Alla fine degli anni Sessanta “scoppiava finalmente la rivolta”, oppure Alexander Grothendieck, in qualche modo, si era rotto. Si può essere un matematico geniale e avere la ribellione nel proprio destino, che si manifestò nei modi che vedremo, frutto anche dello spirito dei tempi. Non a caso, Grothendieck aveva una grande stima di Évariste Galois, che chiamava il suo
frère de tempérament: furono infatti entrambi attivisti radicali, sia nella vita sia nella loro disciplina, che portarono a nuovi livelli di astrazione con un interesse particolare per le relazioni tra gli oggetti matematici. E ambedue finirono in anticipo la loro carriera: Galois tragicamente a causa di uno stolido duello, Grothendieck per un volontario isolamento dal mondo, non solo quello accademico, durato quasi un quarto di secolo, fino alla morte avvenuta a 86 anni nel novembre 2014.
La ribellione di Grothendieck era, possiamo quasi dire, ereditaria. Suo padre, Alexander Schapiro era un ebreo di famiglia ortodossa, che a quindici anni faceva già parte di un gruppo anarchico che partecipò al tentativo rivoluzionario del 1905 di abbattere il regime zarista. Catturato, condannato all’ergastolo, dieci anni più tardi riuscì a evadere, raggiunse l’Ucraina e si associò a un’altra banda armata anarchica. Arrestato di nuovo e condannato a morte, riuscì di nuovo a fuggire, lasciando ai carcerieri solo il suo braccio sinistro.
Partecipò alla rivoluzione del febbraio 1917, ma, quando i bolscevichi presero il potere nel novembre dello stesso anno, l’anarchico Alexander si trasferì a Berlino, dove si manteneva come fotografo di strada. Intorno al 1924 conobbe Hanka (Johanna) Grothendieck, anche lei attivista rivoluzionaria, che viveva dei pochi articoli che riusciva a pubblicare sui giornali. I due si innamorarono e, nel 1928, nacque Alexander Jr., detto Schurik, che visse i suoi primi cinque anni a Berlino con i genitori e una sorellastra.
Nel 1933, quando i nazisti presero il potere, Alexander Schapiro si trasferì a Parigi, dove fu presto raggiunto dalla moglie. Schurik fu affidato a una famiglia fidata di Amburgo. Intanto in Germania la situazione per gli ebrei era ormai diventata insostenibile e, anche se l’origine di Alexander era tenuta nascosta (fu in quel periodo che assunse il più sicuro cognome tedesco della madre), i suoi genitori adottivi nel 1939, per maggiore sicurezza, lo misero su un treno per la Francia, dove poté riunirsi di nuovo con i genitori naturali, che intanto avevano partecipato alla Guerra di Spagna con gli anarchici ed erano tornati dopo la vittoria dei franchisti.
La Francia non si rivelò un rifugio sicuro: nel 1940 fu invasa dalle truppe tedesche, che insediarono nella parte meridionale del paese il governo collaborazionista del maresciallo Pétain, fortemente antisemita. I genitori di Alexander furono arrestati e il padre fu deportato ad Auschwitz, dove sarebbe morto nel 1942.
Il quattordicenne Alexander fu portato con la madre nel campo di detenzione di Le Chambon-sur-Lignon, una cittadina nel Massiccio Centrale, centro attivo di resistenza all’occupazione nazista. Lì poté comunque frequentare la scuola secondaria, protetto dalla popolazione che, durante le retate della Gestapo, nascondeva i ragazzi ebrei a piccoli gruppi nella foresta. Gli abitanti di Chambon furono poi dichiarati tra i “Giusti nelle Nazioni” per aver salvato la vita di 5.000 ebrei. Nel 1945, con la fine del nazismo, arrivò anche il baccalaureato.
Grothendieck e la madre si trasferirono a Montpellier, dove Alexander poté iscriversi alla facoltà di matematica. Si capì subito che non era uno studente come gli altri: quello che imparava durante le lezioni non gli bastava, e la sua formazione fu in gran parte da autodidatta.
