti gli argomenti possibili, richiede che un’espressione come f(x) sia considerata sia una funzione dell’argomento x, sia una funzione dell’argomento f. Fu proprio questa ambiguità che consentì a Russell di costruire R in un modo tale che poteva sia essere oppure non essere un elemento di se stesso.

La lettera di Russell giunse proprio mentre il secondo volume degli Grundgesetze der Arithmetik era in procinto di essere stampato. Comprendendo subito le difficoltà che il paradosso poneva, Frege aggiunse all’opera un’appendice scritta frettolosamente in cui discuteva della scoperta di Russell. Con grande signorilità e onestà intellettuale, Frege diceva: “Uno scienziato può difficilmente scontrarsi con qualcosa di più indesiderabile che avere i fondamenti spazzati via proprio quando il lavoro è terminato. Sono stato messo in questa situazione da una lettera del signor Bertrand Russell, quando l’opera era in procinto di essere data alle stampe”. A causa di queste vicende, alla fine Frege si sentì costretto ad abbandonare molte delle sue idee sulla logica e la matematica. Egli ritenne la teoria degli insiemi responsabile della confusione che si era creata e giunse, negli ultimi anni della sua produzione scientifica, a sostenere che non si può fondare l'aritmetica sulla sola logica, perché tramite la logica sola non abbiamo la certezza che ci venga dato alcun oggetto.


Naturalmente Russell era anch’egli preoccupato per la contraddizione. Subito dopo aver letto che Frege concordava con lui sul significato della scoperta, iniziò immediatamente a scrivere un’appendice al suo
Principles of Mathematics che rappresenta il primo tentativo dettagliato di fornire un metodo corretto per evitare ciò che sarebbe divenuto noto come il “Paradosso di Russell”.

La risposta di Russell al paradosso fu la sua Teoria dei Tipi. Ravvisando che l’auto–referenza si trova nel cuore del paradosso, l’idea di fondo di Russell è che possiamo evitare il coinvolgimento di R (l’insieme di tutti gli insiemi che non sono elementi di se stessi) organizzando tutte le proposizioni (o, allo stesso modo, tutte le funzioni preposizionali) in una gerarchia. Il livello più basso di questa gerarchia consisterà di proposizioni riguardanti gli individui. Il livello successivo consisterà di proposizioni riguardanti insiemi di individui. Quello successivo consisterà di proposizioni riguardanti insiemi di insiemi di individui, ecc. È allora possibile riferirsi a tutti gli oggetti per i quali vale una data condizione (o predicato) solo se essi sono allo stesso livello o dello stesso “tipo”.

Questa soluzione al paradosso di Russell è motivata in gran parte dal cosiddetto principio del circolo vizioso, un principio che, in effetti, stabilisce che nessuna funzione preposizionale può essere definita prima di specificare lo scopo di applicazione della funzione. In altre parole, prima che una funzione possa essere definita, bisogna specificare esattamente quegli oggetti a cui si applicherà la funzione (il dominio della funzione). Ad esempio, prima di definire il predicato “è un numero primo”, bisogna prima definire la collezione di oggetti che potrebbero soddisfare il predicato, in questo caso l’insieme N dei numeri naturali.

Forse il pretino avrebbe dovuto chiedere direttamente all’Onnipotente una dilazione della Fine, o almeno un miracoloso chiarimento su come considerare il suo insieme di appartenenza. Magari gli sarebbe stato concesso. Iddio alla fine dei tempi è un creditore terribile, ma anche tremendamente divertito dalle antinomie umane.

lunedì 21 novembre 2022

Il secolare falso della Donazione di Costantino

 


La
Constitutum Constantini, la più famosa di tutte le falsificazioni medievali, fu scritta a Roma (probabilmente dalla Cancelleria pontificia), o in Francia, tra l’Ottavo e il Nono secolo, e stabilì per secoli la base giuridica per il primato clericale di papa Silvestro e dei suoi successori. Secondo il documento, l’imperatore romano Costantino Il Grande aveva ceduto al papato vaste regioni del suo impero.

La Donazione inizia raccontando la conversione di Costantino alla fede cristiana e la sua guarigione dalla lebbra ottenuta da Silvestro, Vescovo di Roma. Dopo aver così testimoniato, Costantino avrebbe poi concesso a Silvestro il primato su tutti gli altri patriarcati, rendendolo capo di tutto il clero cristiano, e fatto del papato una sorta di regno temporale, con vaste rivendicazioni territoriali a sua disposizione.

Il documento, che avrebbe recato la data del 30 marzo 315, afferma di riprodurre un editto emesso dall'imperatore Costantino. Con esso egli avrebbe attribuito al papa Silvestro I e ai suoi successori una serie di concessioni. La parte del documento su cui si basarono le rivendicazioni papali recita:
«In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo... Infine, noi diamo a Silvestro, Papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell'Italia e delle regioni occidentali.»
Inoltre, la Chiesa di Roma ottenne, secondo il documento gli onori, le insegne e il diadema imperiale per i pontefici, ma soprattutto la giurisdizione civile sulla città di Roma, sull'Italia e sull’Impero Romano d'Occidente.

La donazione venne utilizzata dalla Chiesa nel medioevo per avvalorare i propri diritti sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare il suo potere temporale sulla base di una legge imperiale. Dopo l'età carolingia, la donazione fu riesumata da papa Leone IX nel 1053, e fu dunque introdotta, nel XII secolo, nel Decretum Gratiani e in altre raccolte di Decretali dalle mani di interpolatori. Essa fu considerata un documento veritiero anche dagli avversari del potere dei pontefici. Fece eccezione Ottone III, imperatore dal 996, nipote dell'Ottone ritenuto da molti fondatore del Sacro Romano Impero. Egli, infatti, spinto dalla volontà di rinnovare l'Impero, si era affrancato dal clero cercando di ottenere una posizione di potere sulla Chiesa. Per conseguire il suo fine contestò, nel 1001, la validità del documento, accusando il diacono Giovanni dalle mani mozze di esserne l'artefice. Nel medesimo testo, Ottone sancì la donazione di otto contee di sua proprietà in favore del Papato.

Alcuni secoli dopo, Dante Alighieri, nel De Monarchia, pur non ritenendo falsa la donazione, ne negava il valore giuridico, in quanto con essa l'imperatore aveva recato danno all’Impero Romano, compiendo in tal modo un atto contrario ai propri doveri istituzionali. Infatti, il poeta affermava che né Costantino aveva il diritto di donare a terzi dei territori appartenenti all'Impero, né un papa poteva comprenderli tra i propri possedimenti, in quanto avrebbe contravvenuto ai precetti evangelici riguardo all'obbligo di povertà per la Chiesa: al massimo, avrebbe potuto accettare il dono come usufruttuario. In sostanza, Dante giudicava la donazione come un atto non valido, criticando la Chiesa per averlo considerato la prova giuridica del proprio potere temporale.

Un aumento dello scetticismo in generale e più direttamente verso la presunta pietà e potere della Chiesa cattolica fu uno dei tratti distintivi del pensiero umanistico e rinascimentale. Come fondamento di molti dei diritti e dei privilegi inerenti alla Chiesa, la Donazione di Costantino venne considerata da molti con un occhio molto più critico ed è in questa atmosfera di interrogativi che Lorenzo Valla, sacerdote, umanista e retore, volle esaminare il documento contraffatto, scrivendo nel 1440 il De falso credita et ementita Constantini donatione. Va notato che il patrono politico di Valla all'epoca era Alfonso d'Aragona, coinvolto in un conflitto territoriale con lo Stato Pontificio, e si deve presumere che Valla fosse stimolato dalla sua fedeltà ad Alfonso. Finché la Donazione di Costantino continuava ad essere accettata come valida, le rivendicazioni contrastanti di monarchi come Alfonso potevano essere caratterizzate non solo come imperfette, ma in realtà anticristiane. Valla era deciso a cambiare le cose.

All'inizio del suo discorso, Valla riconosce che è probabile che incontrerà un'opposizione violenta a causa della sua opera, ma afferma coraggiosamente che "... dare la propria vita in difesa della verità e della giustizia è la via della più alta virtù, del più alto onore, della più alta ricompensa." Fornisce anche un imperativo etico al suo attacco alla Chiesa dicendo: “Né è da stimare un vero oratore che sa parlare bene, se non ha anche il coraggio di parlare. Allora abbiamo il coraggio di accusare colui, chiunque sia, che commette crimini che richiedono accusa.”

Valla poi richiama una nota vicenda degli Atti degli Apostoli, in cui Paolo rimprovera Pietro per aver evitato i gentili. C'è una grande abilità nell'uso di questa storia particolare, poiché i Papi, il cui potere Valla sta per minare, considerano la loro autorità ecclesiastica tramandata in una catena ininterrotta dallo stesso Pietro. All'occupante della Sede di Pietro dice: «Nessuno è reso immune dal rimprovero di un'autorità che non rese immune nemmeno Pietro».

