domenica 14 aprile 2019

Il passaggio a Nord-Ovest


Potenza di una metafora azzeccata, tocca dare ragione a uno dei filosofi francesi che furono oggetto degli strali di Alain Sokal e Jean Bricmont nella loro famosa burla. Il Passaggio a Nord-Ovest è stato utilizzato da Michel Serres (1930) come titolo del quinto e ultimo volume della sua serie Hermés, ambiziosa e labirintica non-enciclopedia della storia della comunicazione e del sapere umano (1969-80). Come egli stesso ha dichiarato in un’intervista,
“Il Passaggio a Nord-Ovest (…) è un cammino difficile, pieno di ostacoli, un vero labirinto di terra, di acqua e di ghiacci. L’immagine del passaggio tra le scienze esatte e le scienze umane. È un cammino che non è dato una volta per tutte, ma che bisogna costruire, scoprire ogni volta”.
Esistono paesi, regioni, luoghi che colpiscono l’immaginario più di altri. Si tratta spesso di zone di transizione, di incontro tra mondi diversi. Il Passaggio a Nord-Ovest è uno di questi, perché la sua ricerca è durata secoli, da quando Giovanni Caboto, nel 1490, ipotizzò l’esistenza di una via per l’Oriente dall’Atlantico, alternativa a quella che comportava il periplo dell’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza (il Canale di Suez e quello di Panama erano di là da venire). In realtà non si tratta di una sola rotta a nord del Canada, ma di una serie di mutevoli passaggi tra ghiacci, stretti canali, secche, in mezzo a terre sconosciute e inospitali, che spesso furono causa di tragici naufragi o di morti per gelo e inedia. 


Il passaggio, un tempo praticabile soltanto durante la breve estate artica, fu infine aperto nel 1906 dall’esploratore norvegese Roald Amundsen, al termine di un viaggio durato tre anni a bordo del peschereccio Gjoa. Il repentino scioglimento di una parte considerevole della calotta polare artica, avvenuto in questi ultimi tempi a causa del riscaldamento globale, ha reso molto meno avventurosa questa strada, che consente di accorciare di circa quattromila chilometri il viaggio dall’Europa all’Estremo Oriente rispetto al transito attraverso il Canale di Suez.

Serres non parla dunque di ponti tra cultura umanistica e cultura scientifica, tutto sommato agevoli una volta scoperti o costruiti, ma utilizza una metafora geografica che allude a un’esplorazione continua, faticosa, spesso fallace. Si tratta di un cammino a passi infinitesimi, in cui gioca un ruolo fondamentale il caso. A questo proposito Serres utilizza il termine francese randonnée (escursione, trekking, lunga camminata), di cui fa notare la parentela etimologica con l’inglese random (casuale, accidentale, aleatorio), entrambe le parole derivanti da un antico termine del linguaggio di caccia, che ha dato anche l’italiano randagio.

Serres cerca il passaggio come Zenone di Elea, il geometra viaggiatore degli spazi presocratici:
“Zenone partì da Atene per andare a imbarcarsi per Elea. Aveva appena posato il piede, che aveva leggero, davanti all’altro, che si mise a sognare le miriadi, e più, di modi di tagliare a pezzi il viaggio e di ricominciare. Volle cambiare. Perché camminare sempre in una direzione e in un senso solo? (…) Finalmente Zenone, il vero o il nuovo Zenone, Zenone di Elea, di Atene, di Parigi, o di dove vi pare, Zenone parte da qua per andare a imbarcarsi laggiù alla volta di paraggi difficili. Per precauzione, si era messo in tasca un bossolo, in cui danzavano i dadi. Da quel momento, egli tira a sorte il punto di ripartizione in cui si ferma, davanti alla catena interminabile delle ripetizioni, punto in cui cambia anche di senso, tira a sorte anche la lunghezza dei suoi passi e, forse, la sua dimensione, tira a sorte l’ampiezza dell’angolo al momento della svolta, tira a sorte tutti gli elementi, variabili, del suo cammino, tira a sorte gli elementi sui quali aveva variato, negli ultimi percorsi”.
Nel passaggio a Nord-Ovest non si può procedere in linea retta, ma cambiando continuamente percorso secondo i capricci dei dadi di Zenone. La freccia non raggiungerà mai il suo bersaglio, anche e soprattutto perché procede zigzagando. Più Odisseo che Zenone, più esploratore che geometra, l’intellettuale contemporaneo dovrà essere capace di trattare in forma narrativa argomenti che un tempo si trattavano in forma sistematica.

La scienza e la cartografia del sapere, una volta considerati stabili e immutabili, oggi necessitano di nuove strategie. Il sapere, allora, non sarà mai chiuso? Non si potrà mai circoscrivere il periplo della conoscenza? La domanda non è se possiamo farlo, ma esplorare strade nuove, ogni volta diverse, interrogandoci sul modo e il senso di tutto ciò abbiamo fatto finora per raggiungere un tale scopo.


Affinché una via praticabile tra le varie isole della conoscenza sia oggi concepibile, all’incrocio nebbioso e incerto delle scienze esatte e delle scienze umane, dobbiamo abbandonare ogni pretesa di schema generale, di visione unificante, e tener conto di tutti gli ostacoli, di tutte le singolarità e i contro-esempi. Il globale non può fare a meno del locale, come la foresta non può prescindere dall’esistenza, dall’altezza, dall’esposizione, dall’ombra di ogni singolo albero che la costituisce. Proprio mentre gli sforzi di molti ricercatori sono diretti alla ricerca di una teoria unificante, Serres sembra proporre provocatoriamente di dare sostanza al sogno del Roland Barthes che in La camera chiara propose una mathesis singularis, una scienza del singolo oggetto.

Secondo Serres, la legge è realtà solo per i sistemi chiusi, che imitano l'aspetto della necessità. Il generale è sbagliato, il generale mente sempre. Siamo ancora nella metà del XIX secolo e il positivismo si rifiuta di morire. Lavoriamo con sofisticati strumenti di misura per comprendere l'incommensurabile, ma assegniamo al vagare l'ornamento della precisione. Festeggiamo con entusiasmo ogni nuova grande conquista della scienza e della tecnica, dalle onde gravitazionali alla foto di un buco nero, e non ci accorgiamo che il nostro cammino è un procedere per deviazioni e differenze. La fine del viaggio è lontana, probabilmente non ci sarà mai, ma è questo vagabondaggio che ci fa conoscere il mondo e noi stessi. In una recente intervista, Serres ha detto che prima di fare filosofia bisogna aver fatto tre volte il giro del mondo.

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