mercoledì 28 gennaio 2015

Pensare è dimenticare

Il matematico francese Jean Vallés spiega in questo articolo, comparso su Images des Mathématiques, perché dimenticare è essenziale sia nella vita quotidiana sia nell’attività matematica. 

Gran parte dell’attività matematica riprende formalizzandoli gli atti banali della vita quotidiana: si aggiunge, si spartisce, si fa e si disfa, si scelgono le traiettorie così come i matematici addizionano, dividono, fanno agire dei gruppi e studiano le curve e le loro tangenti. 

In modo meno evidente, la matematica formalizza anche delle azioni inconsapevoli. Così, separare dei fatti, degli oggetti o degli esseri nella massa non ordinata e perpetuamente in moto di informazioni nella quale siamo immersi, e ciò nella quasi immediatezza d’uno sguardo o d’un ascolto, trova il suo corrispondente matematico nella nozione di invariante

Questa competenza è probabilmente innata. Per convincersene, basta disegnare un triangolo davanti a un bimbo, dire il termine, disegnarne poi un altro diverso dal primo e chiedere se conosce questa figura geometrica. Risponderà senza esitazioni. Come ha saputo che questa nuova figura, differente dalla prima, è anch’essa un triangolo? Il bimbo ha capito, senza che fosse necessario precisarlo, che la parola triangolo designa una figura che comporta tre vertici uniti da tre segmenti. 

Detto altrimenti, egli ha istintivamente raggruppato sotto il medesimo nome una quantità infinita di figure possibili. Analogamente, non esiterà a dare lo stesso nome di albero a una quercia e a una betulla, oppure a un abete, perché riconoscerà ogni volta un tronco e dei rami. 


Come avviene questo riconoscimento di ciò che caratterizza l’oggetto o il fatto osservato? Una risposta potrebbe essere la seguente: l’osservatore isola e riconosce ciò che non varia quando i dati iniziali sono fortemente perturbati, per esempio quando si cambia leggermente il punto di vista o quando si aggiunge un pizzico di sale a un piatto. Ciò che non è variato è un invariante. Esso caratterizza, o contribuisce a farlo, l’oggetto che ci interessa, sia che si veda una montagna oppure una zuppa di cavoli e cipolle. 

Invece di alberi, paesaggi o di minestre, gli oggetti della matematica sono delle matrici, dei numeri o dei polinomi. Tuttavia, per studiarli, per caratterizzarli, anche i matematici cercano le loro brave proprietà invarianti

In fin dei conti un invariante è un nome per la moltitudine, un’etichetta per ciascun pacco. Si può perciò certamente dire che la determinazione degli invarianti si basa su un’attitudine primordiale: quella che permette di tralasciare i dettagli superflui. 

Un semplice esempio matematico - Consideriamo, ad esempio, l’insieme degli interi relativi. Ogni numero intero possiede la sua propria singolarità: uno è pari, l’altro è dispari, questo è primo e non si può scrivere come somma di due quadrati, quello è ben noto, è F5, il quinto numero di Fermat che alla fine non era più primo… ma tutti questi numeri assieme alle loro particolarità infinite nascono dall’atto molto semplice di contare degli elementi messi posti in fila. 


Essi formano allora una successione di interi senza inizio e senza fine. Questa successione è invariante quando la si trasla su se stessa verso destra (+1) o verso sinistra (−1); seguendo questo approccio, la ricchezza aritmetica di ciascuno dei termini della successione è trascurata.. 

Quando Borges parlava di Funes -  Come dimostrazione, Jorge Luis Borges, nel racconto Funes, o della memoria (in Finzioni, ed .it. Einaudi, 1955), ha immaginato la vita di un giovane, Ireneo Funes, che non aveva questa capacità. Funes aveva avuto un grave incidente e 
“Cadendo perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così i ricordi più antichi e banali […] ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili”. 
Per Funes la realtà era in perenne mutamento, la vita una serie di avvenimenti unici, difficili da avvicinare. Così 
“l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte).” 
Privato dell’oblio, Funes non percepiva gli invarianti e dunque 
“Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.” 

Sia chiaro che giudicare l’inutilità di un dettaglio dipende molto dal contesto. Secondo l’attività, che sia fantasticazione, corsa a piedi o matematica, il superfluo sarà diverso. Che importano le buche nel terreno se si dormicchia sotto un albero, i raggi di luce tra le foglie di quest’albero se gli si corre di fianco o la natura del triangolo se si calcola la sua superficie? Bisogna perciò saper dimenticare per vivere e fare matematica. Ancor meglio se è una qualità che si possiede senza doversi sforzare... 

