Il matematico francese Jean Vallés spiega in questo articolo, comparso su Images des Mathématiques, perché dimenticare è essenziale sia nella vita quotidiana sia nell’attività matematica.
Gran parte dell’attività matematica riprende formalizzandoli gli atti banali della vita quotidiana: si aggiunge, si spartisce, si fa e si disfa, si scelgono le traiettorie così come i matematici addizionano, dividono, fanno agire dei gruppi e studiano le curve e le loro tangenti.
In modo meno evidente, la matematica formalizza anche delle azioni inconsapevoli. Così, separare dei fatti, degli oggetti o degli esseri nella massa non ordinata e perpetuamente in moto di informazioni nella quale siamo immersi, e ciò nella quasi immediatezza d’uno sguardo o d’un ascolto, trova il suo corrispondente matematico nella nozione di invariante.
Questa competenza è probabilmente innata. Per convincersene, basta disegnare un triangolo davanti a un bimbo, dire il termine, disegnarne poi un altro diverso dal primo e chiedere se conosce questa figura geometrica. Risponderà senza esitazioni.
Come ha saputo che questa nuova figura, differente dalla prima, è anch’essa un triangolo? Il bimbo ha capito, senza che fosse necessario precisarlo, che la parola triangolo designa una figura che comporta tre vertici uniti da tre segmenti.
Detto altrimenti, egli ha istintivamente raggruppato sotto il medesimo nome una quantità infinita di figure possibili. Analogamente, non esiterà a dare lo stesso nome di albero a una quercia e a una betulla, oppure a un abete, perché riconoscerà ogni volta un tronco e dei rami.
Come avviene questo riconoscimento di ciò che caratterizza l’oggetto o il fatto osservato? Una risposta potrebbe essere la seguente: l’osservatore isola e riconosce ciò che non varia quando i dati iniziali sono fortemente perturbati, per esempio quando si cambia leggermente il punto di vista o quando si aggiunge un pizzico di sale a un piatto.
Ciò che non è variato è un invariante. Esso caratterizza, o contribuisce a farlo, l’oggetto che ci interessa, sia che si veda una montagna oppure una zuppa di cavoli e cipolle.
Invece di alberi, paesaggi o di minestre, gli oggetti della matematica sono delle matrici, dei numeri o dei polinomi. Tuttavia, per studiarli, per caratterizzarli, anche i matematici cercano le loro brave proprietà invarianti.
In fin dei conti un invariante è un nome per la moltitudine, un’etichetta per ciascun pacco. Si può perciò certamente dire che la determinazione degli invarianti si basa su un’attitudine primordiale: quella che permette di tralasciare i dettagli superflui.
Un semplice esempio matematico - Consideriamo, ad esempio, l’insieme degli interi relativi. Ogni numero intero possiede la sua propria singolarità: uno è pari, l’altro è dispari, questo è primo e non si può scrivere come somma di due quadrati, quello è ben noto, è F5, il quinto numero di Fermat che alla fine non era più primo… ma tutti questi numeri assieme alle loro particolarità infinite nascono dall’atto molto semplice di contare degli elementi messi posti in fila.
Essi formano allora una successione di interi senza inizio e senza fine. Questa successione è invariante quando la si trasla su se stessa verso destra (+1) o verso sinistra (−1); seguendo questo approccio, la ricchezza aritmetica di ciascuno dei termini della successione è trascurata..
Quando Borges parlava di Funes - Come dimostrazione, Jorge Luis Borges, nel racconto Funes, o della memoria (in Finzioni, ed .it. Einaudi, 1955), ha immaginato la vita di un giovane, Ireneo Funes, che non aveva questa capacità. Funes aveva avuto un grave incidente e
“Cadendo perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così i ricordi più antichi e banali […] ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili”.
Per Funes la realtà era in perenne mutamento, la vita una serie di avvenimenti unici, difficili da avvicinare. Così
“l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte).”
Privato dell’oblio, Funes non percepiva gli invarianti e dunque
“Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.”
Sia chiaro che giudicare l’inutilità di un dettaglio dipende molto dal contesto. Secondo l’attività, che sia fantasticazione, corsa a piedi o matematica, il superfluo sarà diverso. Che importano le buche nel terreno se si dormicchia sotto un albero, i raggi di luce tra le foglie di quest’albero se gli si corre di fianco o la natura del triangolo se si calcola la sua superficie?
Bisogna perciò saper dimenticare per vivere e fare matematica. Ancor meglio se è una qualità che si possiede senza doversi sforzare...
Jean Vallès, «Penser c’est oublier» − Images des Mathématiques, CNRS, 2013. Traduzione mia.