lunedì 27 marzo 2017

La parodia del «Calculemus!» di Swift

Dettaglio dal frontespizio della Miscellanea Berolensia ad incrementum scientiarum (1710). In basso si vede la macchina calcolatrice di Leibniz, che nel volume viene descritta per la prima volta
Ne I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels, 1726), Jonathan Swift critica le miserie della natura umana, sfociando spesso in una satira feroce e in un vero e proprio humour nero. Nel terzo viaggio del protagonista, quello all’isola fluttuante di Laputa, di cui mi sono già occupato in precedenza, Gulliver ha modo di visitare l’accademia di Lagado dove gli scienziati si dedicano a esperimenti assurdi e ricerche improbabili, che dimostrano come il sapere teorico sia del tutto inutile se non ha reali ricadute pratiche. Molti commentatori hanno visto in questo episodio una critica ai “filosofi naturali” della Royal Society, ma neanche il tedesco Leibniz sembra sia risparmiato. Vediamo come la calcolatrice meccanica e il sogno di una lingua filosofica universale basata sul calcolo siano messi alla berlina dalla penna intinta nel fiele dello scrittore irlandese, che qui anticipa certi procedimenti contemporanei della generazione automatica di testi. 

“Traversando un giardino ci trovammo nella seconda divisione dell'accademia, assegnata ai cultori delle discipline astratte. 

Nella prima grande sala trovai un professore circondato da quaranta scolari. Dopo esserci salutati, siccome egli si accorse ch'io guardavo con curiosità una certa macchina che occupava quasi tutta la sala, mi spiegò che il suo più ambizioso disegno consisteva nella scoperta del metodo di perfezionare le scienze mentali con mezzi meccanici. Egli andava orgoglioso di questo concetto, il più vasto e geniale che cervello umano avesse mai avuto, e sperava che tutti, quanto prima, ne riconoscessero l'utilità. Mentre, infatti, i metodi comunemente adottati per arrivare alle diverse nozioni scientifiche e ideali sono faticosi e difficili, col suo nuovo sistema, invece, anche un ignorante poteva scrivere libri di filosofia o di poesia, trattati di politica e di matematica, senza bisogno di speciale vocazione né di studio: bastava una modesta spesa e un piccolo sforzo muscolare. 

Nello spiegarmi ciò, egli mi fece vedere il meccanismo intorno a cui stavano i suoi scolari.

Era una specie di telaio di venti piedi quadrati, sul quale erano disposti moltissimi pezzetti di legno simili a dadi, di cui alcuni erano alquanto più grossi; e tutti erano legati insieme per mezzo di fili sottili. Ogni faccia di ciascun dado portava un pezzo di carta, su cui stava scritta una parola; sicché sul telaio si trovavano tutte le parole della loro lingua nei differenti modi, tempi e declinazioni, ma mescolate alla rinfusa.
La "macchina" di Lagado da I viaggi di Gulliver di Swift illustrati in The Prose Works of Jonathan Swift, DD, Volume 8 (1899)

Il professore mi avvertì che stava per mettere in moto la macchina: a un suo cenno, infatti, ciascun allievo prese in mano un manubrio di ferro (ve ne sono quaranta fissati lungo il telaio). Essi, facendolo girare, cambiarono totalmente la disposizione dei dadi, e perciò delle parole corrispondenti. Allora il professore ordinò a trentasei dei suoi scolari di leggere fra sé le frasi che ne risultavano, via via che le parole apparivano sul telaio; e quando trovassero tre o quattro parole che avessero l'apparenza d'una frase, di dettarle agli altri quattro giovinetti, che facevano da segretari. Questo esercizio fu ripetuto diverse volte, e col successivo capovolgersi dei cubi sempre nuove parole e frasi comparivano sulla macchina. Gli scolari si dedicavano a tale occupazione per sei ore del giorno.

Il professore mi fece vedere diversi volumi in folio pieni di frasi sconnesse ch'egli aveva raccolto e di cui pensava fare un estratto, ripromettendosi di cavar fuori da codesto materiale, il più ricco del mondo, una vera enciclopedia scientifica e artistica. Egli sperava che codesto suo lavoro, spinto con energia, avrebbe toccata la massima perfezione, a patto che la popolazione consentisse a fornire il denaro necessario per impiantare cinquecento consimili macchine in tutto il regno, e che i sovrintendenti dei vari istituti mettessero in comune le loro personali osservazioni.

Ringraziai umilmente codesto illustre inventore, assicurandolo che, se avessi avuto la fortuna di tornare in Inghilterra, gli avrei reso giustizia celebrandolo fra i miei concittadini come primo creatore d'una macchina sì meravigliosa; anzi mi feci dare il disegno di questa e la descrizione dei suoi vari movimenti, e sopra tavole apposite li unii alle mie memorie. Assicurai anche l'accademico che avrei saputo prendere le necessarie cautele perché l'onore della scoperta restasse tutto suo, data l'usanza vigente fra gli scienziati europei di rubarsi reciprocamente i loro ritrovati, tanto che non si sa quasi mai a chi attribuirli”. 

La calcolatrice meccanica di Leibnitz, progettata con l’apporto di una rete di eruditi, predicatori e amici e sviluppata con l’assistenza tecnica di artigiani itineranti e precari, di costruttori di orologi e persino di un domestico, doveva essere azionata da una manovella e, attraverso un complicato sistema di ruote dentate di ottone di diversa grandezza, realizzare moltiplicazioni e divisioni oltre alle addizioni e sottrazioni. Essa funzionò a fatica (o non funzionò affatto) nelle dimostrazioni dal vivo che furono allestite a Londra e a Parigi, al punto che la Royal Society invitò Leibnitz a riproporla una volta risolti i problemi tecnici che rendevano il congegno inefficace.


La calcolatrice di Leibnitz in una illustrazione utilizzata per la presentazione al pubblico.

Anche in considerazione degli alti costi già sostenuti e di quelli da sostenere, la macchina fu abbandonata dal suo ideatore, e un suo prototipo fu ritrovato in una soffitta dell’Università di Gottinga solamente nel 1879, durante i lavori di rifacimento del tetto.

sabato 25 marzo 2017

Assioma della scelta e insiemi non misurabili

(non rigoroso, ma senza formule!)


Una teoria matematica si basa sempre su degli assiomi, cioè degli enunciati il più possibile semplici che si postulano come veri e che serviranno come punto di partenza per tutte le dimostrazioni. La teoria nella quale si pone implicitamente la maggior parte del mondo matematico è la teoria degli insiemi, chiamata teoria ZF (Z sta per Ernst Zermelo e F per Abraham Fraenkel). Questa teoria possiede, a seconda di come viene presentata, da 8 a 10 assiomi.

Si può citare per esempio, l’esistenza di un insieme vuoto:
Un insieme privo di elementi è detto insieme vuoto e si indica con {} o con ∅ 


o quella di un insieme infinito:
Un insieme infinito è costituito da un numero infinito di elementi. 
Si può parlare anche dell’assioma della coppia, che permette di costruire un nuovo insieme a partire da due insiemi dati:
Dati due insiemi A e B, possiamo trovare un insieme C i cui elementi sono esattamente A e B.
o dell’assioma delle parti, che permette di costruire l’insieme delle parti di un insieme dato:
Se consideriamo un insieme A formato da n elementi e tutti i possibili sottoinsiemi, compreso il vuoto e A stesso, l’insieme di questi insiemi viene chiamato insieme delle parti. 


