È curioso che la maggior parte degli uomini che parteciparono alla rivoluzione scientifica, i contributi dei quali sembrano così originali e innovativi, erano convinti di stare semplicemente riscoprendo il grande corpus di sapienza originaria (Prisca Sapientia) che era stata posseduta dagli antichi, e che era andato perduto o dimenticato durante i secoli. Questa credenza non era del tutto inventata, perché le grandi opere, sia materiali, sia intellettuali, delle civiltà classiche erano (e, in qualche misura, sono) davvero impressionanti (basti pensare alle conoscenze scientifiche di epoca ellenistica messe in luce da Lucio Russo nel prezioso saggio La rivoluzione dimenticata).
La cultura intellettuale dell'Occidente europeo declinò realmente dopo la caduta di Roma, e le istituzioni in grado di preservare e trasmettere la conoscenza, così come l’attitudine a farlo, furono fortemente ridotte. Perciò, dopo una così lunga assenza, quando si riscoprirono gli antichi testi, gli umanisti e poi gli intellettuali del Rinascimento e dei secoli successivi erano consapevoli della loro inferiorità di fronte agli “antichi”. Inoltre, il fatto che molti degli antichi testi erano disponibili solamente in forma frammentaria, spesso come traduzioni di terza mano, e molti dei riferimenti fossero a opere totalmente sconosciute e presumibilmente perse, contribuì alla credenza che gli antichi avessero saputo molto di più, se solo avessimo potuto scoprirlo.
Questa attitudine rispetto al passato è, in qualche maniera, l’esatto opposto dell’idea che abbiamo oggi, che è quella di una sequenza totalmente ordinata di epoche che sono progredite da una minore conoscenza nel passato a una maggiore nel futuro. È difficile per noi immaginare il clima intellettuale tra persone che pensavano (sapevano) di essere scientificamente e matematicamente inferiori ai loro antenati di un lontano passato, di cui bisognava riscoprire i segreti.
In realtà il cammino della scienza moderna, almeno nei suoi secoli iniziali, è stato tutt’altro che lineare, essendo la mentalità scientifica una delle componenti di un’incredibile accozzaglia di idee, concetti e teorie razionali, semi-razionali, moderatamente originali o del tutto folli, che spesso convivevano in una stessa figura di erudito o filosofo naturale. Anche la biografia di tanti matematici del tempo presenta aspetti fortemente contraddittori, così pervasi di mentalità magica assieme a intuizioni e opere geniali.
Siamo poi abituati a considerare così assodate certe conoscenze da ignorare o dimenticare quanto queste nascano da un lungo processo di tentativi ed errori, da uomini per loro natura incoerenti e viventi in società e tempi contraddittori, così ci stupiamo di come uomini di grande valore potessero elaborare le loro straordinarie scoperte e contemporaneamente credere in idee sbagliate, coltivare passioni bizzarre, auspicare la realizzazione di sogni messianici. Esemplare è, a questo proposito, la figura di Nepero (John Napier), che inventava i logaritmi ma li considerava un passatempo di fronte alla sua grande missione di rovesciare il papa di Roma (che, tanto per cambiare, considerava l'Anticristo).
Inoltre, il valore immutato del sapere che ci era giunto, e quella sorta di immortalità che esso dava ai suoi autori, che erano sopravvissuti a un millennio e più di oblio solo per suscitare meraviglia quando erano infine riscoperti, fu una fonte di fascino immenso, e inevitabilmente indusse gli uomini a partecipare al processo, anche se solo (all’inizio) con la traduzione e la copiatura delle grandi opere.
Tra le figure più ammirate dell’antichità spicca Pitagora, oggetto di un mito duraturo, iniziato già ai tempi in cui era attiva la sua scuola a Crotone nel VI secolo a. C. e proseguito nel corso dei secoli attraverso fonti disparate che avevano tramandato le facce di un enigmatico semidio: sciamano, taumaturgo, mago, ierofante, ma anche matematico, fisico, riformatore morale e politico. Per quanto Pitagora fosse originario di Samo, parlasse greco e agisse nelle colonie greche dell’Italia meridionale (la Magna Grecia), i filosofi di Crotone e Taranto, anch’essi di stirpe greca, che ne avevano riportato e sviluppato gli insegnamenti furono designati da Aristotele come Italici. I Latini sfruttarono l’ambiguità della definizione di “scuola italica” a scopi patriottici, utilizzando anche la variante del racconto che attribuiva al filosofo origini etrusche. In quel contesto si ebbe persino la fusione della leggenda pitagorica con quella di Numa Pompilio, il re-sacerdote e riformatore romano che sarebbe stato allievo di Pitagora (mentre era vissuto un secolo e mezzo prima dello sbarco del filosofo in Calabria).
