domenica 18 dicembre 2016

Nicola d’Oresme, un grande matematico del Trecento


Nicolas Oresme (ca. 1320 - 1384) fu senza dubbio uno dei principali filosofi scolastici del XIV secolo, famoso per le idee originali, il pensiero indipendente e la critica a diverse dottrine aristoteliche. Era nato nella diocesi di Bayeux in Normandia, nei pressi di Caen. Tra il 1341 e il 1342 si era laureato in materie umanistiche all'Università di Parigi, dove aveva conosciuto le idee di Giovanni Buridano (1290-1358 ca.), e vi insegnò filosofia. Nel 1348 il suo nome compare in una lista di insegnanti laureati in teologia al Collegio di Navarra dell'Università parigina. Divenne Gran Maestro del collegio nel 1356, per cui doveva aver completato in precedenza il suo dottorato teologico. Tenne questa carica fino al 1362, continuando a insegnare teologia come “professore ordinario”.

Dal 1362, anno in cui lasciò l'Università, fino alla morte, avvenuta vent’anni dopo, fu al servizio di Carlo, il Delfino di Francia, che era reggente durante la prigionia presso gli inglesi del padre Giovanni II il Buono (1356-1364) e fu incoronato come Carlo V alla morte del genitore (1364). Carlo era un intellettuale molto religioso, che si circondava di eruditi come Oresme. Questi fu nominato canonico (1362) e più tardi decano (1364) della Cattedrale di Rouen, oltre che canonico della Sainte-Chapelle a Parigi (1363). Dal 1370 visse principalmente a Parigi, facendo il consigliere del re per le questioni economiche. Diventò vescovo di Lisieux nel 1377, dove morì l’11 luglio del 1382.

Al di là del suo complesso e raffinato pensiero filosofico, Oresme è una figura interessante perché si occupò di questioni scientifiche e matematiche, facendolo con intelligenza e intuizioni anticipatrici per i suoi tempi. A questo brillante erudito è stata attribuita l’invenzione della geometria analitica prima di Cartesio, la scoperta della legge della caduta dei gravi prima di Galileo, quella della rotazione della Terra prima di Copernico. Nessuna di queste presunte priorità è completamente vera, sebbene in ciascuna di esse Oresme lasciò traccia del suo studio penetrante. Qui voglio proporre al lettore un’analisi necessariamente divulgativa di alcune sue opere, concentrandomi su quelle di maggior interesse matematico.

Tractatus de configurationibus qualitatum et motum (Trattato sulla configurazione delle qualità e del movimento) 


In quest’opera Oresme espone il suo metodo di rappresentazione grafica delle variazioni di una grandezza (che chiama qualità) in funzione di un’altra. Egli considera per esempio un corpo nel quale il calore non è omogeneo, ma varia secondo il luogo e la misura. Per rappresentare le variazioni del calore all’interno del corpo, egli immagina una retta tracciata sul corpo. Chiama longitudino la distanza che separa un punto qualsiasi della retta a un punto d’origine fissato arbitrariamente. In ciascun punto di questa retta traccia una perpendicolare la cui altezza (latitudino) è proporzionale all'intensità del calore nel punto corrispondente del corpo. Ottiene così una figura geometrica il cui esame rende più facile lo studio delle variazioni del calore. “Le proprietà di questa qualità - commenta - saranno esaminate più chiaramente è più facilmente quando qualcosa che le è simile è disegnato su una figura piana, e questa cosa, resa chiara per esempio visibile, viene colta rapidamente e perfettamente dall’immaginazione (…) perché l’immaginazione delle figure aiuta grandemente la conoscenza delle cose stesse”.



Egli intraprende poi uno studio matematico delle figure piane prodotte dalle rappresentazioni grafiche delle qualità. Fa loro subire delle trasformazioni geometriche semplici cercandovi delle proprietà invarianti, il che lo porta a una classificazione delle curve. Assistiamo così ai primi vagiti della geometria analitica, fatto che ha portato alcuni a considerare Oresme un precursore di Cartesio.

Il nostro autore tuttavia non si ferma a uno studio completamente astratto. Vuole dare delle applicazioni pratiche alla sua idea di configurazione in diversi campi. Inizia con la biologia: egli afferma per esempio che il calore naturale di un leone si comporta in modo diverso da quello di un asino o di un bue. “Esso gli fornisce una potenza più grande, non solamente perché è più intenso, ma anche perché la sua rappresentazione grafica è diversa”. Più oltre suggerisce che la configurazione del calore associato al seme di un uomo ha un ruolo fondamentale nel concepimento di un bambino, in quanto la natura è capace solamente di produrre questa configurazione nell’utero di una donna.

La dottrina della configurazione viene così presentata come capace di fornire una spiegazione al perché certe pietre preziose o altre cose possono avere effetti curativi. “La causa risiede nella similitudine tra la configurazione della qualità della pietra e la qualità corporale della persona che è ammalata (…) così, a causa della natura nascosta di questi rapporti certi stupidi negromanti dicono che le proprietà curative sono il risultato della presenza di certi spiriti che vi hanno introdotto”. In seguito tenta di trovare dei legami tra la dottrina della configurazione e l’estetica. Esiste una bellezza assoluta che possa essere caratterizzata da dei rapporti universali tra le configurazioni delle qualità delle cose?

Tutte queste idee restano tuttavia essenzialmente speculative. Si tratta di un documento molto significativo dello spirito che regnava alla fine del XIV secolo nelle scuole parigine, in cui si era stanchi di virtù occulte e si aspirava a una scienza razionale le cui spiegazioni fossero dipese da un piccolo numero di proprietà elementari sviluppate seguendo i metodi chiari e certi della matematica. 

Nella seconda sezione di quest’opera, quando applica la dottrina della configurazione allo studio del movimento, Oresme dà tutta la misura del suo genio. Si tratta della parte che esercitò un’influenza duratura sui suoi contemporanei e che senza dubbio ha lasciato una traccia nella storia della scienza del moto.

Per descrivere e studiare un movimento rettilineo, Oresme ha l’idea di rappresentare graficamente la velocità istantanea del corpo mobile in funzione del tempo. Su una retta orizzontale riporta una scala proporzionale al tempo, da cui traccia delle perpendicolari la cui lunghezza è proporzionale alla velocità del mobile nell’istante corrispondente. Ciò che gli interessa in questa costruzione è la parte di piano interessata da queste perpendicolari successive. Tramite l’esame di casi particolari semplici e la loro generalizzazione, giunge alla conclusione che l’area della superficie interessata dalle varie perpendicolari tracciate a partire da ciascuna punto della scala del tempo è proporzionale alla distanza percorsa dal mobile durante l’intervallo di tempo:



Questo postulato è alla base delle sue scoperte relative al moto uniformemente accelerato. Ecco in breve il suo ragionamento. In un moto rettilineo uniformemente accelerato, l’aumento della velocità del mobile è proporzionale al tempo durante il quale si produce questo aumento. La rappresentazione grafica della velocità in funzione del tempo descritta in precedenza porta allora a una figura a forma di trapezio:



Se M è il punto medio di AB, l’area del trapezio ABCD è uguale a quella del rettangolo ABC’D’. Sulla base del postulato precedente, il nostro matematico deduce che la distanza percorsa dal mobile nell’intervallo di tempo AB è la stessa di quella che avrebbe percorso se fosse stato mosso con una velocità uniforme uguale a quella che possiede nell’istante mediano M. Questo enunciato viene chiamato regola di Merton, dal nome di un collegio di Oxford che fu culla di molti importanti filosofi scolastici. I maestri di quel luogo l’avevano formulato, ma senza fondarlo su una chiara dimostrazione. Oresme fornisce invece un elegante modello geometrico di questa regola, facile da capire e imparare. Una dimostrazione rigorosa di questo risultato non si può fare senza ricorrere al calcolo integrale, che peró sarà inventato solo due secoli e mezzo più tardi. Nel frattempo il trapezio di Oresme fa il giro di tutte le università d’Europa.



Egli però non si ferma a questo. Proseguendo il suo studio, considera un moto rettilineo uniformemente accelerato con velocità iniziale nulla. In questo caso i punti A e D del trapezio precedente sono sovrapposti:



Suddividendo l'intervallo AB in un certo numero di parti uguali, mostra chiaramente sulla figura che le aree dei trapezi sopra gli intervalli sono nella proporzione 1,3,5,7...ecc. Tali sono le distanze percorse durante quegli intervalli. “Ora - sostiene - come ha fatto notare il grande matematico greco Pitagora, si ha: 
1 = 1 = 1 volta 1, 
1 + 3 = 4 = 2 volte 2, 
1 + 3+ 5 = 9 = 3 volte 3, 
1 + 3 + 5 + 7 = 16 = 4 volte 4, 
1 + 3 + 5 + 7 + 9 = 25 = 5 volte 5, 
e così via (…) 
Si ottiene sempre un numero quadrato. In questo modo si possono determinare i mutui rapporti delle quantità totali [cioè l’area].

Nicolas Oresme ha dunque stabilito la legge fondamentale del moto rettilineo uniformemente accelerato, vale a dire che, se velocità all’istante zero è nulla, la distanza percorsa è proporzionale al quadrato del tempo. Questa legge non fu mai dimenticata nel periodo trascorso tra Oresme e Galileo Galilei ed era insegnata a Oxford da William Heytesbury e i suoi discepoli. Se siamo abituati ad attribuire questa legge a Galileo, il motivo è che il grande pisano ha avuto l’idea di utilizzare un piano inclinato per verificare sperimentalmente quale legge si applica al moto di caduta dei corpi. La storia dimentica troppo facilmente il contributo dei maestri del Medio Evo nel seminare idee che sarebbero germinate in tempi moderni.

Il Trattato sulla configurazione delle qualità e del movimento ha segnato la storia della scienza. La dottrina di Oresme fu diffusa in tutta Europa, soprattutto in Italia, ma anche a Vienna, Heidelberg e Colonia, come attestano i registri di quelle università. Tuttavia, prima dell’avvento della stampa, non circolò l’opera originale, ma un compendio intitolato Tractatus de latitudinibus formarum, nel quale mancava il famoso trapezio. Questa lacuna fu colmata del filosofo e matematico parmigiano Biagio Pelacani (1355-1416), che insegnò a Padova. I suoi scritti ebbero larga diffusione in Italia, ed è probabile che Galileo per suo tramite fosse a conoscenza delle scoperte di Oresme.

De proportionibus proportionum (Proporzioni di proporzioni) 


Il punto di partenza di questo trattato è una legge formulata da Thomas Bradwardine, uno dei maestri di Merton, i filosofi inglesi che, nei decenni centrali del Trecento, applicando lo studio della logica e della matematica alle loro speculazioni, furono chiamati calculatores e contribuirono alla rinascita dell’interesse verso lo studio dei fenomeni naturali (e al pragmatismo inglese). La legge di Bradwardine (1328) legava in modo complicato forza, resistenza e velocità e costituiva un primo tentativo di quantificare la fisica di Aristotele. Per trattare l’argomento in modo generale, Oresme introduce per la prima volta il concetto di potenza di un numero con esponente frazionario, con una notazione già simile a quella attuale. Arriva persino a inventare il concetto di potenza con esponente irrazionale applicando il principio di continuità. Molto in anticipo sull’invenzione dei logaritmi, afferma che, dati due numeri x e y non nulli, esiste sempre un esponente razionale o irrazionale e tale che x elevato a e sia uguale a y.