Gli assiomi della teoria ZF permettono di costruire quasi tutti gli oggetti matematici e di dimostrare i teoremi ad essi correlati. Per esempio, per costruire i numeri interi, una delle procedure classiche consiste nel partire dall’insieme vuoto, che farà da 0. Con l’assioma della coppia, si può costruire un insieme che riunisce l’insieme vuoto con se stesso, il che darà un insieme contenente un unico elemento. Questo insieme farà da 1. Per il numero 2, si costruisce grazie all’assioma della coppia un insieme con due elementi distinti: 0 e 1. Continuando questo procedimento, si otterranno tutti gli interi naturali.



Così, nella teoria degli insiemi, tutti gli oggetti matematici sono degli insiemi. Per esempio, un triangolo nel piano è un insieme di punti. Un punto è un insieme ordinato di due numeri reali, e i numeri reali si costruiscono a partire dai numeri interi, che sono stati anch’essi costruiti grazie agli assiomi. La costruzione dei numeri reali è molto complicata, e qui non ne parliamo.

Certamente non c’è bisogno di tutto ciò per la matematica elementare. Si può senza difficoltà calcolare il risultato di 6 ×7 senza dover passare per la definizione insiemistica dei numeri interi, ma ciò non impedisce che qualsiasi risultato matematico si basa su meno di una dozzina di verità non dimostrate.

Esiste tuttavia un assioma, comparso nel 1904 ad opera di Zermelo,, che si aggiunge talvolta alla teoria ZF, che prende allora il nome di ZFC: l’assioma della scelta (choice in inglese, choix in francese):
Data una famiglia non vuota di insiemi non vuoti esiste una funzione che ad ogni insieme della famiglia fa corrispondere un suo elemento. 
A grandi linee, questo assioma enuncia che se si dispone di un insieme composto di insiemi non vuoti, si potrà costruire un nuovo insieme con degli elementi provenienti da ciascuno degli insiemi interni. Detto altrimenti, si può affermare che se dispone di un comò che ha diversi cassetti non vuoti, l’assioma dice che è possibile prendere un oggetto da ciascuno dei cassetti. Ciò sembra evidente se si pensa a un comò in una casa, ma diventa più complicato quando un comò possiede infiniti cassetti, e ogni cassetto contiene infiniti oggetti indiscernibili (indistinguibili per proprietà o relazione).

Questo assioma è piuttosto contestato, ed è proprio per questo che lo si pone sempre a parte dagli altri assiomi della teoria degli insiemi. Un primo motivo di contestarlo è che, diversamente dagli altri assiomi, non è completamente evidente. Il principale ostacolo consiste nel fatto che, mentre gli insiemi sono costruibili all’infinito, l’assioma della scelta enuncia l’esistenza di insiemi che sono in pratica difficili da costruire. E ciò é piuttosto fastidioso: basta ricordare che, secondo Georg Cantor, un
«Insieme è una collezione di oggetti qualsiasi, ben definiti e distinguibili, che fanno parte della nostra intuizione e del nostro pensiero». 
Tale definizione è matematicamente corretta, perché le parole «ben definiti e distinguibili» rappresentano implicitamente un criterio di scelta.

Una classica illustrazione dovuta a Bertrand Russell fa intervenire un numero infinito di paia di scarpe. Esiste un metodo di scegliere una scarpa da ciascuna di queste paia? Dato che le due scarpe di un paio sono distinte, basta dire che si prende ogni volta la scarpa destra, e il gioco é fatto. La stessa domanda fatta per un numero infinito di paia di calze, tuttavia, non porta alla stessa risposta, perché é impossibile distinguere una calza destra da una sinistra. Sarà necessario allora scegliere caso per caso una calza per paio, il che non é possibile per un insieme infinito a meno di utilizzare l’assioma della scelta.


Il secondo dubbio che solleva la discussione sull’assioma della scelta è che i teoremi che implica sono talvolta controintuitivi. Esiste, ad esempio, il teorema di Banach-Tarski che consente di duplicare degli oggetti geometrici per semplice suddivisione, ma anche gli insiemi di Vitali, dei sottoinsiemi della retta dove non esiste più il concetto di lunghezza.

Parliamo allora di questo concetto di lunghezza o, più generalmente, della misura. Per degli oggetti unìdimensionali come gli estremi di un segmento, ciò che chiamiamo misura sarà allora la lunghezza del segmento. Per gli oggetti bidimensionali, la misura corrisponderà alla loro area o alla loro superficie. Per degli oggetti tridimensionali, la misura corrisponderà al loro volume.

In realtà, il concetto di misura è un po’ più sottile, ma teniamo a mente che si tratta di un numero positivo che, a seconda dei casi, sarà uguale a una lunghezza, a un’area o a un volume. Prendiamo per esempio il segmento unità, che corrisponde all’intervallo dei numeri compresi tra 0 e 1. Poiché questo intervallo è di lunghezza 1, la sua misura è uguale a 1. Se dividiamo questo intervallo in due parti uguali, otteniamo due segmenti di lunghezza 0,5. La misura totale è dunque due volte 0,5, cioè sempre 1. La nostra divisione non ha cambiato la misura di questo oggetto.

Altra suddivisione. Mettiamo da una parte il punto di ascissa 0,5 e dall’altra il resto. Poiché un punto non ha lunghezza, la sua misura è uguale a 0. Dall’altra parte abbiamo due segmenti di lunghezza ½, quindi la loro misura, cioè la lunghezza totale, è sempre uguale a 1. In effetti, togliere un unico punto da un intervallo non cambia la sua misura; questo oggetto rimane perciò di lunghezza 1. Se togliamo un secondo punto succederà la stessa cosa. Si può quindi togliere qualsiasi numero finito di punti a un intervallo senza cambiarne la misura. Un gruppo di punti isolati possiede sempre una misura totale uguale a 0.



E se mettiamo da una parte un numero infinito di punti? In questo caso le cose si complicano un po’. Dividiamo dunque l’intervallo in un modo più raffinato. Mettiamo da una parte tutti i punti dell’intervallo che corrispondono a un numero decimale, cioè i numeri che possono essere scritti con un un numero finito di cifre dopo la virgola, come 0,25 o 0,55 o 0,46. Dall’altra parte restano i punti che non corrispondono ai numeri decimali finiti, come ⅓, π-3 o √2–1, ecc. Abbiamo allora da una parte un insieme di punti decimali. Questo insieme viene detto “numerabile”, cioè che è possibile elencarne gli elementi. Infatti esiste la possibilità di ordinarli in modo d’avere un primo, un secondo, un terzo è così via.
Un insieme viene detto numerabile se i suoi elementi sono in numero finito oppure se possono essere messi in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali. 
Se un insieme numerabile possiede un numero infinito di elementi, viene detto infinito numerabile, e, dato che può essere messo in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali, si può dire che un insieme è infinito numerabile se ha la cardinalità di N. Si può dimostrare che ogni sottoinsieme infinito di un insieme numerabile è anch’esso numerabile, e che ogni insieme infinito contiene un sottoinsieme numerabile. Esempi di insiemi numerabili sono l’insieme dei numeri interi, quello dei numeri razionali o quello dei numeri primi.



Il più semplice esempio di insieme non numerabile è dato dall’insieme dei numeri reali, la cui non numerabilità è stata dimostrata per la prima volta da Cantor tramite il suo argomento diagonale.

La teoria della misura indica che un insieme numerabile di punti ha sempre una misura uguale a 0, poiché si può intuitivamente considerare un insieme numerabile come un insieme pieno di buchi. I punti sono in qualche maniera tutti isolati l’uno dall’altro, per cui la lunghezza totale dell’insieme è la somma delle lunghezze dei punti. Poiché la misura di ciascun punto equivale a 0, la misura totale è 0.

Il secondo insieme è invece non numerabile. I punti non possono essere separati gli uni dagli altri. I buchi dell’insieme esistono solo in apparenza. Essi non sono sufficienti a diminuire la sua misura. Questo insieme possiede una misura esattamente uguale a 1.

