giovedì 25 giugno 2015

Una lettera di Caroline Herschel (1750-1848)


William è via, e sto osservando
i cieli. Ho scoperto
otto nuove comete e tre nebulose
mai viste prima dall’uomo
e sto preparando un Indice per
le osservazioni di Flamsteed, assieme
a un catalogo di 560 stelle tralasciate
dal British Catalogue, più una lista di errata 
in quella pubblicazione. William dice

che me la cavo con i numeri, così conduco
tutte le semplificazioni e i calcoli
necessari. Pianifico anche
il programma dell’osservazione
 di ogni notte, perché dice che il mio intuito
mi aiuta a dirigere il telescopio per scoprire
ammasso di stelle dopo ammasso.

L’ho aiutato a pulire gli specchi
e le lenti del nostro nuovo telescopio. È
il più grande che ci sia. Puoi immaginare
il brivido di volgerlo verso qualche nuovo
angolo dei cieli per vedere
qualcosa di mai visto prima
dalla terra? Mi piace davvero

che egli sia impegnato con la Royal Society
e il suo club, così quando
termino le mie altre faccende
posso passare tutta la notte a spazzare
i cieli.

Talvolta quando sono sola
nel buio, e l’universo rivela
un altro segreto ancora, pronuncio i nomi
delle mie lontane, perdute sorelle,
dimenticate dai libri che registrano
la nostra scienza –

         Aglaonice di Tessaglia,
         Ipazia,
         Ildegarda,
         Caterina Hevelius,
         Maria Agnesi

– come se le stelle stesse potessero ricordare.

Sapevi che Ildegarda
propose un universo eliocentrico
300 anni prima di Copernico? Che
scrisse di gravitazione universale 500 anni
prima di Newton? Ma chi l’avrebbe ascoltata?
era solo una monaca, una donna.
Qual è la nostra epoca, se quest’epoca è buia?
Riguardo al mio nome, anch’esso sarà
dimenticato, almeno non sono accusata
di essere una maga, come Aglaonice,
e i Cristiani non minacciano di
trascinarmi in chiesa, di uccidermi, come fecero
a Ipazia di Alessandria, l’eloquente, giovane
donna che ideò gli strumenti
usati per misurare accuratamente la posizione
e il moto dei corpi celesti.
Per quanto a lungo si viva, la vita è breve, così
lavoro. E per quanto l’uomo importante diventi,
egli è niente paragonato alle stelle.
Esistono segreti, sorella cara, e tocca
a noi rivelarli. Il tuo nome, come il mio,
è una canzone.
Scrivimi presto,
                             Caroline 


Siv Cedering (1939-2007) è stata una poetessa, scrittrice e artista americana nata in Svezia, che ha scritto e pubblicato in inglese e svedese diciotto tra romanzi, libri per bambini e raccolte di poesie, e quattro opere di traduzione. Numerose sue poesie e racconti brevi sono comparsi su prestigiose riviste e gli hanno valso numerosi riconoscimenti nelle sue due patrie. Suoi anche alcuni soggetti cinematografici.

In Letter From Caroline Herschel (1750-1848), una donna che si occupa di numeri e di stelle, in una lettera a un’altra donna (la sorella?), ricorda altre grandi donne che l’hanno preceduta. L’opera, scritta nel 1986, è comparsa nella raccolta Letters From the Floating World (1998). Il ritratto che la Cedering tratteggia di Caroline Herschel, sorella e collaboratrice del grande astronomo anglo-tedesco William, è quello di una donna e scienziata saggia, forte, determinata a conciliare la sua passione scientifica con le incombenze della vita quotidiana (“when I finish my other work I can spend all night sweeping the heavens”).

Non ho trovato una traduzione italiana della poesia, per cui ho dovuto compiere l’impresa senza essere un esperto. Qui sotto riproduco il testo originale, ad uso di coloro che vorranno emendare la mia opera, ai quali ricordo la frase che il diciottenne Samuel Taylor Coleridge scrisse al fratello George: “Ho tre validi campioni per difendermi dagli attacchi della Critica: la Novità, la Difficoltà e l’Utilità del Lavoro”.


Letter From Caroline Herschel (1750-1848) 

William is away, and I am minding
the heavens. I have discovered
eight new comets and three nebulae
never before seen by man,
and I am preparing an Index to
Flamsteed's observations, together with
a catalogue of 560 stars omitted from
the British Catalogue, plus a list of errata
in that publication. William says

I have a way with numbers, so I handle
all the necessary reductions and
calculations. I also plan
every night's observation
schedule, for he says my intuition
helps me turn the telescope to discover
star cluster after star cluster.