Nel caso in cui x e y sono dei numeri interi, deduce, con un ragionamento aritmetico elementare, che la condizione perché l’esponente e sia razionale è che la scomposizione in fattori primi di x e y contenga gli stessi numeri. Ne conclude che se x e y sono scelti a caso, è più probabile che l’esponente sia irrazionale piuttosto che razionale. Ciò lo porta a pensare che quando un numero incognito interviene nella legge che regola un fenomeno naturale, ci sono grandi probabilità che esso sia irrazionale.

Questa osservazione è alla base della sua argomentazione contro le predizioni astrologiche. Oresme considera il semplice caso di due pianeti che percorrono orbite circolari e concentriche con velocità uniformi. Se il rapporto delle velocità di rotazione dei pianeti è razionale, le congiunzioni di questi due pianeti si produrranno periodicamente secondo un numero finito di raggi (esattamente come succede per le due lancette di un orologio, in cui la più grande ricopre la piccola ogni undicesimo di ora). Ma, se, come è più probabile secondo l’osservazione precedente, il rapporto delle velocità di rotazione dei due pianeti è irrazionale, le posizioni future delle congiunzioni, delle opposizioni, delle quadrature, dipendono allora dai decimali di questo rapporto sconosciuto. Ciò significa che è impossibile prevedere a lungo termine le posizioni reciproche dei due pianeti, svuotando di ogni credibilità le affermazioni degli astrologi.




Oresme tornò a criticare gli astrologi in altre opere. In Ad respicientes Pauca (il nome deriva dalla frase di apertura "Per quanto riguarda alcune questioni ..."), sostenne che l'astrologia era in tal modo confutata. Nel Livre de divinacions e nel Tractatus contra astronomos,cercò di dimostrare che l'astrologia è "più pericolosa per quelli di alto stato, come principi e signori, ai quali atterrebbe il governo del bene comune". Come contro l'astrologia, combatté contro la credenza diffusa in fenomeni occulti e "meravigliosi", spiegandoli in termini di cause naturali. Gli scritti di Oresme contro l'astrologia e la magia derivavano dal suo timore per la dipendenza del Re e della sua corte da queste pratiche.

Anche se le argomentazioni del filosofo normanno non ebbero alcun effetto sulle convinzioni dei suoi contemporanei (e anche di molti dei nostri, purtroppo), esse testimoniano la profondità del suo pensiero matematico. L’affermazione della preponderanza dei numeri irrazionali su quelli razionali dovrà attendere la fine del XIX secolo per essere chiaramente precisata e dimostrata da Georg Cantor, il fondatore della teoria degli insiemi.

Questiones super geometriam Euclidis (Domande sulla geometria di Euclide) 


Altre idee degne di nota in campo matematico sono contenute in questa breve opera scritta probabilmente come appunti delle lezioni tenute tra il 1343 al 1351 alla scuola di Parigi. Si tratta di una serie di domande non numerate, ricostruite solo recentemente sulla base di manoscritti provenienti da varie biblioteche europee, redatte secondo lo schema tipicamente scolastico della risposta concepita come disputatio tra pareri diversi. Le prime nove quaestiones riguardano il problema degli infiniti. Oresme dimostra attraverso esperimenti mentali che di due infiniti in atto nessuno è maggiore o minore dell’altro. La dimostrazione che adotta ricorda quella di Georg Cantor che certi insiemi infiniti sono equinumerosi. Infatti Oresme applica il principio della corrispondenza uno a uno per mostrare che la collezione di tutti i numeri pari oppure dispari naturali non è più piccola della collezione dei numeri naturali, perché è possibile contare i numeri pari o dispari attraverso i numeri naturali.

Egli non fu il primo a utilizzare il principio della corrispondenza uno a uno analizzando le proprietà degli infiniti attuali. Anche l’oxoniense Bradwardine, il cui scopo principale era quello di confutare l’opinione di Aristotele che il mondo è eterno, applicò la corrispondenza uno a uno per dimostrare che due infiniti sarebbero uguali o (in termini moderni) che un sottoinsieme infinito è uguale all’insieme di cui è una parte. Tuttavia Bradwardine prendeva per certo che un sottoinsieme infinito è più piccolo dell’insieme di cui fa parte. Così era dell’opinione che con l’assunzione di un mondo eterno che non ha inizio, la moltitudine di tutte le anime umane che sono state create finora deve essere maggiore delle moltitudini delle anime maschili o femminili considerate da sole. Da questa contraddizione (un sottoinsieme infinito non può essere contemporaneamente più piccolo e uguale all’insieme di cui fa parte) Bradwardine traeva l’inferenza che l’eternità del mondo è impossibile.

Diversamente dall’inglese, Oresme sostiene che di due infiniti in atto nessuno può essere maggiore o minore dell’altro. Ciò perché non necessariamente due infiniti in atto sono diseguali per numero, ma lo possono essere per qualità. Questa ineguaglianza non deve essere concepita nel senso di “maggiore o “minore”, ma piuttosto di diversità. Poiché quantità comparabili sono o uguali una all’altra oppure una è maggiore o minore dell’altra, Oresme conclude che gli infiniti in atto sono incomparabili, il che vuol dire che concetti come minore, maggiore o uguale non si possono applicare agli infiniti.

Alcune quaestiones riguardano le serie numeriche. Oresme è il primo a dimostrare che la serie armonica, cioè

è divergente. Il suo ragionamento è semplice e illuminante. Poiché questa serie consiste di un’infinità di parti che sono maggiori di 1/2, allora l’intera serie è infinita. La dimostrazione si basa sul fatto che la somma del terzo e del quarto termine (1/3 + 1/4) è maggiore di un mezzo, così come la somma dei termini dal quinto all’ottavo (1/5 + 1/6 + 1/7 + 1/8) è maggiore di 1/8 + 1/8 +1/8 + 1/8 = 1/2, e come la somma dal nono al sedicesimo è maggiore di 8 × 1/16 = 1/2, e così via. In termini moderni:






La dimostrazione si può estendere a qualsiasi serie della forma a + a/m + a/m2 + a/m3 + … + a/mn + a/mn+1 + …, con a che è una quantità qualsiasi (aliqua quantitas) e m un qualsiasi numero naturale maggiore o uguale a 2. 

Glosse al Trattato sul cielo di Aristotele 


Su richiesta formale del re, Oresme intraprende tra il 1370 è il 1373 la traduzione dal latino in francese di alcune opere di Aristotele, in particolare il Trattato del cielo e del mondo, una delle più importanti del filosofo greco. Tuttavia aggiunge alla mera traduzione un imponente apparato di glosse e commenti, che costituiscono una testimonianza fondamentale del suo pensiero. L’opera commentata sarà pronta nel 1377 e varrà all’autore la nomina a vescovo di Lisieux. 

Nelle glosse alla traduzione, Oresme accetta l’insieme della cosmologia di Aristotele, verso il quale mostra rispetto, anche se non omette di manifestare il suo pensiero critico su alcuni punti fondamentali. Eccone alcuni. 

Aristotele ignora il principio d’inerzia e, per spiegare la continuazione del moto di un proiettile dopo che ha lasciato la mano del lanciatore, sostiene che l’aria, riempiendo in modo turbolento il vuoto che si crea dietro l’oggetto, lo spinge in volo. Il mezzo in cui avviene il moto è così fondamentale. Per Oresme, discepolo di Giovanni Buridano, che aveva espresso tale idea, il moto dell’oggetto si spiega invece con il fatto che esso ha ricevuto dalla mano del lanciatore una qualità che chiama impetus, una sorta di antenato della nostra energia cinetica. Il moto non avviene a causa del mezzo in cui avviene, che semmai gli si oppone. 

Per Aristotele le orbite celesti percorse dagli astri sono ciascuna sottomessa a un motore eterno e immobile. Oresme ritiene invece che il moto degli astri, regolare e ordinato come quello delle sfere dell'orologio, derivi dalla virtù mobile impressa loro da Dio al momento della creazione, così come ai corpi terrestri il Creatore ha imposto la pesantezza. Questa idea del normanno non era originale, ed era condivisa dai filosofi della scuola parigina. 



Originale è invece l’ipotesi di Oresme che la Terra giri su se stessa in ventiquattro ore. Nella concezione aristotelica e scolastica, il mondo è costituito da un’immensa sfera che gira su se stessa da oriente a occidente portando su di sé le stelle fisse. All’interno, e a distanze diverse dal centro, le orbite dei pianeti e quella del sole sono trascinate dal movimento giornaliero della sfera delle stelle fisse, ma i pianeti, la Luna e il Sole si muovono rispetto alla sfera esterna in senso inverso al suo movimento, secondo un asse inclinato rispetto a quello dei poli celesti. Aristotele sostiene che, al centro di questo sistema di sfere e di cerchi concentrici, la Terra deve restare necessariamente immobile. Questo sistema corrisponde alle osservazioni e sembra in accordo con l’esperienza. 

Oresme non mette in discussione la forma sferica del mondo, né il geocentrismo, ma propone di spiegare il movimento giornaliero con l’ipotesi che sia la Terra a ruotare su se stessa in rapporto al cielo immobile. Egli infatti sostiene che nessun esperimento può decidere se sono i cieli a muoversi da est a ovest o è la Terra che si muove da ovest a est, perché l’esperienza dei sensi non può stabilire più di un moto relativo. Così come di due navi in mare aperto non si può dire quale sia ferma e quale si metta in movimento, “se un uomo fosse in cielo, nell’ipotesi che sia dotato del suo stesso movimento giornaliero, egli vedrebbe la terra e distintamente i monti, le valli, i fiumi, le città e i castelli, e gli sembrerebbe che la Terra sia mossa da movimento giornaliero, così come a noi sulla terra sembra del cielo”. Le due ipotesi sono equivalenti logicamente, ma Oresme propende per quella della rotazione terrestre aggiungendo altre considerazioni. “È la cosa che ha bisogno di un’altra cosa che si muove per ricevere il bene (....) e quindi la Terra e gli elementi di quaggiù, che hanno bisogno del calore e dell’influsso del cielo tutt'intorno, devono essere disposti dal movimento a ricevere questo vantaggio adeguatamente. D’altra parte, data l’immensità della sfera celeste, e la velocità inimmaginabile alla quale dovrebbe girare in ventiquattro ore, è più ragionevole supporre il movimento della terra. Inoltre Aristotele dice che Dio è la natura non fanno nulla invano. È dunque più semplice, per spiegare gli stessi effetti, supporre il movimento della Terra piuttosto che quello del cielo”. (E qui viene in mente il “rasoio” del grande filosofo inglese Ockham, anteriore di pochi decenni: tra due spiegazioni si preferisca la più semplice) 

A differenza di altre opere scientifiche di Oresme, questo testo restò poco conosciuto fuori dalla Francia, circolò solo come manoscritto e fu pubblicato a stampa solo nel 1942 negli Stati Uniti. Per questo motivo è assai dubbia la sua influenza sugli sviluppi successivi della teoria eliocentrica, in particolar modo sul pensiero di Copernico. 