Continuiamo allora la suddivisione. Abbiamo da una parte i numeri decimali, e dall’altra i non decimali. Togliamo un nuovo insieme infinito numerabile, quello dei numeri decimali di forma ⅓+ x, dove x è un numero decimale. Ciò corrisponde ai numeri i cui decimali finiscono per un numero infinito di 3. Chiameremo questo insieme la classe d’equivalenza di 1/3, che contiene numeri come ⅓+0.1 o 0.124333… Diremo che ⅓ è un rappresentante di questa classe. Resta ancora un numero infinito di punti, che corrispondono ai non decimali e non appartengono alla classe di 1/3. Questo insieme possiede sempre misura 1, perché abbiamo tolto una parte numerabile.

Togliamo adesso la classe d’equivalenza di √2–1, cioè i punti che corrispondono ai numeri di forma √2–1+x, dove x è un numero decimale. Rimane sempre un numero infinito di punti, i non decimali che non appartengono né alla classe di 1/3 né a quella di √2–1. Ancora una volta, questo insieme misura 1.

Possiamo continuare a togliere tante classi di equivalenza di numeri quante ne vogliamo: non si esaurirà mai l’insieme iniziale, che non diminuirà mai la sua misura. In effetti si può, ma bisogna farlo un numero infinito di volte, e questo infinito dev’essere non numerabile. Solo che, per farlo, bisogna essere in grado di scegliere un rappresentante della classe a ogni tappa, e non esiste alcun mezzo di creare esplicitamente questa lista. Il solo mezzo per farlo è quello di utilizzare l’assioma della scelta, cioè riconoscere che la lista esiste ma senza poter dire a che cosa assomigli. L’assioma della scelta permette dunque di scegliere un rappresentante di ciascuna classe d’equivalenza, ma non fornisce esplicitamente questa lista.

Qual è la misura di questa lista di rappresentanti? Senza entrare nei dettagli, si può dimostrare che questo insieme non ha misura zero, ma si può ugualmente dimostrare che la sua misura non è esattamente più grande di zero. La sola via d’uscita è dire che il concetto stesso di misura non è applicabile a questo insieme. Questa lista di rappresentanti, chiamata insieme di Vitali, non può dunque essere matematicamente misurata. Si tratta di ciò che viene detto un insieme “non misurabile”: in genere, si costruiscono gli insiemi di Vitali a partire dai numeri razionali piuttosto che da quelli decimali, ma il risultato è lo stesso. Anche se le loro densità sono le stesse, intuitivamente si immaginano più buchi tra i decimali che tra i razionali. Più formalmente:

L’insieme di Vitali, che prende il nome dal matematico italiano Giuseppe Vitali, fornisce un esempio di sottoinsieme dei numeri reali. R che non è misurabile da nessuna misura che sia positiva. Per la costruzione dell’insieme di Vitali è indispensabile l’assioma della scelta.



In breve, è possibile costruire oggetti in cui il concetto stesso di lunghezza, di area, o di volume non può esistere. Questa cosa non sarebbe poi così grave se Banach e Tarski non se ne fossero impadroniti. Essi hanno dimostrato che, associando opportunamente più oggetti non misurabili, è possibile costruire dei nuovi oggetti che invece sono misurabili. Così sono giunti a suddividere una sfera piena in 5 pezzi di cui quattro non misurabili, che consentono di costruire due nuove sfere identiche a quella di partenza attraverso semplici rotazioni e traslazioni. Ma questa è un’altre storia e ce ne occuperemo un’altra volta. 

Fonte: 

Choux romanesco, vache qui rit et intégrales curvilignes : Deux (deux ?) minutes pour le théorème de Banach-Tarski, consultato il 16 ottobre 2016.

giovedì 23 marzo 2017

Queneau tra letteratura e matematica


Raymond Queneau (1903-1976) è stato uno dei più prolifici ed eclettici scrittori francesi del secolo scorso. La sua vivacità intellettuale ha dato luogo a un’opera molteplice, con una produzione originale, talvolta giocosa e, per certi versi, inclassificabile. Una delle costanti che è possibile ravvisare nella sua opera è l’interesse per la scienza e, più in particolare, per la matematica. In molti hanno commentato l’aspetto combinatorio dei Cent mille milliards de poèmes (1961), libro singolare composto da dieci sonetti in cui ognuno dei rispettivi 14 versi, aventi le stesse rime e la stessa costruzione sintattica, è ritagliato su una striscia di carta. Facendole scorrere in modo casuale, I versi possono essere combinati fino ad offrire 1014 sonetti, appunto centomila miliardi.



Nel 1960 Queneau, attratto dalle possibilità offerte dalla combinatoria e dalla matematica in genere alla genesi letteraria, con un gruppo di scrittori e matematici tra i quali François Le Lionnais e Claude Berge, aveva fondato l’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle). Il termine “potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. 

Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che si aggiunge a quelle già esistenti (la rima, la metrica, la successione temporale, ecc.) e può creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di contraintes diverse, da quelle in qualche modo legate all’enigmistica, come il palindromo, l’acrostico, il lipogramma, a forme più direttamente legate alla matematica, come, oltre alla combinatoria, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una, dello stesso Queneau, è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. La “filosofia” di questo gruppo tuttora attivo e ramificato in diversi paesi, tra cui l’Italia, è che l’uso delle contraintes conduce l’autore a un maggiore sforzo immaginativo e può generare opere di assoluto interesse e qualità. 

La libertà compositiva del testo, lungi dall'essere mortificata, viene invece esaltata, come spiega lo stesso Queneau fin dal 1938 in aperta polemica con la scrittura automatica dei surrealisti: 
“Un'altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l'equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell'ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora”. 
I procedimenti combinatori utilizzati da Queneau sono tuttavia squilibrati verso l’immediatamente percepibile applicazione dell’artificio: essi non si tramutano nelle misure letterarie fondamentali (romanzo, racconto, o testo teatrale), ma si ritagliano un campo di sperimentazione limitato (il sonetto, appunto, o il frammento), in cui realizzare una sintesi tra i valori delle matematiche e quelli letterari, ad essi subordinati. La letteratura potenziale, in cui si attua la sua combinatoria, è cioè ancora una microcombinatoria, un fenomeno solo propedeutico alla combinatoria vera e propria in letteratura, di cui un maestro contemporaneo è stato ad esempio l’altro oulipiano Georges Perec con La vita: istruzioni per l’uso

La fascinazione di Queneau per i numeri fu precoce: alcune pagine del suo diario di adolescente già lo dimostrano chiaramente. A 17 anni annota: “Sono andato con Leroux al Museo. Studio con furore la matematica”. Alcuni dei suoi saggi, pubblicati in Bords (1963) e in Bâtons, chiffres et lettres (1965, in italiano “Segni, cifre e lettere e altri saggi”, Einaudi, 1981) contengono talvolta considerazioni sulle serie di Fourier, su Hilbert, su Bourbaki, e sulle “congetture errate nella teoria dei numeri”

Dal punto di vista più strettamente narrativo, nelle opere di Queneau la matematica compare, oltre che come struttura, con i limiti sopra esposti, anche in qualità di oggetto di letteratura, come ad esempio in Odile (1937, pubblicato in italiano da Einaudi nel 1989). 

Odile non è un romanzo matematico, anche se il suo protagonista, Roland Travy, è un matematico dilettante fallito. Si tratta invece della duplice storia di una vicenda amorosa e di un’infatuazione intellettuale. La prima, quella tra Travy e Odile, l’eroina nascosta che dà titolo all’opera, termina bene. La seconda, quella di Travy per il cenacolo surrealista il cui capo Anglarès è la parodia di André Breton, termina male (e si tratta di una vicenda autobiografica perché Queneau era stato surrealista alla fine degli anni ’20, abbandonando il movimento con disprezzo per i suoi deliri onirici). 