Nel 1948 vinse una borsa di studio per andare a Parigi, dove entrò in contatto con la ricerca matematica. Frequentò il famoso Seminaire Cartan. Non aveva paura di discutere con famosi ricercatori, era ambizioso e appassionato. Più tardi avrebbe scritto: “ero un matematico, uno che fa matematica, nel vero senso della parola, come si fa l’amore”. Riscoprì da solo l’integrale di Lebesgue, seguendo le proprie intuizioni piuttosto che studiare la letteratura esistente.
Poiché Alexander voleva esplorare gli spazi topologici vettoriali, Elie Cartan, l’ormai vecchio padre della matematica francese, che ne aveva capito le potenzialità, lo consigliò di trasferirsi all’Università di Nancy, dove lavoravano due esperti del calibro di Jean Dieudonné e Laurent Schwartz, recente medaglia Fields nel 1950. Questi mostrò a Grothendieck il suo ultimo articolo, che si concludeva con una lista di quattordici questioni aperte, importanti per gli spazi localmente convessi. Il nuovo arrivato risolse tutti i quattordici problemi nel giro di meno di un anno: era nata una nuova stella nel cielo della matematica, all’età di 22 anni.
Nonostante il successo, per Grothendieck era difficile trovare un lavoro in Francia, a causa del suo stato di apolide (l’archivio di Berlino, sua città di nascita, era stato distrutto nel 1945 e lui aveva solo un passaporto delle Nazioni Unite). I suoi supervisori si preoccuparono della situazione infelice di questo giovane genio, e gli trovarono un posto come visitatore all’università brasiliana di São Paulo, dove Alexander si trasferì tra il 1952 e il 1954. In quel periodo finì la sua tesi di dottorato su Prodotti tensoriali e spazi nucleari (termine quest’ultimo introdotto da lui).
Secondo Dieudonné, in quel periodo Grothendieck aveva già pronto del materiale sufficiente per scrivere sei tesi, alcune delle quali in analisi funzionale. Per avere un’idea di questo dato, basti pensare che una buona tesi in dottorato in matematica richiede almeno due anni di duro impegno. Pubblicò articoli in francese su riviste brasiliane, nei quali introdusse le
“costanti di Grothendieck”, tenne lezioni sugli spazi vettoriali topologici e cominciò a interessarsi di geometria algebrica, l’analisi sistematica delle proprietà geometriche delle soluzioni delle equazioni polinomiali. Lavorava senza posa, fermandosi solo per dormire e mangiare, conducendo una vita spartana, interessato solo ai problemi che stava cercando di risolvere.
Tornato
in Francia, dopo la morte della madre nel 1957, Grothendieck si associò con
Dieudonné e Jean-Pierre Serre nell’Institut des Hautes Études Scientifiques (IHES),
appena fondato presso Parigi, che diventò un centro di riferimento per la
matematica e la fisica teorica. Grothendieck guidò un brillante gruppo di
giovani matematici tra il 1958 e il 1970, l’epoca d’oro della sua carriera. Per
qualche tempo fu anche membro del gruppo di Bourbaki.
Il
suo ex collega Pierre Cartier ricorda che conduceva “uno dei seminari di
matematica più prestigiosi che il mondo avesse visto”. Esso attraeva i migliori
matematici dalla Francia e da tutto il mondo. Le sessioni potevano durare dalle
10 alle 12 ore, portando a improvvise note che Grothendieck scriveva e dava a
Dieudonné per essere messe in buona forma. Grothendieck era un insegnante di
talento, che spiegava pazientemente anche i passaggi “banali” pur di essere
compreso. Uno dei frutti di tale attività fu il progetto Elementi di Geometria Algebrica (EGA), iniziato nel 1960, ambizioso, monumentale,
rivoluzionario e mai concluso.