I have helped him polish the mirrors
and lenses of our new telescope. It is
the largest in existence. Can you imagine
the thrill of turning it to some new
corner of the heavens to see
something never before seen
from earth? I actually like

that he is busy with the Royal Society
and his club, for when I finish my other work
I can spend all night sweeping
the heavens.

Sometimes when I am alone
in the dark, and the universe reveals
yet another secret, I say the names
of my long, lost sisters, forgotten
in the books that record
our science--

         Aganice of Thessaly,
         Hyptia,
         Hildegard,
         Catherina Hevelius,
         Maria Agnesi

--as if the stars themselves could

remember. Did you know that Hildegard
proposed a heliocentric universe 
300 years before Copernicus? that she 
wrote of universal gravitation 500 years 
before Newton? But who would listen 
to her? She was just a nun, a woman. 
What is our age, if that age was dark? 
As for my name, it will also be 
forgotten, but I am not accused 
of being a sorceress, like Aganice, 
and the Christians do not threaten to 
drag me to church, to murder me, like they did 
Hyptia of Alexandria, the eloquent, young 
woman who devised the instruments 
used to accurately measure the position 
and motion of heavenly bodies. 
However long we live, life is short, so I 
work. And however important man becomes, 
he is nothing compared to the stars. 
There are secrets, dear sister, and it is 
for us to reveal them. Your name, like mine, 
is a song. 

Write soon, 

                                           Caroline 


Naturalmente non posso reclamare alcun diritto sull’opera, che è protetta da copyright secondo le leggi vigenti in Italia e negli Stati Uniti.

domenica 21 giugno 2015

Eureka!: l’universo in evoluzione di Edgar Allan Poe

ResearchBlogging.orgIl 19 aprile 1610, Keplero, senza nemmeno aver verificato le scoperte comunicate nel Sidereus nuncius di Galileo, pubblicato solo da alcune settimane, inoltrò allo scienziato italiano, tramite l'ambasciatore di Toscana, una lunga lettera di approvazione e commento. Essa fu poi pubblicata a Praga nei primi giorni di maggio, con notevoli varianti ed ampliamenti, con il titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo. Nella sua ampollosa prosa latina, il tedesco pose per primo una domanda apparentemente banale, soprattutto in quei tempi senza inquinamento luminoso: “Perché il cielo notturno è buio?”. Egli sapeva che la risposta altrettanto banale, e cioè “Perché di notte non c’è la luce del Sole”, non è scontata. 


Keplero era un convinto assertore della finitezza dell’universo. Egli utilizzò la domanda come argomento contro l’idea di un universo infinito con un numero infinito di stelle. Se l’universo fosse pieno di stelle come il nostro Sole e si estendesse senza fine, allora, sosteneva, “l’intera volta celeste sarebbe luminosa come il Sole (…) questo nostro mondo non appartiene a uno sciame indifferenziato di innumerevoli altri”. Se le stelle fossero infinite e disposte in ogni punto della volta celeste, allora il nostro sguardo dovrebbe incontrare in ogni caso le loro luci, sia di giorno che di notte. 


La domanda di Keplero prende oggi il nome di “Paradosso di Olbers”, dal nome dell’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers, che lo espose nel 1826. La sua domanda “come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l'infinità di stelle presenti nell'universo?” supponeva alcune qualità dell’universo che la cosmologia del suo tempo, sulla scorta del sistema di Newton, dava per scontate: l’universo è infinito (la sua estensione spaziale non ha limiti), eterno (esiste da sempre), immutabile (non si evolve e non si è evoluto verso condizioni differenti da quelle che osserviamo), omogeneo e isotropo (in esso le stelle sono distribuite più o meno uniformemente). Dato che le stelle sono distribuite in modo uniforme e sono in numero infinito, la loro luce dovrebbe brillare in tutto il cielo, rendendo indistinguibile persino la luce del Sole. Olbers pensava che una qualche forma di polvere o gas interstellare intercettasse la luce delle stelle prima del suo arrivo sul nostro pianeta, ma ignorava che l’energia assorbita dalle particelle di materia le avrebbe in questo caso scaldate fino a renderle a loro volta incandescenti e sorgenti di energia radiante, magari di lunghezza d’onda differente. Insomma, il paradosso di Olbers era una sfida per l’infinità, l’immutabilità e l’omogeneità dell’universo. 

