Gli
Elementi di Euclide, redatti tra il IV e il III secolo a.C., sono una trattazione sistematica dei principi della geometria noti in epoca ellenistica. Come molte altre opere dell’antichità, gli
Elementi non sono giunti fino a noi direttamente, ma attraverso un lungo processo di riscoperte, arrangiamenti e traduzioni, attraversando molteplici culture nei secoli, perciò la loro trasmissione ha inevitabilmente portato a numerose alterazioni del testo originale.
La trasmissione di un’opera matematica è complicata dal fatto che essa è più facilmente alterabile di un testo filosofico, storico o narrativo. I testi matematici greci, in particolare quelli geometrici, sono caratterizzati da un linguaggio ben codificato il quale, assieme al vocabolario limitato e alle formule fisse e ripetitive, crea molteplici rischi di errore di copiatura per distrazione, ma induce anche facilmente alla tentazione di correggere, spiegare, integrare. Le alterazioni volontarie che hanno interessato il testo euclideo riguardano in primo luogo le aggiunte: in genere si tratta di aggiunte di lemmi, corollari, definizioni non presenti nel testo originario. Spesso le modifiche alle dimostrazioni, o il loro completo stravolgimento, sono dovuti al rifiuto di alcuni strumenti (ad es. la dimostrazione per assurdo), o al desiderio di chiarire punti oscuri. Poi ci sono i tagli: in molti casi il testo è stato trasmesso senza le dimostrazioni, giudicate poco interessanti secondo il redattore. Un’altra alterazione comune è quella dell’ordine originario delle proposizioni, finalizzato ad accentuare la struttura deduttiva.
Secondo gli studiosi, ci sono state almeno due edizioni fondamentali: la prima di epoca ellenistica, che è quella che si pensa sia l’originale di Euclide, mentre la seconda è la riedizione realizzata da Teone d’Alessandria nella seconda metà del IV secolo. Tra le due edizioni sono stati scritti due commenti molto importanti da parte di Erone (I sec.) e Pappo (III-IV sec.). Dato il grande lasso di tempo trascorso tra le due edizioni (sette secoli, anche se da lontano tendiamo ad appiattire il mondo greco in pochi decenni), non si può escludere che al tempo di Teone circolassero già redazioni che accoglievano le idee di Erone, di Pappo e di altri, e che Teone abbia utilizzato fonti diverse.
Gli Elementi che abbiamo oggi derivano dall’edizione di Teone più che da quella euclidea, e la conferma è fornita da Teone stesso, il quale, nel suo Commento all’Almagesto, scrive: “Nella mia edizione degli Elementi, alla fine del libro VI, ho dimostrato che in cerchi uguali i settori circolari stanno tra loro come gli angoli su cui insistono”. Ora, questa proposizione si trova in tutti i manoscritti noti degli Elementi (tra i quali i più importanti sono conservati a Firenze, del sec. X, e a Oxford, scritto da un certo Stefano chierico nell'888), con l’unica eccezione del manoscritto Vat. Gr.190 (prima metà del IX sec.), che riporta l’aggiunta di Teone eseguita a margine da un copista posteriore. Fino al tardo Rinascimento, in molti addirittura pensavano che Euclide avesse scritto solo gli enunciati delle proposizioni e che le dimostrazioni fossero state fatte tutte da Teone.
Nonostante Cicerone parli di Euclide, ad es. in De Orat., III, 132, gli Elementi non godettero di grande favore in epoca romana, durante la quale si preferivano i manuali di carattere pratico. Le prime versioni dal greco di cui si abbia notizia risalgono agli ultimi anni dell’Impero, quando il baricentro politico e culturale si trasferì a Costantinopoli. In un palinsesto veronese ci sono giunti frammenti di una traduzione latina dei libri XI-XIII eseguita nel IV secolo, ma nient’altro.