Aveva
anticipato il suo programma di ricerca per quegli anni in un discorso al
Congresso Internazionale dei Matematici di Edimburgo, nel 1958. Il suo stile
era di cercare una sempre crescente generalità e astrazione, introducendo nuovi
termini e concetti, e lavorando sulle loro proprietà. Ciò portò a migliaia di
pagine sulla fusione di geometria algebrica, aritmetica e topologia. Nell’autobiografia
del 1988 troviamo il suo mondo matematico espresso con parole semplici e
chiare:
“Si può dire che “il numero” è
adatto a cogliere la struttura degli aggregati “discontinui” o “discreti”: i
sistemi, spesso finiti, formati da “elementi” o “oggetti” per così dire isolati
gli uni rispetto agli altri, senza qualche principio di “passaggio continuo”
dall’uno all’altro. “La grandezza”, al contrario, è la qualità per eccellenza,
suscettibile di “variazione continua”; perciò essa è adatta a cogliere le
strutture e i fenomeni continui: i movimenti, gli spazi, “varietà” di tutti i
generi, campi di forza, ecc. In tal modo, l’aritmetica pare (a grandi linee)
come la scienza delle strutture discrete, e l’analisi come la scienza delle
strutture continue.
Quanto alla geometria, si può dire
che, dopo oltre duemila anni di esistenza sotto forma di scienza nel senso
moderno della parola, essa è “a cavallo” di questi due tipi di strutture, le
“discrete” e le “continue”. Per lungo tempo, d’altra parte, non vi era veramente
un “divorzio” tra due geometrie che sarebbero state di specie differenti, l’una
discreta e l’altra continua. Piuttosto, vi erano due punti di vista diversi
nell’investigazione delle stesse figure geometriche: il primo che poneva
l’accento sulle proprietà “discrete” (in particolare le proprietà numeriche e
combinatorie), l’altro sulle proprietà continue (quali la posizione nello
spazio circostante o la “grandezza” misurata come distanze reciproche dei
punti, ecc.). È alla fine del secolo scorso che è
comparso un divorzio, con la comparsa e lo sviluppo di ciò che è stata chiamata
“geometria (algebrica) astratta”. Grosso modo, si è trattato di introdurre, per
ciascun numero primo p, una geometria (algebrica) “di caratteristica p”,
calcolata sul modello (continuo) della geometria (algebrica) ereditata dai
secoli precedenti, ma in un contesto che eppure appariva come irriducibilmente
“discontinuo”, “discreto”. Questi nuovi oggetti geometrici hanno guadagnato una
importanza crescente dopo l’inizio del secolo, e ciò, particolarmente, grazie
alle loro strette relazioni con l’aritmetica, la scienza per eccellenza della
struttura discreta. Sembrerebbe che una delle idee direttrici nell’opera di
André Weil, può darsi persino la principale (rimasta più o meno tacita nella
sua opera scritta, come si deve), sia che “la” geometria (algebrica) e in
particolare le geometrie “discrete” associate ai diversi numeri primi,
dovessero fornire la chiave per un rinnovamento di vasta portata
dell’aritmetica. In questo spirito egli ha proposto nel 1949 le celebri
“congetture di Weil”. Congetture assolutamente sbalorditive, a dire il vero,
che facevano intravedere, per queste nuove “varietà” (o “spazi”) di natura
discreta, la possibilità di certi tipi di costruzioni e di argomenti che fino a
quel momento non sembravano pensabili se non nel quadro dei soli “spazi” considerati
degni di questo nome dagli analisti – cioè gli spazi detti “topologici”, in cui
vale il concetto di variazione continua. Si può pensare che la nuova
geometria é, prima di tutto, una sintesi tra questi due mondi, fino ad allora attigui
e strettamente solidali, ma tuttavia separati: il mondo “aritmetico”, nel quale
vivono i (sedicenti) “spazi” senza principio di continuità, e il mondo della
grandezza continua, dove vivono gli “spazi” nel vero senso del termine,
accessibili ai metodi dell’analista e (per questo stesso motivo) da lui
accettati come degni di risiedere nella città matematica. Nella nuova visione,
questi due mondi un tempo separati non ne formano più di uno solo”. (Récoltes et Semailles, §2.10. La géométrie nouvelle — ou les épousailles
du nombre et de la grandeur).
L’idea
nuova era che a una geometria fatta di spazi, che sono insiemi di punti, si doveva
sostituire una nuova geometria i cui oggetti sono le relazioni, le funzioni, i
morfismi. E bisognava creare nuovi oggetti, rivelare nuove strutture e esplorare
nuovi territori per realizzare questa
sintesi auspicata: gli schemi, i topos, la teoria dei motivi.
Sembrava
che questa fantastica stagione non dovesse mai concludersi, quando, nel 1970, a
42 anni, Grothendieck si dimise dall’IHES, e entrò in una fase completamente
diversa della propria vita. Ben presto il suo gruppo di ricerca si sciolse.