L’astronomia alla metà dell’800 era essenzialmente osservazionale. Era lo studio di comete, stelle binarie, “nebulae”, cataloghi di stelle. Nel 1838 Friedrich Bessel era stato il primo a misurare le distanze tra le stelle, nel 1846 Johann Gottfried Galle scoprì Nettuno basandosi sui calcoli di Urbain Le Verrier, e il grande telescopio a riflessione di Lord Rosse permise di osservare la galassia di Orione e qualche anno più tardi inquadrò e rese popolare la galassia Vortice M51. Queste scoperte, rese possibili dal progredire delle tecniche di osservazione, incominciarono a mettere in discussione l’omogeneità dell’universo: le stelle non sono distribuite in modo uniforme, ma appartengono a sistemi che oggi sappiamo essere le galassie, che a loro volta possono appartenere a sistemi più grandi, come era già stato intuito da Kant. Nel 1848 William John Herschel, recensendo il volume Kosmos di Alexander Von Humboldt, accennò alla possibilità di una struttura gerarchica dei corpi celesti come possibile soluzione al paradosso del cielo notturno. Anche se le stelle sono infinite non necessariamente il cielo deve essere luminoso in ogni punto nel modo prospettato da Olbers. La disposizione disomogenea dei corpi celesti lascia grandi spazi vuoti che noi vediamo bui.


Curiosamente, una moderna visione dell’evoluzione dell’universo, che spiegava la sua disomogeneità e forniva una soluzione del paradosso di Olbers, non fu proposta da uno scienziato, ma da uno scrittore che aveva dichiarato di non amare la scienza, pur avendo una buona conoscenza dell'astronomia della sua epoca. Nel 1848, infatti, Edgar Allan Poe pubblicò Eureka, visionario, metafisico e stravagante “poema in prosa” in cui abbondano riferimenti diretti e indiretti alle opere di alcuni tra i principali astronomi del XIX secolo (l’opera è dedicata proprio ad Alexander Von Humboldt). 

Secondo lo scrittore americano, nell’universo agiscono solo due principi, l’attrazione e la repulsione, che egli vede non solo come forze reali, ma anche come entità metafisiche: 
“Non esiste altro principio. Tutti i fenomeni sono riferibili o all’uno o all’altro, o alla combinazione di entrambi. (…) L’attrazione e la repulsione sono le uniche proprietà attraverso le quali percepiamo l’Universo – in altre parole, con le quali la Materia è manifestata alla Mente – [al punto che] siamo autorizzati a pensare che la materia esiste solamente come attrazione e repulsione, che esse sono la materia, non esistendo alcun caso concepibile in cui non potremmo utilizzare la parola “materia” e le parole “attrazione” e “repulsione”, considerate assieme, come equivalenti, e perciò scambiabili, nella Logica”. 

Poe attribuisce la nascita dell'universo alla frammentazione di una particella primitiva; una volta esauritasi l'azione della forza repulsiva iniziale, gli atomi diffusi nello spazio avrebbero cominciato ad attrarsi reciprocamente e a formare le stelle e i sistemi stellari: 
“Sono pienamente giustificato nel sostenere che la Legge che abbiamo chiamato Gravità esiste a causa del fatto che la Materia è stata irradiata, alla sua origine, atomicamente, in una sfera di Spazio limitata, da una, singola, incondizionata, irrelata, e assoluta Particella Propria, dall’unico processo in cui era possibile soddisfare, contemporaneamente, le due condizioni: irradiazione e distribuzione generalmente uniforme in tutta la sfera, cioè da una forza direttamente proporzionale ai quadrati delle distanze tra gli atomi irradiati, rispettivamente, e il Particolare centro di Irradiazione”. 
Non ci si può esimere dal notare come Poe anticipi di tre quarti di secolo le intuizioni di Georges Lemaître riguardo a ciò che sarebbe stato chiamato Big Bang. 

Gran parte degli oggetti che ai suoi tempi erano chiamati nebulae (nebulose) ed erano considerati ammassi di gas, per Poe si devono pensare fatti nello stesso modo della nostra Galassia: sono altre galassie, esterne alla Via Lattea: 
“L’osservazione telescopica, guidata dalle leggi della prospettiva, ci autorizza a concepire che l’Universo percepibile esiste come un ammasso di ammassi, disposti in modo irregolare. Gli ammassi di cui è fatto questo “ammasso di ammassi” universale sono ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare “nebulae”, e, di queste “nebulae” una è di sommo interesse per l’umanità. Alludo alla Galassia, o Via Lattea”. 

