lunedì 25 luglio 2016

La passione matematica del giovane Stendhal

La Vita di Henry Brulard, Ricordi di egotismo, di Stendhal, cioè Henri Beyle (1783-1842), uscito postumo nel 1890 e scritto in Italia tra il novembre 1835 e il marzo 1836, è di sicuro il frammento autobiografico più lungo che ci sia giunto dello scrittore francese. Si tratta di un libro disordinato, il cui unico filo conduttore è quello cronologico, con il racconto dei primi diciassette anni della sua vita. Stendhal, cinquantaduenne, decide di dare voce ai suoi ricordi, che confluiscono in un'autobiografia intitolata come sempre con uno pseudonimo, questa volta il nome di un suo prozio monaco dalla testa enorme, a cui si diceva che assomigliasse. La Vita è il resoconto amaro e disilluso di un uomo che decide di raccontare i dettagli e non l’epica della sua vita, non i momenti più esemplari, ma i fatti “minori”, come l’infanzia in una opprimente Grenoble, la perdita della madre, l’odio per un padre ottuso e autoritario, il suo amore per la matematica, fino al suo arrivo a Parigi e la crisi delle sue illusioni giovanili. 

Henri Beyle vive i suoi primi anni nell’epoca della Rivoluzione, il cui vento giunge infiacchito nel periferico Delfinato e nell’intellettualmente asfittico ambiente borghese in cui vive la famiglia, dove la sua unica conquista è l’amore per la letteratura. Così scrive nella sua “autobiografia mascherata da romanzo”: 
 “All’epoca della morte di mia madre, verso il 1790, la mia famiglia era […] composta da M. Gagnon padre, sessant’anni; M. Romani Gagnon, suo figlio, venticinque anni; Séraphie, sua figlia, ventiquattro anni; Elisabeth, sua sorella, sessantaquattro anni; Chérubine Beyle, suo genero, quarantatré anni: Henri, figlio di Chérubine, sette anni; Pauline, sua figlia, quattro anni; Zenaide, sua figlia, due anni. Sono questi i personaggi del triste dramma della mia giovinezza, che mi riporta alla mente quasi solo sofferenza e profonda insoddisfazione morale”
Nel 1796, Henri Beyle, a tredici anni, entra nella Scuola Centrale dell’Isère, a Grenoble, appena creata dalla Convenzione: non è un ragazzino felice. La sua infanzia, fino ad allora solitaria, si è svolta in una casa governata duramente, dove non gli sono permessi gli svaghi. I suoi precettori sono stati dei preti, tra i quali il detestato Abate Raillane, la cui tirannia è durata dal 1792 al 1794. 

La Scuola Centrale segna il suo incontro con la libertà. Finalmente può uscire di casa senza essere accompagnato, e può scegliersi degli amici tra gli allievi. Frequenta la scuola per tre anni: chi legge la Vita di Henry Brulard è colpito dalla ripetuta asserzione del suo amore per la matematica: 
“La passione per la matematica assorbiva talmente il mio tempo che Félix Faure m’ha detto che portavo allora i capelli troppo lunghi, tanto mi lamentavo della mezz’ora che bisognava perdere per farli tagliare. […] Amo ancora la matematica per se stessa, come non ammettendo l’ipocrisia e il vago, le mie due bestie nere […] la convivenza con un ipocrita mi dà un inizio di mal di mare […] avevo già un disgusto mortale per le donne oneste e l’ipocrisia che è loro indispensabile […] l’ipocrisia, ai miei occhi, erano mia zia Séraphie, la signora Vignon (amica di Séraphie), e i loro miseri preti”
Dato che i sentimenti si mescolano con l’amore per lo studio, è utile esaminare affetti e avversioni di Beyle per i suoi parenti: prima di tutto c’è il padre, Chérubin Beyle, avvocato del Parlamento locale, cavaliere della Legion d’Onore, vicesindaco di Grenoble, speculatore sfortunato, individuo poco intelligente e di scarsa sensibilità. Per lui il figlio prova solo disprezzo: “Era un uomo decisamente poco amabile e non mi amava come persona ma come figlio che doveva perpetuare la stirpe […]. La smania di allontanarmi da Grenoble, cioè da lui, e la mia passione per la matematica […] mi indussero a vivere in profonda solitudine dal 1797 al 1799”.