A questo punto, Valla sfida direttamente i Papi per la loro complicità nel perpetrare un falso “... o per supina ignoranza, o per grossolana avarizia che è schiava degli idoli, o per orgoglio di potere di cui la crudeltà è sempre la compagna". Dopo averli accusati di stupidità o di avidità, continua a condannarli per "... disonorare la maestà del pontificato, disonorare la memoria degli antichi pontefici, disonorare la religione cristiana, confondere tutto con omicidi, disastri e crimini". In questo modo mantiene la sua fedeltà alla Chiesa come istituzione, spostando il suo attacco su individui all'interno della Chiesa che hanno usato il falso per promuovere se stessi e il potere del papato. Nell'Italia rinascimentale c'erano molti che sostenevano la riforma della chiesa rifiutandosi contemporaneamente di considerare un'alternativa all'autorità ecclesiastica, come avveniva nel nord Europa e come sarebbe drammaticamente emerso con la Riforma luterana.


Valla rivolge poi la sua attenzione al documento stesso, a cominciare dai suoi fondamenti storici, a cominciare dalla legalità di tale dono:
«[...]. Per prima cosa dimostrerò che Costantino e Silvestro non erano giuridicamente tali da poter legalmente l’uno assumere, volendolo, la figura di donante e poter quindi trasferire i pretesi regni donati che non erano in suo potere e l’altro di poter accettare legalmente il dono [...]. In seconda istanza, dimostrerò che anche se i fatti non stessero cosí (ma sono troppo evidenti), né Silvestro accettò né Costantino effettuò il trapasso del dono, ma quelle città e quei regni rimasero sempre in libera disponibilità e sotto la sovranità degli imperatori. In terza istanza dimostrerò che nulla diede Costantino a Silvestro [...]. Dimostrerò (quarto assunto) che è falsa la tradizione che il testo della Donazione o si trovi nelle decisioni decretali della Chiesa o sia estratto dalla Vita di Silvestro [...]. Aggiungerò notizie su altri falsi o su sciocche leggende relativamente a donazioni di altri imperatori. [...] aggiungerò che, anche se Silvestro avesse preso possesso di ciò che afferma di aver avuto, una volta che o lui o altro papa fosse stato scacciato dal possesso non avrebbe più possibilità di rivendica [...]. Al contrario (ultima parte della mia discussione) i beni tenuti dal papa non conoscono prescrizioni di sorta.»
Osservando divertito l'idea di un tale dono dal punto di vista dell'imperatore Costantino, si chiede quale tipo di monarca trovi naturale cedere il suo regno:
«[...]. Qualcuno di voi se si fosse trovato al posto di Costantino, avrebbe ritenuto opportuno donare per sola liberalità Roma, patria sua, capitale del mondo, regina delle città [...]? e per giunta egli si sarebbe recato in una modesta cittaduzza, quella che fu poi Bisanzio? e insieme a Roma avrebbe dato in dono l’Italia, che non è una provincia, ma la signora delle province [...]? Non mi si farà mai credere che ciò possa fare uno sano di mente.»
Eppure, molti persistevano in questa stessa idea, perché vedevano la storia mitica della conversione di Costantino come esplicativa di tutti il comportamento successivo.

Nessun sovrano avrebbe mai rinunciato a Roma e in generale a tutto l'Occidente. A quanti la giustificavano perché l'imperatore era divenuto cristiano, Valla risponde negando che il regnare fosse incompatibile con la religione cristiana, mentre per chi la sostiene spiegandola come segno di riconoscenza per la guarigione dalla lebbra la risposta è più netta: questa è una favola derivata dalla storia biblica di Naaman, risanato da Eliseo, proprio come quella della leggenda del drago fatto morire dal profeta Daniele.

La donazione, quindi, non ha alcuna plausibilità. Chi la sostiene offende Costantino, il Senato e il Popolo romano, Papa Silvestro I e il pontificato. La donazione è insostenibile anche dal punto di vista storico: per diversi secoli, nessun Papa ha mai preteso obbedienza dai sovrani, perché Roma e l'Italia erano sotto il dominio imperiale, come risulta da un'ampia documentazione storica.

Agli argomenti di ordine giuridico, psicologico e storico, Valla fa seguire una parte dedicata all'esame del documento, che conosce nella forma parziale trasmessa dal Decretum Gratiani. Intanto – osserva il filologo – il testo della donazione è assente nelle copie più antiche del Decretum: non è quindi stato inserito da Graziano, che l'avrebbe coerentemente ricordato insieme al Pactum Ludovicianum. Il Valla dimostra che la lingua della Donazione è un latino che risente degli influssi barbarici e che i riferimenti dell'opera rimandano ad un momento nel quale Costantinopoli è la nuova capitale dell'Impero Romano: la lingua non è quella di un documento dell'età costantiniana, è latino medievale.

Valla è convinto che se il ritrovato cristianesimo di Costantino fosse stato davvero la sua motivazione, più probabilmente avrebbe visto un'opportunità per portare il cristianesimo ai suoi sudditi piuttosto che semplicemente cedere le loro terre. Continua dicendo: “Sei diventato cristiano, Costantino? Allora è molto sconveniente per te ora come imperatore cristiano avere meno sovranità di quella che avevi come infedele. Perché la sovranità è un dono speciale di Dio, per il quale anche i sovrani gentili dovrebbero essere scelti da Dio”. Qui Valla ribalta le argomentazioni sulla conversione di Costantino, dicendo in effetti che diventare giusto avrebbe reso Costantino un sovrano più legittimo, non meno. Valla usa quindi esempi tratti sia dalla Bibbia che dall'antichità per dimostrare che solo perché Dio ha concesso grandi doni a un sovrano, mai prima d'ora un sovrano ha dato in cambio metà del suo impero. I riferimenti di Valla a queste fonti avevano un importante valore retorico, poiché sarebbero stati familiari al suo pubblico, essendo pilastri della letteratura rinascimentale e considerati prove conclusive del comportamento appropriato dei monarchi.

Valla continua il suo Discorso in termini più concreti, sottolineando che non esiste alcuna documentazione esistente sull'accettazione da parte di Silvestro del dono di Costantino. “Dove è la presa di possesso, la consegna? Perché se Costantino ha dato solo una carta, non voleva fare amicizia con Silvestro, ma prenderlo in giro”. Quello che Valla sta dicendo è che se un dono viene dato senza che il titolo legale passi di mano, non c'è affatto dono, ma potrebbe anche essere una presa in giro. Se una persona dovesse inviare una lettera offrendo di fare un regalo, e poi non seguire quella offerta con qualcosa che verifica un cambio di titolo, il regalo è poco più che una vuota promessa. La persona che riceve il regalo dovrebbe anche fornire documenti che certificano la sua accettazione e la successiva amministrazione del regalo. Nessuna di questa documentazione successiva esiste nel caso della Donazione di Costantino, ed è quindi una forte prova circostanziale che né Costantino né Silvestro erano a conoscenza di un tale dono. Valla si fa beffe dell'assenza di questi documenti giustificativi, dicendo: "Dopo la partenza di Costantino, quali governatori fece Silvestro sulle sue province e città, quali guerre fece, quali nazioni che imbracciavano le armi sottomise, attraverso chi continuò questo governo? Non conosciamo nessuna di queste circostanze, rispondete. Penso che tutto questo sia stato fatto di notte e nessuno l'ha visto!”

Valla segnala anche gli anacronismi presenti nel testo che ne screditano la presunta età, come l'uso della parola “satrapo” per riferirsi a funzionari romani, quando in realtà quel termine non era stato usato in tal modo fino all'VIII secolo (è una parola di origine persiana passata poi al greco bizantino) . “Chi ha sentito parlare di satrapi nei concili dei romani? Non ricordo di aver mai letto di menzionare alcun satrapo romano, e neppure di un satrapo in nessuna delle province romane”. Valla sottolinea anche l'uso nel documento dell'espressione “popolo suddito” riferendosi ai cittadini di Roma, cosa che sarebbe stata inconcepibile per un popolo che, in quanto libero cittadino di Roma, governava gli altri. “Possono quelli che governano altri popoli, essi stessi, essere chiamati popolo suddito? È assurdo! Perché in questo, come testimonia Gregorio in molte lettere, il sovrano romano differisce dagli altri, che solo lui è sovrano di un popolo libero”. Gli anacronismi sono prove chiave per smascherare i falsi e Valla fa un ottimo lavoro nel trovarli nel suo Discorso.

Sarebbe anche una prova di un trasferimento nell'amministrazione che ci fosse qualche cambiamento nella moneta coniata dell'impero che Costantino avrebbe presumibilmente ceduto al papa, ma non è così. Lo stesso Valla possedeva monete di quell'epoca che dimostravano il punto. “... ci sono monete d'oro di Costantino dopo che divenne cristiano, con iscrizioni, non in greco, ma in lettere latine, e di quasi tutti gli imperatori in successione. Ce ne sono molti in mio possesso con questa iscrizione per la maggior parte, sotto l'immagine della croce, "Concordia orbis [La pace del mondo]". Che numero infinito di monete dei sommi pontefici si troverebbero se tu mai avessi governato Roma! Ma nessuno di questi si trova, né oro né argento, né si dice che sia stato visto da nessuno. Eppure, chi in quel tempo deteneva il governo a Roma doveva avere una propria moneta: senza dubbio quella del Papa avrebbe portato l'immagine del Salvatore o di Pietro». Questa prova di una continuazione nell'amministrazione dei governanti secolari dell'impero è difficile da confutare, e Valla è saggio usarla più avanti nel testo come supporto alle sue argomentazioni più circostanziali.