Fino
ad allora la vita di Grothendieck si era concentrata quasi esclusivamente sulla
matematica, anche se in qualche episodio aveva manifestato il suo acceso
pacifismo e lo spirito anarchico ereditato dai genitori. Quando fu invitato dall'università americana di Harvard, nel 1958, si lamentò della procedura
d’ingresso negli USA che richiede la dichiarazione di non voler intraprendere
azioni sovversive. Come altri grandi matematici francesi, si schierò contro la
guerra coloniale in Algeria e, nel 1966, non andò a ritirare personalmente la
Medaglia Fields al congresso matematico di Mosca, in segno di protesta contro
l’arresto di due scrittori dissidenti.
La
guerra del Vietnam costituì una delle svolte principali della sua esistenza. Nel
1967 fu invitato a tenere lezioni di algebra e geometria algebrica ad Hanoi,
che era allora periodicamente bombardata dall’aviazione americana. Incuriosito
da una richiesta così insolita, desideroso di conoscere lo stato della ricerca
matematica vietnamita e, ovviamente, in segno di protesta contro la politica
americana, Grothendieck accettò. Si pagò il viaggio ed ebbe cura di portare
quanto più materiale poteva. Dopo qualche giorno di lezioni relativamente
tranquille, in cui scoprì il buon livello dei matematici vietnamiti (uno era il
vice-ministro dell’istruzione), si intensificarono i raid aerei, e docente e
allievi furono costretti a continuare le lezioni nella foresta. Tornato in
Francia, fece conferenze sulla sua avventura e scrisse un resoconto dettagliato
della visita, in cui comunicava al mondo occidentale la preparazione dei
matematici incontrati e la sua simpatia per una nazione in lotta contro
l’imperialismo, prima francese e poi americano, da quasi vent’anni.
Nel
maggio del 1968, pur senza partecipare direttamente alla lotta studentesca,
prese posizione in favore dei manifestanti. La sua ribellione si concretizzò
invece all'interno dell’istituzione che aveva fino ad allora contribuito a far
crescere. Era venuto a conoscenza che l’IHES riceveva finanziamenti
dall’esercito francese, allora aveva contribuito a una protesta dei docenti che
nel 1969 aveva fatto interrompere questa pratica. Nel 1970, tuttavia, i finanziamenti
militari erano ripresi: ciò apparve intollerabile per le sue idee pacifiste. Cercò
di convincere i colleghi alle dimissioni di massa per protesta, ma fu lasciato
solo. Forse si era stancato anche di quel “lungo periodo di frenesia matematica”,
fatto sta che decise di cambiare vita.
Si separò dalla moglie e aprì una comune,
prima a Parigi, poi nel sud della Francia. In quegli ambienti viveva con gente
di tutti i tipi, con i quali teneva lunghe assemblee e discussioni politiche.
Nel frattempo insegnava con contratti temporanei, prima all'università Paris-Sud a Orsay, poi come visiting professor al Collège de
France. Nei suoi corsi affiancava alla matematica interventi sulle istanze
sociali e la minaccia delle armi nucleari. Ciò attirò molti studenti e molti
curiosi, finché la direzione del Collège decise di non rinnovargli il
contratto, benché egli fosse uno dei più famosi matematici al mondo.
Il
suo impegno pacifista e ambientalista si fece sempre più intenso. Quando fu
invitato a tenere lezioni di matematica all’Università canadese di Montreal,
accettò a patto di poter parlare anche delle minacce nucleari per l’umanità.
Tenne lezioni anche negli USA, dove si schierò per i diritti dei nativi
americani.
Alcuni
giovani matematici furono attratti dalle sue idee e divennero attivisti.