La matematica ricopre un ruolo portante nella narrazione, un ruolo che è “ambientale” e mai didascalico (diversamente da opere come Il teorema del pappagallo di Hans Guedj o Il mago dei numeri di Hans Magnus Enzensberger). Tanto meno Queneau fa uso della matematica per creare metafore. 

In Odile la matematica è utilizzata per dipingere l’identità del protagonista, che in essa cerca rifugio, e come ambiente narrativo. Quando Travy parla di matematica, riporta con precisione alcuni teoremi come si potrebbero trovare in un manuale. Ecco il suo sfogo durante un colloquio con Odile: 
“Gettai uno sguardo inutile su un foglio di carta che si attardava sul mio tavolo: dati due rami regolari semplici a diramazioni alterne, trovare il numero dei loro punti di intersezione in funzione di dodici quantità da cui dipende la loro rappresentazione simbolica in rapporto a due assi di coordinate. Ci volevano sei quantità per rappresentare senza ambiguità una tale figura geometrica, era là, pretendevo una delle mie scoperte, in effetti una semplice constatazione che fino a quel momento io non sapevo dedurre nulla. Presi un quaderno; vi erano dei calcoli su una nuova classe di numeri di cui mi credevo il padre, numeri formati di due elementi estremi di una doppia ineguaglianza. Essi presentavano rispetto alle tre operazioni diverse dall’addizione delle proprietà estremamente curiose che non arrivavo a spiegarmi chiaramente; delle ricerche su ciò che chiamavo l’induzione di serie infinite e l’integrale di Parseval, su ciò che definivo l’addizione a destra e quella a sinistra dei numeri complessi e l’importanza di queste operazioni per l’analisi combinatoria. Numeri, numeri, numeri...”
Significativa è la catena di incomprensioni tra Travy e il surrealista Anglarès quando il protagonista fa visita al suo salotto-cenacolo. Travy rappresenta quei giovani intellettuali che seguono i processi della recente matematica e sanno come questa sia andata ben oltre il mero rigore logico e il calcolo efficiente, ma non cade nella trappola della suggestione metaforica esercitata dalle geometrie non euclidee, dagli oggetti topologici, o dai paradossi della logica, come l’indecidibilità di Gödel, o dalle autoreferenze, come l’insieme di tutti gli insiemi o il barbiere di Russell. Al contrario, Anglarès, sostiene che le nuove matematiche rappresentano per i movimenti d’avanguardia la liberazione di nuove facoltà dell’immaginazione: gli oggetti e le strutture della matematica moderna come “bagaglio di metafore”, come investimento estetico, ma senza reale comprensione. Egli rappresenta il prototipo di tutta quella serie di intellettuali non specialisti affascinati e confusi che saranno ridicolizzati alla fine del secolo dalla burla intellettuale di Sokal e Bricmont
– Non esiste un solo mondo, – gli dissi, – quello che lei vede o che crede di vedere o che immagina di vedere o che vuole vedere, quel mondo che toccano i ciechi, sentono i mutilati e annusano i sordi, quel mondo di cose e di forze, di solidità e di illusioni, di vita e di morte, di nascite e di distruzioni, il mondo in cui viviamo, in mezzo al quale siamo soliti addormentarci. Per quel che ne so io ne esiste almeno un altro quello dei numeri e delle figure, delle identità e delle funzioni, delle operazioni e dei gruppi, degli insiemi e degli spazi. C'è gente, come sa, che pretende si tratti solo di astrazioni, costruzioni, combinazioni. Vogliono far credere a una specie di architettura; si prendono degli elementi della natura, si affinano, si puliscono, si prosciugano e lo spirito umano costruisce con questi mattoni una casa splendida, magistrale testimonianza della potenza della sua ragione... ma in realtà le cose non vanno così; non all'architettura, all'edilizia bisogna paragonare la geometria o l'analisi, ma alla botanica, alla geografia, alle scienze fisiche. Si tratta di descrivere un mondo, di scoprirlo e non di costruirlo o inventarlo perché esiste al di fuori dello spirito umano e indipendentemente da esso. Dobbiamo esplorare questo universo e dire poi agli uomini quel che ci abbiamo visto, dico proprio: visto. Ma per esprimerlo, occorre un linguaggio: quello dei segni e delle formule, quello che si considera comunemente l'essenza stessa della scienza e non ne è che il modo di espressione. Questo linguaggio si rivela ancor più impotente a descrivere le ricchezze del mondo matematico che non la lingua francese a formulare la molteplicità delle cose, poiché esse non si situano allo stesso livello di esistenza. C'è peraltro una specie di filologia matematica che si chiama logistica. Ma forse l'annoio? 
(...)
– È impossibile risolvere algebricamente le equazioni di grado superiore al quarto, eccetto in particolarissimi casi. In generale non si può. 
– Il fatto è che non ci si sa fare. 
– Si può dimostrarlo. 
– Ma è scandaloso. 
– Proprio così. È scandaloso perché esiste una realtà ribelle al linguaggio algebrico-logico, una realtà che ci supera e che non si può esprimere con un linguaggio inventato dalla nostra ragione, perché tiene in scacco il meccanismo di ricostruzione razionale di quel mondo. (...) Ma non creda che le cose si fermino qui e che l'intelligenza rinunci a proseguire l'esplorazione di quel campo. Si scontra con un ostacolo, cerca di superarlo, e tramite una nuova teoria, la teoria dei gruppi, scoprirà nuove meraviglie. Certamente uno spirito potente concepirebbe questo reale in un sol lampo; la nostra debolezza ci obbliga a dei sacrifici. 
– È maledettamente idealista, continui, quel che mi racconta. 
– Vuole dire realista: i numeri sono delle realtà. Esistono i numeri! Esistono come questo tavolo, più di questo tavolo eterno esempio dei filosofi, infinitamente più di questo tavolo bang!


Travy esprime qui l’opinione platonista di Queneau, e che si trova tra molti matematici moderni (e in scrittori interessati alle scienze esatte come Borges), che la matematica esiste al di fuori dell’uomo, non è una sua invenzione, non è la mera manipolazione di simboli inventati di cui era invece convinto Hilbert. Essa è invece un mondo che l’uomo esplora. I matematici non inventano gli oggetti matematici, bensì li scoprono. 

Nel suo rapporto con i numeri, Queneau considerò sempre se stesso un dilettante (nel vero senso della parola), un “buongustaio di cifre”. Ciò non gli impedì di essere aggiornato su suoi sviluppi attraverso letture specifiche, una pratica costante, e la partecipazione ai seminari dei maggiori matematici operanti a Parigi. 

Nel 1948 entrò nella Société mathématique de France e, dal 1963, fu membro dell’American Mathematical Society. Da quell’anno partecipò ai seminari di ricerca operazionale e di calcolo dei grafi. Dal suo diario sappiamo che negli anni Cinquanta era in contatto con i principali esponenti del gruppo di Bourbaki e che incontrava regolarmente a cena il logico matematico austriaco Georg Kreisel (1923), che allora insegnava a Parigi, con il quale discuteva delle principali innovazioni matematiche. 

Nella vasta bibliografia di Queneau, a dimostrazione del radicamento del suo interesse e della competenza acquisita, è presente persino una vera e propria pubblicazione matematica. Si intitola Sur les suites S-additives (e il lettore accorto avrà notato l’allitterazione…), che fu presentato da André Lichnerowicz come nota all’Accademia delle Scienze francese durante la seduta del 6 maggio 1968 e in seguito fu pubblicato (in francese!) sul Journal of Combinatorial Theory (12, p. 31, 1972) con la presentazione di Giancarlo Rota. In 41 pagine si succedono definizioni, teoremi con le loro dimostrazioni e un certo numero di congetture, tutti frutto dell’elaborazione di Queneau nel campo della teoria dei numeri. Altro che “due culture!” 