L'insieme di questi sistemi stellari, ciascuno dei quali è, in termini moderni, una galassia, è destinato a collassare a causa della gravità e a tornare all'unità primordiale, in una sorta di “respiro di Dio”, alternarsi di espansione e contrazione (qui troviamo anticipato il modello del Big Crunch). Poe pensa erroneamente che questa fase di contrazione sia già in atto: 
“Si vede sempre un nucleo nella direzione in cui le stelle sembrano precipitare, e non si può scambiarli per meri fenomeni prospettici: gli ammassi sono realmente più densi presso il centro, più radi nelle regioni più lontane da esso. In poche parole, vediamo ogni cosa come se stesse verificandosi un collasso”. 
Nel sostenere il suo modello dinamico, egli si avventura a criticare le idee di John Herschel (il figlio di William, anch’egli astronomo): 
“Da parte di Herschel [John] c’è evidentemente una riluttanza a considerare le nebulae come “in uno stato di progressivo collasso” (…) Perché è così poco disposto ad ammetterlo? Semplicemente a causa di un pregiudizio; solo perché l’ipotesi è in conflitto con un’idea preconcetta e totalmente infondata: quella dell’infinitezza, quella dell’eterna stabilità dell’Universo”. 
Per Poe la gravità è la forza principale che modella il mondo fisico in questa fase della sua storia. Nell’opera egli cita gli esperimenti di Maskelyne, Cavendish e Bailly, che avevano misurato l’attrazione gravitazionale della massa del monte scozzese Schiehallion e scoperto che essa era in accordo con la legge di Newton. Egli va oltre, nel tentativo di cogliere la natura profonda della gravitazione: 
“Che cosa dice la legge di Newton? (…) Ogni atomo di ogni corpo attrae ogni altro atomo, sia del proprio sia di ogni altro corpo, con una forza che varia inversamente con i quadrati delle distanze tra l’atomo attratto e quello che attrae. Qui, sicuramente, un diluvio di idee inonda la mente. (…) Niente impedisce l’aggregazione di varie masse distinte, in diversi punti dello spazio”. 

La gravità agisce in modo universale, su tutta la materia, e permette la sua aggregazione: un corpo che cade sulla terra non è soggetto solo all’attrazione gravitazionale del pianeta, ma su di esso agiscono, secondo le modalità stabilite dalla legge di Newton, le forze attrattive di tutte le particelle di materia presenti nell’universo fisico. 

Egli giudica “insostenibile e tuttavia così pertinacemente seguita” l’idea che l’universo sia illimitato, innanzitutto sul piano filosofico: 
(...) come individuo, posso essere autorizzato a dire che non posso concepire l’Infinito, e sono convinto che nessun essere umano lo possa fare. Lo farà una mente non pienamente cosciente di se stessa – non abituata all’analisi introspettiva del suo stesso funzionamento”. 
Il secondo motivo è empirico: 
“Tutta l’osservazione del Firmamento rifiuta l’idea dell’assoluta infinità dell’Universo delle stelle” (…) “l’osservazione ci dimostra che c’è certamente, in numerose direzioni attorno a noi se non in tutte, un limite positivo, o, almeno, non ci fornisce alcuna prova per pensare altrimenti”. 
Poe pensa a una dimensione dell’universo di circa 3 milioni di anni luce, come stimato da William Herschel sulla base della magnitudine massima degli oggetti che era in grado di vedere con il suo telescopio: 
Così lontane da noi sono alcune delle “nebulae” che anche la luce, viaggiando alla sua velocità, non potrebbe e non può raggiungerci, da quelle misteriose regioni, in meno di tre milioni d’anni. Questo calcolo è stato fatto dal vecchio Herschel”. 
Per quei tempi si trattava di una dimensione così grande da non trovare consenso, e fu abbandonata dallo stesso Herschel negli anni successivi. Nella concezione di Poe, la dimensione dell’universo è il risultato dell’irradiazione (espansione) cosmologica ed è necessaria per consentire la formazione delle stelle, dei sistemi solari e della vita. Essa fornisce anche una spiegazione per i grandi spazi vuoti osservati: 
“La difficoltà che abbiamo così spesso sperimentato, percorrendo il sentiero battuto della speculazione astronomica, è di spiegare gli immensi vuoti di cui si è detto, nel capire il perché abissi così totalmente inoccupati e perciò così apparentemente inutili si frappongono tra stella e stella, tra ammasso e ammasso, nel capire un motivo sufficiente per la scala titanica, in rapporto al mero Spazio, con la quale l’Universo si vede costituito. Sono convinto che l’Astronomia ha palpabilmente fallito nel trovare una causa razionale per il fenomeno, ma le considerazioni che, in questo Saggio, abbiamo fornito passo dopo passo, ci consentono chiaramente e immediatamente di percepire che lo Spazio e la Durata sono una cosa sola”. 