Valla segnala poi una delle più evidenti inesattezze storiche quando rileva che la Donazione si riferisce, erroneamente, alla città di Costantinopoli, che al momento in cui si supponeva fosse stato redatto il documento non esisteva. “Come al mondo - questo è molto più assurdo e impossibile nella natura delle cose - si potrebbe parlare di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando non era ancora un patriarcato, né una sede, né una città cristiana, né chiamata Costantinopoli, né fondata, né pianificata! Perché il "privilegio" fu concesso, così si dice, il terzo giorno dopo che Costantino divenne cristiano; quando ancora Bisanzio, non Costantinopoli, occupava quel sito”. Il nome errato di Costantinopoli al posto di Bisanzio è un errore sciatto del falsario e, sottolineandolo, Valla rivela ulteriormente il falso per ciò che è.

Un'ulteriore ignoranza dell'antica terminologia romana viene rivelata quando Valla sottolinea che la Donazione dice "... sono "fatti patrizi e consoli", riferendosi ai chierici della chiesa. I patrizi erano una classe sociale nell'antica Roma, e dalla classe patrizia vi erano solo due consoli, mentre più tardi nel Medioevo il termine "consoli" venne ad essere identificato più in generale con una certa classe di persone, che probabilmente portarono alla confusione del falsario. Valla dice: “Chi ha mai sentito di senatori o altri uomini che sono stati fatti patrizi? I consoli sono "fatti", ma non patrizi. I senatori, i padri coscritti, provengono da famiglie patrizie (chiamate anche senatoriali), equestri o plebee a seconda dei casi…” L’erudito si burla anche di ciò che sarebbe seguito se il clero, infatti, fosse elevato allo status di console romano. “Ma come può il clero diventare console? Il clero latino si è negato il matrimonio; e diventeranno consoli, faranno arruolamento di truppe e si recheranno nelle province loro assegnate con legioni e ausiliari? Servi e schiavi sono fatti consoli? E non devono essercene due, come era consuetudine; ma le centinaia e migliaia di servitori che servono la chiesa romana, devono essere onorate con il grado di generali?” La presa in giro dell'ignoranza del falsario a sua volta fa apparire ridicolo il falso, il che è un eccellente espediente retorico.

Indicando un altro errore, Valla porta i suoi lettori al riferimento del falsario al fatto che il diadema del re era fatto di "oro purissimo e di gemme preziose", quando, infatti, "...un diadema era fatto di stoffa ruvida o forse di seta”. Al tempo di Costantino un “diadema” sarebbe stato costituito da un pezzo di nastro di seta bianca, da legare intorno alla fronte del re indicando il suo status. Più tardi, nel Medioevo, un diadema divenne più associato a una corona, che sarebbe stata probabilmente ornata di gioielli come suppone il falsario. Questo è un altro caso di anacronismo, che si aggiunge alla cronologia sospetta del documento. Valla, con una preponderanza di prove sia concrete che circostanziali, ha costruito un caso impressionante per la confutazione della Donazione di Costantino come genuina. Il suo assalto sistematico alla Donazione attraverso un attento esame è meravigliosamente umanista.

Lorenzo Valla non fu il primo a sostenere che La donazione di Costantino era una frode, e altri più o meno nello stesso periodo, in particolare il cardinale Nicola Cusano e Reginald Pecocke, vescovo di Chichester, dicevano essenzialmente la stessa cosa. Ciò che rese la critica di Valla al documento un evento singolare è stata la natura pubblica della sua critica. Il suo saggio entrò in circolazione nel 1440 e fu ampiamente letto, anche se non pubblicato ufficialmente fino al 1517. Questo fu, non a caso, l'anno delle 95 tesi di Martin Lutero. Non dovrebbe sorprendere che la brillante decostruzione da parte di Valla di uno dei pilastri legali dell'autorità della Chiesa sia diventata estremamente popolare con l'incipiente Riforma protestante.

Valla sviluppò con cura la sua presentazione delle prove contro la Donazione, usando la sua vasta conoscenza del latino classico e le sue capacità retoriche per costruire un caso che è vicino all'inconfutabile, anche all'interno della Chiesa. Nel 1453 lo stesso papa Pio II, in un trattato rimasto inedito, ammise che il documento era un falso. I riferimenti alla Donazione sono notevolmente assenti dai documenti ecclesiastici successivi, sebbene il Vaticano non abbia ufficialmente ammesso l'ovvio fino alla metà del XVI secolo. E abbia continuato a possedere un regno almeno fino alla Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870.

Sebbene l'attacco diretto di Valla a un documento fondamentale della Chiesa possa averlo reso straordinario per il suo tempo, molti dei temi che abbraccia sono, in effetti, tipici della letteratura rinascimentale. La bordata di Valla alla Chiesa cattolica trova eco negli scritti di molti che hanno messo in dubbio la pietà dei chierici nel mezzo di un'epoca di interrogativi. Spesso le storie di questo periodo hanno come personaggi principali sacerdoti o monaci preoccupati per il guadagno terreno, o monache che sono cadute nel peccato mentre vivevano in un convento. L'esposizione di Valla della natura fraudolenta della Donazione avrebbe portato un pubblico già scettico nei confronti della Chiesa a interrogarsi su altre affermazioni dottrinali avanzate da Roma.


Valla è, a questo proposito il tipico umanista rinascimentale, in quanto sottolinea che l'impero retto dai Pontefici sulla terra è stato da sempre un impero di creazione terrena, non di ispirazione divina. Gli umanisti vedevano l'umanità come autonoma, che non richiedeva l'intervento divino per elaborare il suo destino, come espresso da Giovanni Pico nella
Orazione sulla dignità dell'uomo. Collocando i Papi nella stessa categoria degli altri monarchi affamati di terra, il potere ecclesiastico viene privato della sua aura religiosa e rivelato solo come un'altra impresa mortale.

domenica 20 novembre 2022

La truffa del dinosauro piumato

 


Il primo Archaeopteryx fu trovato nei calcari giurassici di Solnhofen (Baviera, Germania) nel 1861 e fu presto accettato come prova chiave che uccelli e rettili condividono antenati comuni. Nel 1864 Charles Darwin in L'origine delle specie, scrisse: "si è sempre pensato che l'intera classe degli uccelli sia comparsa improvvisamente durante il periodo Eocene, ma oggi sappiamo, grazie agli studi di Owen, che un uccello visse nel Giurassico, Archaeopteryx, con la sua lunga coda da lucertola, recante una coppia di piume su ogni lato e con le ali dotate di artigli liberi, scoperto nei calcari di Solnhofen. Nessuna scoperta recente, dimostra così fortemente, quanto poco sappiamo degli ex abitanti di questo mondo”

L'Archaeopteryx somigliava in parte a un piccolo dinosauro carnivoro (alto 25 cm, pesava circa 0,8-1 Kg), in parte a un uccello. Aveva coda lunga, sterno non carenato, 3 robuste dita della mano provviste di artigli e bocca con un gran numero di denti appuntiti e ricurvi all’indietro. Come gli uccelli aveva la furcula (piccolo osso a forma di V che risulta dalla fusione delle clavicole), gli alluci rivolti posteriormente, utili per appollaiarsi sui rami, e il corpo coperto di penne e piume. Carnivoro e insettivoro, si nutriva di piccoli rettili, che catturava lanciandosi dai rami. Si ritiene che fosse un buon volatore. Archaeopteryx era il classico “anello di congiunzione”, che dimostrava come gli uccelli si sarebbero evoluti dai rettili. Forse Archaeopteryx non è il vero antenato diretto dei moderni uccelli, ma secondo alcuni studiosi potrebbe rappresentare un ramo evolutivo parallelo. Per molti anni, nonostante la scoperta di un certo numero di dinosauri teropodi dal corpo piccolo con piume di vario tipo, un vero "intermedio" tra teropodi non aviari e uccelli era rimasto sfuggente alla ricerca.  In effetti, la natura unica di Archaeopteryx (ad oggi solo 13 esemplari ritrovati in tutto) aveva persino condotto alcuni, negli anni ‘80 del secolo scorso, ad affermare che i due esemplari più noti erano falsi, ipotesi poi smentita.

Quando il fossile chiamato Archaeoraptor liaoningensis, proveniente da Liaoning in Cina, fu "scoperto" nel 1999, esso sembrava completare perfettamente la successione dinosauro (rettile) → dinosauro piumato → uccello. Il fossile fu "trovato" in Cina ed ebbe successo negli Stati Uniti, nelle mani dell'artista dei dinosauri e collezionista Stephen Czerkas (fondatore del Dinosaur Museum di Blanding, Utah), che aveva acquistato il fossile per 80mila dollari nel mercato clandestino e collaborò con un giornalista del National Geographic, dove apparve per la prima volta il nome non ufficiale di Archaeoraptor liaoningensis.  Sia la natura apparentemente transitoria di Archaeoraptor che il processo per cui era stato citato al di fuori della letteratura scientifica sottoposta a revisione paritaria causarono grandi polemiche tra i paleontologi dei vertebrati.  La rivista proclamò che il fossile era un "anello mancante" tra gli uccelli e i dinosauri teropodi terrestri. 