Queneau ha rappresentato la ricerca più significativa realizzata nel Novecento di una sintesi tra scienza e umanesimo, di cui possiamo leggere le basi teoriche in questo brano nel quale Queneau individua negli ambiti della Scienza e dell'Arte un'identica costituzione genetica: 
“L'ideale che si sono costruiti gli scienziati nel corso di tutto questo inizio di secolo è stato una presentazione della scienza non come conoscenza ma come regola e metodo. Si dànno delle nozioni (indefinibili), degli assiomi e delle convenzioni. Ma questo non è forse un gioco che non ha nulla di diverso dagli scacchi o dal bridge? Prima di procedere nell'esame di questo aspetto della scienza, ci dobbiamo fermare su questo punto: la scienza è una conoscenza, serve a conoscere? [...] che cosa si conosce in matematica? Precisamente: niente. E non c'è niente da conoscere. Non conosciamo il punto, il numero, il gruppo, l'insieme, la funzione più di quanto "conosciamo" la Realtà Concreta Terrestre e Quotidiana. Tutto ciò che conosciamo è un metodo accettato (consentito) come vero dalla comunità degli scienziati, metodo che ha anche il vantaggio di connettersi alle tecniche di fabbricazione. Ma questo metodo è anche un gioco, più esattamente quello che si chiama un jeu d'esprit. Perciò l'intera scienza, nella sua forma compiuta, si presenta e come tecnica e come gioco. Cioè né più né meno di come si presenta l'altra attività umana: l'Arte”. (1)
1) In La matematica nella classificazione delle scienze (1938), ora in Segni, cifre e lettere e altri saggi, cit.

mercoledì 22 marzo 2017

Le stelle nere di Michell


I primi buchi neri

Detto in parole semplici, un buco nero è una regione dello spazio-tempo dove il campo gravitazionale è così forte che nulla, neanche la luce, può allontanarsi. L’idea di questi strani oggetti del cielo è diventata popolare nella seconda metà del secolo scorso, ma era già contemplata nella relatività einsteniana.

Ciò che invece non è noto a tutti è che essa fu proposta per la prima volta più di due secoli fa, nella seconda metà del Settecento, dal reverendo inglese John Michell (1724-1793), che fu un geologo, fisico e astronomo educato a Cambridge e membro della Royal Society. Egli, che viene considerato il “padre della sismologia” per lo studio dei terremoti, fu anche il primo a immaginare le stelle doppie, a dimostrare che il magnetismo segue una legge quadratica inversa, a inventare la bilancia di torsione. Inoltre concepì l'esperimento poi realizzato da Cavendish che misurò la forza di gravità fra due corpi in laboratorio e consentì la prima valutazione accurata della massa della Terra e della costante gravitazionale.



In una memoria redatta nel 1783 e ritrovata negli anni Settanta del secolo scorso, Michell per primo pensò a un corpo celeste in cui la velocità di fuga può essere superiore a quella della luce. A quei tempi si pensava, con Newton, che la luce avesse natura corpuscolare e fosse in qualche modo simile al nostro concetto di fotone. Era pertanto ritenuto possibile che essa potesse essere influenzata dalla gravità, come accade alla materia ordinaria.

Già un secolo prima, Giovanni Cassini, impegnato nello studio della rivoluzione dei satelliti di Giove, aveva scoperto delle discrepanze nelle sue misure che aveva attribuito al fatto che la luce dovesse avere velocità finita. Nel 1672 l’astronomo danese Ole Rømer, che si trovava a Parigi come assistente di Cassini, si accorse che i tempi tra le eclissi (in particolare di Io) diventavano più brevi quando la Terra si avvicinava a Giove e più lunghi quando la Terra si allontanava. Nel 1675 Rømer stimò che il tempo impiegato dalla luce per percorrere il diametro dell'orbita terrestre, una distanza di due unità astronomiche, fosse di circa 22 minuti, un valore eccessivo rispetto a quello che oggi è stimato in circa 16 minuti e 40 secondi. La sua scoperta venne presentata alla Académie Royale e riassunta più tardi in una pubblicazione del 7 dicembre 1676. Nella memoria, Rømer affermava «che per una distanza di circa 3000 leghe, valore molto prossimo al diametro della Terra, la luce impiega meno di un secondo di tempo».



Le osservazioni sull’aberrazione stellare condotte da James Bradley nel 1728 diedero un’ulteriore conferma dell’ipotesi di Cassini e un valore più accurato per la velocità della luce, stimata in 295.000 Km/s. Il concetto newtoniano di velocità di fuga intesa come la velocità minima necessaria per sfuggire dalla superficie di un pianeta era ben noto. Per una massa sferica di massa M di raggio R, è semplicemente:



Dove G è la costante gravitazionale. La velocità di fuga perciò aumenta proporzionalmente se la massa dell’oggetto cresce oppure se la massa rimane la stessa ma diminuisce il raggio.

Torniamo a Michell: egli prese in considerazione un corpo di massa così grande che la velocità di fuga alla sua superficie era uguale alla velocità della luce. Nella sua memoria per la Royal Society scriveva:
4. Supponiamo ora che le particelle di luce siano attratte allo stesso modo di tutti gli altri corpi che conosciamo; cioè da forze che portano la stessa proporzione della loro vis inertiae, di cui non ci può essere alcun ragionevole dubbio, essendo la gravità, per ciò che sappiamo, o abbiamo qualche ragione di credere, una legge universale di natura. Sulla base di questa supposizione, quindi, se qualcuna delle stelle fisse, la cui densità è nota tramite i metodi sopra menzionati, sia grande abbastanza sensibilmente da influenzare la velocità della luce che esce da essa, dovremmo avere il modo di conoscere la sua reale magnitudine, ecc. (...)
16. Di conseguenza (...), Se il semidiametro di una sfera della stessa densità del Sole eccedesse quello del Sole in proporzione di cinquecento a uno, un corpo che cade da un’altezza infinita verso di esso, dovrebbe aver acquisito alla sua superficie una velocità maggiore di quella della luce, e, di conseguenza, supponendo che la luce sia attratta dalla stessa forza in proporzione alla sua [massa] con altri corpi, tutta la luce emessa da tale corpo dovrebbe tornare verso di esso, a causa della sua stessa gravità.


Michell immaginò l’esistenza di una stella con un raggio 500 volte quello solare e con la stessa densità. Per tale oggetto egli calcolò che il campo gravitazionale sarebbe stato così forte sulla superficie che la velocità di fuga era superiore a quella della luce. Dalla sua ipotetica stella neanche la luce poteva sfuggire, e la stella sarebbe stata invisibile. Sebbene egli lo ritenesse improbabile, egli considerò che molti di tali oggetti potessero essere presenti nel cosmo senza che noi li possiamo vedere.

Nel 1796, tredici anni più tardi, il grande matematico, fisico e astronomo francese Pierre Laplace sviluppò idee simili a quelle di Michell nella sua famosa opera Exposition du Systeme du Monde:
“Un astro luminoso, della stessa densità della Terra, e il cui diametro sia 250 volte quello del Sole, non permetterebbe, a causa della sua attrazione, ad alcuno dei suoi raggi di giungere fino a noi; è pertanto possibile che i più grandi corpi luminosi dell’universo possano, a causa di ciò, essere invisibili”.