Il mito pitagorico fu tramandato attraverso gli scritti di Aristotele (che però contestava l’idea pitagorica che tutto in natura è numero, e che i numeri sono cause delle cose) e, in chiave più mistica ed esoterica (che privilegiava i detti oracolari, la dottrina dell’anima e della reincarnazione, il simbolismo arcano dei numeri, l’idea di un’Anima Mundi che governasse tutte le cose terrestri e celesti), dai filosofi neoplatonici e anche da alcuni autori cristiani. I frammenti biografici e dottrinali giunti dai tempi immediatamente successivi al fiorire della scuola pitagorica furono integrati da un vasto insieme di leggende, che andarono a infoltire la letteratura e il mito del filosofo di Samo, deformandolo e falsificandolo, spesso con evidenti contraddizioni tra una fonte e l’altra.
Parzialmente dimenticato dopo la fine dell’antichità, il mito pitagorico ebbe una nuova fioritura nei decenni centrali del Quattrocento, quando il revival neoplatonico, originato dalla diaspora bizantina precedente e successiva al crollo dell’Impero d’Oriente (1453) e dall’arrivo di una gran mole di opere greche, portò con sé anche la rivalutazione di colui che, a torto, era considerato maestro del filosofo ateniese al pari di Socrate. Marsilio Ficino (1433-1499) e Pico della Mirandola (1463-1494) furono tra gli umanisti italiani che più contribuirono al rinnovarsi del mito. Per Ficino esisteva una lunga catena iniziatica che comprendeva Zoroastro, Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone e infine Plotino. La sapienza di questi maestri, frutto della rivelazione divina, fu nascosta al volgo sotto il velo di favole e misteri, fu poi rivelata da Cristo, ma di nuovo perduta dopo di lui. Nella prefazione alla sua traduzione delle opere di Plotino, scriveva:
Parzialmente dimenticato dopo la fine dell’antichità, il mito pitagorico ebbe una nuova fioritura nei decenni centrali del Quattrocento, quando il revival neoplatonico, originato dalla diaspora bizantina precedente e successiva al crollo dell’Impero d’Oriente (1453) e dall’arrivo di una gran mole di opere greche, portò con sé anche la rivalutazione di colui che, a torto, era considerato maestro del filosofo ateniese al pari di Socrate. Marsilio Ficino (1433-1499) e Pico della Mirandola (1463-1494) furono tra gli umanisti italiani che più contribuirono al rinnovarsi del mito. Per Ficino esisteva una lunga catena iniziatica che comprendeva Zoroastro, Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone e infine Plotino. La sapienza di questi maestri, frutto della rivelazione divina, fu nascosta al volgo sotto il velo di favole e misteri, fu poi rivelata da Cristo, ma di nuovo perduta dopo di lui. Nella prefazione alla sua traduzione delle opere di Plotino, scriveva:
“Era costume degli antichi teologi occultare i misteri divini con numeri e figure matematiche, o con finzioni poetiche, per non divulgarli a caso”
e il vincolo della segretezza e della trasmissione orale della conoscenza in uso nella setta pitagorica ben si adattava a questa opinione.
Pico attuò invece un’audace sintesi tra le teorie numerologiche di origine pitagorica e la Kabbalah ebraica, aprendo la strada a tutte le interpretazioni cabalistiche cristiane delle Scritture e alle elucubrazioni numerologiche e angeliche dei due secoli successivi (da Johannes Reuchlin a John Dee e, in misura minore, Giordano Bruno). Nel pitagorismo Pico indicò la chiave della numerologia mistica, musicale, simbolica, ben distinta, secondo Platone, dalla matematica volgare “del mercante”. Fu in questi ambienti che emerse l’idea della distinzione tra numero numerante e numero numerato, cioè tra il numero considerato in chiave simbolica e mistica, origine e mistero della realtà, e quello, profano, utilizzato nei calcoli e nelle misure.
La scoperta, ai primi del Cinquecento, della soluzione generale delle equazioni polinomiali di terzo grado viene considerata da alcuni come un punto di svolta significativo nella storia della scienza, perché fu la prima volta che un uomo “moderno” fece una scoperta scientifica che andò oltre la conoscenza degli antichi. Nacque così la prospettiva stuzzicante di “migliorare” gli antichi e ciò fu un incentivo incredibilmente potente per fare nuove scoperte. Non sorprende che Galileo Galilei (1564-1642), esponente di un nuovo clima intellettuale, tracci una netta linea di demarcazione tra matematica e numerologia, relegando quest’ultima tra le pseudoscienze. Così leggiamo nel Dialogo sui massimi sistemi (1632) la risposta sferzante di Salviati (che esprime le idee di Galileo stesso) alle argomentazioni del pedante Simplicio:
SIMPLICIO. Par che voi pigliate per ischerzo queste ragioni: e pure è tutta dottrina dei Pittagorici, i quali tanto attribuivano a i numeri; e voi, che siete matematico, e, credo anco, in molte opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri.