La madre di Henri, nata Gagnon, donna cresciuta leggendo Dante e il Tasso, era morta quando lui aveva sette anni, provocandogli un dolore profondo. Aveva una sorella, la terribile zia Séraphie, che la sostituì nell’educazione di Henri. Romain Colomb, cugino ed esecutore testamentario di Stendhal, rivela che Séraphie era il “governatore” della casa: “Lei non amava che poche cose sulla terra, ma detestava suo nipote Henri, favorito del signor Gagnon padre, e non si lasciava sfuggire alcuna occasione per testimoniargli la sua avversione”

All’opposto, tra gli affetti, c’era il nonno materno Gagnon, medico dallo spirito illuminista, che Henri adorava e che si era battuto per l’istituzione della nuova Scuola a Grenoble e sollecitava nuovi finanziamenti per rendere decorosa la struttura.


Nella Vita di Henry Brulard, Beyle scrive che fu proprio frequentando la Scuola avvenne la sua “caduta nella matematica”. Non si può escludere che ciò avvenne proprio per reazione alle idee del genitore: “Mio padre detestava la matematica per motivi religiosi, credo: la perdonava solo quando serviva e rilevare la pianta delle sue tenute”

Henri Beyle, invece, incominciando a studiarla con crescente interesse, inizia a capire che “la matematica considera solo un aspetto particolare degli oggetti (la loro quantità), ma ha il fascino di dire, su questo aspetto, solo cose certe, solo la verità e quasi tutta la verità”

Anche nello studio della matematica, tuttavia, il giovane non è soddisfatto, perché ben presto si rende conto della mediocrità dei suoi insegnanti: 
“Quanto più amavo la matematica, tanto più disprezzavo i miei insegnanti, M. Dupuy e M. Chabert”. [Essi] “sono ipocriti come i preti che vengono a dire la messa da mio nonno, e la cara matematica non è altro che un imbroglio? Non sapevo come raggiungere la verità. Ah! Come avrei ascoltato avidamente, allora, una parola sulla logica e sull’arte di trovare la verità!” 
Henri impara l’algebra sul “disgustoso Bezout”, a cui preferisce il Clairaut, meno dogmatico, i cui Elementi di algebra (pubblicato per la prima volta nel 1747) si estendono fino alla risoluzione delle equazioni di quarto grado. Presto il rancore per il padre si estende a tutta la città di Grenoble: “Cominciavo a dirmi seriamente: bisogna prendere una decisione e uscire da questa melma. Avevo solo una possibilità al mondo. La matematica. Ma me la si spiegava così stupidamente che non facevo alcun progresso. […] Ciò nonostante, Bezout era la mia sola risorsa per partire da Grenoble. Ma Bezout era così una bestia! (…) Era una testa come quella di M. Dupuy, il nostro enfatico professore […] quest’uomo così vuoto […] questo grande Dupuy ci spiegava le proposizioni come una serie di ricette per fare l’aceto”. Sebastien Henri Dupuy de Bordes, esperto di geometria, era stato insegnante del giovane Napoleone Bonaparte alla Scuola Reale di Artiglieria di Valence, ma Stendhal lo considerava un ignorante, incapace di comprendere anche una sola frase di ciò che ampollosamente insegnava agli allievi.

L’alternativa era Chabert: “Mio nonno conosceva un borghese di vedute ristrette, di nome Chabert, che teneva lezioni private […] Gli piaceva il Clairaut, ed era una cosa immensa metterci in contatto con quell’uomo di genio e farci uscire un po’ dal piatto Bezout. Aveva il Bossut, l’abbé Marie, e ogni tanto ci faceva studiare un teorema su questi autori. Aveva anche in manoscritto qualche cosetta di Lagrange, delle cose adatte alla nostra piccola portata”. Ma Chabert “aveva sempre […] l’aria di un farmacista che conosce delle buone ricette, ma niente lasciava capire come queste ricette nascessero le une dalle altre, nessuna logica, nessuna filosofia in quelle testa”. La curiosità gli fa consultare “gli articoli matematici di d’Alembert sull’Enciclopedia, [ma] il loro tono di presunzione, l’assenza di culto per la verità mi impressionarono fortemente e, d’altra parte, ci capivo poco”

