1967: hai trentun anni e pubblichi il tuo terzo libro. Lo intitoli Un uomo che dorme e, come spesso ti succede, parli molto di te. Racconti la storia di un tentativo non riuscito di raggiungere l’indifferenza totale da parte di uno studente, di cui non dici neanche il nome e al quale ti rivolgi per tutto il libro in un originale e straniante monologo in seconda persona singolare. La tua non è un’opera oulipiana o, se lo è, è molto sui generis. La contrainte non è stilistica, non è enigmistica, semmai è filosofica. Il tuo protagonista, che il giorno dell’esame decide di non muoversi dal letto, inizia una personale, assurda battaglia:
«Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire. Lasciarsi portare dalla folla, dalle vie. Seguire i canaletti di scolo, le inferriate, l'acqua lungo le sponde. Camminare lungo il fiume, rasente ai muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione (…) Un minuto dopo l'altro, un'ora dopo l'altra, un giorno dopo l'altro, una stagione dopo l'altra, qualcosa comincerà che non avrà mai fine: la tua vita vegetale, la tua vita azzerata».
Lo studente, che forse sei tu stesso, non cerca un’atarassia che è saggezza, no, non si tratta di diventare il mistico (il greco myo significa «chiudere» e dalla radice my provengono sia il greco mysterion, sia il latino mutus), il filosofo stoico, il maestro zen: si tratta piuttosto di annullare ogni forma di partecipazione, di syn–pathia. Il tuo studente è, fondamentalmente, un nichilista che cammina:
«Sei solo. Impari a camminare da uomo solo, ad andare a zonzo, a tirar tardi, a vedere senza guardare e a guardare senza vedere. Impari la trasparenza, l'immobilità, l'inesistenza. Impari a essere un'ombra e a guardare gli uomini come se fossero pietre. Impari a restare seduto, a restare coricato, a restare in piedi. Impari a masticare ogni boccone, a trovare in ogni briciola di cibo che porti alla bocca lo stesso identico neutro sapore. Impari a guardare i quadri esposti nelle gallerie come se fossero pezzi di muro, di soffitto, e i muri e i soffitti come se fossero tele di cui segui senza sforzo i dieci, mille sentieri, sempre ricominciati, labirinti inesorabili, testi che nessuno mai potrebbe decifrare, volti in decomposizione».
«Non chiedi niente, non esigi niente, non imponi niente. Senti senza mai ascoltare, vedi senza mai guardare: le crepe nei soffitti, i listelli del parquet, il disegno delle mattonelle, le rughe intorno agli occhi, gli alberi, l'acqua, le pietre, le automobili che passano, le nuvole che disegnano in ciclo le loro forme di nuvole».
E, per quanto il tuo studente, che forse sei tu stesso, non voglia che il mondo entri dentro di sè, per quanto viva in un abbaino soffocante sotto i tetti, molto provinciale e molto bohemien, non è agorafobico: non ci può essere fobia di sorta, perché anche la paura è un sentimento che può dare vita al diagramma della sua esistenza, che deve invece restare immobile:
«La tua indifferenza è piatta: uomo grigio per cui il grigio non evoca nessun grigiore. Non tanto insensibile, quanto piuttosto neutro. L'acqua ti attira, così come la pietra, l'oscurità al pari della luce, il caldo al pari del freddo. C'è solo la tua camminata, il tuo sguardo che si posa e scivola via, ignorando il bello e il brutto, il famigliare e il sorprendente, non recependo che le combinazioni di forme e luci, che continuamente si fanno e disfano dovunque, nell'occhio, sul soffitto, ai tuoi piedi, nel ciclo, nello specchio incrinato, nell'acqua, nella pietra, nella folla. Piazze, strade, giardinetti e viali, alberi e inferriate, uomini e donne, cani e bambini, attese, ressa, veicoli e vetrine, edifici, facciate, colonne, capitelli, marciapiedi, canaletti di scolo, lastricati di arenaria resa lucida dalla pioggia sottile, grigi, o quasi rossi, o quasi bianchi, o quasi neri, o quasi blu, silenzi, clamori, frastuoni, folla nelle stazioni, nei negozi, nei viali, strade brulicanti di gente, lungofiume brulicanti di gente, vie deserte delle domeniche d'agosto, mattine, sere, notti, albe e crepuscoli».
«Non spezzerai il cerchio magico della tua solitudine. Sei solo e non conosci nessuno; non conosci nessuno e sei solo. Vedi gli altri accalcarsi, stringersi, proteggersi, abbracciarsi. Tu invece, lo sguardo vitreo, non sei che un fantasma trasparente, un cinereo lebbroso, una sagoma già restituita alla polvere, un posto occupato cui nessuno M avvicina. (…) Sei solo, nonostante il fumo che si appesantisce, nonostante Lester Young o Coltrane, sei solo nel calore ovattato dei bar, nelle strade deserte in cui risuonano i tuoi passi, nella complicità mezzo addormentata degli unici pochi bar rimasti aperti».