Anche prima di questa pubblicazione, vi erano stati forti dubbi sull'autenticità del fossile, ma lo scandalo scoppiò quando venne dimostrato, attraverso un successivo studio scientifico, che il presunto fossile era una truffa. La falsificazione era stata ottenuta con la ricomposizione di pezzi di fossili reali provenienti da specie animali differenti. Zhou et al. (2001) dimostrarono infatti che la testa e la parte superiore del corpo appartenevano in realtà a un esemplare dell'uccello primitivo
Yanornis, mentre uno studio del 2002 permise di scoprire che la coda era parte di un esemplare di Microraptor, un piccolo dinosauro dromeosauride alato (descritto nel 2000). Le zampe posteriori appartengono invece a un animale ancora sconosciuto.

Lo scandalo di Archaeoraptor ha avuto conseguenze notevoli. Portò l'attenzione sul commercio illegale di fossili condotto in Cina, ed evidenziò la necessità di uno stretto controllo delle notizie sui presunti "anelli mancanti" pubblicati su giornali senza peer-review. Lo scandalo del fossile fu poi usato dai creazionisti per mettere dubbi sulla Teoria evoluzionistica. Anche se Archaeoraptor era un’impostura, sono però noti molti veri esempi di dinosauri piumati che dimostrano la connessione evolutiva tra uccelli e altri dinosauri teropodi.

sabato 19 novembre 2022

La memorabile beffa delle teste di Modigliani

 


Nell'estate del 1984, in occasione del centenario della nascita di Amedeo Modigliani (12 luglio 1884), l’allora Museo d'Arte Progressiva di Villa Maria di Livorno decise di allestire una mostra in suo onore. Lo scopo di questa iniziativa era quello di mettere in luce la breve e non ben documentata carriera di scultore di Modigliani.

La cura del progetto era affidata alla conservatrice del Museo civico locale, Vera Durbé, con la collaborazione del fratello Dario, sovrintendente della Galleria d'Arte Moderna di Roma. Per aumentare il successo della mostra, inizialmente un po' modesta e snobbata dalla critica (c'erano solo quattro sculture in mostra), i Durbé decisero di esplorare il fondo dei "fossi medicei", dove nel 1909, si diceva, Modigliani aveva gettato, scoraggiato dal giudizio dei suoi 'amici artisti', e prima di tornare a Parigi, alcune sculture.

Il Comune di Livorno non esitò a finanziare la ricerca, sperando in questo modo di attirare visitatori in città. E così, davanti a un'immensa folla di curiosi, i canali del centro della città furono dragati nella speranza di ritrovare il "Modigliani perduto". Passarono alcuni giorni, ma nessuna traccia delle sculture di Modigliani.

Quando l'intera operazione sembrava essere stata uno spreco di denaro pubblico, l'ottavo giorno accadde qualcosa di sorprendente e miracoloso: le acque torbide avevano restituito qualcosa. Era una testa di granito scolpita con lo stile per il quale Modigliani era famoso. Passarono alcune ore e i lavori di scavo trovarono altre due sculture.

Per i fratelli Durbé non c'erano dubbi: le opere appartenevano ad Amedeo Modigliani. Da quel momento Livorno fu letteralmente invasa dai turisti e dai media giunti da tutto il mondo, con grande gioia da parte dell'amministrazione comunale che aveva scommesso su questa avventura. Dall'America al Giappone, curiosi, giornalisti e critici d'arte si affollavano davanti al Museo di Villa Maria, impazienti di ammirare gli straordinari reperti.

I grandi accademici della critica d'arte italiana e nomi illustrissimi nel mondo dell'arte come Jean Leymarie, Cesare Brandi, Enzo Carli, Giulio Carlo Argan e Carlo Ludovico Ragghianti, insieme ad altri storici dell'arte come Luciano Berti, Emilio Tolaini e lo scultore Pietro Cascella applaudivano la scoperta.

L'unico a sostenere che queste tre sculture non fossero solo false, ma anche realizzate da due mani diverse fu Carlo Pepi, grande collezionista d'arte pisano e cacciatore di falsi, più tardi fondatore dell’Istituzione Casa Natale Modigliani e per qualche tempo membro dell'Archivio Legale Modigliani. La cosa curiosa, in questo girotondo di attribuzioni, fu che nel 1991 Pepi avrebbe scoperto in una vecchia carrozzeria vicina allo studio livornese di Modigliani cinque sculture che egli giudicò autentiche. Successivamente, con sorprendente coerenza, le solite Istituzioni che avevano preso per buone le sculture pescate nei fossi, ritennero false quelle autentiche. Per aver autenticato queste sculture, Pepi fu processato, ma infine assolto in formula piena. Durante il processo emerse il solito problema della scarsissima competenza dei cosiddetti "esperti", al punto che è difficile capire chi sia effettivamente attendibile per poter dire quando un Modigliani è autentico oppure no.

Nel frattempo Dario Durbé aveva pubblicato a tempo di record (due settimane) un libro-catalogo dal titolo "Due pietre ritrovate di Amedeo Modigliani", corredato di foto, perizie scientifiche e commenti di eminenti esperti.

In questo "elegantissimo catalogo" si legge chiaramente che nei fossi medicei di Livorno si erano cercate le teste scolpite che Modigliani, deriso dai commenti dei "compagni artisti livornesi", avrebbe gettato nel 1909, nonostante lo scrittore e critico Gastone Razzaguta, amico dell’artista, avesse assicurato che questo episodio era avvenuto sette anni dopo. E stranamente, nel catalogo veniva data poca importanza alla pubblicazione di Razzaguta, in contrapposizione a un libro che invece era preso in considerazione come un atto notarile. Nel testo, intitolato "Il Santo di Montparnasse" del rumeno Peter Neagoe, sul grande scultore Constantin Brancusi, veniva riportato l’episodio delle sculture gettate da Modigliani nell’acqua. Peccato che il sottotitolo, ignorato dal curatore del catalogo, era "Un romanzo basato sulla vita di Constantin Brancusi". Un romanzo. Un piccolo dettaglio stranamente omesso.

Dalle parole di Dario Durbé si può ben capire l'entusiasmo contagioso di quel periodo: "Poche parole per descrivere un episodio e le emozioni che avrebbero richiesto lo spazio di un intero libro. Mi sono sentito vicino a Modigliani, come se quella pietra avesse il potere di metterci in una sorta di contatto fisico e cancellare i settantacinque anni che separano il suo gesto amaro dalla gloria della nostra scoperta”.

La gran giornata era prevista per domenica 2 settembre, presso il luogo dell'esposizione, durante la presentazione del libro che doveva consacrare definitivamente il valore mondiale della scoperta. Ma il Diavolo ci mise la coda. Infatti, mentre al Museo d'Arte Progressiva si preparavano i festeggiamenti e gli ultimi dettagli prima dell'inaugurazione, una notizia dell'agenzia Ansa piovve come un fulmine a ciel sereno contro questa impresa: tre studenti livornesi, Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Guarducci avevano affermato in un'intervista al settimanale Panorama di essere gli autori della seconda testa scolpita. I ragazzi avevano detto che si trattava solo di uno scherzo, eseguito non con uno scalpello, ma con un semplice trapano Black & Decker. A conferma di quanto appena detto, sul giornale erano pubblicate alcune foto scattate dai tre studenti nel momento in cui eseguivano i lavori in un giardino. Un loro amico, Michele Genovesi, era anche andato da un notaio per far certificare la fabbricazione del falso. Per fugare i restanti dubbi, i ragazzi furono invitati anche in televisione, in prima serata, a ripetere in diretta il loro esperimento davanti a oltre dieci milioni di telespettatori. In poche parole, il loro fu uno dei più grandi scherzi del secolo.


Tutto ciò non spezzò le resistenze di chi (i fratelli Durbé ma anche gran parte della critica d'arte) credeva ancora che le opere fossero autentiche e che l'unico intento dei tre studenti fosse solo quello di farsi pubblicità. Ad avallare la loro tesi c'erano ancora le altre due teste scolpite di cui il trio, per loro stessa ammissione, non era responsabile. La trincea dietro la quale si proteggevano i fautori dell'autenticità delle opere crollò dopo una decina di giorni, quando si seppe che l'idea di farsi beffe dal mondo dell'arte non era venuta in mente solo a Luridiana, Ferrucci e Guarducci . Risultò, infatti, che le altre due sculture erano state scolpite da un ventinovenne artista promettente e controverso: Angelo Froglia, ex militante anarchico rivoluzionario, che aveva trascorso due anni in carcere per un attentato alla sede livornese della Cisnal negli anni ‘70. A differenza dei tre studenti, il cui scopo era uno scherzo innocente, Froglia aveva motivazioni più profonde e complesse. “Non mi interessava fare uno scherzo", dichiarò ai giornalisti "la bufala dei tre studenti è stata una variabile incontrollata che mi ha ostacolato molto. Il mio intento era quello di evidenziare come, attraverso un processo di persuasione collettiva, attraverso la RAI, i giornali, le chiacchiere tra le persone, beh, tutte queste cose potrebbero influenzare le convinzioni della gente. Sono anche un artista, mi muovo nei canali d'arte, volevo suscitare un dibattito sul mondo dell'arte. La mia è stata un'operazione concettuale, in un certo senso, è stata anche un'opera d'arte, come quella di Christo che confeziona i monumenti, ma non avevo intenti polemici né contro l'amministrazione, né contro la città, né contro i critici d'arte in quanto persone. Volevo solo far sapere alla gente come nel mondo dell'arte, l'effetto dei mass media e dei cosiddetti esperti può portare a prendere enormi granchi".