Laplace presentò la sua tesi davanti all’Accademia delle Scienze, ma i fisici e gli astronomi, entusiasti dell’opera in generale, restarono scettici sulla possibile esistenza di un tale oggetto. Era nato il concetto di buco nero, ma la sua dimostrazione matematica sembrava appartenere al campo della fantasia agli occhi dei contemporanei.

Nei primi anni dell’Ottocento, gli esperimenti sull’interferenza ottica di Young e Fresnel portarono al maggior successo dell’ipotesi ondulatoria rispetto a quella corpuscolare, che finì nel dimenticatoio. Poiché si riteneva che le onde luminose non possano essere influenzate dalla gravità, finì l’interesse per le ipotetiche “stelle nere”. Lo stesso Laplace tolse il suo accenno a queste stelle senza luce a partire dalla terza edizione della Exposition du système du Monde.

Solo un secolo dopo, tra il 1900 e il 1905, si riconobbe che la luce possiede anche natura particellare e il “quanto di luce” (più tardi fotone) fu introdotto come costituente elementare delle radiazioni luminose da Max Planck e Albert Einstein.

Nel 1915 Albert Einstein pubblicò la rivoluzionaria Teoria Generale della relatività. Una delle sue predizioni più importanti era l’effetto della gravità sulla luce. Secondo la teoria, la materia provoca delle curvature nello spazio-tempo. Il cammino dei raggi luminosi è determinato dalla curvatura provocata dalle masse dei corpi celesti, come fu provato da Arthur Eddington nel 1919. Se la densità di un corpo è talmente elevata da curvare lo spazio-tempo in modo molto accentuato, neanche la luce riesce a sfuggire dal “buco” che si crea. Ciò fornì una prova scientifica in chiave moderna dell’ipotesi di Michell e Laplace.

martedì 21 marzo 2017

Enriques e la filosofia come sintesi delle scienze


Gli anni iniziali del Novecento videro compiersi in Italia la prima industrializzazione, e a molti intellettuali parve naturale sostenere gli studi che andavano nella direzione dello sviluppo scientifico e tecnico, dando ulteriore impulso alla nuova realtà economica, che si contrapponeva all'economia rurale, ancora largamente predominante. Il nostro paese, come al solito, si divise sul tema in due fazioni, di cui erano espressione, sul piano filosofico, da una parte il positivismo critico del matematico e filosofo Federigo Enriques (1871 – 1946) e dall'altra lo storicismo idealistico di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, quest’ultimo non ancora attualista. Enriques sosteneva che bisognasse dare più spazio nei curricula scolastici alle discipline scientifiche, ma anche alla filosofia, che doveva essere la sintesi dello studio e delle riflessioni non solo sulla storia, ma anche sulla natura, e che era stata drasticamente ridotta nei programmi. Per questo motivo aveva contribuito a fondare la Società Filosofica Italiana (SFI), proprio per difendere tale materia, che rischiava di scomparire. Di fronte a questo pericolo, egli, che riteneva fondamentale la formazione filosofica anche per gli scienziati, pensava di poter trovare l’aiuto di Croce, ma, mentre la SFI era sorta per difendere la filosofia in generale, e non una visione particolare, Croce sentiva il dovere di proteggere solamente il proprio pensiero dal potere della scienza, di cui non aveva una grande opinione come fattore di conoscenza e crescita per l’uomo.


L’importanza del sistema scolastico era una costante del pensiero di Enriques, che alla formazione dei docenti di matematica e alla didattica della materia si era dedicato fin dal 1902, quando iniziò a pubblicare per Zanichelli (che contribuì a fondare) una fortunata serie di manuali, scritti assieme a Ugo Amaldi, per i vari ordini scolastici. L’attività filosofica di Enriques aveva invece avuto inizio con il saggio Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria (1901), in cui indicava le origini della propria riflessione epistemologica nella ricerca geometrica dei modelli complessi di superfici algebriche, discutendo i problemi filosofici legati alla scoperta delle varietà di spazio non euclidee.

Enriques aveva proseguito il suo impegno filosofico nel 1906, quando non solo diede alle stampe i Problemi della scienza, un volume di oltre cinquecento pagine, frutto di quindici anni di ricerche sulla natura della conoscenza matematica e scientifica, ma intervenne anche al primo Convegno della SFI con la relazione L’ordinamento delle università in rapporto alla filosofia. I due testi, tra loro diversi, rappresentavano la duplice attività svolta dal matematico: l’una più filosofica e l’altra concretamente impegnata nella riforma della scuola media e dell’università.

Il primo convegno della SFI, organizzato a Milano il 20 e 21 settembre 1906, si occupò soprattutto di politica scolastica e di cultura generale, tra cui la riforma dell’insegnamento della filosofia nei licei e la riforma universitaria.

Enriques si fece il portavoce di un’esigenza diffusa tra i docenti delle facoltà scientifiche, che puntava a una riforma universitaria in linea con lo sviluppo del pensiero filosofico dell’epoca. Fin dalla sua fondazione, sosteneva Enriques, l’Università italiana soffriva dell’estrema specializzazione degli insegnamenti, che si manifestava. nella netta separazione delle Facoltà e nella moltiplicazione delle cattedre.

La separazione delle facoltà aveva avuto come effetto secondario l’irrigidimento dei piani di studio, obbligando gli studenti a seguire percorsi predefiniti, che rispondevano soprattutto a logiche accademiche, senza tener conto della nuova realtà economica e sociale, che richiedeva professionalità più articolate e complesse.

L'errore più grave commesso dal legislatore era tuttavia stato quello di considerare la filosofia una disciplina complementare del curricolo storico-letterario e separata dalle scienze matematiche e naturali, che invece erano state le matrici del pensiero moderno.

Per il matematico livornese, questo limite derivava anche dall'esclusiva concentrazione della produzione intellettuale all'interno dell’Università, mentre dalla società civile italiana, arretrata rispetto ad altri paesi, non giungevano né stimoli né voci critiche. Così l’apertura della SFI ai professori di liceo, ai cultori della materia e alla società civile, aveva proprio lo scopo di fare uscire tale disciplina dal ristretto ambito accademico, per promuovere, anche nei biasimati (da Croce) “circoli dilettanteschi”, il pensiero critico, attivo e consapevole, che nel giovane stato italiano mancava quasi del tutto, anche a causa delle altissime percentuali di analfabetismo.

Per Enriques, la filosofia doveva aprirsi alle questioni generali sollevate dalle scienze particolari, che rappresentavano un momento propedeutico rispetto alla fondamentale comprensione dei problemi e degli scopi ultimi della conoscenza. La filosofia maggiormente praticata nelle università italiane era invece, secondo Enriques, essenzialmente discussione astratta, spesso condotta in maniera vaga e oscura, senza un rigoroso metodo e con la pretesa di essere una scienza superiore.

Dopo il convegno di Milano, Enriques dedicò molti sforzi a cercare di promuovere il confronto tra la filosofia e gli altri saperi; per questo nel 1907 fondò a Bologna con altri studiosi la rivista Scientia, Organo internazionale di sintesi scientifica (dal 1911 semplicemente Scientia), che mirava a promuovere una filosofia libera da legami diretti coi sistemi tradizionali e ad affermare un apprezzamento più largo dei problemi della scienza (si pubblicavano articoli in italiano, inglese, francese e tedesco, con l’invito agli autori di evitare gli eccessivi tecnicismi). Nel programma della rivista si leggeva, nello stile dell’epoca:
«L’organamento attuale della produzione scientifica trae la propria fisionomia dal fatto che i rapporti reali vengono circoscritti entro discipline diverse, le quali ognora più si disgiungono secondo gli oggetti a secondo i metodi di ricerca. I risultati di codesto sviluppo analitico della scienza furono celebrati fino a ieri come incondizionato progresso, imperocchè la tecnica differenziata e l’approfondita preparazione di coloro che coltivano un ordine di studi ben definito, recano in ogni campo del sapere acquisti importanti e sicuri. Ma a tali vantaggi si contrappongono altre esigenze che il particolarismo scientifico lascia insoddisfatte, ed alle quali si volge con maggiore intensità il pubblico contemporaneo».