SALVIATI. Che i Pittagorici avessero in somma stima la scienza de i numeri, e che Platone stesso ammirasse l’intelletto umano e lo stimasse partecipe di divinità solo per l’intender esso la natura de’ numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano da farne l’istesso giudizio; ma che i misteri per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione la scienza de’ numeri sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e le carte del volgo, non credo io in veruna maniera.
La magia pitagorica dei numeri non ebbe più corso presso la cerchia dei matematici di punta del Seicento (Cavalieri, Wallis, Cartesio, Leibniz, Fermat, ecc.), i quali dimenticarono il misticismo dei numeri interi per gli algoritmi da applicare a vecchi e nuovi campi di indagine: la quadratura delle curve, il calcolo delle tangenti, le tecniche del calcolo infinitesimale.
L’eredità pitagorica, sotto questo punto di vista, restò estranea agli sviluppi della matematica, che riprendeva piuttosto una serie di problemi lasciati insoluti da altri autori: Archimede, Apollonio, Euclide, Pappo. Tuttavia, la fascinazione per la Prisca Sapientia continuò a operare. Ancora alla fine del Seicento uomini come Pierre de Fermat (1601-1665) sviluppavano le loro idee originali sotto forma di “ricostruzioni” speculative di opere perdute dell’antichità. Fermat portò a compimento una ricostruzione dell’opera perduta di Apollonio di Perga sui Luoghi piani, portando direttamente allo sviluppo di ciò che oggi chiamiamo geometria analitica (non mancò una disputa sulla primogenitura tra lui e Cartesio). John Wallis (1616-1703) scrisse che la progressione distintamente criptica di molte delle presentazioni di Archimede gli sembrava:
“Come se ci fosse il proposito stabilito di coprire le tracce delle sue ricerche, come se avesse voluto negare ai posteri il segreto del suo metodo di indagine, mentre desiderava ottenere da essi l’assenso ai suoi risultati. Non solo Archimede, ma quasi tutti gli antichi nascosero così ai posteri il loro metodo di Analisi (anche se è chiaro che ne avevano uno), che i matematici più moderni trovarono più facile inventare una nuova analisi che cercare di trovare la vecchia”.
Cartesio (1596-1650), nella quarta delle sue Regulae, andò oltre, e cominciò a mettere in dubbio la sapienza degli antichi:
“Abbiamo prove sufficienti che gli antichi geometri facevano uso di una certa “analisi” che applicarono per la risoluzione dei loro problemi, sebbene, come sappiamo, essi celarono ai loro successori la conoscenza di questo metodo. (…) Sono convinto che certi semi primordiali di verità seminati dalla natura nelle nostre menti umane, semi che sono soffocati in noi a causa della lettura e dell’ascolto, giorno dopo giorno, di così tanti diversi errori, hanno avuto una tale vitalità in quel grezzo e semplice mondo antico che la luce della mente (…) consentì loro di riconoscere le idee vere nella filosofia e nella matematica, sebbene essi non fossero ancora capaci di ottenere una vera padronanza di esse (…) Questi scrittori, sono propenso a credere, con una certa astuzia nociva, tennero i segreti di questa matematica per se stessi”.
Come si vede, anche quando persisteva l’idea di una antica sapienza nascosta, i riferimenti non erano più a Pitagora, ma ad altri autori. Il mito pitagorico sarebbe veramente finito nell’oblio se non fosse stato sorprendentemente recuperato dal maggior matematico di quel periodo, Isaac Newton (1642-1727).
La prima versione dei Principia mathematica, intitolata De mundi systemate, scritta in modo divulgativo nel 1686 e mai data alle stampe, si apre in questo modo solenne:
“La più antica opinione dei Filosofi era che le stelle fisse stavano senza muoversi nelle parti più alte del Mondo, e che i pianeti giravano attorno al Sole sotto queste stelle; che allo stesso modo la Terra viene mossa in un corso annuale, così come con un moto giornaliero intorno al proprio asse, e che il Sole, o cuore dell’Universo, resta fermo al centro di tutte le cose. Questa era infatti la credenza di Filolao, di Aristarco di Samo, di Platone nei suoi anni più maturi, della setta dei Pitagorici, e (molto più antichi di questi), di Anassimandro e del più saggio dei re dei Romani, Numa Pompilio. Quest’ultimo eresse un tempio a Vesta, di forma circolare, e ordinò che vi bruciasse al centro un fuoco perpetuo, a simboleggiare la forma rotonda dell’Orbe con il fuoco solare al suo centro”.