Non solo gli "esperti di Modigliani" presero un granchio in quella vicenda, ma anche gli esperti nominati dalla Soprintendenza di Pisa che svolsero molte perizie scientifiche sulle sculture ritrovate. Froglia, infatti, aveva imbrattato il retro di una scultura con del catrame per la pavimentazione stradale, un composto chimico chiaramente non utilizzato ai tempi di Modigliani.

In effetti, i cosiddetti esperti rimasero basiti, incapaci di reagire e totalmente imbarazzati. Il mondo intero, dopo aver puntato le telecamere e l'interesse sulla città toscana in cui era avvenuto il miracolo di un ritrovamento tanto atteso e desiderato, seppe allora della bufala livornese. L'intera vicenda giovò invece al famoso marchio di trapani elettrici Black & Decker, che impostò la sua campagna pubblicitaria sulle straordinarie potenzialità del suo prodotto. Quanto al resto, la storia si è conclusa con le lacrime di Vera Durbé e il sorriso divertito dell'opinione pubblica italiana.

La bufala del 1984 portò ad una colossale ripercussione nel mondo dell'arte anche perché per i più importanti critici d'arte italiani furono derisi per aver affermato che le opere erano autentiche, anche dopo la confessione degli studenti, convinti che la loro testa scolpita (ottenuta in alcune ore di lavoro), sarebbe stata immediatamente riconosciuta come un falso, e non avevano mai pensato di innescare un caso internazionale. E per di più, durante la "pesca miracolosa", Jeanne Modigliani, figlia dell'artista, fu trovata morta nella sua casa parigina, proprio mentre era pronta a recarsi a Livorno per dichiarare false le due sculture (realizzate da Angelo Froglia), della cui esistenza era stata informata in anticipo con una lettera anonima.

Federico Zeri, che onestamente sostenne di essere stato anch’egli avvisato da una telefonata che gli aveva preannunciato il ritrovamento di due teste finte che sarebbero dovute emergere dalle acque, scrisse un articolo per La Stampa in cui giudicava le teste "Autentiche o false, le tre pietre sono pezzi di basso livello, così poveri da non reggere nemmeno gli epiteti di giudizio qualificante; se autentici rappresentano, per così dire, la preistoria di Modigliani, che fece bene a buttarle via. Ma da qui nascono le considerazioni che suscita la vicenda . La prima è l'arroganza con cui il critico d'arte contemporanea impone al pubblico tutto ciò che ritiene valido e degno di nota".

Più tardi, nel 1993, Angelo Froglia decise di parlare, rivelando nuovi dettagli e facendo nomi che non aveva menzionato nel 1984 quando dichiarò di aver agito da solo. Grazie a queste nuove rivelazioni, e alla querela di Giuseppe Saracino e Carlo Pepi contro Vera Durbé, che attraverso i giornali continuava a dire che le sculture "pescate" erano autentiche, il caso fu riaperto dalla magistratura che avviò un'indagine nei confronti degli ex assessori e dipendenti del Comune di Livorno. Il caso è stato chiuso per limiti di prescrizione, come spesso accade in Italia. Froglia, minato da una lunga malattia e dall’uso di droghe, morì nel 1997. La vera grande burla era stata la sua.

venerdì 18 novembre 2022

Fusione fredda: un caso di cattiva scienza

 


Stanley Pons (1943) e Martin Fleischmann (1927-2012) formavano una coppia alquanto eterogenea. Pons era un uomo tranquillo di una piccola città della Carolina del Nord. Fleischmann era un ceco estroverso quasi abbastanza vecchio per essere il padre di Pons. I due si erano conosciuti mentre Pons stava completando il dottorato di ricerca presso l'Università di Southampton in Inghilterra, dove Fleischmann era professore. Pons ammirava l'intelligenza e il talento di Fleischmann, che divenne presto suo mentore e amico. I due rimasero vicini nel corso degli anni, quando Pons passò da studente laureato a una cattedra presso l'Università dello Utah. Poco dopo aver assunto l'incarico di professore, Pons iniziò a collaborare ai progetti di ricerca di Fleischmann.

L'idea alla base del loro esperimento di fusione fredda fu innescata da uno degli studi precedenti di Fleischmann. Alla fine degli anni '60, Fleischmann utilizzava il palladio, un metallo raro, come ingrediente chiave per separare l'idrogeno dal deuterio. Il palladio può assorbire quantità insolitamente grandi di idrogeno, circa 900 volte il proprio volume. È un po' come usare una spugna da cucina per asciugare 30 litri di acqua versata. Questo straordinario potere di assorbimento è dovuto a una reazione sulla superficie del palladio che attira l'idrogeno all'interno del metallo. Poiché l'idrogeno e il deuterio sono isotopi e differiscono solo per un neutrone, la stessa reazione si verifica con il deuterio, che può essere risucchiato dal palladio in quantità sorprendentemente elevate. Fleischmann pensò che, poiché il deuterio assorbito dal palladio subisce una drastica riduzione di volume (di un fattore di circa 900), gli atomi di deuterio devono essere schiacciati all'interno del palladio. Cominciò a chiedersi se un processo simile potesse essere utilizzato per forzare gli atomi di deuterio abbastanza vicini da fondersi e rilasciare energia.


Fleischmann accantonò le sue idee sulla fusione fino all'autunno del 1983, quando lui e Pons iniziarono a parlare della possibilità di utilizzare processi chimici per innescare un processo nucleare. Decisero di organizzare un esperimento per testare l'idea di Fleischmann. Lavorando nel laboratorio di Pons, i due misero insieme quella che definirono una "cella di fusione". La configurazione iniziale della cella di Fleischmann e Pons utilizzava un vaso di Dewar (vaso di vetro a doppia parete al cui interno era stato fatto il vuoto) riempito di acqua pesante per svolgere l'elettrolisi, in modo che fosse minima la dispersione termica (meno del 5% durante la durata di un tipico esperimento). La cella era poi immersa in un bagno tenuto a temperatura costante in modo da eliminare gli effetti di sorgenti di calore esterne.

I due scienziati utilizzarono una cella aperta, in modo da eliminare la pericolosa formazione di sacche di deuterio e ossigeno risultanti dalle reazioni di elettrolisi, anche se ciò avrebbe favorito qualche perdita termica e comportava quindi il ricalcolo della minore potenza prodotta dalla cella stessa a causa della perdita. Questa configurazione, a causa dell'evaporazione del liquido, rendeva necessario rabboccare di tanto in tanto il vaso con nuova acqua pesante. I due scienziati notarono che, se la cella era alta e stretta, le bolle di gas prodotte dalla elettrolisi potevano mescolare l'acqua pesante contenuta e portarla ad una temperatura uniforme.


Nella cella erano contenuti due barrette di metallo, una di palladio e l'altra di platino, immerse in un contenitore di acqua pesante (acqua in cui l'idrogeno di ciascuna molecola è sostituito dal deuterio). Sapevano che con l'elettricità si sarebbe innescato un processo di elettrolisi, in cui le molecole di acqua pesante si sarebbero divise, producendo gas di deuterio e ossigeno. Il deuterio avrebbe potuto quindi essere assorbito nel palladio tramite una reazione chimica. Pons e Fleischmann ipotizzarono che, una volta all'interno del palladio, gli atomi di deuterio sarebbero stati spinti così vicino da fondersi e rilasciare grandi quantità di energia sotto forma di calore. Pons e Fleischmann misurarono continuamente la temperatura della cella durante il suo funzionamento. Dopo alcune analisi dei dati, scoprirono che la cella stava producendo circa 100 volte più calore di quanto potesse essere spiegato dalla sola chimica. Interpretarono questo calore in eccesso come prova della fusione. Eccitati dalla possibilità di aver trovato un modo economico per sfruttare la fusione per la produzione di energia, Pons e Fleischmann erano ansiosi di testare ulteriormente la loro idea. Tuttavia, più esperimenti richiedevano più finanziamenti.