Alla fine di questa esposizione può affiorare l’idea che Nicola d’Oresme sia stato un genio isolato, in anticipo sui tempi, un alieno intellettuale. Non è così. Senz’altro fu un erudito intelligente e originale, dai molteplici interessi, assai versato per la matematica. Tuttavia è bene ricordare che nell’ambiente della filosofia scolastica del Trecento, soprattutto in alcune scuole come Parigi e Oxford, l’impulso alla discussione e alla critica sulla natura e le sue leggi fu molto forte. Dobbiamo abbandonare l’idea che la filosofia degli ultimi secoli di quell’epoca che chiamiamo Evo di Mezzo sia stata solo un contrappunto su temi teologici e metafisici o una mera riproposizione delle idee degli antichi allora accessibili, soprattutto Aristotele. Iniziarono invece molte riflessioni sul mondo fisico e naturale e, se ancora non c’era l’esperimento a vagliare la correttezza di un’ipotesi (ma la matematica si affida piuttosto alla coerenza interna e alla dimostrazione), esisteva una comunità di intellettuali, estesa a livello continentale, in grado di valutarla e discuterla. Almeno da questo punto di vista non esiste soluzione di continuità con i secoli che avrebbero visto la rivoluzione scientifica.

giovedì 22 settembre 2016

La matematica è dappertutto (ma non è di tutti)


Sul blog di matematica ospitato dallo Scientific American, il 16 agosto scorso lo storico della matematica Michael J. Barany ha pubblicato un articolo intitolato Mathematicians Are Overselling the Idea That “Math Is Everywhere” (I matematici stanno vendendo troppo l’idea che “La matematica è dappertutto”), che ha fatto molto rumore e ha suscitato reazioni di vario tipo nella comunità dei matematici e degli storici della disciplina. 

La tesi principale di Barany è che la matematica più importante per la società è sempre stata il campo di un piccolo numero di pochi privilegiati. Più o meno dall’alba della civiltà umana, argomenta l’autore, le società hanno sempre attribuito un’autorità speciale agli esperti di matematica. Perché i matematici interessano alla società nel suo complesso? Se si ascoltano i matematici, i decisori politici e gli educatori, la risposta sembra unanime: la matematica si trova dappertutto, perciò dovrebbe interessare a tutti. Libri e articoli abbondano di esempi della matematica che, secondo i loro autori, si nasconde in ogni fatto della vita quotidiana o rivela potenti verità e tecnologie che plasmano i destini degli individui e delle nazioni. 

Certamente, i numeri e le misure figurano regolarmente nelle vite della maggior parte delle persone, ma ciò rischia di crear confusione tra le abilità basilari di calcolo (ingl. numeracy) e il tipo di matematica che più influenza le nostre vite. Quando parliamo di matematica nella politica, specialmente di investimenti pubblici nell’educazione e nella ricerca, non stiamo parlando di mere addizioni e misure. Per la maggior parte della sua storia, la matematica che fa la vera differenza per la società è stata il campo di pochi. Le società hanno valutato e coltivato la matematica non perché essa è dappertutto e per tutti, ma perché è difficile ed esclusiva. Riconoscere che la matematica si denota per l’elitarismo connaturato alla sua essenza storica, piuttosto che pretendere che sia nascosta tutto intorno a noi, afferma Barany, fornisce un’idea più realistica di come essa sia adatta per la società e possa aiutare le persone a sollecitare una disciplina più responsabile e inclusiva. 

Nelle prime società agricole agli albori della civiltà, la matematica, sostiene Barany, collegava i cieli e la terra. I sacerdoti usavano i calcoli astronomici per definire le stagioni e interpretare il volere divino, e la loro esclusiva padronanza della matematica dava loro potere e privilegio nella società. Quando le economie primitive divennero più grandi e complesse, i mercanti e gli artigiani incorporarono nel loro lavoro sempre più conoscenze matematiche di base, ma per essi la matematica era un trucco del mestiere più che un bene pubblico. Per millenni, la matematica avanzata rimase un affare dei benestanti, sia come passatempo filosofico, sia come mezzo per reclamare una speciale autorità. 

Le prime idee abbastanza diffuse che tutto ciò che si trova al di là della semplice matematica pratica doveva avere una più ampia platea datano a ciò che gli storici chiamano prima Età moderna, che incominciò cinque secoli fa, quando iniziarono a prendere forma molte delle nostre moderne strutture e istituzioni sociali. Proprio quando con la Riforma si cominciò a insistere sul fatto che le Scritture dovevano essere accessibili alle masse nelle loro lingue, gli scrittori scientifici come il gallese Robert Recorde utilizzarono la relativamente nuova tecnologia della stampa a caratteri mobili per diffondere la matematica per il popolo. Il libro di aritmetica in inglese di Recorde, del 1543, incominciava con la considerazione che “nessun uomo da solo può far alcunché, e ancor meno parlare o fare affari con un altro, senza avere sempre a che fare con il numero”. 


Molto più influente e rappresentativo di questo periodo fu il suo contemporaneo John Dee, che utilizzò la sua reputazione matematica per ottenere l’influente posizione di consigliere di Elisabetta I. Dee incarnò così intimamente l’idea della matematica come tipo di conoscenza segreto e privilegiato che i suoi detrattori lo accusarono di congiura e di altre pratiche occulte. Nella Rivoluzione Scientifica del XVII secolo, i nuovi promotori della scienza sperimentale, che era (almeno all’inizio) aperta a qualsiasi osservatore, erano sospettosi dei ragionamenti matematici perché li ritenevano inaccessibili e tendenti a chiudere punti di vista diversi con un falso senso di certezza. Durante l’Illuminismo del XVIII secolo, al contrario, gli intellettuali dell’Accademia Francese delle Scienze fecero fruttare la loro abilità nella matematica avanzata ottenendo un posto privilegiato nella vita pubblica, pesando nei dibattiti filosofici e negli affari pubblici e allo stesso tempo chiudendo i loro ranghi alle donne, alle minoranze e alle classi sociali più basse. 

Nel XIX secolo le società di tutto il mondo furono trasformate da ondate successive di rivoluzioni politiche ed economiche, ma il modello francese di competenza matematica privilegiata al servizio dello Stato proseguì. La differenza stava in chi doveva essere parte di quella elite matematica. Esser nato nella famiglia giusta continuava a essere un vantaggio, ma, nella scia della Rivoluzione Francese, anche i governi successivi manifestarono un grande interesse nell’educazione primaria e secondaria, e eccellenti risultati negli esami potevano aiutare alcuni studenti a fare carriera nonostante la loro origine modesta. I leader politici e militari ricevevano un’educazione uniforme nella matematica avanzata in poche accademie prestigiose che li preparavano ad affrontare i problemi speciali degli stati moderni, e questo modello francese di coinvolgimento statale nell’educazione di massa, unito a una speciale formazione specialistica per i migliori, trovò imitatori in Europa e anche oltre l’Atlantico. Anche quando la matematica di base fu alla portata di sempre più persone attraverso l’istruzione di massa, la matematica rimase qualcosa di speciale che era patrimonio di una elite isolata. Più persone potevano potenzialmente farne parte, ma la matematica non era di sicuro per tutti.

Entrando nel XX secolo, il sistema di indirizzare gli studenti migliori verso una educazione elitaria continuò a guadagnare importanza in Occidente, ma la matematica stessa diventò meno centrale in quell’educazione. In parte ciò rifletteva il cambiamento delle priorità del governo, ma in parte era una questione di studi troppo avanzati rispetto alle necessità dei governi. Mentre i matematici dell’Illuminismo affrontavano questioni pratiche e tecnologiche a fianco delle loro ricerche più filosofiche, i matematici di cent’anni fa si interessarono sempre più a teorie così astratte da essere ostiche, senza la pretesa di dedicarsi direttamente ai problemi mondani. 

Il punto di svolta successivo, che continua in molte maniere a definire le relazioni tra la matematica e la società al giorno d’oggi, fu la Seconda Guerra Mondiale. Combattendo una guerra di quella portata, i principali contendenti si dovettero confrontare con nuovi problemi nella logistica, nella progettazione e nell’uso di nuove armi, e in altri settori, che i matematici si dimostrarono capaci di risolvere. Non che la matematica più avanzata fosse diventata improvvisamente più pratica, ma avvenne che gli stati trovarono nuovi utilizzi per coloro che avevano una preparazione matematica avanzata e i matematici trovarono nuovi modi per essere richiesti dagli stati. Dopo la guerra, i matematici ottennero un appoggio sostanziale dagli Stati Uniti e da altri governi sul presupposto che, a prescindere dal fatto che la loro ricerca fosse utile in tempo di pace, ora c’era la prova che matematici di alto livello sarebbero stati necessari nella guerra successiva. 


Alcune di quelle attività belliche occupano tuttora i professionisti della matematica, sia all’interno, sia fuori dalle organizzazioni statali: dagli scienziati della sicurezza e dai decrittatori di codici nelle imprese tecnologiche e nei servizi segreti, ai ricercatori che ottimizzano fabbriche e catene di rifornimento nell’economia globale. Lo sviluppo dell’informatica del dopoguerra ha fornito un altro settore in cui i matematici sono divenuti essenziali. In tutte queste aree sono gli sviluppi della matematica di una ristretta elite che giustificano i finanziamenti privati e pubblici che i matematici continuano a ricevere oggi. Sarebbe una gran bella cosa se tutti fossero a proprio agio con i numeri, potessero scrivere programmi per computer, valutare i fatti della statistica, e questi sono tutti importanti obiettivi per l’educazione primaria e secondaria, ma non dobbiamo confonderli con i principali scopi e motivazioni del finanziamento pubblico della matematica, che hanno sempre riguardato la matematica di punta e non la matematica per tutti. 

Immaginare che la matematica sia ovunque, prosegue Barany,  fa semplicemente perdere di vista le reali politiche della elite matematica che conta davvero (tecnologia, sicurezza, economia), per l’ultima guerra e per la prossima. Al contrario, se comprendiamo che questo tipo di matematica è stata costruita storicamente da e per pochissimi, siamo chiamati a chiedere chi davvero può entrare nella loro ristretta cerchia e quali sono le responsabiulità che derivano dal loro sapere. Dobbiamo riconoscere che la matematica d’elite del giorno d’oggi, anche se è più inclusiva di cinque o cinquanta secoli fa, rimane una disciplina che conferisce una speciale autorità a pochi ed esclude molti per i più diversi motivi. Se la matematica fosse davvero dappertutto, dovrebbe già appartenere a tutti equamente, ma conclude Barany, quando si parla di accesso alla matematica e del suo finanziamento, c’è ancora molto lavoro da fare. La matematica non è dappertutto. 


Dicevo dei commenti. Anna Haensch, che scrive su un blog ospitato dal portale della American Mathematical Society, nell’articolo Don’t worry, math is still everywhere (Non preoccupatevi, la matematica è comunque dappertutto), contesta innanzitutto la scelta del titolo, che può far pensare che la critica di Barany si rivolga all’idea che la diffusione della matematica nella società, negli strumenti tecnologici, nelle nostre vite, non sia poi così importante come dicono in molti, a partire dagli insegnanti di matematica. In realtà Barany non vuol contestare la pervasività della matematica nella società moderna, ma il pensiero che essa sia alla portata di tutti indipendentemente dal censo, dal genere o dall’etnia o da altri fattori sociali condizionanti. Haensch concorda su questa idea, ma si chiede se ciò non valga per qualsiasi disciplina che richieda un lungo e costoso corso di studi. È vero che per accedere alla elite della matematica avanzata conviene avere disponibilità economiche, ma ciò succede anche per le scienze, il linguaggio o l’arte. 

Haensch pensa che affermare che la matematica sia dappertutto é proprio l’antidoto alla consueta e antica domanda “quando mai userò queste cose?” La matematica è dappertutto proprio come la scienza, l’arte e il linguaggio, pertanto conoscerla aiuta la gente a capire il mondo che ci circonda. Una buona dose di “la matematica è dappertutto” è una buon modo per motivare le persone a studiare la matematica di base, che è già una gran cosa. E siccome i buoni esempi servono a sviluppare le buone abitudini, ovviamente i decisori politici dovrebbero favorire la matematica avanzata come dovrebbero favorire ogni ricerca scientifica di punta. Infatti, anche se sembra una banalità, la ricerca di base è da dove proviene ogni grande scoperta. 


