Agli inizi del Cinquecento l’isola di Creta (allora chiamata Candia) era veneziana da quasi tre secoli, dai tempi della quarta crociata, che aveva condotto all'infame distruzione di Costantinopoli dai parte dei latini nel 1204. Dopo quella data, un certo numero di famiglie patrizie veneziane aveva preso il controllo dell’isola, formando un’aristocrazia invisa alla popolazione locale (che si augurava gli ottomani, tanto per dire).
Il 28 maggio 1453 Costantinopoli, il cui antico impero era oramai ridotto a poche terre vicine alla città, fu definitivamente presa dai Turchi. Ciò ebbe effetti grandissimi sullo sviluppo della cultura umanistica, perché molti degli studiosi bizantini che si dedicavano alla ricerca e alla pubblicazione degli antichi manoscritti greci fuggirono a Creta, che divenne il centro per la tradizione dell’antica sapienza greca verso l’Italia. Diversi studiosi greci giunsero attraverso l’isola nelle corti e nelle università della penisola, portando con sé manoscritti e idee. Attraverso di loro, l’Occidente riscopriva i grandi matematici dell’epoca alessandrina, il pensiero di Platone e dei filosofi neoplatonici, ma anche quello che viene definito come
Corpus Hermeticum, l’insieme degli scritti di carattere magico e gnostico compilati da varie mani nei primi secoli dopo Cristo ed erroneamente attribuiti all'antico saggio egizio Ermete Trismegisto (“tre volte grande”), ritenuto di poco posteriore a Mosè e comunque vissuto assai prima dei grandi filosofi greci.
Il 9 agosto 1537, proprio da una nobile famiglia veneziana insediata a Candia, nasceva il matematico ed erudito Francesco Barozzi (latinizzato in Franciscus Barocius come usava allora), una figura emblematica della cultura del Cinquecento, nella quale convissero la passione umanistica per la riscoperta della matematica degli antichi e la mentalità magica. Il suo contributo all'evoluzione del pensiero scientifico si inquadra nel movimento rinascimentale dedito allo studio critico della scienza antica, compiuto attraverso la lettura e la traduzione di opere greche e latine nei manoscritti originali. La sua biografia, come quella di tanti matematici del suo tempo (ad esempio il Cardano, o il Della Porta), presenta aspetti che a prima vista appaiono contraddittori, pervasi, come vedremo, di mentalità astrologica ed ermetica.
La realtà è che il cammino della scienza moderna, almeno nei suoi secoli iniziali, è stato tutt'altro che lineare, essendo la mentalità scientifica una delle componenti di un'incredibile accozzaglia di idee, concetti e teorie razionali, semi-razionali, moderatamente bizzarre o del tutto folli, che spesso convivano in una stessa figura di erudito o filosofo naturale. Non si spiegherebbe altrimenti il successo di alcuni testi magici, letti, consultati e citati per secoli, o di veri e propri
fake politico-religiosi, come quello della misteriosa setta dei
Rosa-Croce, che pure portarono all'evoluzione del pensiero scientifico accanto allo sviluppo di idee di tolleranza religiosa.
Il
De occulta philosophia del mago tedesco
Cornelio Agrippa di Nettesheim, che circolò come manoscritto dal 1510 e fu pubblicato nel 1533, fornisce un’interessante rassegna dell'intero campo della magia rinascimentale. L’opera, pur non essendo altro che una raccolta delle idee ermetiche, cabbalistiche e astrologiche che si erano sviluppate in Europa nei decenni precedenti e sebbene, nonostante il titolo, abbia ben poco di filosofico, ebbe un successo immediato e duraturo tra tutti i circoli eruditi, allora assai numerosi, che si rifacevano al pensiero magico. Essa è suddivisa in tre libri: il primo dedicato alla magia naturale, o magia del mondo elementare; il secondo alla magia celeste; il terzo infine alla magia cerimoniale.