Con promettenti risultati preliminari a sostegno della loro ipotesi sulla fusione fredda, Pons e Fleischmann fecero domanda per una sovvenzione governativa per ottenere fondi per ulteriori esperimenti. Come parte del processo di sovvenzione, la proposta di Pons e Fleischmann dovette passare attraverso la revisione tra pari. Uno dei revisori era Steven Jones, un fisico nucleare della Brigham Young University, a sole 50 miglia di distanza. Jones e un gruppo di collaboratori stavano lavorando a un esperimento simile ma stavano studiando un tipo di prova diversa. Mentre Pons e Fleischmann si stavano concentrando sulla rilevazione del calore che sarebbe stato prodotto dalla fusione, il gruppo di Jones stava cercando un altro segno di fusione: i neutroni.


Secondo la teoria nucleare, gli atomi di deuterio si fondono e rilasciano energia in un processo in due fasi: 1) I due atomi di deuterio si uniscono per formare un singolo atomo di elio-4 (elio con due protoni e due neutroni). 2) Questo atomo di elio-4 ha molta energia, così tanta da renderlo instabile. L'atomo instabile libera rapidamente parte di questa energia in tre modi diversi: rilasciando un neutrone, o un protone o un raggio gamma.


Il processo di fusione, la formazione di elio-4 e il successivo rilascio di energia, generano una grande quantità di calore. Inoltre, la teoria nucleare ci dice quanto di ogni prodotto di fusione dovremmo aspettarci di osservare: per una data quantità di deuterio sottoposto a fusione, dovremmo vedere la produzione di un numero circa uguale di protoni e neutroni e un numero molto minore di raggi gamma. Il calore, i neutroni e l'elio-4 avrebbero potuto essere tutti rilevati dalle apparecchiature disponibili in quel momento. Ciò rendeva disponibili almeno tre linee di prova per far luce sul fatto che la fusione stesse avvenendo o meno. Rilevare questi tre prodotti nelle quantità appropriate sarebbe stata una forte prova a favore della fusione fredda.

Utilizzando un nuovissimo rilevatore di neutroni all'avanguardia, il team di Jones aveva trovato prove di un piccolo numero di neutroni provenienti dalla loro cella di fusione. Jones interpretò questo fatto come una prova della fusione. Nonostante questo accordo concettuale sulla possibilità della fusione fredda, i dettagli dei risultati di Jones non combaciavano con quelli di Pons e di Fleischmann. La quantità di fusione che Jones pensava di rilevare era così piccola da non avere alcuna applicazione pratica, mentre i risultati di Pons e Fleischmann indicavano che le celle di fusione potevano essere utilizzate come fonte di energia, alimentando in futuro intere centrali elettriche.


Poiché stavano cercando diversi tipi di prove per lo stesso fenomeno, Jones chiese al Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti, di informare Pons e Fleischmann della sua ricerca e di suggerire una collaborazione. Scientificamente parlando, collaborare era una buona idea. Sebbene Pons e Fleischmann avessero una vasta formazione in chimica, nessuno dei due aveva studiato fisica nucleare, che era l'area di competenza di Jones. Ulteriori conoscenze di fisica sarebbero state particolarmente utili in questo caso, perché l'ipotesi sulla fusione che si verifica nel palladio non era convenzionale e andava contro le teorie fisiche che suggeriscono che gli atomi di deuterio all'interno del palladio non si sarebbero avvicinati abbastanza l'uno all'altro per fondersi. Entrambi i gruppi avevano una conoscenza rilevante che mancava all'altro. Collaborando, avrebbero ampliato la loro comprensione del problema, delle tecniche e delle prove e sarebbero stati maggiormente in grado di giudicare se la fusione si stava verificando o meno.

Sfortunatamente, i vantaggi della collaborazione non furono sufficienti a convincere Pons e Fleischmann a lavorare con il gruppo di Jones. Pons e Fleischmann erano convinti che Jones avesse utilizzato i dettagli raccolti dalla loro domanda di sovvenzione per sviluppare il suo esperimento.

Preoccupato che Jones li precedesse, Pons si precipitò a eseguire i suoi esperimenti sui neutroni, ma la sua ricerca di neutroni non iniziò bene. Inizialmente non era in grado di rilevare alcun segno di neutroni rilasciati dalla sua cella di fusione fredda, sebbene il gran numero di neutroni prodotti dalla fusione avrebbe dovuto essere relativamente facile da rilevare. Pons provò quindi una seconda tecnica per il rilevamento dei neutroni. Questa volta trovò i neutroni, ma cento milioni di volte meno del numero che si aspettava di rilevare. Tuttavia, i neutroni erano ancora molte volte più del numero che Jones aveva trovato. Nulla sembrava corrispondere: i risultati sui neutroni di Pons non erano d'accordo con le sue misurazioni del calore, con i risultati sui neutroni di Jones e con la teoria nucleare consolidata, che suggeriva che non avrebbe dovuto verificarsi alcuna fusione.

Come scienziati, la corretta linea d'azione era chiara. La condotta scientifica implica un equilibrio tra scetticismo e apertura mentale. Gli scienziati della fusione fredda dovevano tenere a mente sia i nuovi risultati che la vecchia teoria, mentre facevano del loro meglio per raccogliere più prove. Con risultati così sorprendenti, avevano una responsabilità ancora maggiore nel completare test approfonditi e accurati per supportare i loro risultati ed eliminare la possibilità di errori sperimentali.

Sebbene Jones, Pons e Fleischmann conoscessero le loro responsabilità scientifiche, c'era una grande pressione per pubblicare rapidamente, poiché i due gruppi sarebbero stati in competizione. Nella scienza, non è raro che due o più gruppi indaghino contemporaneamente sullo stesso problema, e la scienza ha una regola per l'assegnazione dei crediti. Il primo gruppo che pubblica una ricerca ottiene il merito di una nuova scoperta. Pertanto, se Jones o il gruppo Pons/Fleischmann passavano troppo tempo a fare ulteriori test prima della pubblicazione, correvano il rischio di perdere il credito scientifico (e i brevetti). Gli standard per la condotta scientifica (e il tempo richiesto per test approfonditi) erano in conflitto con il poco tempo imposto da altre preoccupazioni.

Solo due mesi dopo che Pons e Fleischmann avevano appreso di avere concorrenza, Jones li informò che era pronto a pubblicare. Jones onestamente propose che entrambi i gruppi inviassero i loro articoli alla stessa rivista nello stesso momento, in modo che il merito potesse essere condiviso. Mancavano solo 18 giorni alla data proposta per la presentazione, ma Pons e Fleischmann speravano in altri 18 mesi per completare i test. Nonostante il fatto che questo riducesse drasticamente il loro tempo per raccogliere i dati, Pons e Fleischmann ritenevano di non avere scelta e accettarono la presentazione congiunta del documento. Tornarono al laboratorio, determinati a raccogliere quante più prove possibili nei giorni rimanenti.

Sebbene avessero appena accettato una presentazione congiunta in 18 giorni e nonostante il fatto che inizialmente avessero avuto bisogno di un altro anno e mezzo per completare i loro esperimenti, Pons e Fleischmann precedettero Jones e presentarono un articolo da soli solo cinque giorni dopo. Questa azione era contraria agli standard del comportamento scientifico su due livelli. In primo luogo, sul piano etico, violando l’accordo con Jones. In secondo luogo, non esposero sufficientemente le loro idee. Nella loro fretta di pubblicare, non eseguirono alcuni esperimenti di controllo semplici e ovvi, i cui risultati avrebbero fornito prove chiave sulla correttezza o meno della loro ipotesi sulla fusione fredda. Ad esempio, avrebbero potuto:
• Far funzionare la loro cella di fusione con acqua normale al posto dell'acqua pesante ricca di deuterio. Se l'esperimento avesse generato calore in eccesso anche senza deuterio, sarebbe stata una prova contro l'idea che la fusione fosse la causa del calore. 
• Usare un altro metallo al posto del palladio. L’ipotesi si basava sulla grande quantità di deuterio che il palladio può assorbire. Se un altro metallo con minore capacità di assorbimento avesse prodotto risultati simili, anche questa sarebbe stata una prova contro la fusione. 
• Utilizzare una tecnica di misurazione del calore più avanzata. Pons e Fleischmann utilizzarono una tecnica in cui ai gas era permesso di fuoriuscire dalla cella di fusione e quindi era stimata la quantità di calore portato via. Se avessero utilizzato una tecnica diversa in cui non fossero fuoriusciti gas, avrebbero ottenuto risultati più accurati. 
• Richiedere la consulenza di esperti sulla loro ricerca di neutroni e altri prodotti nucleari. Rilevare queste particelle non è facile, e Pons non aveva precedenti esperienze in questo settore. Inoltre, l'attrezzatura utilizzata da Pons non era molto sensibile. Attrezzature più sensibili e più esperienza nel gestirle avrebbero aggiunto credibilità alle loro affermazioni.

