martedì 28 settembre 2010

Una recensione musicale


Gli strazianti riff di Hilbert che emergono da un tappeto di chitarre novembrine ricordano gli episodi migliori del quartetto di Anchorage, qui al suo settimo album. Da parte sua, il beat sincopato di Boole lascia spazio a episodi di pura misura in cui tamburo e rullante si alternano in ritmi dispari impossibili come nei deliri più acidi di Russell o dei Whitehead. La vocalist, sirena zoppa dell'Artico, intona note ricostituenti che la avvicinano in parte alla Frege più voluttuosa (quella con i Logik, per intenderci) e, in momenti di pura iconoclastia, al salmodiare gregoriano condito di carta vetrata dell'ultima bicilindrica tedesca. Le tastiere riscattano la precedente mezza delusione di Sorites Paradox e, lasciati da parte gli eccessi minimalisti, strabordano in sonorità fastose temperate di sensualità country’n’western. Davvero un ottimo riscatto per il biondo spettinato di Denver. Un album assolutamente meraviglioso e degenere, sperimentale nel suo classicismo dodecafonico, sconsigliato ai cardiopatici e dannatamente indispensabile agli agitatori sociali.

(da Fake Rock oggi in edicola)

lunedì 20 settembre 2010

Il rospo sardo e la teoria cinetico–molecolare

Un saggio rospo di uno stagno della Gallura
mi spiegò la differenza tra calore e temperatura.

“Il calore è l’energia di moto disordinato
di tutte le molecole di un corpo considerato,
invece T è come la media di questa energia:
non dipende dalla massa, e così sia.
Così una pietra rovente ha T più elevata
ma meno calore dello stagno in cui è gettata.

Se le molecole tutta l’energia han perduto
si ha la T più bassa, o zero assoluto.
Al di sotto di questa non si può proprio andare:
se il moto è già nullo, che media vuoi fare?”
Con sguardo interrogativo mi disse “Ayò”,
salutò con gentilezza e nell’acqua si tuffò.

domenica 19 settembre 2010

Riceviamo e volentieri pubblichiamo: Ode al laser


Un amico del centro Italia, che, chissà perché, desidera restare anonimo, mi invia questi versi, in occasione del cinquantesimo genetliaco del laser. Come si vede, ogni strofa è ispirata proprio al processo di emissione di luce monocromatica coerente attraverso successive amplificazioni: una bella idea.

Un fotone
si propagava
lungo l’asse di una cavità.
Desiderandone un altro nel suo stato,
andò a stimolare
un atomo eccitato.

Due fotoni
si propagavano
lungo l’asse di una cavità.
Molto felici dei loro eguali stati,
andarono a stimolare
altri atomi eccitati.

Quattro fotoni
si propagavano
lungo l’asse di una cavità.
Molto felici dei loro eguali stati,
andarono a stimolare
altri atomi eccitati.

Otto fotoni
si propagavano
lungo l’asse di una cavità.
Molto felici dei loro eguali stati,
andarono a stimolare
altri atomi eccitati.

2n–1 fotoni
si propagavano
lungo l’asse di una cavità.
Molto felici dei loro eguali stati,
andarono a stimolare
altri atomi eccitati.

E quando furono, poi, davvero tanti
fecero un bel fascio con tutti quanti i quanti

Mi auguro che i commenti positivi alla sua intelligente composizione inducano l’amico a rivelarsi.

sabato 18 settembre 2010

Aut fides aut scientia (2): Etimologie della religione


All'origine del rapporto degli uomini con il sacro vi è l'assoluta dipendenza rispetto a ciò che determina la loro esistenza, l'integrale alterità del fondamento primordiale, raccontato dai miti, rispetto al mondo terreno. Scrive Marcel Gauchet (Il disincanto del mondo, Einaudi, Torino, 1992) sulla concezione degli uomini di quella credenza originaria: “Ciò che è non dipende da noi, per nulla. La nostra maniera di vivere, le nostre regole, i nostri costumi, ciò che sappiamo, lo dobbiamo ad altri, sono cose che hanno definito o instaurato esseri di natura diversa dalla nostra, gli Antenati, gli eroi, gli Déi. Noi non facciamo altro che seguirli, imitarli o ripetere ciò che ci hanno insegnato”. Tutto ciò che governa la vita individuale e sociale, dai piccoli gesti alle grandi imprese, deriva da un passato fondatore, che è continuamente riattivato dai riti e affermato nella sua originaria alterità dal complesso dei miti e dei simboli. Questo schema si ritrova in tutte le società arcaiche, alle più diverse latitudini, senza alcuna eccezione, nonostante la grande frammentazione dei gruppi umani e delle culture.