I passi dello studente, che forse sei tu stesso, risuonano nelle notti interminabili e nei giorni caotici per le vie di una Parigi senza la quale il tuo racconto non avrebbe senso, una metropoli già allora affollata di ogni sorta di umanità, dai miserabili ai borghesi, e che presto, meno di un anno, avrebbe visto tanti giovani manifestare condividendo il tuo giudizio morale:
«Li segui, li spii, li odi: mostri rintanati nelle loro stanze di servizio sotto i tetti, mostri in pantofole che strascicano i piedi vicino a putridi mercati, mostri con occhi glauchi da lampreda, mostri dai gesti meccanici, mostri farneticanti.
Gli passi accanto, li accompagni, ti fai strada tra di loro: i sonnambuli, i bruti, i vecchi, gli idioti, i sordomuti col berretto tirato sugli occhi, gli ubriaconi, i rimbambiti che si raschiano la gola e cercano di trattenere il tremolio intermittente delle guance, delle palpebre; i provinciali persi nella grande città, le vedove, i furbastri, i vecchi decrepiti, i ficcanaso».
«Ti vengono incontro, a piccoli passi, con quei loro sorrisi da buoni, i loro volantini, i loro giornali, le loro bandiere, i miserabili combattenti delle grandi cause imbecilli, le maschere ossute che partono in guerra contro la poliomielite, il cancro, i tuguri, la miseria, l'emiplegia e la cecità, i canzonieri tristi che chiedono l'elemosina per i loro compagni, gli orfani maltrattati che vendono centrini, le vedove rinsecchite che proteggono gli animali domestici. Tutti quelli che ti si accostano, ti trattengono, ti manipolano, ti sputano in faccia le loro meschine verità, le loro eterne domande, le loro opere buone, il loro cammino autentico. Gli uomini sandwich della fede autentica che salverà il mondo. Venite a Lui, voi che soffrite. Gesù ha detto Voi che non vedete pensale a coloro che vedono».
«E poi tutti gli altri, i peggiori, i sempliciotti, i furbi, i contenti di sé, quelli che credono di sapere e sorridono con l'aria di chi se ne intende, gli obesi, i rimasti giovani, i formaggiai, i decorati; i festaioli un po' alticci, gli impomatati di periferia, i benestanti, i coglioni. I mostri forti del loro buon diritto, che ti prendono a testimone, ti squadrano, t'interpellano. I mostri con famiglia numerosa, con i loro bambini mostri, i loro cani mostri; le migliaia di mostri bloccati ai semafori; le stridule femmine mostro; i mostri coi baffi, col panciotto, con le bretelle, i turisti mostri rovesciati a mucchi davanti agli orridi monumenti, i mostri della domenica, la folla mostruosa».
Il tuo giovane eroe alla fine si rende conto che la sua scelta è inutile, che è impossibile voler essere indifferenti alla vita che scorre e al tempo che la scandisce. Il romanzo si chiude con una sconfitta, ma forse è solo un passaggio necessario:
«Non hai imparato niente, tranne che la solitudine non insegna niente, che l'indifferenza non insegna niente: era un'impostura, una fascinosa e ingannevole illusione. Eri solo, tutto qui, e volevi proteggerti; volevi tagliare per sempre i ponti tra te e il mondo. Ma tu sei così poca cosa, e il mondo un tal parolone: alla fine, il tuo non è stato altro che un errare in una grande città, e costeggiare chilometri di facciate, vetrine, parchi e lungofiume».
«L'indifferenza è inutile. Puoi volere o non volere, che importanza ha? (…) La tua neutralità non significa niente. La tua inerzia è altrettanto vana della tua rabbia».
«Ogni giorno sgranato non ha fatto che erodere la tua pazienza, che mettere a nudo l'ipocrisia dei tuoi ridicoli sforzi. Bisognava che il tempo si fermasse completamente, ma niente e nessuno è così forte da poter lottare contro il tempo. Hai potuto barare, guadagnare qualche briciola, qualche secondo: ma le campane di Saint-Roch, l'alternarsi dei semafori all'incrocio tra la rue des Pyramides e la rue Saint-Honoré, l'immancabile caduta della goccia dal rubinetto dell'acquaio nel pianerottolo non hanno mai smesso di misurare le ore, i minuti, i giorni e le stagioni. Sei riuscito a far finta di dimenticartene, a camminare di notte e a dormire di giorno. Non l'hai mai ingannato del tutto».
Georges Perec
Un uomo che dorme
Quodlibet, Macerata, 2009
170 pp.
ISBN 9788874622429.