Il primo convegno della SFI, organizzato a Milano il 20 e 21 settembre 1906, ebbe al centro questioni di politica scolastica e di cultura generale, tra cui la riforma dell’insegnamento della filosofia nei licei e, soprattutto, la riforma universitaria.

Per Enriques lo spazio ed il ruolo della filosofia andavano visti come «sintesi» delle conoscenze scientifiche e non come autonoma speculazione, indipendente da ogni acquisizione scientifica. L’idealismo di Croce e Gentile contestava alle scienze il loro particolarismo e la loro astrattezza, mentre l’atteggiamento filosofico di Enriques, consapevole tanto dei limiti quanto della forza delle scienze, era volto decisamente a cercare una riunificazione sintetica dei saperi.

L’importanza dell’impresa di Scientia, diretta da Enriques fino al 1913, fu percepita a fondo proprio da Benedetto Croce e Giovanni Gentile, che reagirono in modo aggressivo. Gentile scrisse su la “Critica”, la rivista filosofica che con Croce aveva fondato nel 1903, che Enriques e i suoi:
“volendosi orientare nella scienza cercano il centro, per dirla con Bruno, discorrendo. e per la circonferenza. E però é naturale cerchino e non trovino nulla; e facendo la filosofia scientifica, non si scontrino mai con la filosofia”.

Croce, nel 1908, in Il risveglio filosofico e la cultura italiana, rispose ad Enriques, liquidando in modo perentorio («antifilosofico» secondo il matematico) la proposta di considerare la scienza come fondamentale nelle problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei filosofi idealisti, come lui stesso. Per gli scienziati non ebbe riguardo:
«Gli uomini di scienza […] sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all’organismo filosofico-storico”.
Sempre nel 1908, Enriques riprese alcune delle critiche rivolte al sistema universitario italiano contenute nella relazione al I convegno della SFI e le approfondì in maniera sistematica. Enriques sosteneva che negli ultimi cinquant'anni l’università italiana aveva avuto un grande sviluppo, ma guardare ai successi del passato non era più sufficiente; per garantire successi futuri bisognava tenere in considerazione le necessità del presente, soprattutto se si voleva che l’Italia fosse in grado di reggere il confronto con gli altri paesi europei e mantenere quel ruolo di centralità e di prestigio che la tradizione rinascimentale le aveva assegnato.

Completamente inadeguato rispetto alla nuova produzione scientifica mondiale, che metteva in relazione tutti i saperi, il sistema universitario italiano separava i diversi rami della scienza producendo una ricerca astratta e sterile. Inoltre
“Ora tutte queste deficienze ed angustie si rispecchiano direttamente nell’insegnamento medio, anche a prescindere dal fatto che non si provveda adeguatamente ad una preparazione pedagogica dei futuri docenti. Le esagerazioni del rigore – sotto forma di minuzie e di pedanterie senza scopo – […] sono in correlazione diretta colle condizioni della preparazione universitaria dei docenti delle scuole medie”.
Ancora una volta Enriques insisteva sulla formazione dei docenti della scuola media. Una delle questioni più dibattute a livello scientifico e politico era infatti quella dell’innalzamento della qualità della scuola, legato strettamente alla preparazione dei suoi insegnanti, perché avessero non solo una specifica formazione pedagogica, ma anche una migliore preparazione generale. Non si sarebbero potuti avere insegnanti migliori senza una università migliore, e quindi senza docenti universitari migliori.


Alla luce di questa analisi, Enriques riprese la proposta avanzata nella relazione presentata al primo convegno della SFI e propose di unificare le Facoltà di Scienze e di Lettere, il che avrebbe significato il naturale ritorno alla tradizione italiana. Tutti gli insegnamenti teorici, come la fisiologia, la storia, l’economia e il diritto, avrebbero dovuto essere compresi nella nuova Facoltà Filosofica, lasciando all’esterno solo il Politecnico per gli ingegneri, il Policlinico per i medici e le Scuole normali di Magistero per gli insegnanti. La Facoltà Filosofica doveva inoltre godere di ampia autonomia, e, tranne un piccolo numero di insegnamenti fissi, avrebbe potuto attivare anche insegnamenti variabili, rispondenti a precise finalità scientifiche e pratiche.

All’autonomia scientifica e didattica delle Università e alla libertà d’insegnamento doveva corrispondere la libertà degli studi; libertà piena in campo scientifico, opportunamente condizionata riguardo alle professioni. La laurea era sancita da un esame complessivo. finale, cui si accedeva dopo aver frequentato un certo numero di corsi, scelti liberamente dallo studente. In linea generale doveva essere fissato solamente il numero minimo dei corsi; la Facoltà avrebbe poi accertato la serietà del programma seguito e, se del caso, prescritto integrazioni agli studi.

Oltre alla laurea potevano essere attivati altri diplomi o titoli, aventi valore solamente scientifico, non di abilitazione alle professioni o ai pubblici uffici. L’abilitazione alle professioni e l’ammissione ai pubblici uffici andavano conseguite mediante esami di Stato.

Consapevole delle opposizioni che la proposta avrebbe sollevato e degli interessi di parte con cui sarebbe entrata in conflitto, Enriques difese fermamente questo modello verso cui la riforma doveva tendere.

Di fronte alle critiche apodittiche e stizzite di Croce e Gentile alle sue posizioni filosofiche, Enriques reagì esprimendo la sua critica all’idealismo durante il III Congresso della SFI, tenutosi a Roma nell’ottobre del 1909. In quell’occasione egli aveva invitato gli hegeliani a prendere atto della totale inadeguatezza del loro sistema filosofico di fronte alla mutata società contemporanea, perché troppo astratto e. incapace di aprirsi al confronto con il mondo esterno. Nei giorni seguenti ribadì la propria convinzione che la filosofia moderna non potesse non essere che scientifica, e che un’intuizione unificata della vita doveva necessariamente contenere non solo la filosofia della storia, ma anche quella della natura.

Queste acute divergenze non impedirono che a Croce fosse offerto un importante ruolo nel IV Congresso Internazionale di Filosofia, organizzato a Bologna dal matematico livornese, evento nel quale Enriques era riuscito a coinvolgere grandi filosofi e scienziati di tutta Europa e che avrebbe potuto dare ulteriore impulso all’azione di riforma della scuola e dell’università.

Si arrivò al Congresso bolognese dell’aprile del 1911, che. segnò una data storica, anche se poco conosciuta dai non addetti ai lavori, per la cultura italiana del Novecento. La contesa che ne seguì fu il punto culminante di una reciproca antipatia professionale tra i due intellettuali, che riguardava non solo le loro idee, ma anche i loro differenti progetti per la riforma del sistema educativo. I toni aspri di entrambi fanno pensare non tanto a una classica disputa filosofica, ma a una vera e propria lotta politica.