Pons e Fleischmann presentarono il loro articolo al Journal of Electroanalytical Chemistry, il cui editore ritenne che il peso della potenziale scoperta di Pons e Fleischmann meritasse un trattamento speciale. L'editore sottopose l'articolo a una forma abbreviata di peer-review. La revisione tra pari può rilevare una serie di carenze negli articoli prima che vengano pubblicati. Ad esempio, i revisori tra pari normalmente notano quando le prove sono insufficienti per supportare le affermazioni degli autori (come nel caso di Pons e Fleischmann) e suggeriscono di raccogliere ulteriori prove prima della pubblicazione. I revisori cercano anche potenziali difetti nel ragionamento e nella progettazione sperimentale. Un'adeguata revisione tra pari avrebbe potuto cogliere un grave difetto nella logica di Pons e Fleischmann: avevano calcolato in modo errato le grandezze delle forze che agiscono sul deuterio mentre si trova all'interno del palladio. Il calcolo corretto ha in seguito rivelato forze molto più piccole, troppo piccole per spingere gli atomi di deuterio abbastanza vicini tra loro da fondersi.

Tuttavia, questa e altre carenze nell'articolo di Pons e Fleischmann sono sfuggite alla revisione frettolosa. I revisori ebbero solo una settimana per esaminare l'articolo (quando di solito ci vogliono diverse settimane, se non mesi) e non poterono rivedere le modifiche apportate dagli autori nella seconda bozza. Questo breve periodo di revisione aggirò alcuni dei controlli istituiti nel processo scientifico e alla fine avrebbe contribuito a un'inutile confusione, oltre a uno spreco di tempo, energia e denaro.

Non è del tutto chiaro perché Pons e Fleischmann abbiano scelto di pubblicare molto prima di quanto inizialmente previsto, ma l'impatto sul loro studio è evidente. Molti scienziati, in seguito, hanno criticato la mancanza di completezza e la qualità del loro lavoro. Pons e Fleischmann non avevano eseguito gli esperimenti o l'analisi con molta attenzione, e un mese dopo la pubblicazione dell'articolo, dovettero pubblicare un elenco di correzioni lungo due pagine che includeva importanti modifiche ai loro dati. Tuttavia, prima che la comunità scientifica avesse la possibilità di valutare le idee di Pons e Fleischmann sulla fusione fredda, i due portarono le loro affermazioni al grande pubblico.

Invece di aspettare che la comunità scientifica dicesse la sua sulle affermazioni radicali di Pons e Fleischmann, o addirittura che il documento fosse pubblicato, l'Università dello Utah organizzò il 23 marzo 1989 una conferenza stampa per annunciare al mondo il successo della fusione fredda. Furono fornite pochissime informazioni concrete, ma i due scienziati e alcuni dirigenti universitari sottolinearono ripetutamente la quantità di energia che Pons e Fleischmann pensavano che le loro celle di fusione avrebbero potuto produrre in futuro se fossero state rese più grandi ed efficienti. Ciò presentò al pubblico una visione molto ottimistica della fusione fredda e suscitò molto entusiasmo, il tutto prima ancora che la comunità scientifica avesse avuto la possibilità di determinare se la fusione fredda fosse reale.

Sebbene pubblicizzare scoperte entusiasmanti sia normale, la pubblicità anticipata, combinata con una revisione paritaria ridotta, creò molti problemi. La comunità scientifica era in subbuglio dopo la conferenza stampa. Pons e Fleischmann avevano fatto affermazioni straordinarie, ma poiché il documento non era ancora disponibile, la comunità scientifica non aveva modo di valutare il lavoro presentato nel documento, figuriamoci provare a replicarlo.

Sebbene il processo della scienza non richieda che ogni esperimento venga replicato, con risultati sorprendenti come quelli di Pons e Fleischmann - risultati che contraddicevano una teoria consolidata - ciò era obbligatorio. Dopotutto, la scienza mira a scoprire le regole in base alle quali opera l'universo. Questo significa che un fenomeno dovrebbe funzionare allo stesso modo indipendentemente da chi lo sta testando e dove. La teoria nucleare aveva superato questo test, ma restava ancora da vedere se la fusione fredda potesse farlo.

Mancavano ancora diverse settimane alla pubblicazione dell'articolo di Pons e Fleischmann, ma gli scienziati non lasciarono che ciò li fermasse. Copie non autorizzate dell'articolo iniziarono a circolare via fax all'interno della comunità scientifica, ma quando altri scienziati tentarono di allestire lo stesso esperimento, scoprirono che l'articolo non descriveva tutti i dettagli rilevanti. Questo non è così insolito nella scienza di oggi. Molte procedure sono complesse e descriverle completamente richiederebbe troppe pagine. In questi casi, gli autori sono tenuti a fornire i relativi dettagli su richiesta. Tuttavia, Pons e Fleischmann si rifiutarono di fornire questi dettagli. I funzionari dell'Università dello Utah hanno successivamente rivelato di aver detto a Pons e Fleischmann di non rivelare troppi dettagli prima che fosse depositato un brevetto. Alla fine, l'articolo, frettoloso e impreciso, fu pubblicato ufficialmente il 10 aprile 1989.


Oltre a tentare di replicare l'esperimento di Pons e Fleischmann - tentativi che erano stati vanificati dalla mancanza di informazioni - gli scienziati provarono a verificare il lavoro in altri modi, esaminando il documento sulla fusione fredda alla ricerca di potenziali fonti di errore. Molti dei problemi che notarono sarebbero probabilmente stati rilevati in un'approfondita revisione tra pari e alcuni errori erano sorprendentemente banali. Ad esempio, gli scienziati rilevarono che Pons e Fleischmann non avevano agitato l'acqua pesante all'interno delle loro celle di fusione. Proprio come è probabile che non mescolare una pentola di zuppa sul fornello lasci alcune parti fredde e altre bruciate, non mescolare l'acqua in una cella di fusione porta a una distribuzione del calore non uniforme e misurazioni della temperatura imprecise.

Altri continuarono a provare a replicare i risultati provando molte diverse combinazioni sperimentali, sperando di trovare quella usata da Pons e Fleischmann. I risultati iniziali furono contrastanti. Mentre la maggior parte dei gruppi di ricerca riferì di non aver visto prove di fusione, alcuni gruppi sostennero di aver osservato calore in eccesso e/o neutroni provenienti dalle loro celle di fusione. Tuttavia, questi gruppi erano in conflitto tra loro sulle condizioni necessarie per la fusione. Ad esempio, alcuni scoprirono che erano necessari mesi per l'inizio delle reazioni nucleari, altri dissero di aver ottenuto risultati in poche ore. E spesso questi gruppi non furono nemmeno in grado di replicare i propri risultati.

Come è stato possibile che esperimenti molto simili producessero risultati così diversi? Alcuni dei risultati erano semplicemente errori. Molte delle conferme dei risultati di Pons e Fleischmann dovettero essere ritirate a causa di errori, ad esempio in un caso ci si era dimenticati di collegare un cavo chiave nell'allestimento sperimentale. Altre discrepanze erano dovute a differenze nell'analisi dei dati. Gli scienziati raccolgono dati grezzi, che devono essere analizzati e interpretati prima che possano dire qualcosa di significativo sul test. Ad esempio, molti degli scienziati della fusione fredda, inclusi Pons e Fleischmann, avevano cercato di valutare se la fusione stesse avvenendo misurando il calore prodotto dalla cella. Sembra che sia semplice (basta misurare la temperatura della cella) ma, in realtà, non lo è. La cella scambia calore con l'ambiente circostante e parte del calore viene portato via dai gas in fuga. L'impatto di questi fattori deve essere attentamente stimato e preso in considerazione nell'analisi dei dati. Se due gruppi gestiscono questi aggiustamenti in modo diverso nelle loro analisi, possono giungere a conclusioni diverse sui risultati sperimentali.


Gli scienziati possono anche fare interpretazioni diverse degli stessi dati analizzati. Un gruppo fu in grado di dimostrare che Pons e Fleischmann avevano interpretato male i dati della loro ricerca sui neutroni. A prima vista, i dati sembravano mostrare una chiara evidenza di neutroni - ma i neutroni, se fossero davvero presenti, porterebbero a una serie di reazioni con l'acqua intorno alla cella - e ai dati di Pons e Fleischmann mancava qualsiasi prova dell'ultimo collegamento in quella catena di reazioni. Ulteriori indagini hanno rivelato problemi con l'attrezzatura utilizzata per raccogliere i dati sui neutroni. Pertanto, sembra che i dati di Pons e Fleischmann sarebbero stati più ragionevolmente interpretati come prova di un errore dell'apparecchiatura, non come prova a favore dell'ipotesi della fusione fredda.


Nei mesi successivi, si  condussero esperimenti più sofisticati e sensibili sulla fusione fredda, ma nessuno fu in grado di trovare alcuna prova a sostegno di essa. Tuttavia, c'era ancora la possibilità che la scoperta non potesse essere replicata, non perché la fusione fredda non stesse accadendo, ma perché altri scienziati eseguivano test che non corrispondevano esattamente alle condizioni dell'esperimento originale. Forse Pons e Fleischmann stavano facendo qualcosa di speciale nel loro esperimento che non stavano rivelando o non ne erano consapevoli essi stessi, e fu questo "qualcosa di speciale" che aveva portato alla fusione fredda. Il modo migliore per verificarlo sarebbe chiedere a esperti indipendenti di cercare prodotti di fusione provenienti dalle celle  di Pons e Fleischmann. Molti scienziati si offrirono di collaborare, ma le loro offerte furono rifiutate. Pons e Fleischmann stavano attivamente ostacolando i test che avrebbero potuto far luce sulla correttezza o meno della loro ipotesi.