Poe conosce chiaramente la distanza misurata da un anno luce e le implicazioni del tempo di percorrenza della luce: 
“Ci sono “nebulae” che, attraverso il magico telescopio di Lord Rosse, stanno in questo istante sussurrando nelle nostre orecchie i segreti di un milione di età passate. In poche parole, gli eventi che ai quali oggi assistiamo, in quei mondi, sono gli stessi eventi che interessarono i loro abitanti diecimila secoli fa (…) quest’idea si impone all’anima, più che alla mente”. 

La spiegazione di Poe del paradosso di Olbers è davvero anticipatoria: 
“Se la successione delle stelle fosse senza fine, allora il fondo del cielo si presenterebbe come una luminosità uniforme, come quella mostrata dalla Galassia [la Via Lattea, ndr], dato che non ci sarebbe assolutamente alcun punto, in tutto il cielo, nel quale non esisterebbe una stella. La sola maniera, perciò, con la quale, in questo stato di cose, potremmo comprendere i vuoti che i nostri telescopi trovano in innumerevoli direzioni, sarebbe supporre che la distanza del fondo invisibile sia così immensa che nessun raggio proveniente da esso ha potuto finora raggiungerci”. 


L’universo non è eterno, non è infinito, i corpi celesti si evolvono e la luce delle stelle più lontane non ha ancora avuto il tempo di raggiungere la Terra. In effetti, William Thompson, Lord Kelvin, nel 1901 analizzò dal punto di vista quantitativo il legame tra la parte di cielo coperta di stelle e la sua luminosità relativa, concludendo che per avere un cielo continuamente brillante come la superficie del Sole, sarebbe necessario considerare tutta la luminosità stellare fino una distanza talmente elevata da non poter essere stata percorsa dalla luce, che viaggia a una velocità finita. La realtà è che l’universo è troppo giovane e non contiene abbastanza materia-energia per illuminare il cielo anche di notte. 

Eureka, se si escludono l’introduzione metafisica e la conclusione lirica, non è solamente un libro che incorpora l’astronomia del suo tempo, ma è un vero proprio testo astronomico scritto da un poeta con profonde conoscenze scientifiche. Esso si può quasi considerare un saggio di cosmologia newtoniana, anche senza matematica. Con un approccio molto personale e un linguaggio ricco di immagini, Poe in questo testo ha anticipato molte delle idee cosmologiche moderne.

Paolo Molaro, & Alberto Cappi (2015). Edgar Allan Poe: the first man to conceive a Newtonian evolving Universe CULTURE and COSMOS Volume 16 no1 and 2 (2012), pg 225-239, Nicholas Campion and Ralf Sinclair eds arXiv: 1506.05218v1

venerdì 12 giugno 2015

Einstein cosmologo, e un manoscritto inedito

ResearchBlogging.org
Poco dopo la formulazione della teoria generale della relatività (1916), Einstein applicò la sua nuova teoria all’intero universo, soprattutto allo scopo di chiarirne i fondamenti, cioè di stabilire “se il concetto di relatività può essere applicato fino in fondo o se porta a contraddizioni”. Ipotizzando un cosmo statico nel tempo e che una teoria gravitazionale consistente dovesse incorporare il “principio” di Mach, secondo il quale l'inerzia di ogni sistema è il risultato dell'interazione del sistema stesso con il resto dell'universo e non può esistere uno spazio privo di materia, Einstein ritenne necessario aggiungere un nuovo termine alle equazioni generali di campo, allo scopo di predire un universo con una densità media di materia non nulla – la famosa “costante cosmologica”. Con la scelta di questa costante, Einstein fu condotto a un modello di un universo statico, finito, di geometria spaziale sferica, il cui raggio era direttamente legato alla densità di materia. 

Nello stesso anno (1917), l’olandese Willem de Sitter propose un modello relativistico alternativo dell’universo, cioè quello di un universo statico privo di materia. Einstein fu molto colpito dalla soluzione di de Sitter, in quando essa suggeriva una metrica dello spazio-tempo indipendente dalla materia contenuta, in conflitto con il principio di Mach secondo l’interpretazione di Einstein. Il modello di de Sitter fu causa di un certo scompiglio tra i fisici teorici per qualche anno, fino a che si comprese che esso non era statico. Ciò nonostante, la soluzione attrasse un certo interesse negli anni ’20 perché prediceva che la radiazione emessa da particelle di prova inserite nell’universo “vuoto” avrebbe subito un redshift, in perfetto accordo con le osservazioni astronomiche contemporanee di Vesto Slipher sui redshift delle galassie a spirale. 