Nel Congresso bolognese a Croce era stata affidata la presidenza della sezione di Estetica. Ciò nonostante, egli non mancò di polemizzare con gli organizzatori (cioè Enriques) per il taglio troppo scientifico dato all’evento. Nell’intervista rilasciata a Guido De Ruggiero sul treno che lo riportava da Bologna a Napoli, e apparsa sul «Giornale d’Italia» del 16 aprile 1911, Croce stigmatizzò il “volenteroso Professor Enriques, che con zelo ma scarsa preparazione si diletta di filosofia:” si trattava di un attacco personale, volto non tanto a criticare l’orientamento filosofico dell’avversario, quanto a screditarlo. La polemica proseguì sul quotidiano e fuori delle sue colonne. Enriques vergò in risposta un articolo dal titolo provocatorio Esiste un sistema filosofico di Benedetto Croce?, nel quale prendeva di mira diverse parti del pensiero crociano, e muoveva al filosofo critiche sostanziali che andavano ben oltre il piano strettamente filosofico.
“L’opera filosofica di Benedetto Croce offre questo esempio paradossale. Se ne fa rumore quotidianamente nei giornali politici accennando qualcosa di alto e di inaccessibile ai profani, se ne lodano i meriti da qualche fautore appassionato, che mira non tanto ad esaltare le dottrine quanto la personalità dell’artefice; e viceversa – a prescindere da critiche frammentarie – quest’opera non è stata giudicata, non ha dato luogo ad un esame approfondito o ad un vero dibattito d’idee. […] Ora la prima ricerca da fare per chi voglia fermare un giudizio su questi libri, è di vedere quale sia per l’A. il concetto della filosofia e quale senso positivo riceva per lui la costruzione d’un sistema. Ma questa ricerca non riesce agevole a cagione del modo […] pieno di una polemica che sotto il nome di deduzione degli errori filosofici – mira ad escludere dalla filosofia, l’una dopo l’altra, le questioni più interessanti che concernono il pensiero e la vita”.
Quella di Croce era insomma un guscio vuoto, una filosofia fatta soltanto di schemi verbali e di nomi, l’involucro esterno della filosofia, ma non la filosofia. Il filosofo napoletano rispose definendo quelli di Enriques. sfoghi polemici, che non svegliavano abbastanza il suo interessamento intellettuale; lo invitò a dedicarsi solo alla matematica e a lasciar perdere la filosofia,
«smettendo di tenere conferenze in circoli dilettanteschi, di fronte ad un pubblico misto, evitando di addossarsi le fatiche dei congressi dei filosofi in qualità di presidente di una composita e inerte ‘Società Filosofica Italiana’»
Enriques si rendeva ben conto che dietro alla polemica personale si nascondeva la strenua difesa di un modello culturale. Proprio la durezza dei toni usati da Croce e la scelta di abbandonare il confronto teoretico per l’offesa personale consentono di apprezzare l’impegno profuso da Enriques per il rinnovamento della scuola e dell’università, le uniche istituzioni che avrebbero potuto produrre il necessario cambiamento all'interno della cultura e delle coscienze degli italiani.

Purtroppo non andò così. La guerra prima, e il fascismo poi, segnarono la sconfitta delle idee di Enriques e la vittoria di quelle di Giovanni Gentile, tardo hegeliano e vicino a Croce, autore di una riforma scolastica improntata al predominio delle Humanae Litterae sulla scienza, che informò di sé la cultura italiana di gran parte del Novecento. In realtà, Gentile ed Enriques dialogarono, e mentre Gentile sembrò apprezzare l’idea di una storia del pensiero scientifico propugnata da Enriques, lo stesso rimproverò a Gentile la mancata attuazione completa della riforma della scuola, nella quale si era previsto l’inserimento della storia della scienza. Scientia continuò le pubblicazioni anche durante il fascismo, e Enriques tornò a esserne il direttore tra il 1930 e il 1938.


Nel 1938, Federigo Enriques, di origine ebraica, fu colpito dalle leggi razziali e costretto ad abbandonare l’insegnamento e qualsiasi altro impiego di carattere culturale. Negli anni della discriminazione razziale insegnò a Roma nella scuola ebraica clandestina fondata da Guido Castelnuovo e riuscì a pubblicare alcuni articoli in forma anonima sul Periodico delle Matematiche. Durante l’occupazione tedesca visse nascosto. Tornò a insegnare all'Università nel 1944 per altri due anni fino alla morte, avvenuta a Roma il 14 giugno 1946. Scientia fu pubblicata fino al 1988.


lunedì 20 marzo 2017

La libellula di Gadda


Nel 1953 Carlo Emilio Gadda pubblicò una piccola meditazione in forma di dialogo intitolata L’egoista, in cui due personaggi, Teofilo e Crisostomo, conducono un comune discorso circa le differenze tra la psicologia dell’egoista e quella dell’egotista-narcissico (narcisistico). Il breve testo (qui) è in realtà uno pseudo-dialogo, in cui i due interlocutori non discutono: le divisioni del discorso riproducono il più delle volte una normale distribuzione in paragrafi, limitandosi in pratica a esprimere le opinioni dell’autore.

Non sono comunque le idee di Gadda sull’egoismo che mi hanno spinto a scrivere questa nota, bensì la frase che si trova a conclusione del primo intervento di Teofilo:
“Chi immagina e percepisce se medesimo come un essere «isolato» dalla totalità degli esseri porta il concetto di individualità fino al limite della negazione, lo storce fino ad annullarne il contenuto. L’io biologico ha un certo grado di realtà: ma è sotto molti riguardi apparenza, vana petizione di principio. La vita di ognun di noi pensata come fatto per sé stante, estraniato da un decorso e da una correlazione di fatti, è concetto erroneo, è figurazione gratuita. In realtà, la vita di ognun di noi è «simbiosi con l’universo». La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti od esseri) a noi apparentemente esterne. Ognuno di noi è limitato, su infinite direzioni, da una controparte dialettica: ognuno di noi è il no di infiniti sì, è il sì di infiniti no. Tra qualunque essere dello spazio metafisico e l’io individuo (io-parvenza, io-scintilla di una tensione dialettica universale) intercede un rapporto pensabile: e dunque un rapporto di fatto. Se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me”. 
La prima cosa che mi è venuta in mente è il notorio sermone di John Donne (Meditazioni, XVII), per cui nessun uomo è un’isola:
“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. 
La frase finale dell’ingegnere, quella della libellula giapponese, ricorda tuttavia una metafora scientifico-filosofica diventata famosa molti anni dopo il 1953: la farfalla della complessità e del caos di Edward N. Lorenz. La prima comparsa della farfalla brasiliana risale alla conferenza Does the flap of a butterfly’s wings in Brazil set off a tornado in Texas?, che Lorenz tenne nel 1972. L’idea era però già presente in un articolo del 1963, dove si diceva “un meteorologo fece notare che se le teorie erano corrette, un battito delle ali di un gabbiano sarebbe stato sufficiente ad alterare il corso del clima per sempre”. Successivamente Lorenz usò la più poetica farfalla, forse ispirato dal diagramma generato dai suoi attrattori. La scelta di Gadda sembra persino migliore: una libellula, per di più giapponese, magari uscita da un haiku, indica una causa scatenante ancor più delicata di un grosso lepidottero tropicale o di un gabbiano.


Se vogliamo dirla proprio tutta, neanche Gadda è stato il primo profeta dell’effetto farfalla. Alan Turing, nel saggio Macchine calcolatrici e intelligenza (1950), aveva anticipato questo concetto:
“Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza”. 
E nel breve racconto fantascientifico di Ray Bradbury Rumore di tuono (A Sound of Thunder), pubblicato nel 1952, l’uccisione accidentale di una farfalla giurassica durante un viaggio all'indietro nel tempo ha conseguenze imprevedibili sul futuro, al punto di cambiare l’esito di un’elezione presidenziale nel 2055. Che morale trarre da queste coincidenze? Forse le morali sono molte, ma, a mio parere, quando giunge il tempo perché un idea nasca e abbia successo (oppure che discenda dal suo mondo iperuranio), sono in molti ad averla, magari indipendentemente l’uno dall'altro.