L'universo va diviso, dice Agrippa, in tre mondi: quello elementare, quello celeste e quello intellettuale. Ciascuno di essi riceve influssi dal mondo che gli è direttamente superiore, in modo che la virtù del Creatore discende attraverso gli angeli nel mondo intellettuale, alle stelle del mondo celeste e da qui agli elementi e a tutte le cose che ne sono composte: animali, piante, metalli, pietre e così via. I maghi sono convinti che sia possibile ripercorrere all'inverso questo stesso processo e attirare le virtù del mondo superiore su di noi manipolando quelle inferiori: «Tale è infatti la concordanza del mondo che le cose celesti attraggono quelle a loro superiori e le cose naturali quelle sovrannaturali grazie alla virtù che circola in tutte le cose e alla partecipazione ad essa di tutte le specie». I maghi tentano di scoprire le virtù del mondo elementare attraverso la medicina e la filosofia naturale; quelle del mondo celeste per mezzo dell'astrologia e della matematica; quanto poi al mondo intellettuale, essi studiano i riti, le invocazioni, le cerimonie sacre delle varie religioni. Queste tre divisioni corrispondono alla ripartizione della filosofia in fisica, matematica e teologia. Soltanto la magia le comprende tutte tre.
Il Libro II, dedicato alla magia celeste, è quello che più ci interessa. Secondo Agrippa, la matematica è estremamente necessaria alla magia poiché tutto ciò che viene prodotto mediante virtù naturali è regolato da numero, peso e misura. Attraverso la matematica si è in grado di realizzare portenti prima impensabili, e di dar forma a statue e figure capaci di muoversi e di parlare, perché la matematica è in grado di creare statue viventi, colmandole degli stessi poteri di quelle costruite tramite occulte virtù naturali.
“Così, quando un mago è versato nella filosofia naturale e nella matematica e conosce le scienze che ne derivano, l’aritmetica, la musica, la geometria, l’ottica, l’astronomia e quelle che si esercitano a mezzo di pesi, di misure, di proporzioni, di giunzioni, nonché la meccanica, che è la risultante di tutte queste discipline, può compiere cose meravigliose che stupiscono gli uomini più colti”.
Il libro si dilunga sulle virtù dei numeri, a partire dall'Uno che è il principio e la fine di tutte le cose e appartiene a Dio. Vengono considerati i numeri dal due al dodici, con i loro rispettivi significati e raggruppamenti particolari, poi le lettere dell'alfabeto ebraico, che hanno valori numerici dotati di grande efficacia ai fini della magia cabalistica. La parte dedicata ai numeri si conclude con l’esposizione dei
quadrati magici, che sono in accordo con i numeri planetari ed hanno il potere di attirare l'influsso del pianeta a cui sono rispettivamente collegati (come non pensare al quadrato di Giove nella
Melancolia I di Albrecht Dürer, del 1514, posto a temperare l'atmosfera saturnina del dipinto?)
Come si vede, la conoscenza matematica di Agrippa è assai limitata, e il suo trattato si limita a un’esposizione del valore simbolico dei numeri. Eppure l’idea che la matematica, la geometria e le scienze correlate, possono consentire al sapiente di agire sul mondo è il grande elemento di novità, che costituisce la rottura definitiva con le epoche precedenti. Questa idea, anticipata nelle opere ermetiche di Marsilio Ficino e in quelle cabalistiche di Pico della Mirandola, ancora confusa, di
homo faber, aprì la strada al grande successo delle
arti meccaniche nel Cinquecento, e contribuì ad indirizzare i “filosofi” del tempo verso lo studio della natura.