Assai più critica è stata la reazione dello storico della matematica e blogger Thony Christie, the Renaissance Mathematicus, che sostiene in Some rather strange history of maths (Una storia della matematica piuttosto curiosa) che alcune delle osservazioni storiche di Barany sono sostanzialmente errate, cosa grave se l’autore è uno storico della matematica. 

Christie afferma che è una leggenda l’idea che i calcoli astronomici fossero utilizzati per il definire le stagioni e aggiunge che gli astrologi babilonesi non erano certo una classe privilegiata, ma dei semplici funzionari statali con un compito ben preciso, pagato ma rischioso. Anche l’affermazione che la matematica di punta fosse un affare dei ricchi è, secondo Christie, errata: nelle società avanzate del mondo antico per le basi economiche era sufficiente la conoscenza della matematica elementare, mentre la matematica avanzata apparve a Babilonia nel 1500 a. C. e scomparve con il crollo dell’impero romano intorno al 400 d. C. Inoltre i Romani, la potenza dominante del mondo antico, non avevano un grande interesse per il progresso della matematica. 

La matematica medioevale aveva carattere eminentemente pratico e la ricerca matematica dovette aspettare il XIV secolo. Il valore del libro di Recorde del 1543 non risiede nel fatto che divulgava matematica di punta tra il popolo, ma solo nell’essere stato scritto in lingua vernacolare e non in latino: per il resto si tratta di un normale Liber Abaci nella tradizione di quello scritto da Leonardo Fibonacci tre secoli prima. 

Ciò che ha spinto Christie a scrivere la sua replica è tuttavia la contrapposizione che Barany fa tra un Recorde che porta la matematica alle masse e un Dee difensore elitario di un sapere segreto e privilegiato. In realtà Recorde ebbe incarichi importanti presso la Corona, essendo il medico personale sia di Edoardo Vi che della regina Maria; Dee, che visse a lungo all’estero, non ebbe mai cariche ufficiali , anche se è vero che spesso Elisabetta I lo consultava per dei pareri. (A dire il vero anche chi scrive queste righe è rimasto piuttosto sorpreso dal breve, fuorviante, ritratto di un personaggio affascinante e complesso come John Dee tracciato da Barany). Dee, oltre a essere stato il primo editore inglese egli Elementi di Euclide, raccolse la più grande biblioteca privata d’Europa, che metteva a disposizione gratuitamente a chi lo volesse consultare: altro che sapere esoterico! 

Quanto alla diffidenza verso la matematica degli artefici della Rivoluzione Scientifica del XVII secolo, la verità è esattamente opposta: Galileo era un propugnatore della matematizzazione della natura, e come lui agirono filosofi naturali come Stevino, Keplero, Cartesio, Pascal, Huygens e Newton. Ciascuno di essi era un matematico, che fornì importanti contributi al progresso matematico e scientifico, dall’algebra moderna, alla geometria analitica al calcolo, oltre a un grande quantità di sviluppi in altre branche. 

Christie conclude il suo articolo dicendo che è Barany ad aver venduto troppo la sua idea di una matematica avanzata separata dal resto della società e gli consiglia uno studio più approfondito della storia della matematica precedente il XX secolo. Una stroncatura, insomma. 


In una conversazione su Twitter dei primi di settembre, Barany difende le sue posizioni con Steven Strogatz, grande divulgatore della matematica, dicendo che ci sono due domande fondamentali alle quali si cerca di rispondere dicendo che ”la matematica è dappertutto”, e cioè: (1) perchè la gente dovrebbe finanziare la matematica avanzata; (2) perché la gente dovrebbe imparare la matematica di base. Barany sostiene che dire che la matematica è dovunque non è una risposta appropriata alle due domande. 

A me sembra che non era il caso di sollevare un caso sul nulla, perché nessuno ritiene che “la matematica è ovunque” sia una risposta completa alle domande di Barany, che forse andavano poste con il supporto di argomentazioni diverse. La matematica è ovunque, anche se purtroppo non é di tutti.

domenica 11 settembre 2016

La triste storia del giovane Galois e dei suoi manoscritti sventurati

Nel 1829 Evariste Galois, che aveva 17 anni, seguiva i corsi della sezione di matematica speciale del collegio Louis-le-Grand, tipica scuola della Restaurazione, caratterizzata da una dura disciplina e dominata dal potere politico e dalla chiesa. La sua ricca e originale personalità sopportava con sempre maggiore difficoltà la pesante atmosfera conservatrice e clericale di questa istituzione, di cui era interno da cinque anni. Se non si era ancora ribellato, se ancora non era il militante repubblicano che sarebbe stato due anni più tardi, la consapevolezza che aveva del proprio genio matematico si scontrava con i vincoli che frenavano la sua invincibile vocazione per la ricerca astratta e lo spingeva a disprezzare la mediocrità di coloro che lo giudicavano. La sua superiorità fu riconosciuta dal suo professore di matematica speciale, Louis-Paul-Emile Richard, ed era riconosciuta dalla maggior parte dei suoi compagni, ma erano ancora numerosi coloro che lo ritenevano uno spirito bizzarro e fantasioso, da raddrizzare con una rigorosa disciplina. 

Vero è che la passione matematica di Galois era ancora molto recente. Il suo ingresso in questo mondo risaliva solo ai primi mesi del 1827, quando, dopo la sfortunata esperienza trimestrale nella classe di retorica, ripeté la classe di seconda e frequentò contemporaneamente i corsi del primo anno di matematica preparatoria tenuti da Hippolyte-Jean Vernier. Subito stanco dell’impostazione dogmatica del docente e dei manuali in uso, cominciò a studiare direttamente i testi originali. Dopo aver “divorato” la Géométrie di Legendre, affrontò subito le opere principali di Lagrange e acquisì una solida cultura algebrica e analitica di base. Nei due anni successivi che passò al Louis-le-Grand, si accostò ai settori di punta della ricerca matematica dell’epoca, interessandosi specialmente alle opere di Lagrange, Gauss e Cauchy sulla teoria delle equazioni, a quelle di Cauchy e Libri sulla teoria dei numeri e a quelle di Legendre sulle funzioni ellittiche. 

Senza trascurare il corso di matematica speciale, consacrava una buona parte del suo tempo alla ricerca personale, orientandosi in particolare verso la teoria delle equazioni algebriche. La sua curiosità non si limitava tuttavia a questo settore fondamentale, e la sua prima pubblicazione, nel numero del 1 aprile 1829 degli Annales de mathématiques di Gergonne, era una Dimostrazione di un teorema sulle frazioni continue periodiche. Si trattava dell’opera di un bravo studente, ma che ancora non annunciava il suo genio. 

Nel corso del 1828, secondo la sua stessa testimonianza, credette a torto di essere riuscito a risolvere l’equazione generale di quinto grado, ma questo abbaglio deve essere stato di corta durata, perché agli inizi del 1829, durante il tempo libero, riprese su nuove basi lo studio della teoria delle equazioni, che avrebbe continuato a studiare fino alla costituzione della teoria dei gruppi. 

Nel maggio 1829, i risultati ottenuti lungo questa nuova via gli sembravano abbastanza importanti da meritare di essere comunicati all'Académie des Sciences di Parigi. Per sottomettere un lavoro al giudizio di questa autorevole istituzione si potevano allora seguire due procedure: sia l’invio alla Segreteria dell’Accademia o il suo deposito da parte dell’autore durante una seduta, sia la sua presentazione da parte di un accademico esperto in quel particolare ambito. La seconda procedura era la più ricercata, anche se la meno frequente, perché implicava l’accordo esplicito dell’accademico interessato, che garantiva almeno l’interesse dell’opera presentata, se non i suoi dettagli. 

Galois ebbe il privilegio di vedere presentate le sue prime opere all’Accademia, nelle sedute del 25 maggio e 1 giugno 1829, da un giudice tanto severo quanto competente: Cauchy. La sua accettazione prova che il giovane matematico era riuscito a convincere il grande analista dell’importanza e originalità delle sue ricerche. La successiva perdita dei manoscritti di queste memorie di Galois e del rapporto preparato da Cauchy non consente di avere un’idea precisa del loro contenuto. I registri dell’Accademia precisano tuttavia che si trattava di Ricerche sulle equazioni algebriche di grado primo e, probabilmente, di una seconda memoria riveduta e corretta sullo stesso soggetto. 

Qualche settimana dopo il deposito delle due memorie, la vita di Galois fu sconvolta da due avvenimenti di natura molto diversa che segnarono profondamente il suo spirito. 

Il 2 luglio, suo padre Nicolas-Gabriel, sindaco liberale di Bourg-la-Reine, si suicidò nel suo appartamento parigino per lo scandalo suscitato da alcuni poemetti oltraggiosi circolati sotto il suo nome ma in realtà scritti da un prete conservatore; inoltre le sue esequie diedero luogo a penosi incidenti. Inutile dire che il legame tra clero e Borboni, unito alla parte che ebbe il religioso reazionario nel suicidio del padre di Galois, contribuirono ad alimentare il suo odio verso la monarchia. Il giovane Evariste era disperato per la perdita del suo sostegno economico, ma soprattutto per l’ingiustizia e la persecuzione che erano allorigine di questa tragedia. 

Qualche settimana più tardi i suoi sentimenti di rivolta furono rafforzati da un nuovo triste episodio. Egli fallì per la seconda volta l’esame per l’ammissione alla Ecole polytechnique, in seguito al suo rifiuto di seguire la modalità espositiva voluta dall’esaminatore Dinet. Si narra che Galois gettò il cancellino in testa al professore dopo l’ennesima domanda insulsa, ma l’episodio sembra il frutto della leggenda creatasi intorno al matematico ribelle. 

Vedendo svanire le sue speranze di entrare a quella Ecole polytechnique il cui prestigio e la tradizione liberale lo attiravano, Galois decise di presentarsi al concorso per entrare alla Ecole Normale Supérieure, che allora si chiamava Ecole préparatoire. Anche se la domanda era stata presentata in ritardo, alla fine fu accettata, forse per l’intervento diretto di “persone poste in cima al mondo dei sapienti”, magari lo stesso Cauchy. 

Accettato agli scritti dell’esame d’ammissione (20-25 agosto), Galois ottenne un buon risultato, grazie soprattutto al giudizio positivo dell’esaminatore di matematica, Charles-Antoine-François Leroy, professore anche all’Ecole polytechnique. Nel mese di novembre iniziò così a frequentare i corsi, anche se doveva ancora affrontare degli orali di controllo, quindi ottenere in dicembre il baccalaureato in lettere e quello in scienze. 

Malgrado le preoccupazioni famigliari e scolastiche, Galois non abbandonò completamente le sue ricerche. Fu peraltro nel corso del secondo semestre del 1829 che, grazie al Bulletin di Férussac, fu informato per la prima volta di certi lavori di Abel, di cui conobbe il nome poco prima di venir a conoscenza della sua morte prematura, avvenuta il 6 aprile 1829. Leggendo sul numero di luglio una relazione sulla Memoria di una classe particolare di equazioni risolvibili algebricamente, pubblicata da Abel in Germania sul Journal di Crelle, Galois vi riconobbe un’ispirazione molto vicina a quella delle sue ricerche e vi ritrovò, con una certa amarezza, alcuni dei risultati che egli aveva presentato come inediti nelle sue memorie del 25 maggio e 1 giugno. La lettura della relazione lo incoraggiò a procedere rapidamente con le proprie ricerche sulla teoria delle equazioni algebriche, tanto più che già incominciava a intravedere il metodo con il quale sarebbe giunto molto al di là dei risultati pubblicati da Abel. Sul numero di ottobre poté leggere una sintesi, dello stesso Abel, del Compendio di una teoria delle funzioni ellittiche, che dovette rivelargli una nuova e feconda via di ricerca, alla quale si interessò subito attivamente. Nello stesso numero poté leggere l’annuncio della morte di Abel e un ricordo redatto da Crelle, di cui certi dettagli lo commossero profondamente. 