La profonda separazione rispetto al tempo primordiale, in cui tutte le cose sono state instaurate, fa sì che nessuno può pretendere di parlare in nome del sacro, di invocare rapporti privilegiati con il divino, per decretare la propria superiorità morale, politica o religiosa. Esistono differenze di status o di prestigio, ma la dipendenza radicale dal principio agisce in modo da evitare, almeno inizialmente, l'instaurarsi di un potere che possa decretare la propria legge o imporre la propria forza coercitiva. Nasce in questo modo un'organizzazione in cui il tutto prevale sulla parte, un modello, basato sull'anteriorità e superiorità del principio d'ordine collettivo sulla volontà degli individui, che si contrappone a quello individualistico e competitivo dei tempi moderni. Dal modello disegnato dal pensiero mitico non nascono necessariamente società pacifiche, perché c'è spazio per la guerra, c'è la possibilità di uccidere ed essere uccisi, ma non è data la possibilità di ricusare ciò che lega ai propri simili, di mettere in discussione il principio stesso della coesistenza.

Lo spostamento alle origini e ad Altri delle cause e dei fondamenti comporta inoltre un caratteristico atteggiamento verso la natura. Se l'attuale dipende in ogni caso dall'originale, anche il mondo dell'uomo s'inscrive in un ordine naturale dato, che non è possibile mettere in discussione. L'antagonismo insito nei rapporti dell'uomo con la natura è così vanificato dall'idea di una comunione cosmologica e biologica, di una solidarietà mistica, con tutte le cose: i cicli del cielo, gli animali, gli alberi, le acque, i monti, ecc.. Con questo non voglio affermare l'ingenua idea di un uomo "naturale", pacifico ed ecologico, preesistente al "progresso" economico e tecnologico: il cosiddetto "primitivo" (il buon selvaggio di Rousseau o l’abitante di una remota e felice Età dell’oro) non può essere innalzato ad astrazione ideologica per sottolineare i difetti della società del tempo in cui lo si pensa; la "spontaneità" non sempre è sinonimo di mitezza o di comunione con l'ambiente.

L'homo religiosus delle società arcaiche, così come l'uomo di tutte quelle premoderne, tende a vivere il più possibile nel sacro. Nella mentalità tradizionale il sacro permea la vita dell'uomo, al punto che ogni atto materiale è vissuto come espressione visibile e terrena di qualcosa la cui essenza reale si colloca su un piano diverso, invisibile e spirituale. La separazione effettuata nel mondo contemporaneo tra sacro e profano, tra spirito e materia, non ha senso in un mondo nel quale uomini e dèi vivono in stretto contatto, in cui è sempre possibile un collegamento tra questo e l’Altro Mondo. Non è casuale che nell'antico lessico comune indoeuropeo non esistono termini per designare la religione, come sottolinea Émile Benveniste (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Volume secondo: potere, diritto, religione, Einaudi, Torino, 1976): "Non si può concepire chiaramente e quindi denominare la religione se non dal momento in cui essa è delimitata, in cui essa ha un campo distinto, in cui si può sapere ciò che le appartiene e ciò che le è estraneo". Solo quando la religione cesserà di impregnare ogni aspetto della vita nascerà un termine, diverso in ogni lingua, per designarla. Il fatto che in una lingua antica esista il termine per definire la religione indica che essa non è più quella originaria. Ciò accade per il latino religio, che, dal punto di vista etimologico, è un tentativo di raccogliere ordinatamente (re-ligere), ciò che riguarda il culto, di cingere l'area del sacro perché esso non invada il mondo degli uomini.