Nel 1922 il giovane fisico russo Alexander Friedman suggerì che si dovessero considerare soluzioni non stazionarie alle equazioni di campo di Einstein nei modelli relativistici dell’universo. Con un secondo articolo, nel 1924, Friedman esplorò quasi tutte le principali possibilità teoriche e la geometria per l’evoluzione dell’universo. Einstein non accolse favorevolmente i modelli di Friedman di un universo in evoluzione nel tempo. La sua prima reazione fu di pensare a un errore matematico del russo. Quando Friedman dimostrò che l’errore era invece nella correzione di Einstein, egli opportunamente la ritrattò. Tuttavia, una bozza inedita della ritrattazione (1923) evidenzia che Einstein considerava irrealistici i modelli di universo variabile nel tempo, “ai quali si può attribuire a fatica un significato fisico”

Ignaro delle analisi di Friedman, il belga Georges Lemaître propose nel 1927 un modello di universo in espansione. Egli conosceva le osservazioni astronomiche di Sipher e le misure di Hubble delle grandi distanze delle galassie. Interpretando i redshit di Slipher come un’espansione relativistica dello spazio, Lemaître derivò dalle equazioni di campo di Einstein un universo in espansione, stimando un tasso di espansione cosmica dai valori medi delle velocità e delle distanze delle galassie ricavati rispettivamente da Slipher e Hubble. L’articolo di Lemaître, pubblicato in francese su una poco conosciuta rivista scientifica, ricevette poca attenzione (e, come ho già discusso, Hubble fece in modo che continuasse a essere ignorato). Tuttavia, il belga discusse il suo modello personalmente con Einstein durante la conferenza di Solvay del 1927, ottenendo solo una critica con il franco commento: “Vos calculs sont corrects, mais votre physique est abominable”


Nel 1929 Hubble pubblicò la prima prova empirica di una relazione diretta tra i redshift delle galassie a spirale e la loro distanza radiale. In quella periodo era stato anche stabilito che i modelli statici presentavano problemi di natura teorica: quello di Einstein non era stabile, quello di de Sitter non era statico. Come conseguenza, il concetto di espansione cosmica relativistica fu preso in seria considerazione, e furono proposti diversi modelli di universo variabile nel tempo del tipo di quelli di Friedman e Lemaître. 

Dal 1931 Einstein incominciò ad accettare l’universo dinamico. Durante un soggiorno di tre mesi al Caltech di Pasadena all’inizio di quell’anno, un viaggio che comprendeva un convegno con gli astronomi dell’osservatorio del Mount Wilson e discussioni frequenti con il teorico del Caltech Richard Tolman, egli fece diverse dichiarazioni pubbliche su come le osservazioni di Hubble potessero essere considerate una ragionevole prova di un’espansione cosmica. Ad esempio, il New York Times riferì il commento di Einstein secondo il quale “Le nuove osservazioni di Hubble e Humason riguardo al redshift della luce nelle galassie lontane rendono più probabile la congettura che la struttura generale dell’universo non sia statica” e “Il redshift delle galassie lontane ha demolito la mia vecchia costruzione come un colpo di martello”. Non molto più tardi, Einstein pubblicò due distinti modelli dinamici del cosmo, il modello Friedman-Einstein del 1931 e il modello Einstein-de Sitter del 1932. 


Scritto nell’aprile 1931, il modello Friedman-Einstein segnò la prima pubblicazione scientifica in cui Einstein abbandonò formalmente l’universo statico. Citando le osservazioni di Hubble, Einstein sosteneva che l’ipotesi di un universo statico non era più giustificata: “Ora che è divenuto chiaro dai risultati di Hubbel [sic] che le nebule extra-galattiche [cioè le galassie esterne alla Via Lattea, diremmo oggi] sono distribuite dovunque nello spazio e hanno moto dilatatorio (almeno se i loro sistematici redshift sono da interpretare come effetti Doppler), l’ipotesi di una natura statica dello spazio non ha più alcuna giustificazione”. Adottando l’analisi di Friedman del 1932 di un universo con un raggio variabile nel tempo e con curvatura spaziale positiva, Einstein rimosse anche la costante cosmologica che aveva introdotto nel 1917, sulla basi che essa era ora sia insoddisfacente (dava una soluzione instabile), sia inutile: “In queste condizioni, ci si deve chiedere se si possono giustificare i fatti senza l’introduzione del termine λ, che è in ogni caso teoricamente inadeguato”. Il modello risultante prediceva un universo che doveva subire un’espansione seguita da una contrazione,. Einstein fece uso delle osservazioni di Hubble per ricavare stime dell’attuale raggio dell’universo, della densità media della materia e della durata dell’espansione. Rilevando che quest’ultima stima era minore che le età delle stelle stimate dagli astrofisici, Einstein attribuì il paradosso a errori introdotti dalle ipotesi semplificative dei modelli, in particolare quella dell’omogeneità. 