Anche Cauchy lesse i lavori di Abel nello stesso periodo, apprezzandone l’importanza e il carattere assai innovativo. La relazione presentata da Poisson il 21 dicembre 1829 all’Accademia delle Scienze sulle ricerche di Jacobi e Abel riguardo alle funzioni ellittiche dovette rafforzare il suo interesse. Avendo constatato che la memoria di Abel sulle equazioni algebriche conteneva una buona parte dei risultati poi ottenuti da Galois, pensò fosse suo dovere tentare di attenuare la delusione di quest’ultimo incoraggiandolo a salvare la parte più originale del suo lavoro e a proseguire le ricerche. 

All'inizio del 1830 stese il suo rapporto sulle memorie di Galois, che doveva essere letto nella seduta del 18 gennaio, ma un’indisposizione gli impedì di presentarlo. Una lettera trovata negli archivi dell’Accademia delle Scienze mostra l’importanza che egli accordava al lavoro di Galois, al punto di porla sullo stesso piano della propria memoria Sulla determinazione analitica delle radici primitive. Ecco il documento, con l’evidente errore di data di Cauchy, ancora non avvezzo a indicare il nuovo anno 1830: 


“Proprio oggi avrei dovuto presentare all'Accademia prima un rapporto sul lavoro del giovane Galois e poi una mia memoria sulla determinazione analitica delle radici primitive nella quale dimostro come sia possibile ridurre tale determinazione alla risoluzione di equazioni numeriche dotate solo di radici intere e positive. Sono tuttavia a casa, indisposto. Sono dispiaciuto di non poter partecipare alla sessione odierna e vorrei pregarla di iscrivermi a parlare per la prossima sessione sui due argomenti indicati. La prego di accettare i miei omaggi...” 
Ad ogni modo, questa lettera prova anche un altro fatto fondamentale, e cioè che il 18 gennaio 1830 Cauchy possedeva ancora le due memorie di Galois e che aveva redatto una relazione su di esse. Essa contraddice l’affermazione, spesso ripetuta, secondo la quale egli avrebbe perso questi documenti. Torneremo su questa questione dopo aver visto il seguito di questo piccolo mistero. 

I resoconti della seduta successiva, tenutasi il 25 gennaio, testimoniano che Cauchy effettivamente presentò la sua memoria sulle radici primitive, ma non fece menzione della relazione sulle memorie di Galois. Inoltre non c’è traccia che lo abbia fatto nelle riunioni successive. Che cos'era successo? 

Il fatto che Galois non si sia mai lamentato della negligenza di Cauchy in questa circostanza, mentre poneva tutte le sue speranze in un giudizio favorevole dell’Accademia, sembra indicare che l’annullamento della relazione di Cauchy sia intervenuto con il suo accordo. Resta allora da spiegare questo brusco cambiamento di atteggiamento dei due principali attori di questa vicenda. L’esame delle poche informazioni disponibili permette di formulare un’ipotesi che sembra attendibile.

Innanzitutto è certo che nel febbraio 1830 Galois depositò al segretariato dell’Accademia un’importante memoria destinata a concorrere al Gran Premio di Matematica che doveva essere assegnato nel mese di giugno successivo. In secondo luogo, le memorie del 25 maggio e 1 giugno 1829 non sono minimamente menzionate nel “catalogo” delle sue opere che Galois aveva redatto in seguito, in vista di un progetto di pubblicazione: la più vecchia delle memorie citate è proprio quella preparata probabilmente in gennaio per partecipare al Gran Premio di Matematica. Infine, nonostante il Gran Premio fosse stato indetto da lungo tempo, fu solo nelle due riunioni del 18 e 25 gennaio 1830 che fu decisa la commissione che avrebbe dovuto assegnarlo, e Cauchy non vi faceva parte.

Separando il campo dei fatti da quello delle ipotesi, proviamo a collegare i vari elementi per cercare di capire che cosa fosse successo. Si può innanzitutto pensare che Cauchy, nella sua relazione, pur riconoscendo i meriti di Galois, non poteva fare a meno di dire che molti dei risultati presentati nelle due memorie erano già stati raggiunti da Abel. Sapendo inoltre che il giovane aveva proseguito le sue ricerche ed era giunto a nuovi importanti risultati, era normale che gli suggerisse di raccogliere le parti originali in una nuova sintesi. Il Gran Premio di Matematica offriva un eccellente pretesto, e c’era ancora tempo per redigere una nuova opera da presentare al concorso. Cauchy potrebbe aver pensato che la presentazione della relazione alla riunione dell’Accademia, con la segnalazione della priorità di Abel, poteva in qualche modo suscitare un’impressione negativa alla commissione giudicante. Era dunque meglio rinunciare a presentare memorie e relazione in quella seduta. 

Non è improbabile dunque che, tra il 18 e il 25 gennaio, Cauchy abbia persuaso Galois dell’inutilità della presentazione alla riunione delle sue memorie e gli abbia presentato l’opportunità di scrivere una nuova memoria originale sulla teoria delle equazioni algebriche per concorrere al Grand Premio. 

L’ipotesi, se non gode di prove dirette, è supportata tuttavia da una testimonianza quasi contemporanea. Si tratta di un articolo di autore anonimo pubblicato sul numero del 15 giugno 1831 del giornale sansimoniano Le Globe, in cui si chiedeva il rilascio di Galois che lo stesso giorno compariva davanti al tribunale in seguito alla vicenda del banchetto dei repubblicani tenuto presso il «Vendanges de Bourgogne», locale in cui il 9 maggio egli avrebbe brindato minacciosamente a Luigi Filippo con un pugnale in mano (Galois fu poi assolto). L’autore dell’articolo, che sembra informato di prima mano, traccia un quadro pertinente delle ricerche intraprese da Galois, delle sue eccezionali qualità, e delle delusioni che aveva patito. Parlando della sua candidatura al Grand Prix del 1830, il testimone ricorda l’incoraggiamento ricevuto da Cauchy: 
“L’anno scorso, prima del 1 marzo, il signor Galois consegnò al segretariato dell’Istituto una memoria sulla risoluzione delle equazioni numeriche. Questa memoria doveva partecipare al Gran Premio di Matematica. Ne era degna, poiché superava qualche difficoltà che Lagrange non era stato in grado di risolvere. Il signor Cauchy a questo proposito si era prodigato in grandi elogi a Vauteur. Che cosa è successo? La memoria è andata perduta, e il premio viene assegnato senza che il giovane studioso sia figurato al concorso...” 
Prima di affrontare i fatti ricordati nell'ultima frase riportata, dobbiamo constatare, per concludere sulle memorie del 1829, che, se Galois non poté recuperare i manoscritti, non fu perché Cauchy li aveva perduti, ma perché furono dimenticati nel segretariato dell’Accademia. Benché questo fatto sia stato deplorevole, non può essere interpretato come un esempio delle “persecuzioni” che il giovane matematico avrebbe subito da parte dei suoi colleghi più anziani, in particolare da Cauchy. 

Torniamo ai fatti. Nei primi mesi del 1830 Galois era impegnato con i corsi dell’Ècole preparatoire: calcolo differenziale e integrale, fisica, astronomia, botanica. Contemporaneamente, e si potrebbe dire prioritariamente, continuava le sue ricerche matematiche. Conclusa la memoria con la quale voleva partecipare al Grand Prix, di cui fornì una breve presentazione sul Bulletin di Ferussac, preparò per la stessa rivista una breve nota sulla risoluzione delle equazioni numeriche e una memoria, molto più importante, nella quale introduceva gli “immaginari di Galois”. Questi due testi sarebbero stati pubblicati nel numero di luglio. La parte principale del lavoro di Galois sulle equazioni (la teoria di Galois) si può quindi considerare pronta a metà del 1830, il che sfata un altro dei miti che circondano la stessa a figura, cioè che egli abbia gettato le basi della teoria nella febbrile veglia notturna precedente il duello in cui venne ucciso.

Le speranze che Galois riponeva nel concorso per il Gran Premio dell’Accademia dovevano purtroppo essere bel presto crudelmente deluse. Se egli visse come un’ingiustizia il fatto che il 28 giugno il premio fosse stato attribuito ad Abel (alla memoria) e a Jacobi, certo si comprende ancor più facilmente il risentimento alla notizia che il suo manoscritto era andato perduto ancor prima di essere esaminato. Alle giuste rimostranze di Galois, la risposta di Cuvier, e cioé che la memoria era stata persa per la morte di Fourier che doveva esaminarla, esasperò ulteriormente il giovane matematico, già convinto di essere perseguitato dalla malasorte e dai rappresentanti della scienza ufficiale, espressione del regime monarchico. Cauchy, come si é detto, non faceva parte del collegio dei giurati, che comprendeva, oltre a Fourier, morto in aprile, Legendre, Lacroix, Poinsot e Poisson. 

Le vicende del Galois matematico si intrecciarono sempre più con il suo impegno politico. Alla fine del mese successivo cercò di partecipare alle “Tre Gloriose”, la rivoluzione delle giornate del 27, 28 e 29 luglio 1830 che depose l’odiato Carlo X Borbone e insediò Luigi Filippo d’Orleans (con il malcontento dei repubblicani), ma gli studenti dell’École Normale, tra cui lui, furono chiusi dentro l’edificio dal direttore, Guigniault. La successiva polemica di Galois contro il direttore gli costò l’espulsione dalla scuola, decretata il 4 gennaio 1831. 

Intanto, anche se oramai l’interesse principale dello sfortunato giovane sembra fosse diventato la politica, Galois inviò, su invito di Poisson. una terza versione all'Accademia della sua famosa memoria, intitolata Memoria sulle condizioni di risolvibilità delle equazioni mediante radicali, presentata all'Accademia il 17 gennaio successivo. 

L’ultimo anno della biografia di Galois ha poco di matematico, ma ha contribuito in gran parte a edificarne la leggenda. Liberato dopo l’episodio del brindisi minaccioso al nuovo re, egli fu di nuovo arrestato nel luglio 1831 perché si aggirava durante dei moti di piazza armato e vestito con l’uniforme della Guardia Nazionale, vietata in quanto utilizzata dai repubblicani e ritenuta provocatoria dal nuovo regime. Concluso il processo, il 23 ottobre Galois fu condannato a sei mesi di reclusione, che scontò nel carcere di S. Pelagia, dove tentò anche il suicidio e ebbe l’ulteriore dolore di ricevere dal segretario dell’Accademia, François Arago, il rapporto sulla sua ultima memoria che veniva nuovamente respinta: 
"Caro sig. Galois,
il vostro lavoro fu inviato al sig. Poisson per un parere. Egli lo ha restituito allegando un rapporto che qui cito:
“Abbiamo fatto ogni sforzo per capire le dimostrazioni del sig. Galois. I suoi argomenti non sono né abbastanza chiari né sufficientemente sviluppati per permetterci di giudicarne il rigore; non ci é stato nemmeno possibile farci un’idea sul lavoro.
L’autore afferma che le proposizioni contenute nel manoscritto sono parte di una teoria generale ricca di applicazioni. Spesso parti diverse di una teoria si chiariscono a vicenda e possono essere comprese più facilmente quando sono considerate insieme piuttosto che isolate una dall'altra. Per formarsi un’opinione bisogna quindi attendere che l’autore pubblichi un resoconto più completo di questo lavoro”
Per questo motivo, vi restituiamo il manoscritto con la speranza che possiate trovare utili per il lavoro futuro le osservazioni del sig. Poisson". 
Insomma, Poisson non aveva capito granché oppure, pressato dalle richieste di pareri accademici, aveva dato alla memoria solo un'occhiata distratta. Ci si può chiedere quale sarebbe stato il giudizio di Cauchy, che, monarchico convinto, si era rifiutato di giurare fedeltà al nuovo regime e aveva abbandonato la Francia in volontario esilio, trasferendosi prima a Friburgo, poi a Torino, dove si trovava in quei mesi, poi a Praga, e non sarebbe ritornato che nel 1838. Da Galois lo separava un abisso sul piano politico, ma forse era l’unico in grado di apprezzare l’approccio totalmente innovativo del matematico ventenne. 