Nel Commento al primo libro degli Elementi di Euclide, il filosofo neoplatonico Proclo (410-485), riporta numerosi aneddoti sulla figura e il rigore di Euclide, tra i quali è famoso quello in cui si narra che il re Tolomeo I gli chiese se ci fosse “una strada più breve per imparare la geometria”, invece che studiarla dagli Elementi, al che Euclide rispose che "non esiste nessuna strada regale che porti alla geometria”. Secondo Cassiodoro, Severino Boezio (475-525), uno degli intellettuali più influenti della tarda antichità, istituendo il trivio (grammatica, logica, retorica) e il quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia), tradusse in latino l’opera all’interno della Geometria, opera che però è andata perduta e di cui sono rimaste soltanto alcune tracce apocrife. Una tarda traduzione diretta dal greco fu realizzata in Sicilia nel 1160 circa da un autore anonimo, che tradusse anche Proclo.
L’opera era conosciuta dai Bizantini e poi dagli Arabi, che ne raccolsero gran parte dell’eredità scientifica. La prima traduzione attestata in arabo è anteriore all’anno 809 e dunque precede il manoscritto greco più antico sopravvissuto. L’autore fu al-Hağğāğ ibn Yusuf ibn Matar, che intraprese l’opera di traduzione con lo scopo dichiarato di rendere fruibile il testo, omettendo il superfluo e correggendo gli errori! Nella seconda metà del IX secolo fu intrapresa una nuova traduzione, che non ci è pervenuta, che fu poi rivista da Tābit ibn Qurra (836-901) il quale confrontò le versioni arabe con alcuni manoscritti greci, mostrando interesse per le fonti oltre che per il contenuto matematico. Del suo lavoro ci sono giunti diversi manoscritti. Un’ultima importante versione fu realizzata nel XIII secolo dal matematico e astronomo persiano Nasīr ad Dīn at-Tūsī (1201-1274), autore di un’edizione commentata.
Fu proprio agli Arabi che il mondo occidentale dovette ricorrere per riscoprire questa come moltissime altre opere matematiche dell’antichità. La prima traduzione in latino dall’arabo si deve probabilmente a uno dei più grandi traduttori dell’antichità, Adelardo di Bath, filosofo, matematico e scienziato, attivo nella prima metà del XII secolo.
Adelardo di Bath viaggiò molto: ebbe probabilmente in Sicilia un primo contatto con la cultura araba. Più tardi si trasferì per alcuni anni a Tarso, in Cilicia, e ad Antiochia, in Siria, dove poté studiare e approfondire le scienze arabe. È probabile che, tornato in Inghilterra, avesse portato con sé un certo numero di testi, che successivamente tradusse in latino. I suoi interessi principali erano la matematica, l’astronomia e l’astrologia, e le sue traduzioni hanno segnato una svolta nella storia della scienza medievale. Della sua traduzione degli Elementi di Euclide, priva però delle dimostrazioni e limitata agli enunciati, esistono tre distinte versioni denominate Adelardo I, II, III, di cui solo la I, probabilmente la più antica, è senza dubbio una traduzione dall’arabo (forse dalla versione di al-Hağğāğ) e potrebbe essere proprio sua. La II, la versione che ha goduto di maggiore fortuna, è invece una raccolta di enunciati euclidei, basata su diversi testi, che oggi si ritiene un compendio eseguito da Roberto di Ketton; infine la III è un commentario all’opera euclidea, composto dal benedettino Giovanni di Tynemouth.
Il secondo traduttore dall’arabo fu il filosofo e astrologo di origine slava Ermanno di Carinzia (il Dalmata), attivo tra il 1138 e il 1143. Gli interessi di Ermanno, che erano di tipo prevalentemente astronomico-astrologico e matematico, guidarono a Tudela, in Spagna, lui e il suo amico Roberto di Ketton, alla ricerca dell’Almagesto di Tolomeo. Entrambi, tuttavia, si occuparono anche di testi religiosi musulmani. I due individuarono una serie di manuali matematici e astronomici da far circolare tra gli studiosi latini, che includevano gli Elementi di Euclide, l'Almagesto e il Quadripartitum di Tolomeo, oltre alle tavole astronomiche di autori arabi.