Assieme a due giovani matematici francesi, Claude Chevalley e Pierre Samuel,
Grothendieck fondò, proprio a Montreal, un gruppo chiamato Movimento
Internazionale per la Sopravvivenza della Razza Umana, il cui organo era la
rivista auto-prodotta Vivre, più tardi
diventata Survivre et Vivre, che
pubblicava appelli per la pace, articoli sulle responsabilità
della scienza e sull'irresponsabile scientismo (“la nuova religione”) di fronte
alle minacce del militarismo, dell’industrializzazione senza controlli, dello
sfruttamento delle risorse naturali e dell’uomo sull’uomo. Non mancava una
critica aperta al consumismo delle società occidentali. La rivista, che fu
attiva tra il 1970 e il 1975, e che ebbe tra i direttori anche Denis Guedj, anticipò
molti dei temi che furono poi, e che sono tuttora, patrimonio del pensiero libertario
moderno. Riguardo all'ambientalismo, Survivre
et Vivre aveva una posizione fortemente critica contro i pericoli dell’”ecofascismo”,
cioè di un’ideologia attenta all'ambiente, ma indifferente alle ingiustizie
sociali. “Ciclostilata in proprio”, come si sarebbe detto allora, distribuita
artigianalmente, Survivre et Vivre
ebbe una tiratura iniziale di mille copie e giunse a un massimo di quindicimila
quando le copertine iniziarono a essere disegnate da Didier Savard. Con il
tempo, dopo che Grothendieck e Samuel se ne furono allontanati, la pubblicazione virò verso un
linguaggio settario da gruppuscolo, pieno di slogan e con analisi apodittiche
senza replica, facendo la fine di molte altre pubblicazioni “rivoluzionarie”
dell’epoca.
Alla
Scuola Estiva di Anversa del 1972, il suo ex collega dell’IHES Jean-Pierre
Serre, che teneva il discorso d’apertura, fu interrotto platealmente da
Grothendieck, che arringò i presenti contro la NATO che aveva sponsorizzato
l’evento. Crebbe la sua fama di rompiscatole, e anche il risentimento di molti
colleghi. Tuttavia, nella lunga conferenza seguita da dibattito che tenne al
CERN nello stesso anno, fu calmo e dialogante, spiegando i motivi del suo
esilio volontario dalla comunità scientifica, in cui la competizione e la
pressione a pubblicare sono immorali e costituiscono un ostacolo alla
creatività, e dove i ricercatori hanno perso la coscienza dei motivi del loro
fare. Poi sottolineò come per lui la battaglia pacifista contro la minaccia
nucleare fosse diventata più importante della ricerca matematica.
Nel
1973 tornò all’Università di Montpellier, tenendo lezioni su vari argomenti
matematici. Si comportava amichevolmente con gli studenti, distribuiva mele
organiche e si meritò il soprannome di Alexandre
le Grand. Forse giovò alla sua popolarità la provocatoria proposta di
tirare a sorte i voti degli esami, oppure di dare a tutti il massimo. Non tenne
più i suoi famosi seminari, ma seguiva molti studenti di dottorato (si infuriò
quando la Springer si rifiutò di pubblicare una tesi). Continuava anche la
ricerca, ma il CNRS assicurava solo un supporto minimo.
Tra
il 1973 e il 1979 visse nel piccolo villaggio di Olmet-et-Villecun, a 50 chilometri
da Montpellier, in una casa semplice senza luce elettrica (usava lampade a
cherosene), dove dava ospitalità ai senzatetto. La sua dimora era aperta a
tutti, e diventò un riferimento per persone di ogni tipo, compresi hippies e
giovani “alternativi”. Nel 1977 la
polizia fece irruzione nell’edificio, in cerca di tutto ciò che potesse essere
illegale. Trovarono solo uno studente giapponese al quale era scaduto il
permesso di soggiorno. Si trattava di una persona pacifica, all’epoca monaco
buddista, ma la sua presenza fu ritenuta sufficiente dalle autorità per denunciare
Grothendieck di aver ospitato un irregolare. Sei mesi più tardi, con il
giapponese già tornato in patria, fu processato e, nonostante un appassionato discorso
e il pubblico sostegno di molti colleghi, fu condannato a una piccola multa con
pena sospesa per sei mesi. È evidente che si era voluto dargli una lezione. In
quell’anno gli fu attribuita la medaglia Picard dell’Accademia francese delle
scienze, che finirà utilizzata come schiaccianoci nell’eremo in cui visse i
suoi ultimi anni.