Jean Vallès, «Penser c’est oublier» − Images des Mathématiques, CNRS, 2013. Traduzione mia.

mercoledì 21 gennaio 2015

I martiri di Cordova


Uno dei più singolari episodi di fanatismo religioso nella lunga storia dei rapporti tra cristiani e musulmani avvenne nella Spagna occupata dagli Arabi, per un decennio a partire dall'850. La vicenda, nota come "i martiri di Cordova", è riportata da varie fonti coeve, tra le quali la cronaca redatta da Eulogio, uno dei protagonisti. 

Tutto ebbe inizio quando il monaco Perfectus venne fatto oggetto di scherno da parte di alcuni musulmani mentre si trovava al mercato. Interrogato sulla divinità del Profeta, cercò di tergiversare, poi, incalzato dal gruppo, citò l'ammonimento evangelico contro i falsi profeti, infine proruppe in parole ingiuriose contro i suoi persecutori. L'offesa a Maometto comportava (e comporta tuttora, ahimé, secondo i più osservanti) la pena di morte, ma, consci di averlo provocato, i musulmani lo lasciarono andare indisturbato. In fondo, la legge coranica impone il rispetto della vita dei dhimmi, i cristiani e gli ebrei non convertiti, che devono tuttavia versare un contributo periodico e non possono testimoniare pubblicamente la loro fede (per i "popoli del Libro" non è prevista dal Corano l'alternativa tra conversione o morte). La vicenda si sarebbe conclusa senza danni se Perfectus non avesse deciso di tornare di proposito al mercato. Questa volta, circondato dalla folla che lo accusava di aver offeso il Profeta, fu condotto in carcere, dove "incominciò ad attaccare tutta la loro religione". Alla fine fu condannato e suppliziato in pubblico durante la festa per la fine del Ramadan. 


Il secondo episodio avvenne ancora al mercato e vide protagonista Giovanni, un mercante cristiano che aveva l'abitudine di giurare in nome del Profeta sulla qualità della sua merce. Le beghe commerciali, come ci ha insegnato la storia, possono rivestirsi di una veste (o sovrastruttura) religiosa, e il vezzo di Giovanni gli attirò l'ostilità dei mercanti musulmani suoi concorrenti, che lo accusarono di farsi credere musulmano pur essendo cristiano o, peggio ancora, di essere un rinnegato (circostanza che, se provata, comportava la pena capitale). Il giudice lo condannò a 400 frustate, a meno che il poveretto si fosse dichiarato musulmano, cosa che Giovanni si rifiutò di fare, accettando la dura pena che equivaleva alla morte. 

Questi due primi casi diedero inizio a una corsa di molti cristiani alla ricerca del martirio: una vicenda in cui si mescolarono fede autentica, vicende personali, fanatismo, l'esempio e la propaganda, attraverso veri e propri scritti apologetici che circolavano segretamente tra i cristiani di Cordova. Non mancarono motivi più generalmente “politici”, in quanto l’insofferenza delle comunità cristiane verso la dominazione araba, iniziata da poco più di un secolo, era viva e, in alcuni casi, per nulla rassegnata all’accettazione di essere servi in una terra dove si era stati i dominatori. 


Il salto di qualità si ebbe con il terzo nostro protagonista, un certo Isacco. Di famiglia agiata e colta, egli occupava un'importante carica amministrativa nel governo della città. All'improvviso lasciò tutto e si fece monaco in un romito monastero sui monti, di cui era abate il fratello della zia. Non avendo ancora raggiunto la pace interiore, dopo un po' di tempo sentì l'ispirazione di tornare in città in cerca di guai. Si presentò così al Cadì, con la scusa di voler ricevere un'educazione musulmana. Il giudice acconsentì, esponendo giudiziosamente la sua dottrina. Una volta che ebbe finito di parlare, Isacco lo accusò di essere un bugiardo e lo invitò a convertirsi al cristianesimo. Il Cadì, in un impeto d'ira, lo colpì con un ceffone, poi, resosi conto di aver sbagliato, si giustificò con i presenti dicendo che Isacco era ubriaco. Niente da fare: l'intrepido monaco sostenne di essere lucidissimo, ribadendo il suo invito alla conversione. Incarcerato, Isacco fu mandato a morte il 3 giugno 851 su ordine dell'emiro in persona. Il suo comportamento "eroico" fu contagioso: nel giro di un paio di settimane l'abate suo zio e altri cinque monaci lo imitarono, cercando deliberatamente il martirio e finendo accontentati dalle autorità musulmane, che incominciavano a essere preoccupate dalla piega che stavano prendendo gli eventi. Tra il mese di luglio è quello di ottobre di quell'anno cruciale, altri cinque cristiani, uomini e donne, scelsero la morte in nome della loro fede un po' esaltata. 