L’opera di traduzione dall’arabo fu completata da Gerardo di Cremona, che visse nella seconda metà del XII secolo. Anch’egli si trasferì in Spagna, a Toledo, per trovare l’Almagesto di Tolomeo e imparò la lingua araba proprio per tradurre l’opera. Terminata l’impresa, tradusse una settantina di opere di ogni genere, che spaziano dall’astronomia alla medicina, alla filosofia, alla logica. Gherardo conosceva gli Elementi di Euclide dalla redazione nota come Adelardo II. Tale redazione però era stata copiata togliendo completamente le dimostrazioni, o inserendovi soltanto brevi indicazioni insieme alle figure con le didascalie. La traduzione di Gherardo, della quale ci è pervenuta soltanto una copia latina, riporta invece integralmente le dimostrazioni, non soltanto aggiungendo altri testi sulla geometria, ma anche ampliando il campo stesso di questa disciplina; vi include infatti sia l'algebra sia la prospettiva e la statica, fino ad allora del tutto sconosciute in Occidente.
Come si vede, esisteva una fitta trama di relazioni internazionali tra gli studiosi, molti dei quali erano itineranti, alla ricerca di nuovi testi da acquisire, da tradurre o da inviare ai propri committenti, spesso costituiti da istituzioni religiose. Essi, che spesso facevano affidamento alle conoscenze linguistiche e scientifiche degli Ebrei che vivevano sotto la dominazione araba nella penisola iberica o altrove, erano interessati, per quanto riguarda la matematica, all'acquisizione e alla trasmissione delle tecniche dell'aritmetica indo-araba, della geometria euclidea e dell'astrolabio, oltre che all'interpretazione delle tavole astronomiche e al calcolo degli oroscopi. Per questo, la traduzione delle opere arabe non doveva necessariamente essere letterale, anzi spesso risultava meno importante del lavoro di interpretazione o di redazione di compendi di carattere pratico.
L’ultima grande redazione medievale degli Elementi fu realizzata dal novarese Giovanni Campano, cappellano di papa Urbano IV alla corte di Viterbo, presumibilmente nel 1255-1259. Sicuramente fu quella che ebbe maggior successo nei secoli successivi, soprattutto nelle prime edizioni a stampa. Non si tratta di una traduzione, ma di una rielaborazione tratta dalle versioni latine precedenti, in modo particolare dalla Adelardo II, di cui riporta anche gli errori. Campano, non conosceva infatti né l’arabo né il greco, ma ebbe il merito di esporre, quando necessario, le dimostrazioni in una forma più accessibile. Egli infatti non si preoccupò di restituire il testo di Euclide, ma di comporre un’opera matematicamente coerente. Per far ciò egli fece uso anche di testi più recenti, come la coeva Arithmetica di Giordano Nemorario e il commento di Anaritius (al-Nayrīzī) agli Elementi (fine del XII sec.), con lo scopo di colmare alcune lacune della trattazione euclidea, soprattutto in ambito aritmetico.
Il testo del Campano servì da base per la prima edizione a stampa, che fu eseguita a Venezia nel 1482 ad opera del celebre tipografo di Augusta Erhard Ratdolt, attivo nella città lagunare tra il 1475 e il 1486. Il libro, pubblicato in folio, fu uno dei primi testi a stampa ad essere corredato da un gran numero di figure matematiche, oltre quattrocento, collocate ai margini. La prima frase di ogni enunciato era impressa con inchiostro rosso. Nonostante operasse in uno dei centri più attivi per la rinascita degli studi umanistici e avesse verosimilmente la possibilità di procurarsi dei codici greci e latini dell’opera euclidea, Ratdolt scelse di pubblicare la redazione più diffusa, quella di Campano. Così, la prima edizione a stampa degli Elementi era assai estranea alla sensibilità umanistica e filologica che si era andata formando nei circoli veneziani.
Gli ambienti umanistici della città non tardarono a rispondere. Giorgio Valla diede versioni parziali, da un testo greco, nell'opera De expetendis ac fugiendis rebus, pubblicata nel 1501. Quattro anni più tardi, sempre a Venezia, Bartolomeo Zamberti pubblicò l’intera opera. La sua ambizione era di restituire il testo euclideo originale, perciò aveva deciso di attenersi il più fedelmente possibile al codice greco che aveva a disposizione, che tuttavia era poco affidabile. Anche in questo caso, il risultato fu un’opera piena di errori, dovuti pure alla non grande dimestichezza con la geometria dell’intellettuale veneziano.