Galois, d’altra parte, non pare che avesse sperato molto nel suo appoggio, e portava un certo risentimento anche nei suoi confronti. Anche se non citava Cauchy esplicitamente, i violenti attacchi rivolti contro i membri dell’Accademia, contenuti nella Prefazione che scrisse nel dicembre 1831, in vista di un progetto di pubblicazione delle sue memorie principali, paiono includerlo tra i responsabili della sua rovina. Non si può escludere che queste accuse siano all'origine del fatto che Cauchy, ritornato in Francia, neanche dopo la pubblicazione dei lavori di Galois nel 1846 nel Journal di Liouville fece mai più cenno, neanche indiretto, alla sua persona e alle sue opere. 


È facile comprendere come l’esito del rapporto su Galois fu quello di un ulteriore inasprimento verso il mondo accademico. Trasferito da Santa Pelagia per un’epidemia di colera, Galois fu liberato il 29 aprile ma un mese più tardi, il 30 maggio, fu ferito mortalmente in un misterioso duello del quale mi sono precedentemente occupato in un articolo, al quale rimando. 

Moriva così, non ancora ventunenne, uno dei più grandi geni matematici dell’Ottocento, creatore di una nuova branca della disciplina, ma ricordato soprattutto per la romantica biografia e, di certo, non aiutato dalla buona sorte.

mercoledì 31 agosto 2016

Sulle proprietà aerodinamiche dell’addizione


In tutti i tentativi di dimostrare che 2 + 2 = 4 non si é mai tenuto conto della velocità del vento.

L’addizione di interi è in effetti possibile solo in condizioni meteorologiche sufficientemente stabili, in modo che il primo 2, una volta che è stato collocato, resti al suo posto fino a quando sia collocata la crocetta, poi il secondo 2, poi il piccolo muro sul quale sedersi e contemplare e, finalmente, il risultato. Fatto ciò, il vento può soffiare, ma due e due sono diventati quattro. 

Ma, non appena il vento si alza, il primo numero cade a terra. E, si provi a osservare, lo stesso succede al secondo. Qual è allora il risultato di:


La matematica attuale non è in grado di fornire una risposta. 

Ora, se il vento infuriava, il primo numero sarebbe volato via, poi la crocetta, e così via. Ma supponiamo che sia calato dopo la crocetta, allora ci troveremmo di fronte all’assurdità 2 = 4. Il vento non soffia solo fino a un certo punto, esso soffia dappertutto. Il numero uno, un numero particolarmente leggero, per il quale un refolo è già abbastanza per spostarlo, può allora capitare in un calcolo al quale non appartiene, anche contro il volere della persona che sta facendo l’operazione. Ciò fu previsto dal matematico russo Dostoievski quando osò dire di avere una debolezza per 2 + 2 = 5. 

Le regole della notazione decimale provano anche che gli Indiani devono aver affrontato il nostro assioma più o meno coscientemente. Lo zero rotola via abbastanza facilmente, è sensibile al soffio più leggero. Ecco perché non viene preso in considerazione quando si trova a sinistra di un numero: 02 = 2, poiché lo zero vola via sempre prima della fine del calcolo. Ha senso solo sulla destra. Perché lì i numeri precedenti possono tenerlo al suo posto e impedire che voli via. Così 20 = 2, almeno finché il vento non superi la velocità di diversi metri al secondo. 

Trarremo ora da queste osservazioni alcune conclusioni pratiche: non appena si sappia in anticipo che il tempo peggiora, è buona cosa dare alla propria addizione una forma aerodinamica. È altresì consigliato scriverla da destra a sinistra, così come il iniziare il più possibile vicino al centro del pezzo di carta. Quando il vento fa slittare un calcolo in esecuzione, si può quasi sempre afferrarlo prima che raggiunga il margine. Utilizzando questo metodo sarà sempre possibile, anche durante una tempesta equinoziale, ottenere risultati come il seguente:



Raymond Queneau 
Membro del Corpo dei Satrapi del Collège de 'Pataphysique 
Membro della Société Mathématique de France

(da Contes et propos, 1981, miscellanea pubblicata dopo la morte di Queneau (in it. Racconti e ragionamenti, Il melangolo, 1993), ma contenente testi, come questo, anteriori alla fondazione dell'Oulipo nel 1960).

martedì 16 agosto 2016

Giovanni Plana, parabola di un matematico


Alla Scuola Centrale di Grenoble, negli anni finali del ‘700, Henri Beyle, il futuro Stendhal, alla giovanile passione matematica del quale ho dedicato il precedente articolo, incontra un giovane italiano di idee democratiche come le sue, con il quale stringe amicizia e scambierà una regolare corrispondenza negli anni successivi. Si tratta di Giovanni Plana (1781-1864), nato a Voghera da una famiglia di agiati proprietari terrieri, che, a quattordici anni, aveva piantato un Albero della Libertà nel cortile della scuola Sant’Agata della cittadina natale, inducendo i genitori a mandarlo a studiare dagli zii, che da tempo risiedevano a Grenoble, in una sorta di precoce esilio politico.

Plana è un giovane di talento e dimostra la sua abilità eccellendo nei corsi che frequenta, soprattutto in matematica (nelle Scuole Centrali istituite dalla Convenzione per “formare la nuova generazione alle virtù repubblicane” si potevano scegliere i corsi da frequentare e non esisteva un piano di studi vincolante), L’adolescente italiano resta a Grenoble per tre anni, studiando dal secondo anno aritmetica, geometria piana, algebra e trigonometria e, in quello successivo, geometria dello spazio, elementi di calcolo differenziale e integrale, con particolare riguardo alle applicazioni. Nel 1796 vince il primo premio di Disegno, nel 1797 i tre primi premi di Lettere, Matematica, Disegno, nel 1798 il primo premio di Matematica. Stendhal, in una lettera alla sorella Pauline, scrive: «Plana, se niente lo distoglie, sarà un grande entro dieci anni; sono felice di essere un suo amico intimo».

Al termine dei corsi, Plana partecipa al concorso d’ammissione all’École Polytechnique di Parigi, che si svolge a Lione nell’autunno 1800, risultando nono su 74 candidati. La selezione è basata solamente sulla preparazione matematica e valuta le qualità civiche e patriottiche del candidato. Per questo motivo chiede l’attestazione di buona condotta e di fedeltà repubblicana, che gli viene rilasciata con queste parole:
«Il prefetto del dipartimento dell’Isére, viste le attestazioni chi gli sono state fornite dalle autorità costituite di Grenoble, certifica che: il citato Jean-Antoine-Amédée Plana, allievo della École Centrale di questo dipartimento, nato a Voghera in Piemonte, risiede a Grenoble dal 1790 (sic) presso suo zio, che vi risiede da 29 anni e che vi si è stabilito da 22; che si è iscritto al registro della guardia nazionale; che ha compiuto tutti i doveri di cittadino francese compatibili con la sua età, e che ha costantemente dato prova della sua fedeltà al governo repubblicano».
La Scuola Politecnica è basata su tre anni di corso. Il programma è così costituito:
• Primo anno: analisi e sue applicazioni alla geometria a tre dimensioni, geometria descrittiva, stereotomia, elementi di chimica, fisica generale e disegno;
• Secondo anno: applicazioni dell’analisi alla meccanica e all’idrodinamica, applicazioni della geometria descrittiva ai servizi pubblici, in particolare all’architettura, fisica generale, chimica e disegno;
• Terzo anno: applicazioni dell’analisi alle macchine, fortificazioni, fisica, chimica e disegno.

Il metodo didattico adottato è quello dell’alternanza di lezioni teoriche con quelle pratiche, con l’uso di laboratori scientifici; sono previste ripetizioni e spiegazioni delle lezioni effettuate da allievi del terzo anno, scelti fra i migliori. I docenti sono i più grandi matematici e scienziati dell’epoca, tra i quali Monge, Lagrange, Laplace, Poisson e Fourier.


All’École Polytechnique Plana è fortemente influenzato da Lagrange, insegnante di analisi, anch’egli di nascita italiana, con il quale entrerà in confidenza. Apprende poi la meccanica celeste da Lagrange e Laplace. Il suo interesse per la matematica e l’astronomia e la competenza dimostrata colpiscono favorevolmente i suoi insegnanti. Conclusi gli studi, nel 1803, Fourier gli scrive l’11 marzo:
«Il cittadino Dupuy, professore di matematica alla Scuola Centrale, mi ha informato, cittadino, del desiderio di vedervi al posto di Professore della Scuola di Artiglieria di Grenoble. Io condivido a questo riguardo le opinioni di questo stimato professore».
È interessante notare che il posto gli venga offerto da un suo vecchio professore di Grenoble, segno indubbio di stima, ma Sebastien Henri Dupuy de Bordes è quello stesso insegnante che Stendhal definirà come «il nostro enfatico professore […] quest’uomo così vuoto […] questo grande Dupuy ci spiegava le proposizioni come una serie di ricette per fare l’aceto». Sia come sia, Plana rifiuta la proposta di Fourier.

Fourier non demorde, e preme affinché Plana ottenga la cattedra alla Scuola di Artiglieria di Torino e Alessandria. Il 19 marzo 1803 Plana è nominato professore di matematica e può tornare in Italia o, meglio, in Piemonte che, nel 1805, diventerà una provincia francese fino al crollo di Napoleone. Intanto l’applicazione della matematica all'astronomia lo appassiona sempre più. Così scrive a Stendhal nel 1804:
«Per parlarti ora della vita che conduco a Torino, ti dirò che è assai monotona; non frequento la società perché per carattere preferisco la solitudine alla compagnia di quelle persone con le quali ci si può intrattenere solamente sulla pioggia o il bel tempo, e d’altra parte so che ho molto da fare per perfezionarmi in una scienza di cui sono sempre più innamorato mano mano che procedo... Vedi dunque, mio adorato amico [in italiano nel testo, NdR], che la mia vita trascorre a leggere poco e a meditare molto».
Nel novembre 1805 Plana è convinto di ottenere la cattedra preferita, ma la direzione dell’Osservatorio astronomico è assegnata ad Anton Maria Vassalli Eandi, docente di fisica all’Università di Torino, e la cattedra di astronomia va a un certo Blanquet-Duchayla, privo di meriti scientifici. Nel 1806 Stendhal testimonia che: «Plana ha appena visto dare a un altro il posto che sperava. Sembrerebbe che si consoli di ciò quasi interamente con il lavoro».