Il giovane Beyle aveva aspettative smisurate e confuse sulla matematica: 
“A quattordici anni, nel 1797, immaginavo che la matematica pura, che io non ho mai studiato, arrivasse a comprendere tutti o quasi gli aspetti delle cose e che, approfondendone lo studio, sarei giunto a sapere delle cose certe, indubitabili, e che avrei potuto mettermi alla prova, senza limitazioni, su tutto”. 
Così volle intestardirsi per capire come mai meno per meno fa più: 
“Come potevo rassegnarmi, quando mi accorsi che nessuno sapeva spiegarmi com’era che meno per meno fa più (- × - = +, è uno dei fondamenti della scienza chiamata algebra). Facevano anche di peggio: oltre a non spiegarmi questo problema (che certamente si può spiegare perché conduce alla verità), me lo presentavano con delle argomentazioni evidentemente poco chiare anche per coloro che me le esponevano. M. Chabert, assillato dalle mie domande, era a disagio, ripeteva la sua lezione, proprio quella su cui chiedevo dei chiarimenti, e sembrava che volesse dirmi: Ma questa è la consuetudine, tutti accettano questa spiegazione”
È interessante notare come la ricerca morale che lo attira verso la matematica (verità contro ipocrisia) porterà il giovane Beyle persino a sfiorare una questione essenziale: la validità del quinto postulato di Euclide. 
“Si può immaginare quale livore si impadronì del mio animo quando cominciai la Statique di Louis Monge, fratello dell’illustre Monge, e che sarebbe poi venuto a fare gli esami di ammissione all’ècole Polytechnique. [Beyle si sbaglia, la Statique del 1788 è proprio dell’illustre Gaspard Monge!]. […] Quell’insigne bestione di Louis Monge ha scritto all’incirca così: Due linee parallele possono essere considerate incrociantisi se le si prolunga all’infinito. Ebbi l’impressione di leggere un catechismo e, oltretutto, uno dei più scalcinati. Chiesi inutilmente spiegazioni a M. Chabert. “Figliolo, dice assumendo quell’aria paterna […], figliolo, lo capirete più avanti”, e il mostro, avvicinandosi alla sua tavoletta di tela cerata e tracciando due linee parallele e molto vicine, mi dice “Vedete bene che all’infinito si può dire che s’incontrano”. Ero lì per lasciar perdere tutto. A quel punto un confessore, abile e buon gesuita, avrebbe potuto convertirmi commentando la massima: “Vedete bene che tutto è errore, o meglio, che non c’è niente di falso, niente di vero, tutto è convenzione”. 


In realtà, come si sa, pochi anni prima che Stendhal stendesse queste righe, si era giunti a considerare indimostrabile questo postulato, che era quindi, in quanto postulato, proprio una convenzione. Non rispettandolo, Lobačevskij, Bolyai e l’onnipresente Gauss avevano fondato le geometrie non euclidee. 

Per fortuna il giovane Henri può contare su un aiuto inaspettato:
[…] da qualche tempo sentivo parlare di un giovane, noto giacobino, che di matematica ne sapeva di più di M. Dupuy e M. Chabert, ma che non ne faceva mestiere […]. Non so come abbia potuto, timido com’ero, avvicinarmi a M. Gros. […] Ci disse: - Cittadini, da dove cominciamo? Bisognerebbe vedere a che punto siete. – Dunque, abbiamo fatto le equazioni di secondo grado. E, da persona sensata, si mise a spiegarci le equazioni, cioè, per esempio, la costruzione di un quadrato a + b, che ci faceva elevare alla seconda potenza: a2 + 2ab + b2. L’ipotesi che il primo membro dell’equazione fosse un inizio di quadrato; il complemento di questo quadrato, ecc. ecc. ecc. Si schiudevano i cieli per noi, o almeno per me. Vedevo finalmente il perché delle cose: non c’era più una ricetta da farmacista caduta dal cielo per risolvere le equazioni. Provavo un piacere intenso, analogo a quello della lettura di un romanzo appassionante. […] Gros […] mi aveva conquistato”