Nonostante
il suo impegno, le sue argomentazioni, la sua reputazione accademica e le sue
abilità retoriche, il gruppo di Grothendieck rimase relativamente piccolo e
inascoltato, il che lo portò a un progressivo sentimento di impotenza. Pensava
che le persone, anche se sono intellettuali o scienziati, non si rendono conto dei pericoli che
minacciano il pianeta, e si comportano irrazionalmente. Dalla seconda metà degli
anni ’70 rallentò il ritmo dei suoi appelli e delle conferenze.
Continuò
a scrivere ponderosi testi di più di mille pagine, come La lunga marcia attraverso la teoria di Galois e Alla ricerca dei Campi. Coordinò poi la
stesura di Abbozzo di un Programma, con
idee sul futuro della matematica, scritto in realtà dai giovani matematici suoi
seguaci Leila Schneps e Pierre Lochak.
Tra
il 1983 e il 1988 Grothendieck scrisse una bella autobiografia intitolata Récoltes et Semailles (Raccolte e
semine), nella quale presentava la sua vita e il suo lavoro e forniva elementi
eterogenei, come poesie in tedesco e giudizi, talvolta critici, sulla comunità
matematica e gli ex colleghi.
Nel
1988 gli si doveva assegnare il prestigioso Premio Crafoord della Accademia
Reale Svedese delle Scienze, assieme al suo ex studente Deligne. Grothendieck
tuttavia lo rifiutò, inviando a Le Monde
una cortese lettera in cui spiegava le sue ragioni. In primo luogo non aveva
bisogno di soldi, e, riguardo all’importanza del suo lavoro, avrebbero deciso
il tempo e i frutti, non gli onori. Aggiungeva che tali premi sono sempre dati
alle persone sbagliate, che non hanno bisogno di ulteriori ricchezze e glorie.
Chiedeva se la “sovrabbondanza per alcuni” non fosse data “al costo dei bisogni
degli altri” e, infine, sottolineava che l’accettare di “partecipare al gioco
dei premi” avrebbe significato la sua “approvazione dello spirito (...) del
mondo scientifico”, in cui l’etica è “calata al punto che il palese furto tra
colleghi (specialmente ai danni di coloro che non sono nella posizione di
difendersi) è quasi diventato una regola generale”.
In
quell'anno andò in pensione e si dimise dall'Università di Montpellier e, nel
1991, anche dalla società: interruppe i contatti con quasi tutti, compresa la
sua famiglia, composta da alcuni figli avuti da diverse relazioni. Si ritirò a
vivere una vita semplice in un borgo sui Pirenei francesi, di cui volle tenere
segreta l’ubicazione. Scrisse ancora un testo matematico, I derivatori, di circa 2000 pagine, che consegnò a un amico. D’altro
canto, una volta diede alle fiamme una gran quantità di note, lettere e altri
documenti: si stima circa 25.000 pagine. Il suo interesse principale diventò lo
spiritualismo e la meditazione, entrando nella fase finale della sua vita,
quella di eremita, dapprima influenzato dal buddismo, poi ispirato da una
personale e mistica versione del cristianesimo. Lunghi digiuni minarono la sua
salute.
Continuò
a scrivere moltissimo: passava molte ore a vergare fogli per parlare delle sue
idee e delle esperienze mistiche: decine di migliaia di pagine che non volle mai
pubblicare e che, tornate recentemente in possesso della famiglia, aspettano
ancora di essere sistemate e pubblicate. Nel 2010 aveva scritto una
bizzarra lettera manoscritta in cui chiedeva la rimozione di tutte le sue opere
dalle biblioteche, ma la richiesta era impossibile da esaudire e non fu presa
in considerazione.
Solo
poche persone fidate sapevano dove viveva e dovevano giurare di non rivelare
questa informazione. Non aveva un indirizzo postale né il telefono, né
tantomeno internet. Alla fine il mondo seppe che Alexander Grothendieck era
morto il 13 novembre 2014 nel piccolo ospedale di Saint-Girons, ai confini con la Spagna.
Wolfgang Bietenholz, & Tatiana Peixoto (2016). To the Memory of Alexander Grothendieck: a Great and Mysterious Genius of Mathematics Ciencia e Sociedade (CS) CBPF, Brazil, v.3, n.1 (2015) 1-9 arXiv: 1605.08112v1