A Torino in effetti Plana incomincia la sua attività scientifica vera e propria, che sarà prolifica al punto che in tutta la vita produrrà più di 800 tra articoli, saggi e monografie. Tra il 1809 e il 1810 scrive una Mémoire sur l’intégration des équations lineaires aux différences partielles du second [sic] et du troisième ordre, in cui perfeziona il metodo di Laplace per studiare un’equazione lineare alle derivate parziali in tre variabili del secondo ordine in modo diverso, più semplice e diretto, e con risultati equivalenti a quelli ottenuti da Legendre; poi Equation de la courbe formée par une lame élastique, quelle que soient les forces qui agissent sur cette lame e, in cui generalizza un problema di statica già trattato da Eulero, Legendre e Lagrange, e Sulla teoria dell’attrazione degli sferoidi ellittici, un problema di interesse astronomico che riprende la teoria di Laplace. Questo argomento otterrà l’attenzione di Gauss e Jacobi.

Tutte le tre opere sono pubblicate nel 1811, anno in cui Lagrange lo raccomanda per la cattedra di Astronomia a Torino e Plana finalmente ottiene il posto ambito, che forse avrebbe meritato già in precedenza. Egli resterà nel capoluogo piemontese per il resto della propria vita, insegnando astronomia all’università e matematica alla scuola di artiglieria. Nello stesso anno diventa socio dell’Accademia delle Scienze di Torino.

I suoi interessi sono molteplici, e comprendono Analisi matematica (integrali di Eulero, funzioni ellittiche), fisica matematica (riscaldamento di una sfera, Induzione elettrostatica), geodesia (estensione di un arco di latitudine dall’Austria alla Francia), oltre naturalmente alla meccanica celeste (soprattutto la teoria dei movimenti lunari).

Tra il 1810 e l’anno successivo frequenta l'Osservatorio di Brera a Milano, diretto da Barnaba Oriani, che lo invita a collaborare con Francesco Carlini per effettuare misure geodetiche ed elaborare una teoria del moto della luna basandosi sulle equazioni dei moti celesti elaborate da Laplace. Nel marzo 1813, l’anno in cui muore Lagrange, è finalmente nominato direttore dell’Osservatorio di Torino.

Ma le grandi tempeste della storia si abbattono di nuovo sull’Europa, sul Piemonte e sulla vita di Giovanni Plana: sconfitto sul suolo francese, Napoleone Bonaparte il 6 aprile 1814 abdica da imperatore e si consegna alle forze nemiche, che lo mandano in esilio sull’isola d’Elba. Il 20 maggio Vittorio Emanuele I ritorna a Torino: è la Restaurazione, sancita quasi subito dal Congresso di Vienna e poco scossa dall’effimero tentativo di rivalsa napoleonica durato cento giorni e conclusosi a Waterloo il 18 giugno 1815. 


La cattedra di Astronomia, ricoperta da Plana, viene soppressa perché istituita dai francesi. Inoltre la mentalità bigotta dei nuovi padroni d’Europa è malfidente verso le scienze. Plana viene allontanato dall’Accademia e dall’Università, ma per fortuna è immediatamente rinominato: nel dicembre del 1814 ottiene la cattedra di Analisi infinitesimale presso l'Università di Torino e nel 1816, è nominato professore di Meccanica razionale nella ripristinata Accademia Militare, dove ha tra gli allievi anche Camillo Benso di Cavour, al quale predice una luminosa carriera qualora voglia proseguire gli studi matematici. Nel 1817 è nominato astronomo reale e sposa Alessandra Maria Lagrange, figlia del fratello minore del matematico suo insegnante e mentore dai tempi di Parigi. Dal matrimonio nascono due figli, Sofia (1818) e Luigi (1825). 

Passato anche questo accidente, incomincia il periodo più fecondo dal punto di vista scientifico. Carlini e Plana procedono nella loro opera, intesa a continuare la teoria lunare di Laplace, consci dell’Importanza di giungere ad una soluzione completa e soddisfacente per il moto lunare, sia per ragioni puramente teoriche, sia per questioni pratiche legate al calcolo delle eclissi, alla navigazione e alla predizione dei flussi e riflussi delle maree. 

Nel 1818, Laplace decide di stimolare gli studi sul moto della Luna. Così propone all’Accademia delle Scienze di Parigi di istituire un premio da assegnare nel 1820 a chiunque fosse riuscito a costruire tavole lunari basate solamente sulla legge di gravitazione universale. 

Lavorando sulla teoria della Luna e rivedendo l’opera di Laplace, Plana si toglie la soddisfazione nelle sue lettere a Carlini di criticare alcune espressioni analitiche e certi punti procedurali di Laplace. Purtroppo ci sono giunte solo poche risposte di Carlini, pertanto non sappiamo come egli reagì alle opinioni severe espresse da Plana. Ad ogni modo è chiaro che i due avevano caratteri diversi: più impetuoso e permaloso Plana, più pensieroso e posato Carlini. 

Entrambi decidono, con qualche dubbio, di competere per il premio dell’Accademia francese, anche se temono che Laplace possa in qualche modo favorire Damoiseau, impegnato nello stesso tipo di impresa, o qualche altro studioso francese. 

Non c'è molto tempo per redigere l’articolo e inviarlo a Parigi, poiché il testo deve pervenire all’Accademia entro il primo gennaio 1820. Plana teme di non riuscire a essere pronto e, nell’agosto del 1819, scrive allarmato a Carlini: «Ho letto sul giornale di fisica che un articolo per il premio è già stato presentato». Alla fine, dopo qualche ritardo, l’articolo, che più tardi Carlini avrebbe definito un semplice sommario dei loro risultati, è inviato da Torino il 18 dicembre e arriva appena in tempo presso la segreteria del premio. Plana e Carlini presentano una soluzione basata sul metodo di Laplace, ma con sviluppi in serie di ordine superiore per tener conto della forma della Terra e della presenza del Sole, Giove e degli altri pianeti.

Nei primi mesi del 1820 i due continuano a lavorare e a modificare dove necessario la loro teoria della Luna: in particolare preparano il supplemento alla memoria con la quale sono in gara, che inviano successivamente. Il 17 marzo Plana riceve una lettera da Poisson datata ad otto giorni prima, nella quale il francese lo informa che il giorno precedente l’Accademia ha deciso di assegnare a lui e Carlini il premio per la teoria della Luna. Poisson dice anche che un premio dello stesso importo è stato assegnato a Damoiseau per il suo articolo e, nel post-scriptum, lo avvisa che Laplace ha qualche commento da fare sul loro lavoro. 

Plana spera che l’assegnazione del premio sia seguita da un commento che sottolinei la qualità innovativa del lavoro svolto e riconosca il suo potenziale di perfezionare la teoria esistente. Tuttavia si sbaglia, e una lettera di Laplace del 31 marzo dimostra che le sue speranze sono vane. Laplace, dopo le congratulazioni di rito, sostiene di voler fare alcune osservazioni che sente doverose sul lavoro dei due italiani.

Ci sono, dice, alcune differenze sostanziali tra i loro risultati e quelli di Damoiseau riguardo le ineguaglianze secolari dei pianeti maggiori, specialmente quelle del perigeo. Mentre Damoiseau, che ha seguito il metodo impiegato nella Meccanica Celeste, limitandosi a espandere ulteriormente le approssimazioni, ha conseguito risultati che gli sembrano “degni di fede”, egli non si sente di dir nulla sul metodo seguito da Carlini e Plana, che ha condotto «a serie piuttosto complicate e convergenti lentamente». Egli riconosce tuttavia che il loro lavoro è stato accurato. Per quanto riguarda il supplemento presentato successivamente, ritiene che l’analisi contenuta sulle ineguaglianze di lungo termine dovute alla forma della Terra sia incompleta. Qualche giorno più tardi la segreteria parigina comunica ufficialmente la vittoria del premio. 

Nei giorni successivi, Carlini e Piana possono leggere l’articolo che Laplace ha consegnato al Bureau des Longitudes il 29 marzo, un giudizio assai indelicato nei loro confronti. Il tono dell’articolo è davvero sgradevole: 
«Pertanto invito i geometri e gli astronomi che lavorano su questa teoria a seguire il metodo che ho esposto [nella Meccanica Celeste] e a confrontare i loro calcoli con quelli del testo [di Damoiseau] quando sarà pubblicato». 
Non sorprende che l’orgoglioso Plana sia molto irritato dalle critiche di Laplace. Ci sono molti motivi per la sua rabbia. Egli accusa Laplace di mancanza di delicatezza nel criticare pubblicamente un lavoro che non è ancora stato pubblicato: si tratta di un’ostilità preconcetta per le idee diverse dalle sue, oltre che di un pregiudizio in favore dei suoi seguaci e connazionali. 

Le accuse di Plana non sono ingiustificate, e trovano Carlini completamente d’accordo. Tuttavia questi cerca di moderare il risentimento del suo collega. La cosa che dà più fastidio è la riluttanza dell’Accademia parigina a pubblicare le opere che hanno vinto il premio (solo nel 1827 l’istituzione pubblicherà quella di Damoiseau, mentre quella di Plana e Carlini non sarà mai data alle stampe).

Dopo aver invano atteso che Laplace risponda pubblicamente alle loro obiezioni, i due si decidono a inviare una nota, ferma ma cortese, alla rivista specialistica internazionale Correspondance astronomique del barone von Zach, che viene pubblicata nel luglio 1820, con una prefazione di sostegno dello stesso editore, assai influente presso gli astronomi tedeschi. Nella nota, i due forniscono dettagliate risposte alle osservazioni di Laplace, del quale hanno assunto le stesse condizioni preliminari (la Luna compie un moto ellittico intorno alla Terra perturbato dalla massa del Sole, le leggi di gravitazione di Newton sono perfettamente valide, la velocità orbitale della Luna non è rallentata dall’attrito con l’etere, l’effetto delle masse interagenti si può considerare istantaneo). 

La differenza sostanziale consiste nel fatto che essi adottano un metodo diverso di integrazione, che essi praticano per successive approssimazioni, mentre il francese aveva adottato coefficienti indeterminati che lo costringevano a sostituire di volta in volta i coefficienti numerici ottenuti dall’osservazione. Plana mostra che quei coefficienti possono essere espressi in serie letterali di potenze di alcune costanti, in particolare l’eccentricità delle orbite solare (apparente) e lunare, la tangente dell’inclinazione dell’orbita lunare sul piano dell’eclittica, il rapporto tra il movimento medio della Terra e della Luna e il rapporto tra la distanze Terra–Luna e Terra–Sole. Così Plana e Carlini possono determinare più elegantemente i coefficienti attraverso una serie di funzioni esplicite del moto lunare e solare, senza usare valori numerici. 

Nel frattempo la storia torna a bussare alla porta del nostro protagonista. Nel luglio del 1820 Stendhal riceve da Plana una lettera in cui gli si dice che i liberali milanesi sospettano che sia una spia degli austriaci. Per Stendhal è un colpo inatteso, che lo induce a lasciare Milano: «senza i torbidi e la carboneria non sarei mai rientrato in Francia», scriverà anni dopo. La lettera segna la fine dell’amicizia, ormai minata da sospetti e accuse. A partire da quell’episodio, il nome di Plana scompare dalla corrispondenza dello scrittore. Durante la reazione seguita ai moti rivoluzionari del 1821, Plana viene accusato dalla “Commissione Superiore di Scruttinio” con un altro docente “di principii totalmente avversi al legittimo Regio Governo”, ma riesce ad evitare sanzioni per le seguenti motivazioni: 
«Li professori controscritti non potendo avere che pochissima influenza sulla gioventù, tanto per la natura dei trattati che dettano, quanto per il piccolo numero di persone intervenienti alla loro scuola; e trattandosi altronde di persone di non ordinario ingegno, la Giunta è in senso che siano mantenuti, ma che si faccia loro sentire che il Governo non ignora la loro maniera di pensare che altamente disapprova come contraria alla qualità ed ai doveri di buon suddito e che spera che la loro regolare condotta all'avvenire lo dispenserà dal prendere la menoma dispiacevole misura a loro riguardo».
L’episodio, frutto più dell’attività di sbirri zelanti che da un effettivo coinvolgimento del Plana, è presto dimenticato. Forse si tiene anche conto dei suoi ottimi rapporti personali con Vittorio Emanuele I, appassionato di astronomia. Nel 1821 Plana pubblica Sur une novelle expression analityque des nombres Bernoulliens, propre à exprimer en terms finis la formule générale pour la sommation des suites, in cui esprime i numeri di Bernoulli di indice pari mediante integrali definiti e elabora una formula per la differenza tra una somma discreta e l’integrale corrispondente, ora nota come formula di Abel-Plana (ma Abel la formulerà tre anni dopo). Inoltre, nel 1822, egli, con l’approvazione reale, trasferisce i pochi strumenti dell’osservatorio dal Palazzo dell'Accademia delle scienze di Torino in una delle quattro torri di Palazzo Madama, aggiungendone altri più evoluti e dando inizio a un'attività osservativa sistematica. Si tratta della vera rinascita dell’Osservatorio torinese, che rimarrà in quella sede centrale fino al 1912.