Significativa per l'intreccio di contrasti religiosi e famigliari è la vicenda della vergine Flora, nata da un matrimonio misto tra un musulmano e una cristiana. Il padre era morto in giovane età, lasciando la vedova con tre figli, un maschio e due femmine. Flora era stata educata dalla madre come cristiana, mentre il fratello era un fervente musulmano. Meditando sul passo delle scritture che dice "Chi mi rinnegherà davanti agli uomini io lo rinnegherò davanti al Padre", Flora prese la decisione di lasciare la casa senza neanche avvisare la madre e andò a vivere in un monastero. Il fratello, infuriato, la andò a cercare per tutta la città, facendo arrestare anche alcuni religiosi. Alla fine, per evitare guai ulteriori alla sua comunità, la ragazza tornò a casa, ma sfidò il fratello dichiarandosi apertamente cristiana, nonostante le minacce e le percosse. La cosa finì davanti al Cadì, al quale Flora, che ancora non pensava al martirio, disse di essere sempre stata cristiana, evitando così l'accusa di apostasia. Fu tuttavia frustata ferocemente dalle guardie. Dopo alcuni giorni, tornata in grado di camminare, fuggì di nuovo e fu ospitata in una casa cristiana. 

Il caso che volle che, dopo qualche settimana, Flora incontrasse in una chiesa un'altra giovane, di sentimenti ancor più radicali: si trattava di Maria, sorella di uno dei monaci martirizzati per seguire l'esempio di Isacco. L'amicizia tra le due si trasformò in una smania di martirio. Si recarono dal Cadì, dove Flora dichiarò di essere "di stirpe araba", quindi una musulmana rinnegata, e Maria qualificò la religione islamica come "invenzione diabolica". Processate, ribadirono le loro accuse al Profeta e all'Islam, finendo decapitate il 24 novembre 851. 


La situazione dell'ordine del pubblico provocata dall'ondata di "martiri" preoccupava sempre di più le autorità di Cordova, che si rivolsero alle gerarchie ecclesiastiche affinché mettessero fine a quella che ai loro occhi era una forma crescente di follia collettiva. Si tenne allora nell'852 un concilio a Cordova, presieduto da Reccafredo, arcivescovo di Siviglia, che stabilì che la ricerca intenzionale della morte per mano dei musulmani non poteva essere ritenuta un martirio, tanto più che non c'era stata alcuna persecuzione, ma andava considerata una sorta di suicidio, come tale da condannare secondo la dottrina cristiana. Il Concilio condannò inoltre l'indegno traffico di reliquie dei "martiri" che era incominciato già subito dopo la morte di Perfectus e aveva costretto le autorità a ordinare che i corpi degli ultimi condannati fossero bruciati o gettati nel fiume. L'intervento del Concilio rallentò ma non bloccò subito il fenomeno dei "martiri", che durò altri sette anni, con altre trenta esecuzioni. 

L'ultimo "martire" di cui è interessante riportare la storia è Eulogio, che fu uno degli ideologi segreti del movimento dei martiri dopo aver conosciuto in carcere Flora nell'851 e averne raccontato la Passio in uno dei libelli apologetici che circolavano segretamente (e che ci è pervenuto). Eulogio era un sacerdote di posizioni apparentemente moderate e concilianti, al punto da essere considerato un interlocutore dalle autorità musulmane. Nell'859 venne eletto arcivescovo di Toledo, cioè Primate di Spagna, ma non poté insediarsi perché nel frattempo subì il martirio. Era successo infatti che Leocrizia, una ragazza di genitori musulmani, era stata convertita al cristianesimo da una monaca e aveva chiesto di essere consigliata e istruita presso di lui. Un delatore tuttavia denunciò la cosa, e tutti gli abitanti della casa furono arrestati. Interrogato, Eulogio disse che era sua dovere istruire una neofita, cosa che avrebbe fatto anche se il convertito fosse stato il Cadì. Questi ordinò allora che fossero portati dei bastoni, dicendo che intendeva ammaestrarlo. L'insofferenza del prelato contro i musulmani, accumulata in tanti anni, esplose in tutta la sua virulenza: facessero pure, disse, producendosi poi in una "impavida" invettiva contro il Profeta e la loro religione. Portato di fronte all'emiro, che lo conosceva come persona saggia, gli fu offerto il perdono in cambio della ritrattazione, ma Eulogio oramai aveva preso la sua decisione. Fu giustiziato l'11 marzo 859, pochi giorni prima di Leocrizia. 


Con queste morti ebbe termine il movimento dei martiri di Cordova: in totale furono cinquanta, tondi tondi.

lunedì 19 gennaio 2015

Questo blog non chiuderà


Questo blog è nato sei anni fa e ha mantenuto per lungo tempo una frequenza di pubblicazione ragguardevole. Da un po' di mesi non è più così, perché il vostro blogger sta attraversando un periodo di impegni e di vicissitudini che gli lasciano poco tempo (e poca voglia) di scrivere. In ogni caso vorrei rassicurare i lettori abituali e occasionali: Popinga è una passione, e continuerà la sua avventura ancora a lungo. Abbiate pazienza, magari tra un po' riprendo con la lena di prima.