Una poesia quadrata è una particolare composizione in cui il numero delle sillabe (o di parole) per ogni verso è uguale al numero dei versi, per cui la sua struttura risulta essere una griglia quadrata, come in questo esempio che traggo dalla matematica e poetessa americana JoAnne Growney e che ho adattato alla nostra lingua:
When lovers leave,
avoid laments.
Grab a cactus--
new pain forgets.
Se ti lascia,
via la pena:
sfrega cactus
con la schiena.
La poesia quadrata più semplice (1 x 1) è formata da un monosillabo, come questa che ho dedicato a Italo Svevo:
Schmitz
mentre non esiste in teoria un limite superiore. Questo tipo di contrainte è banale, a meno che non si vogliano costruire opere che abbiano diversi percorsi di lettura. Ad esempio Lewis Carroll fu l’artefice di questa stanza:
I often wondered when I cursed,
Often feared where I would be –
Wondered where she’d yield her love
When I yield, so will she.
I would her will be pitied!
Cursed be love! She pitied me…
Fateci caso: la poesia può essere letta anche verticalmente: la prima parola di ogni verso forma esattamente il primo verso “I often wondered when I cursed”, la seconda forma il secondo verso, e così via. Il pregio di quest’opera dell’autore di Alice non risiede solo nella struttura, ma anche nel fatto che la poesia possiede un senso in se stessa, caratteristica che la rende un piccolo capolavoro non solo per la vista, ma anche per l’udito.
Il monstrum del genere "poesie quadrate" è senza dubbio A square in verse of a hundred monasillbles only: Describing the sense of England's happiness, scritto nel 1597 in onore di Elisabetta I dall’inglese Henry Lok (1553?-1608?), un poeta di origini borghesi sempre alla ricerca di protettori tra i nobili delle corti di Edimburgo e Londra e in costante lotta con i debiti. Lok scrisse alcune sequenze di sonetti e contribuì alla riforma della poesia inglese a sfondo religioso, ma a stento lo troviamo nelle antologie di poesia elisabettiana e in qualche saggio critico. Un minore, se non fosse per questa barocca e geniale esibizione di maniera.
Come dice il titolo, l’opera è costituita da una griglia quadrata di lato 10, in cui ognuna delle 100 celle contiene una parola monosillabica (in italiano ciò sarebbe impensabile, mentre in inglese, lingua più sintetica, la maggior parte delle parole lo è). Lo schema, che ho trovato in un articolo della Growney sulla matematica nella poesia, mostra in modo leggibile le parole dell’opera, che è preceduta e seguita da due motti latini.
Thomas P. Roche, Jr., che ha pubblicato la poesia di Lok in appendice al suo saggio Petrarch and the English Sonnet Sequences (New York: AMS Press, 1989) ha messo in evidenza come nella griglia sia possibile riconoscere una complessa struttura di quadrati e colonne e croci che formano poesie più piccole all’interno. Ad esempio, la prima colonna forma la frase:
God makes kings rule for heaue[n]s; your state hold blest
E l’ultima colonna
And still stand will their shields; fear yields best rest.
Si può scoprire anche una poesia di cinque versi con quattro parole ciascuno seguendo in diagonale le celle da 1 a 5 e utilizzando le parole poste negli angoli. Le croci indicate in grigio a loro volta nascondono frasi che si possono leggere dal centro verso l’esterno e poi ritornando in modo bustrofedico.
Presentata questa macchina poetica, che immagino di trovare in un gabinetto rinascimentale delle curiosità letterarie (assieme ai leporeambi e a qualche corno di ippogrifo), mi viene in mente quanto scrisse il grande ludolinguista Giampaolo Dossena* a proposito del quadrato magico alfabetico (il famoso SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS):
“Sempre, leggendo di cose enigmistiche, si trasente il tanfo della condizione carceraria, ma guardando [tali] giochi geometrici (…) si è presi alla gola da miasmi concentrazionari, abissi di infelicità, follia, ebetudine. Certe tradizioni enigmistiche sono tra le testimonianze più patologiche e teratologiche lasciate dall’homo sapiens sulla superficie dello sventurato pianeta Terra.
Se chi ama i giochi di parole può essere definito “qabbalista dilettante”, chi ama certi giochi enigmistici può essere considerato un qabbalista demente e disperato, che applica le tecniche della qabbalah non al testo della Bibbia bensì a un pezzo di giornale trovato in una latrina (…)”
*in Il dado e l’alfabeto, Zanichelli, 2004, p. 226