All’inizio del 1932 Einstein e Willem de Sitter si trovavano entrambi al Caltech di Pasadena, e approfittarono dell’occasione per esplorare un nuovo modello dinamico dell’universo. Questo modello era basato sull’idea che una finita densità di materia in un universo non statico non richiede necessariamente una curvatura dello spazio. Consapevoli della mancanza di prove empiriche della curvatura spaziale, Einstein e de Sitter fissarono questo parametro a zero. Avendo rimosso sia la costante cosmologica sia la curvatura spaziale, il modello risultante descriveva un universo con geometria euclidea, in cui la velocità di espansione h era legata alla densità media di materia ρ dalla semplice relazione h2 = 1/3 κρ, con κ costante di Einstein. Applicando il valore di Hubble di 500 Km s–1 Mpc–1 per la velocità di recessione delle galassie, gli autori calcolarono un valore di 4×10–28 g.cm–3 per la densità media della materia, un valore che non era incompatibile con le stime dell’astronomia. 


Il modello Einstein-de Sitter rivestì un ruolo significativo nello sviluppo della cosmologia del XX secolo. Una motivo fu che esso marcò un importante caso ipotetico in cui l’espansione dell’universo era bilanciata perfettamente da una densità critica di materia: un universo con una più bassa densità di massa avrebbe geometria iperbolica e si espanderebbe con velocità sempre crescente, mentre un cosmo con una più alta densità di massa avrebbe geometria sferica e alla fine collasserebbe. Un altro motivo era la grande semplicità del modello: in assenza di qualsiasi prova empirica di curvatura spaziale o di costante cosmologica, non c’era motivo di rivolgersi a modelli più complicati (la prova empirica di una costante cosmologica positiva non sarebbe emersa che nel 1992, mentre non è ancora stata rilevata alcuna evidenza di una curvatura dello spazio). Mentre nel succinto articolo dei due fisici la durata dell’espansione non era considerata, questo aspetto del modello fu considerato da Einstein l’anno successivo. Rilevando ancora che il tempo di espansione era minore dell’età stimata delle stelle, egli attribuì di nuovo il problema alle ipotesi semplificative del modello. 

Il modello Einstein-de Sitter segnò l’ultimo contributo originale di Einstein alla cosmologia; egli non pubblicò più alcun nuovo modello cosmologico oltre questi. 

Si è tuttavia recentemente scoperto che Albert Einstein aveva esplorato l’ipotesi di un modello di stato stazionario dell’universo poco prima di pubblicare i due modelli del 1931-1932 e quasi vent’anni prima che la teoria venisse proposta da Fred Hoyle e, indipendentemente, da Hermann Bondi e Thomas Gold nel 1948. Un manoscritto dell’Albert Einstein Online Archive, intitolato Zum kosmologischen Problem e inizialmente scambiato per la bozza di un altro documento, dimostra che il fisico tedesco considerò la possibilità di un universo che si espande ma rimane sostanzialmente invariato a causa della continua formazione di materia dallo spazio vuoto. Diversi aspetti del documento indicano che fu scritto nei primi mesi del 1931, durante il primo viaggio di Einstein in California. Perciò l’articolo rappresenta probabilmente il suo primo tentativo di elaborare un modello cosmologico dopo le prove emergenti di un universo in espansione. Egli abbandonò l’idea quando si rese conto che la sua specifica teoria dello stato stazionario portava a una soluzione nulla. 


Il documento inizia con il richiamo di Einstein del noto problema del collasso gravitazionale in un universo newtoniano. Il punto di partenza è simile a quello del modello statico da lui proposto nel 1917, anche se ora è integrato da un riferimento all’opera di Hugo von Seeliger (1895) il quale, per affrontare il problema che le leggi gravitazionali non sono consistenti con una densità di materia media finita, aveva introdotto nella legge di Newton una funzione di correzione che, al crescere della distanza, diminuiva più velocemente dell’inverso del suo quadrato. Einstein sottolinea che un problema analogo sorge nei modelli relativistici dell’universo, e ricorda la sua introduzione della costante cosmologica λ nelle equazioni del campo relativistico per renderle compatibili con un universo statico con raggio e densità di materia costanti. 