Come si vede, egli era chiaramente influenzato dalla tradizione che attribuiva ogni tipo di sapere e conoscenza segreta agli “antichi”, non solo quella matematica. Ma c’è di più.
Tra il febbraio 1693 e i primi mesi del 1694, Newton si mise nei panni del filologo classico per dimostrare, a suo modo, una tesi nobile, e cioè che gli antichi filosofi avevano intuito due millenni prima di lui la fisica matematica e la meccanica celeste esposte nella prima edizione dei Principia mathematica (1687). Attente letture di decine di autori antichi e dei loro commentatori lo avevano convinto che i veteres avevano compreso i fondamenti dell’astronomia gravitazionale. Non aveva forse scritto Plutarco nel De facie Lunae che, secondo i filosofi, la Luna è un satellite della Terra, anzi un’altra Terra, così come lo sono tutti gli altri pianeti? Democrito e Lucrezio non avevano confermato che questi centri di gravità si attraggono reciprocamente?
Newton, nei cosiddetti Scolii classici, passa a interpretare una serie di testimonianze su Pitagora, al quale attribuisce la scoperta della legge dell’inverso dei quadrati. La formula, scrive, è implicita nella divinizzazione pitagorica del Sole come “carcere di Giove”, definizione che nasconde la “grandissima forza d’attrazione con la quale tiene prigionieri i pianeti nelle loro orbite”. E l’antica metafora di Pan, che suona e modula il mondo come uno strumento musicale, va interpretata come l’armonia cosmica dell’Anima Mundi: il mondo, che è il tempio di Dio, obbedisce a una legge matematica semplice e suprema, che fa sì che i corpi si attraggono secondo una forza direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale alle loro distanze.
Non ancora soddisfatto, l’inglese prende in considerazione la scala musicale pitagorica e cita il celebre aneddoto della scoperta degli intervalli musicali. Secondo la versione di Macrobio, Pitagora verificò nell’officina di un fabbro la legge di corrispondenza tra i vari accordi, la lunghezza delle corde e i pesi che le sollecitano. Newton evita di accennare al fatto che Pitagora parlava di numeri interi e pare che ignori volutamente la confutazione attuata da Keplero nel III libro dell’Harmonice Mundi (1619), secondo la quale gli intervalli consonanti dipendono da quantità continue, geometriche, e non dai numeri [naturali] che sono quantità discrete. Newton si limita a interpretare l’aneddoto in chiave simbolica, per cui Pitagora avrebbe conosciuto la legge dell’inverso dei quadrati e
“applicò ai cieli e in tal modo apprese l’armonia delle sfere (…) intendendo l’armonia dei cieli nel senso che i pesi dei pianeti verso il sole (verso il quale tutti danzano come al suono della lira) sono reciprocamente come i quadrati delle loro distanze”
L’inglese, tra i suoi contemporanei, fu uno degli ultimi a esprimere l’idea che essi avessero nascosto la loro scienza sotto metafore e immagini mitiche. Soprattutto, fu il solo a scegliere Pitagora come suo predecessore in fisica e matematica.
Le considerazioni filologiche di Newton, destinate a commentare una serie di proposizioni di dinamica celeste del III libro dei Principia, rimasero allo stato di abbozzi manoscritti e non furono mai pubblicate. Si potrebbe osservare che, così facendo, egli si mostrò restio a farli conoscere. Eppure decise di affidare questi scolii all’astronomo e matematico scozzese David Gregory (1661-1708) perché ne divulgasse il contenuto. Così le considerazioni su Pitagora comparvero nella trascrizione che ne fece Gregory presentando uno dei primi manuali di astronomia newtoniana, gli Astronomiae physicae et geometricae elementa (1702), pubblicato in inglese nel 1726.
Come tutti gli uomini dei suoi tempi, come tutti gli uomini, anche il più grande scienziato della sua epoca dimostra che si può essere geniali e allo stesso tempo legati a pregiudizi e idee pseudoscientifiche. La sua interpretazione di retroguardia non ebbe conseguenze in campo matematico, ma ravvivò ancora per qualche tempo il mito dell’antica sapienza italica, soprattutto ad uso dell’orgoglio patriottico dei filosofi e dei politici italiani, sino al nazionalismo risorgimentale e all’epoca fascista.
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Questo articolo è comparso sul numero 01/2017 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.