Nel 1821 intraprende con il Carlini degli studi di geodesia che, entro il 1825, gli consentiranno di realizzare la triangolazione della Savoia e del Piemonte e di determinare il “parallelo medio” che attraversa Francia e Italia. I risultati sono sintetizzati in due grossi volumi, le Operations geodesiques et astronomiques, 1825-1827. In riconoscimento del lavoro svolto, nel 1828 a Plana e Carlini è conferito il premio Lalande della Académie des Sciences. Plana ottiene anche la Croce di Ferro dal governo austriaco. 

Alla fine del 1823 Plana e Carlini sono rassicurati dai rispettivi governi (Piemonte e Lombardo-Veneto) che avranno i fondi per pubblicare la loro memoria sul moto lunare: una somma ingente, dato che si tratta di tre volumi. Tuttavia cominciano a manifestarsi differenze di opinioni tra i due sul vero scopo del loro lavoro. Carlini è dell’idea di rivedere l’opera così come era stato concepita, correggendo gli eventuali errori di calcolo, e di fornire una serie di tavole lunari corrette ad uso degli astronomi. L’idea di Plana è molto più ambiziosa: rivedere il lavoro in modo da costruire una nuova teoria della Luna che possa risolvere in ogni dettaglio analitico le incongruenze logiche e le approssimazioni che erano talvolta emerse nell’opera di Laplace. Proseguendo il lavoro, egli lo vuol trasformare in un trattato di matematica applicata al problema generale dei tre corpi. Alla fine i due si rendono conto della inevitabile fine della loro collaborazione. Carlini compilerà le sue tavole lunari, mai pubblicate ma utilizzate a Brera fino al 1862, mentre Plana proseguirà da solo, fino a pubblicare nel 1832 a Torino i tre massicci volumi della Théorie du mouvement de la lune, opera premiata dalla Società astronomica di Londra per il suo approccio innovativo.


L’attività matematica e astronomica di Plana comincia a essere riconosciuta: nel 1827 diventa Astronomo Reale e socio della Royal Society, nel 1831 viene nominato cavaliere di Casa Savoia. 

Nello stesso anno, per uno strano scherzo della storia, la strada del liberale Plana, colui che poco più che bambino aveva piantato l’Albero della Libertà rivoluzionario, si incrocia con quella del più reazionario dei matematici francesi, e forse europei: Augustin-Louis Cauchy, uno dei padri dell’analisi matematica, esule a Torino, colui che un incredulo Niels Abel aveva definito un "cattolico fanatico” , aggiungendo che "era pazzo e non c'era nulla da fare per lui", ma allo stesso tempo aveva riconosciuto come "il solo che sappia come si fa la matematica"

Nei tre giorni finali del luglio 1830, i moti di rivolta contro il potere assoluto dell’ultimo re borbonico Carlo X, costretto all’esilio, portano sul trono francese Filippo d’Orleans. A questa rivolta parteciperebbe, se non fosse rinchiuso nelle mura della Ècole Normale, anche uno dei più grandi geni matematici dell’epoca, Èvariste Galois, repubblicano convinto, che morirà non ancora ventunenne in un duello alla fine di maggio del 1832. Il bigotto Cauchy, invece, vede il suo mondo crollare, e decide di lasciare le sue cariche d’insegnamento e di seguire il suo re nell’esilio. 

Dopo un breve soggiorno in Svizzera, dove pensa inizialmente di fondare a Friburgo un’accademia scientifica e religiosa, Cauchy accetta l’invito (suggerito dai Gesuiti) del re piemontese Carlo Alberto di venire a insegnare a Torino, dove lo attende la cattedra di Fisica Sublime (teorica) istituita apposta per lui. 

Cauchy si è, per così dire, fatto precedere dalla pubblicazione di un lungo articolo in tre parti in italiano, intitolato Sui metodi analitici, pubblicati nell’inverno 1830-31 dalla Biblioteca italiana di Milano. In questi tre articoli presenta un’introduzione ai metodi dei suoi corsi all’École Polytechnique di Parigi. Il motivo principale di queste pubblicazioni è una recensione, comparsa sulla stessa rivista milanese, del matematico Giuseppe Cossa, che aveva preso in esame i suoi Exercises de Mathématiques e aveva criticato l’eccesso di numeri a scapito delle parole e la “soverchia concisione” delle spiegazioni. Nella sua risposta, il francese vuole dimostrare che cosa significhi il suo “bisogno di rigore” e spiega anche che il suo testo aveva un carattere di supporto alle sue lezioni. Critica poi apertamente l’indeterminatezza dei metodi lagrangiani di calcolo e spiega come il suo rigore si rifletta su concetti fondamentali come quelli di derivata, integrale, integrazione delle equazioni differenziali. Ma il tono è risentito e pedante e genera una reazione ostile tra molti matematici italiani, ancora legati al vecchio approccio lagrangiano al Calculus. Solo il nobile e benestante Gabrio Piola, matematico per diletto, di sentimenti politici e religiosi affini al francese, prende subito posizione a favore di Cauchy, diventandone poi il profeta in Italia (e i reazionari in politica saranno in questo caso i più innovativi in campo matematico).


Cauchy arriva a Torino nella tarda estate del 1831, e il suo interlocutore privilegiato non può essere che Plana, anch’egli dotato, come si è visto, di un carattere per nulla incline ai compromessi. Nelle loro conversazioni, Cauchy gli rimprovera l’utilizzo di metodi di calcolo astronomici che portano a calcoli pedestri e complessi, che egli si propone di semplificare. 

Per questo motivo Cauchy scrive una Mémoire sur la mécanique céleste et sur un nouveau calcul appelé calcul des limites, che consegna all’Accademia delle Scienze ancor prima di iniziare a insegnare. Nel testo, datato 15 ottobre, poi pubblicato litografato, dichiara che i suoi metodi sono necessari per contribuire a ridurre le fatiche degli astronomi «quando sapranno che sono giunto a stabilire, sullo sviluppo delle funzioni, (…) principi generali e di facile applicazione, mediante i quali si può non solo dimostrare con rigore le formule e indicare le condizioni della loro esistenza, ma fissare inoltre i limiti degli errori che si commettono trascurando i resti che devono completare le serie». Egli inoltre presenta la prima versione della sua celebre “formula integrale”: una funzione complessa può essere rappresentata in qualche dominio da una serie convergente di potenze. Il teorema mette in relazione il valore di una funzione olomorfa in un punto con un integrale di linea lungo una curva semplice chiusa.

Plana si sente attaccato in prima persona, ma rimane legato all’analisi della sua giovinezza. Non ama i nuovi metodi. Sulle idee di Cauchy commenta “Io guardo ai numeri”, e vede nella “nuova analisi ipertrascendente” solo una confusione di formule sempre più astratte e inapplicabili man mano che passano gli anni. 

Nella capitale piemontese intanto Cauchy pubblica i Résumés analytiques, continuazione degli Exercises forzatamente interrotti per l’esilio, in cui raccoglie le sue lezioni. Egli partecipa anche alla vita politica, dato che il suo nome compare in alcune note sui gruppi di fuoriusciti francesi ultrareazionari che si leggono nei diari del giovane Camillo di Cavour. Nel 1833 tuttavia lascia Torino, chiamato a Praga da Carlo X che lo vuole come precettore scientifico del figlio. 

Nonostante l’ingombrante presenza di Cauchy, Giovanni Plana trova il modo di farsi ancora apprezzare. Tra il 1831 e il 1835 costruisce presso la sagrestia della cappella dei Mercanti di Torino il Calendario Meccanico Universale, tuttora esistente, che permette, scegliendo un giorno, un mese e un anno qualunque (dall'anno 1 all'anno 4000) di identificare il giorno della settimana corrispondente, le festività fisse e mobili (tra cui la data della Pasqua), i cicli lunari e le maree relativi a quell'anno. Lo strumento, assai raffinato, è composto da memorie a tamburo, a disco e nastro, con mezzi di accesso e di lettura azionati da ruote dentate, catene e viti, un vero e antesignano meccanico del computer. Per realizzare quest’opera, Plana deve superare diverse difficoltà astronomico-matematiche e tecnico-pratiche. Tra le numerose variabili che deve considerare ci sono il passaggio dal calendario giuliano a quello gregoriano, gli anni bisestili, il calcolo della durata esatta del giorno, del mese lunare, dell’anno solare. Di sicuro Plana farà vedere il suo meccanismo a Charles Babbage, quando questi verrà a Torino nel 1841 in occasione della sua nomina a socio dell’Accademia delle Scienze piemontese.



Dagli anni ’30 Plana diventa socio di numerose accademie internazionali e riceve onorificenze in vari paesi. Si dedica soprattutto all’insegnamento, dove ha il merito di tenere corsi universitari modellati su quelli dell'École polytechnique, contribuendo così ad aggiornare l’insegnamento scientifico in Piemonte. Di lui scriverà il collega Luigi Menabrea: 
«[Plana] fu certamente uno dei professori più abili e affascinanti che abbiano resa illustre un’Università. Con una lucidità straordinaria, faceva assistere l’allievo alla nascita delle teorie e ne sviluppava le conseguenze; sapeva interessarlo con delle ingegnose applicazioni che ne dimostravano l’utilità». 
Probabilmente Menabrea esagera, perché certi aspetti del carattere di Plana lo rendono talvolta scostante. Celebre è rimasta la frase che rivolge al giovane Schiaparelli: «Di astronomi ve n'è uno in Piemonte e basta!». Forse per questo non ha eredi scientifici. 

Il periodo creativo si esaurisce, sia per motivi personali (la morte per malattia del figlio Luigi a soli 7 anni nel 1832, lo sfortunato matrimonio della figlia con un avventuriero nel 1840), sia perché la matematica è cambiata ed egli è rimasto ancorato a un’epoca che è finita. 

Nel 1842 diventa vicepresidente dell’Accademia, nove anni dopo ne è il presidente. Nominato barone nel 1844, diventa senatore nel 1848, carica che conserverà anche con lo stato unitario. Muore a Torino il 20 gennaio 1864. Di lui scriverà il matematico e storico della matematica Francesco Giacomo Tricomi: 
«A mio avviso, il merito di Plana non sta tanto in questo o quel risultato da lui raggiunto, bensì nell’aver egli potentemente contribuito ad elevare il livello, dianzi assai depresso, degli studi matematici in Piemonte, portandovi il soffio vivificatore delle idee spiranti a Parigi nella sua giovinezza, ove operavano un Lagrange, un Fourier, un Monge ed altri sommi».