Tra i redattori degli Elementi vi fu anche Luca Pacioli (Euclidis megarensis … opera a Campano interprete fidelissimo tralata…, Venezia, 1509), che si rifà esplicitamente alla versione del Campano, pur con qualche elemento di novità rappresentato forse dall’utilizzo della traduzione dal greco eseguita in Sicilia in epoca normanna. Il Pacioli era uno dei massimi esperti di Euclide e aveva insegnato la geometria euclidea dal 1500 al 1506. Nella Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita (1494) aveva già inserito molti passi tradotti in italiano dagli Elementi. Anche il suo De Divina Proportione ne è fortemente influenzato.
Nel 1545 si ebbe la prima edizione degli
Elementi in italiano, l’
Euclide Megarense, realizzata dal grande algebrista Nicolò Tartaglia. Egli cercò di compendiare e commentare le versioni latine del Campano e dello Zamberti secondo criteri personali, ma il risultato non fu del tutto coronato da successo: gli interventi sulla struttura logica furono limitati anche se i commenti occupano una buona metà delle pagine totali. Anche il matematico bresciano, come la maggior parte dei precedenti autori, commise l’errore di confondere l’Euclide alessandrino con il filosofo Euclide di Megara, vissuto un secolo prima. Inoltre Tartaglia considerò un postulato in più: quelli di Euclide sono cinque, Tartaglia ve ne aggiunse un sesto ("due linee rette non chiudono alcuna superficie").
Si avviò nel frattempo un processo di correzione delle aggiunte e dei rifacimenti intervenuti nel corso dei secoli sull’opera originale, per dare coerenza alle parti più controverse, come ad esempio la teoria delle proporzioni per le grandezze, sviluppata nel V libro. L'operazione di ripristino del testo originale, ripulito dagli errori dei copisti e riportato alla sua originaria logica interna, si concluse solo nell'ultimo quarto del XVI secolo, grazie ad alcune traduzioni più corrette sia dal punto di vista matematico che filologico.
Un quarto di secolo dopo la traduzione di Tartaglia venne pubblicata una nuova edizione latina (1572) da manoscritti greci, del matematico urbinate Federico Commandino, il quale realizzò anche una nuova traduzione italiana (1575). Commandino fu il massimo esponente dell'umanesimo matematico, con una grande competenza sia filologica sia matematica (tradusse anche moltissime altre opere di matematici greci tra cui Pappo, Erone, Archimede, Apollonio, Tolomeo e altri). La sua opera di traduttore ed editore fu della massima importanza per la rinascita della matematica in Europa nel XVI secolo, facilitando l’accesso degli studiosi alle opere sopravvissute dei grandi matematici della cultura greco-ellenistica. Egli finalmente corresse alcuni errori secolari, quali la confusione con l’Euclide Megarense o il presunto ruolo di Teone come autore delle dimostrazioni.
Nel 1574 fu pubblicata a Roma, in due volumi, la traduzione dal greco in latino intitolata Euclidis elementorum libri XV, con i commenti del gesuita Cristoforo Clavio, insegnante di matematica al Collegio Romano. Si trattava di un ampio rimaneggiamento, corredato da note prese dai precedenti commentatori e alcune spiegazioni a scopo didattico. Una delle sei edizioni dell’opera, quella del 1603, servì come base al missionario gesuita Matteo Ricci (il vero gesuita euclideo…), per la traduzione in cinese dei primi sei libri degli Elementi, pubblicata a Pechino nel 1607.
Con l’arrivo di Euclide in Cina io mi fermo. Non si concluse di certo l’opera di traduzione, restituzione, commento a uno dei testi più noti della storia. L’avventura matematica e filologica degli Elementi continuò, e qualcuno doveva ancora notare che le pecche emerse nel quinto postulato potevano portare a una vera e propria rivoluzione nella geometria.