Sin dall'antichità l'etimologia della parola religione è stata oggetto di dispute, che proseguono ancora oggi. Cicerone (La natura degli déi, II, 28.72) la fa derivare da relîgere ("riprendere con una nuova scelta, ritornare su un'operazione anteriore, riunire" gli atti religiosi per eseguirli scrupolosamente), perciò religiosus sarebbe chi è "scrupoloso nel culto", chi coscienziosamente si avvicina ai riti, alle cose pertinenti gli déi. Negli autori latini (L. Accio, Plauto, Tito Livio), infatti, relîgio designa lo scrupolo religioso, dunque una disposizione soggettiva, e non un sentimento che porta ad un'azione, che incita a praticare un culto. Anche se il significato di "religione" è nel frattempo cambiato, l'etimologia fornita da Cicerone sembra quella più convincente.

Il cristiano Lattanzio (Istituzioni divine) sostiene invece che il termine deriva da religare ("legare strettamente, attaccare"), dimenticando che difficilmente un verbo della prima coniugazione può dare l'astratto religio (caso mai avrebbe dato religatio): "Il termine religio è stato tratto dal legame della pietà, perché Dio si è legato [religaverit] l'uomo e lo ha vincolato attraverso la pietà". Sant'Agostino (La città di Dio) inizialmente sembra sposare l'etimologia di Cicerone: "Avendo perso Dio perché negligenti [negligentes], ritrovandolo [religentes] siamo tratti a lui". In seguito (Ritrattazioni), egli sposa l'etimologia di Lattanzio, che diventerà quella ufficiale del cattolicesimo. Secondo la Catholic Enciclopedia (vol. XII, voce Religion), "la religione (…) implica il concetto dell'essere legati a Dio", trattandosi di "(…) una relazione personale, quella del suddito e creatura, l'uomo, con il suo Signore e Creatore, Dio". Così, con un po' di mistificazione, la religione, fenomeno originale, sempre ravvisabile per quanto si risalga all'indietro nel tempo e fenomeno universale, al quale non è sfuggita alcuna società, è fatta diventare un'invenzione del cristianesimo. Il concetto cristiano di religio è ricalcato sull'idea che l'uomo si fa della sua relazione con Dio, idea del tutto diversa dall'antica religio romana, e che prepara l'accezione moderna.

Come afferma Umberto Galimberti in Orme del sacro (Feltrinelli, Milano, 2000), la religione, recingendo l'area del sacro, ne garantisce contemporaneamente la separazione e il contatto, che restano sempre regolati da pratiche rituali, capaci di evitare l'irrompere del chaos sovrumano nel cosmos umano e insieme di garantire un contatto tra i due mondi. Rito, magia e sacrificio servono ad assicurare il legame tra l'uomo e le potenze superiori che abitano la sfera del sacro, impedendo che la loro tremenda potenza possa essergli nociva. Queste pratiche esistevano già prima di invocare qualsiasi divinità: infatti "Dio nella religione è arrivato in ritardo".


Considerata dal lato della sua funzione, la religione si è sempre manifestata come fenomeno sociale, in cui si sono dall'inizio imposti un'idea di spossessamento, di negazione da parte dell'uomo della sua capacità di trasformare l'organizzazione del mondo in cui vive, e un pensiero di prevalenza dell'ordine determinato dal fondamento primordiale contro ciò che può essere determinato dall'azione umana, nei rapporti sociali o nei confronti dell'ambiente. In poche parole: l'Altro come fonte e l'immutabile come principio regolatore. Queste scelte hanno disinnescato tutti gli elementi d'instabilità o di tensione dinamica all'interno dei gruppi sociali, favorendo la loro sostanziale coesione e l'inviolabilità delle norme.