Dopo mesi senza alcuna risoluzione sulla reale esistenza della fusione fredda, la comunità scientifica cominciò a insistere affinché questi test venissero eseguiti. Non c'è nessun organo di governo della scienza che avrebbe potuto costringere Pons e Fleischmann a eseguire i test di follow-up; tuttavia, la comunità scientifica può esercitare pressioni per sostenere gli standard della buona scienza negando stima, finanziamenti o incarichi, essendo particolarmente scettica nei confronti della ricerca condotta con standard permissivi. Solo dopo una grande pressione da parte della comunità scientifica, Pons e Fleischmann accettarono finalmente di far eseguire i test con il loro apparato.

Uno studio di follow-up comportava la ricerca dell'elio-4, uno dei prodotti della reazione di fusione. Forse, si ragionava, le ricerche dei neutroni erano state a vuoto perché l'elio era bloccato nelle barrette di palladio e non stava rilasciando la sua energia in eccesso sotto forma di neutroni, ma in un altro modo. Pons e un gruppo di altri scienziati decisero di testare l'elio in cinque barrette di palladio, solo una delle quali era stata usata nella cella di fusione di Pons e Fleischmann. Se la fusione fosse effettivamente avvenuta, allora solo l'asta di fusione avrebbe dovuto avere livelli elevati di elio. Per ridurre la possibilità che i bias influenzassero i risultati, optarono per un progetto di studio "in doppio cieco". Pons avrebbe consegnato le bacchette a un intermediario, che avrebbe distribuito segmenti di tutte e cinque le barrette a sei diversi laboratori. Né l'intermediario né i laboratori di prova avrebbero saputo quale barretta fosse quella originale, e Pons non sarebbe stato in grado di avvertire involontariamente i laboratori al riguardo.

I sei laboratori testarono ogni segmento di barretta per l'elio e restituirono i loro risultati all'intermediario, che incontrò Pons per controllare i risultati e le informazioni sulla barretta. Pons aveva inizialmente accettato di rivelare quale era stata usata nella sua cella di fusione, ma cambiò idea e tenne per sé quei dettagli. Esaminò i dati sull'elio e vide che non c’erano livelli elevati. Lo studio non dimostrava la fusione fredda.

Sebbene questi risultati possano sembrare banali, Pons li mise in dubbio quando furono pubblicizzati. Spiegò che la particolare barretta di fusione che aveva sottoposto all'analisi dell'elio non aveva prodotto tanto calore perché poteva essere difettosa. Ma allora perché Pons aveva riportato livelli di calore così elevati per il suo originale esperimento di fusione? Stava manipolando i dati?

In un ultimo disperato tentativo di convalidare i risultati della fusione fredda, al collega professore dell'Università dello Utah Michael Salamon fu permesso di entrare nel laboratorio di Pons per condurre esperimenti alla ricerca di neutroni provenienti dalle celle di fusione. Se un esperimento avesse potuto replicare le condizioni dell'originale, sarebbe stato proprio questo. Durante il suo test di cinque settimane, Salamon non fu in grado di rilevare alcun neutrone. Pons cercò di mettere in dubbio questi risultati affermando che le celle non stavano producendo calore in eccesso (e quindi che la fusione non era in corso) durante quelle cinque settimane, tranne durante un periodo di due ore che coincideva con un'interruzione di corrente. Tuttavia, uno degli strumenti di Salamon era ancora in grado di raccogliere dati sui neutroni durante l'interruzione. Non sorprende che non sia stato osservato alcun picco di neutroni. Pons arrivò persino al punto di tentare di censurare i dati di Salamon minacciando azioni legali se Salamon non avesse ritirato volontariamente il suo rapporto. Tali tentativi di controllare l'informazione costituiscono una grave violazione dell'etica scientifica e rappresentano un ostacolo al progresso scientifico.

Nonostante tutte le prove contro di loro - conflitto con la teoria consolidata, problemi con gli esperimenti originali, molteplici tentativi di replica falliti e persino test che suggerivano che gli esperimenti originali non avevano prodotto fusione - Pons e Fleischmann si rifiutarono di modificare la loro ipotesi sulla fusione che si verifica nel palladio e, in questo modo, non rispettarono gli standard di buon comportamento scientifico. Sebbene ci si aspetti che gli scienziati abbiano una mentalità aperta riguardo alle nuove idee, quando si accumulano più prove contro di loro, anche le ipotesi più affascinanti devono essere abbandonate.

Un anno dopo la conferenza stampa che aveva attirato così tanta attenzione su Pons e Fleischmann, il processo scientifico era finalmente riuscito a vagliare le prove riguardanti la fusione fredda. Pochi gruppi avevano trovato supporto per l'ipotesi e quei pochi avevano risultati incoerenti e non potevano riprodurre in modo affidabile i loro risultati. Questa mancanza di prove replicabili fu un duro colpo per la fusione fredda. Se la fusione fredda funziona in un laboratorio in un certo insieme di condizioni, ci aspetteremmo che funzioni in altri laboratori in altri momenti nelle stesse condizioni. Quindi, la mancanza di riproducibilità è un problema serio per qualsiasi scoperta scientifica, mettendo in dubbio la validità del risultato originale e suggerendo che c'è stata un'errata interpretazione di ciò che sta accadendo. Nel caso di Pons e Fleischmann, la mancanza di riproducibilità indicava che qualunque cosa avessero scoperto in origine, probabilmente non si trattava di fusione fredda. Questa interpretazione è supportata anche dal fatto che scienziati indipendenti non sono riusciti a trovare alcuna prova che le stesse celle di Pons e Fleischmann avessero effettivamente prodotto la fusione. Alla luce di tutte queste prove, la maggior parte degli scienziati considera i risultati di Pons e Fleischmann un errore sperimentale.

Un errore come questo normalmente verrebbe rilevato prima che causi un tumulto nella comunità scientifiche e più ampie conseguenze. Tuttavia, nel caso della fusione fredda, i controlli inerenti al processo furono indeboliti quando Pons, Fleischmann e altri, presi dall'eccitazione, ruppero le norme per una buona condotta scientifica. Mentre il processo della scienza è resistente a una singola o anche a poche divergenze dalle migliori pratiche, la convergenza di più infrazioni può ostacolare il processo. L'editore della rivista che ha permesso la pubblicazione dell'articolo originale con una revisione paritaria minima non ha aderito agli standard che la scienza fissa per tali pubblicazioni. Pons e Fleischmann hanno nascosto i dettagli sperimentali alla comunità e hanno cercato di proteggere le loro idee dai test. Loro e gli altri scienziati che hanno "riprodotto" la fusione fredda, solo per ritrattare successivamente i loro risultati, non sono riusciti a eseguire test adeguati a valutare le loro idee. E, naturalmente, il comportamento di Pons durante l'esperimento sull'elio, così come il mancato accordo di pubblicazione con Jones, sapevano di disonestà. È importante notare che anche con un comportamento così non scientifico, il processo della scienza funzionava ancora. Entro un anno, la comunità scientifica aveva indagato sulle affermazioni di Pons e Fleischmann ed era giunta al consenso sul fatto che ciò che era stato osservato non fosse realmente fusione fredda. Tuttavia, c'era ancora un prezzo da pagare per questa cattiva condotta: tempo, energia e più di cento milioni di dollari dell’epoca di fondi pubblici furono sprecati per la fusione fredda.

Pons e Fleischmann hanno fatto anche danni più difficili da quantificare. Forse la cosa più preoccupante è l'effetto che questa débâcle ha avuto sulla percezione della scienza da parte del pubblico. Le dichiarazioni poco chiare di Pons e Fleischmann alla conferenza stampa, che hanno enfatizzato solo i benefici futuri della fusione fredda e non la fase iniziale dell'indagine, hanno contribuito al clamore mediatico e hanno sollevato le aspettative della società senza giustificazione. Queste aspettative disattese, insieme alle accuse di frode e disonestà, hanno danneggiato la fiducia del pubblico nella scienza. Poiché la scienza è così profondamente intrecciata con la comunità sociale, il cattivo comportamento scientifico ha implicazioni che vanno ben oltre il gruppo di fisici e chimici che hanno studiato la fusione fredda.

C’è infine da dire che la fusione fredda è stata un bel sogno, che in molti, a partire da quel lontano 1989 hanno sognato (anch'io, da profano). Sparuti gruppi di ricerca, in tutto il mondo e anche in Italia, hanno continuato, e continuano tuttora, a studiarne le basi teoriche e a eseguire esperimenti con vari materiali e nuove strumentazioni, scontrandosi finora con problemi insormontabili di consistenza e riproducibilità. Probabilmente è tempo perso e sono risorse economiche e intellettuali buttate al vento, ma sarebbe tanto bello essere smentiti, facendo sempre attenzione ai ciarlatani, che sono sempre in agguato e a volte ritornano con miracolosi Elettro-Catalizzatori.