Henri Beyle non prende in giro nessuno sulle sue capacità: “Può darsi che ci sia orgoglio nella qualifica di eccellente matematico che mi è stata attribuita. Non ho mai saputo il calcolo differenziale e integrale”. Anche senza conoscere queste cose, egli esce dalla Scuola Centrale di Grenoble come primo in matematica, più bravo di altri otto che, qualche settimana più tardi, furono ammessi all’École Polytechnique di Parigi. C’è da dire che allora si poteva essere ammessi alla prestigiosa istituzione con un programma che comprendeva “aritmetica, geometria, trigonometria, algebra e sezioni coniche” e non il calculus

Per presentarsi all’esame d’ammissione all’École Polytechnique, Henri Beyle lascia Grenoble, la famiglia, la Scuola Centrale dell’Isére e il suo mondo. Suo padre lo saluta piangendo: “la sola impressione che mi fecero le sue lacrime, fu che lo trovai molto brutto”. Giunge a Parigi nel novembre 1799, appena dopo il 18 brumaio in cui Napoleone aveva preso il potere con un colpo di stato e si era fatto nominare Primo Console.


Ma i grandi cambiamenti avvengono anche nella testa del giovane.
“Al mio arrivo a Parigi due grandi oggetti di desideri duraturi e intensi caddero di colpo nel nulla. Avevo adorato Parigi e la matematica. Parigi senza montagne mi ispirò un disgusto così profondo che arrivava quasi alla nostalgia. La matematica era per me come lo scheletro di un falò ormai spento […] Li detestavo persino un po’, nel novembre 1799, perché li temevo. Ero deciso a non sostenere l’esame […] 
Improvvisamente nostalgico della piccola Grenoble, disilluso sul suo futuro come matematico, per due o tre settimane si sente sospeso sul vuoto, si ammala. Beyle si riprende grazie all'intervento provvidenziale di un cugino benestante e influente: Pierre Daru, il quale si adopera per fargli ottenere un impiego al ministero della guerra, dandogli modo di partire per l'Italia a seguito dell'esercito napoleonico di riserva. Ma anche questa sistemazione non sarà definitiva: diventerà uno scrittore e, dal 1814, si farà chiamare Stendhal.

lunedì 4 luglio 2016

Una canzone latina per le cifre arabo-indiane


Intorno al 1240, il monaco francescano francese François Alexandre de Ville Dei (o Villedieu) scrisse il Carmen de Algorismo (Canzone dell’Algorismo), un poema didattico in esametri latini, dedicato ai numeri naturali e alle loro operazioni. Le immagini grandi mostrano una copia da un manoscritto spagnolo della prima metà del Trecento. 



Le righe iniziali dell’opera (vedi sopra) recitano: 
Qui inizia l’algorismo
Questa arte nuova si chiama algorismo, in
cui da queste due volte belle cifre
    0 9 8 7 6 5 4 3 2 1
degli Indiani ricaviamo tale beneficio … 
Per quanto breve, il Carmen è la prima opera (dopo il Liber Abaci di Fibonacci del 1202 e del 1228) in cui si introduce il simbolo “0” per indicare lo zero nella letteratura in latino. In realtà il primo documento europeo contenente le cifre arabe risale al 976, il Codex Vigilanus, ma questo prezioso codice miniato conservato all’Escorial di Madrid non conteneva la cifra indicante lo zero. 

L’autore del Carmen attribuisce erroneamente le cifre a un re indiano di nome Algor, da cui sarebbero derivati i termini “algorismus” e algorismo, o algoritmo, usati per indicare i procedimenti di calcolo per le quattro operazioni aritmetiche nel sistema posizionale decimale, in contrapposizione al sistema di numerazione romano e all’uso dell’abaco. Oggi sappiamo che questi nomi derivano per corruzione del nome del matematico persiano Al-Khwarizmi, il pioniere dell’algebra attivo a Baghdad nel IX secolo, mentre con algoritmo indichiamo una procedura di calcolo descritta in modo sufficientemente preciso atta a risolvere un determinato problema. 



Secondo lo storico della matematica David Eugene Smith, che aveva notato il gran numero di copie sopravissute nelle biblioteche europee all’inizio del XX secolo, il Carmen “probabilmente fece di più per far conoscere le cifre indo-arabiche di qualsiasi altra opera ad esso contemporanea”.

Immagini digitalizzate dalla Collezione Lawrence J. Schoenberg dell’Università della Pennsylvania, via MAA.