L'insieme di atteggiamenti e il sistema di pensiero dell'homo religiosus sono talmente coerenti e radicati che hanno potuto percorrere i millenni quasi fino ad oggi, nonostante la scomparsa del tipo di società che a loro interamente si rifaceva, nonostante gli sconvolgimenti politici, i cambiamenti delle condizioni materiali, le trasformazioni culturali e spirituali. Senza dubbio qualcosa di quell'idea tradizionale della dipendenza sacrale e della permanenza consuetudinaria è sopravvissuto nelle società contadine europee almeno fino agli inizi del '900, in mezzo a un mondo che poco o nulla conservava delle sue radici.

Non si può negare che la religione sia anche un fenomeno storico, perché è condizionata dalla cultura, dall'economia, dall'organizzazione sociale, dalle risorse tecnologiche: i simbolismi e i culti della Terra Madre, ad esempio, della fecondità agraria e umana, non si sarebbero sviluppati in un sistema religioso elaborato se non attraverso la scoperta dell'agricoltura. Ma, prima e dopo ogni conquista della civiltà, le società umane, fino alla moderna secolarizzazione, hanno continuato a vivere in un cosmo sacralizzato, che è quello dell'homo religiosus. L'atteggiamento religioso è stato per millenni una costante della società umana, al punto da essere considerato, accanto all'uso del linguaggio e degli utensili, una proprietà innata dell'uomo (Wittgenstein ha parlato dell'uomo come "animale cerimoniale"). Tuttavia, il religioso, ha rilevato Marcel Gauchet, "procede nella sua organizzazione (…) da un'istituzione e non dalla necessità, dalla scelta e non dalla costrizione (…). La religione è stata con ogni probabilità l'abito multimillenario d'una struttura antropologica più profonda la quale, pur dopo il disfacimento delle religioni, continua tuttavia a operare sotto altra veste". Sotto questo aspetto, afferma lo studioso francese, la religione, fenomeno storico, come ogni cosa nella storia, ha avuto un inizio ed è destinata ad avere una fine.

(continua in un prossimo articolo)

venerdì 17 settembre 2010

La legge dei gas perfetti (in versi)


Se in un gas è grande la confusione
la situazione è davvero eccellente:
tra le molecole nessuna interazione
a meno che si urtino elasticamente.

È un gas proprio ideale, un’astrazione,
in cui il prodotto tra volume e pressione
è uguale alla temperatura assoluta
per i fattori n e k di entità conosciuta.

giovedì 16 settembre 2010

L’elefante (3 limerick fisici in sequenza)

Un elefante volle un ricco maragià
portare sul terrazzo della sua casa di città:
in quel posto innaturale
la sua energia potenziale
valeva m per h per l’accelerazione di gravità.


Per l’imperizia di un addetto all’animale,
la bestia cadde giù dal davanzale.
Durante la caduta,
è cosa risaputa,
diventava cinetica l’energia potenziale.



Un pachiderma che precipita spaventato
è un fatto che all'occasione va evitato:
non sostare nella via
quando la sua energia
vale ½ m per la velocità al quadrato.


mercoledì 15 settembre 2010

Aut fides aut scientia (1): Etimologie del sacro


Non esiste nel vocabolario comune indoeuropeo una parola che indichi ciò che oggi si intende con "sacro", così come non sono attestati termini per indicare la "religione", il "culto", e i "sacerdoti". Ciascuna cultura nel tempo ha elaborato per questi concetti un lessico suo proprio, collegato a credenze e culti particolari. Nell'ambito delle antiche lingue indoeuropee si constata che molte possiedono una duplice espressione, distinta in ogni idioma, cioè due termini complementari che enunciano un duplice aspetto del sacro. Lo studio degli esperti comparatisti di lingue indoeuropee rivela inoltre che non è possibile far corrispondere coppie simili in lingue diverse.

In greco, hierós significa "santo, sacro, forte, potente, eccelso", ad indicare, positivamente, ciò che, o chi, è carico della presenza divina, mentre hágios evoca la nozione, negativa, di qualcosa (territorio, animale sacrificale, tempio) o qualcuno (dio, essere umano) che è intoccabile, proibito, difeso contro ogni violazione dalla minaccia di un castigo divino. Ciò spiega la duplice valenza di hágios: "santo, puro, venerato", ma anche "maledetto, esecrando".