L’inglese John Dee, un mago rinascimentale assai più dotto di Agrippa, dalle conoscenze matematiche aggiornate alle più recenti acquisizioni del suo tempo (aveva studiato presso Frisius e Mercatore a Lovanio e aveva avuto modo di conoscere insigni matematici europei come Federico Commandino), nella
Mathematicall Praeface alla traduzione dal greco in inglese degli
Elementi di Euclide realizzata da Sir Henry Billingsley (1570), esprimeva le stesse idee:
“Puoi ben capire, dagli Elementi di Euclide, che questa scienza è molto più vasta e comprende molto più che non la sola misurazione di pianure, e i suoi ulteriori scopi non sono da meno della misurazione della superficie terrestre. Dovrebbe dunque esserci un altro nome, per la nostra scienza matematica della grandezza, che non riguarda né zolle né torba, né colline né valli, né terra né cielo, e che è l'assoluta Megethologia [scienza della Grandezza Divina, ndr], che non striscia sul terreno, né si interessa di misurazioni, ma innalza il cuore sopra i cieli, con linee invisibili, e raggi immortali, si incontra con i riflessi della incomprensibile luce e perciò procura gioia e un'indicibile perfezione”.
Ma torniamo al Barozzi. Il giovane Francesco fu mandato a studiare greco e latino a Padova. Più tardi frequentò lo Studio della stessa città, dove seguì i corsi di filosofia e matematica. Nel 1559 lesse matematica nello stesso ateneo, esponendo il celebre Tractatus de Sphaera di Giovanni Sacrobosco, con lo scopo di confutarne gli errori. Alla morte del padre ereditò una cospicua fortuna in danaro e in immobili a Rettimo, a Creta, ma decise di stabilirsi a Venezia, dove rimase tutta la vita, tranne qualche soggiorno nei suoi possedimenti insulari.
Nel 1560 pubblicò a Padova la traduzione in latino dell’edizione del filosofo neoplatonico Proclo (V sec.) del primo libro degli
Elementi di Euclide (
Procli Diadochi Lycii in primum Euclidis elementorum librum…), dall'indubbio pregio di essere basata su fonti migliori e affidabili di quelle utilizzate in precedenza. Nello stesso anno uscì un suo
Opusculum, (…) de medietate Mathematicarum, scritto in risposta alle opinioni espresse dall'umanista senese Alessandro Piccolomini sulla natura della certezza matematica. Per il Barozzi la certezza matematica deriva dalla natura delle sue prove, dal rigore sintattico delle sue dimostrazioni, pertanto non è inferiore alla verità che si ottiene dai ragionamenti della logica. Dal punto di vista dell’uomo, la certezza matematica, che è direttamente raggiungibile, è superiore anche a quella metafisica, sebbene quest’ultima sia superiore in termini assoluti perché deriva da Dio.
Autore assai prolifico, tradusse diverse opere dei matematici greci: Erone, Pappo (migliorando una traduzione del Commandino) e Archimede. La versione dell’opera di Erone sulle macchine da guerra,
Heronis mechanici liber de machinis bellicis, pubblicata nel 1572, ebbe ad esempio una notevole risonanza. Nello stesso anno uscì
Il nobilissimo et antiquissimo giuoco pythagoreo nominato rythmomachia cioè battaglia de consonantie de numeri, in lingua volgare a modo di parafresi composto, dedicato a un gioco matematico noto anche come “gioco dei filosofi”, già descritto in precedenza dal francese Boissière.
Tra gli altri suoi numerosi libri, uno (
Admirandum illud geometricum problema tredecim modis demonstratum quod docet duas lineas in eodem plano designare…, 1586) ha per soggetto il modo di tracciare gli asintoti; vi si descrive uno strumento, somigliante al compasso perfetto, che consente di disegnare non solo circonferenze, ma anche iperboli, parabole ed ellissi; vi si costruiscono, in diversi modi, gli asintoti dell'iperbole, una coppia d'iperboli aventi gli stessi asintoti, ed anche qualche curva di grado superiore, dotata di asintoto. Un altro importante testo è la
Cosmographia (1585), dedicata alle mappe terrestri e contenente elementi di meteorologia e geografia fisica. In una lettera scritta al Clavio il 27 febbraio 1585, il Barozzi spiegava la sua intenzione di fornire dopo 29 anni una critica puntuale dell'opera
De Sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco (ca. 1230), divulgata ancora fino sec. XVII, nonostante le sue evidenti lacune e imprecisioni. Tra gli 84 errori rimproverati all'astronomo inglese non c’è tuttavia il sistema tolemaico, e una nota a margine condanna come falsa l’opinione di Aristarco e Copernico.