Nella parte successiva del manoscritto, Einstein sostiene che questo modello statico ora non sembra più realistico. Due sono le ragioni principali di questo mutamento d’opinione: 

1) L’esistenza di soluzioni dinamiche e l’instabilità del suo modello. Dal manoscritto non risulta tuttavia chiaro se egli fosse al corrente dei modelli di Friedman e Lemaître. Einstein poi non cita l’articolo di Eddington del 1930 che aveva dimostrato l’instabilità del suo modello. 

2) Le osservazioni astronomiche di Edwin Hubble, che hanno mostrato la distribuzione uniforme delle galassie e il loro redshift. Anche in questo caso il manoscritto, in cui il nome di Hubble è costantemente scritto erratamente (Hubbel), sembra indicare una certa poca famigliarità con le opere dell’americano. Einstein inoltre non parla direttamente di redshift, ma preferisce parlare di effetto Doppler proporzionale alla distanza delle galassie. 

Sottolineando che i modelli dinamici di de Sitter e Tolman sono compatibili con le osservazioni di Hubble, Einstein indica che essi predicono un’età dell’universo di 1010 - 1011 che è problematica e, “per vari motivi, inaccettabile”. Si noti ancora che non c’è alcun riferimento ai modelli dinamici di Friedman e Lemaître e che i “vari motivi” non sono specificati, anche se sembra probabile che egli si riferisca all’età prevista dai modelli dinamici, che sembra inferiore a quella attribuita alle stelle dagli astrofisici. 

Nella terza parte del manoscritto, Einstein esamina una soluzione alternativa per le equazioni di campo che possa essere compatibile con le osservazioni di Hubble, vale a dire con un universo in espansione in cui la densità di materia non muta nel tempo. Egli fa riferimento a uno “schema generale di Tolman”, probabilmente un articolo del 1930 in cui il fisico del Caltech suggeriva che l’espansione cosmica possa derivare da una continua trasformazione di materia in radiazione.


L’analisi di Einstein parte dall’ipotesi di una metrica euclidea dello spazio che si espande esponenzialmente (è la metrica di de Sitter). Tale ipotesi è compatibile con un tasso costante di creazione di materia e con “l’effetto Doppler di Hubbel”. Tale metrica è costante nel tempo. Einstein deduce una relazione tra il coefficiente di espansione α e la densità di materia ρ, concludendo che quest’ultima rimane costante “e determina l’espansione indipendentemente dal suo segno”. Egli commette però un errore di derivazione, in quanto dalle sue premesse avrebbe dovuto ottenere una densità di materia nulla. 

Nella parte conclusiva del documento Einstein propone un meccanismo che consenta alla densità di materia di rimanere costante in un universo di raggio crescente: la continua formazione di materia dallo spazio vuoto. Questa idea anticipa il campo ad energia e pressione negativa (C-field, campo di creazione) che Fred Hoyle avrebbe introdotto nel 1948 nelle equazioni di campo per dar conto dell’ipotesi di un universo reso stazionario dall’espansione e dalla contemporanea e costante creazione di materia dal nulla; Einstein invece non modifica le sue equazioni, convinto che la modifica della costante cosmologica garantisca che lo spazio non sia vuoto d’energia e di conseguenza la continua formazione di materia. 

Il modello di Einstein è tuttavia errato, in quanto la mancanza di uno specifico termine per rappresentare la creazione di materia porta alla soluzione nulla ρ = 0. È evidente dal manoscritto che egli riconobbe questo problema durante la revisione e sembra che abbia abbandonato l’idea piuttosto che considerare soluzioni più sofisticate per lo stato stazionario. 

Non è sorprendente che il fisico tedesco abbia esplorato l’ipotesi dello stato stazionario, più simile alla sua iniziale idea di un universo statico, prima di accettare pragmaticamente i modelli dinamici, da lui inizialmente avversati. L’universo in espansione non comportava, come Einstein scoprì nel manoscritto, alcuna variazione delle equazioni di campo, e non richiedeva l’introduzione di una costante cosmologica. Ed egli preferiva sempre le soluzioni più semplici. Quando gli fu chiesto di commentare il modello cosmologico dello stato stazionario proposto da Hoyle, egli lo bollò come una “speculazione romantica”.

Cormac O'Raifeartaigh (2015). A new perspective on Einstein's philosophy of cosmology To be published in the 'Proceedings of the 2014 Institute of Physics International Conference on the History of Physics', Cambridge University Press arXiv: 1504.02873v1