Fin qui il Barozzi matematico e astronomo. Ma la sua parallela attività di poligrafo ermetico fu la causa dei suoi guai. Intorno al 1583 subì un primo processo, fu dichiarato colpevole e condannato a vivere per un certo periodo chiuso in un monastero. Non sappiamo quali fossero le accuse, ma sicuramente alcune sue opere potevano aver suscitato l’interesse dell’Inquisizione. Nel 1566 aveva dato alle stampe un Pronostico Universale di tutto il mondo, in cui forniva le profezie di Nostradamus per il quinquennio 1565-1570 e, nel 1577 aveva poi pubblicato gli Oracula Leonis, contenente le profezie attribuite all'imperatore bizantino Leone VI.
Il 16 ottobre 1587 fu condotto di nuovo di fronte ai giudici dell’Inquisizione e condannato, questa volta per apostasia e sospicioni di heresia. Della sentenza esistono diverse copie, anche se gli atti del processo non sono stati conservati. Secondo i giudici, Francesco Barozzi aveva compiuto e insegnato al figlio, alla figlia e al genero Daniele Malipiero, processato e condannato con lui, varie superstizioni e divinazioni. Aveva evocato nel territorio di Rettimo uno spirito in forma di fanciulla, e gli aveva chiesto "le cose future et secrete”; aveva fabbricato un'immagine di stagno per filtri d'amore secondo le istruzioni di Cornelio Agrippa. Sempre a Candia, aveva cercato di far piovere con esorcismi, suffumigi e pentacoli "secondo l'arte insegnata da Cornelio Agrippa et da Pietro d'Abbano”, causando una tremenda tempesta; aveva abusato dei sacramenti per fabbricare sortilegi amorosi, e così via. Al nostro matematico mago si rimproverava: “Hai ancho confessato che essendo in Candia hai avuto conversatione con due sorelle maghe et strighe e che una di esse portava il Santissimo Sacramento consecrato alla greca cucito in una scarpa per andar invisibile, alle quali più volte hai fatto quesiti, et havuto risposta di cose future et secrette”.
La sentenza lo condannò a fornire croci d’argento per l’equivalente di 50 ducati all'arcivescovo di Candia o al suo vicario e per altri 50 ducati al vescovo di Rettimo, a compiere una serie di penitenze e a restare incarcerato ad arbitrio del S. Uffizio. Non sappiamo se scontò effettivamente la pena detentiva, né quando eventualmente riottenne la libertà: degli ultimi vent'anni della sua vita mancano notizie. Di sicuro, da quella data smise di pubblicare, se si eccettua una nuova edizione della Cosmographia che uscì nel 1598. Secondo un suo biografo aveva pronta un’altra opera astronomica, Theoricae planetarum vel quintus liber, sive complementum Cosmographiae, che tuttavia non vide mai la luce e andò perduta.
Francesco Barozzi morì a Venezia il 23 novembre 1604, probabilmente per un colpo apoplettico. Lasciò in eredità al nipote Iacopo una raccolta di manoscritti, poi arricchita dallo stesso Iacopo, che ne compilò un catalogo. Nel 1629 William Herbert, terzo conte di Pembroke e cancelliere dell'università di Oxford, noto per essere stato il protettore di William Shakespeare, acquistò la raccolta per 700 sterline e la donò alla Biblioteca Bodleiana della stessa Università, dove è tuttora conservata.