In latino, sacer presenta sia la connotazione positiva di "sacro, consacrato, venerando, augusto", sia quella negativa di "infame, maledetto, esecrabile". Il grammatico Festo (De verborum significatione) a questo proposito è molto esplicito, in quanto sostiene che colui che è detto sacer porta una colpa infamante che lo pone fuori dalla comunità umana: si deve fuggire il suo contatto, né si può condannare chi lo uccide. Un uomo sacer è per gli uomini ciò che l'animale sacer è per gli déi: entrambi nulla hanno in comune con il mondo degli uomini e pertanto non possono essere avvicinati senza il pericolo di esserne contaminati o di contaminarli. In sacer è presente così la nozione di un'area separata che è attribuita al divino. Il suo senso si chiarisce per opposizione a profanus, "al di fuori del fanum", dell'area consacrata. Anche il rapporto con sacrificium (da sacrum facere, "rendere sacro") è evidente, poiché la vittima, per diventare sacra, per superare la soglia che separa i due mondi, deve essere messa a morte, di solito da un sacerdos ("colui che compie il sacrificio").

Il duplice valore di sacer non si riscontra minimamente nell'altro termine latino utilizzato per esprimere il concetto moderno di "sacro", cioè sanctus. La parola indica originariamente ciò che è frutto di un'operazione umana, di una sanzione (il latino sancire vuol dire delimitare il campo d'applicazione di una disposizione e renderla inviolabile, ponendola sotto la protezione degli déi, evocando il castigo divino sull'eventuale violatore). Sanctus è pertanto tutto ciò che è difeso e protetto dall'ingiuria degli uomini attraverso una certa sanzione, che lo ha reso "sacro". Non è ciò che è consacrato agli déi (non è sacer), e non è ciò che è profano (che si oppone a sacer), ma è ciò che, non essendo né l'uno né l'altro, è stabilito, sancito, da una legge: nell'antico diritto romano la pena era applicata dagli déi stessi, che intervenivano come vendicatori. Si potrebbe definire la differenza tra sacer e sanctus sostenendo che il primo termine è il sacro implicito, una qualità assoluta che non comporta gradi, mentre il secondo è il sacro esplicito, pubblico, che appartiene al mondo del relativo, perché una cosa può essere più o meno sancta a seconda della sanzione che l'ha definita.

Con il tempo la differenza di significato tra sacer e sanctus si è progressivamente attenuata, fino a scomparire. Diventa sanctus colui che è investito del potere divino e possiede per questo una qualità che lo eleva al di sopra degli umani; il suo potere fa di lui un essere intermedio tra l'uomo e la divinità. Con questo significato il sostantivo fu adottato dal cristianesimo occidentale per indicare la persona del santo, così come, con analoga evoluzione, il cristianesimo di lingua greca cominciò ad utilizzare hágios.

L'etimologia suggerisce che il sacro è qualcosa d'Altro, di separato dal mondo degli uomini, che non può essere avvicinato senza pericolo, e tuttavia attira l'uomo verso di sé. La struttura del sacro, contemporaneamente unitaria e duale, nella quale due elementi si attivano reciprocamente, in cui l'elemento divino e quello umano rapportano l'un l'altro, è essenziale per comprendere la funzione di legame e mediazione che il sacro è destinato a svolgere.

I moderni tentativi di studio del sacro sono il frutto di ambienti culturali, scuole, specializzazioni (ne hanno discusso sociologi, storici delle religioni, antropologi, psicologi e psichiatri, filosofi, ecc.), quindi sono molto diversi e tutti, in misura più o meno grande, opinabili. Nel variegato panorama d'opinioni moderne è tuttavia possibile riconoscere alcuni grandi filoni di pensiero.

Gli studiosi della scuola sociologica francese degli inizi del '900 (Marcel Mauss, Émile Durkheim, Lucien Lévy-Bruhl) vedono come caratteristica del sacro la sua superiorità e la sua eterogeneità rispetto al profano. Assieme al loro tardo continuatore, René Girard, sono orientati a interpretare il sacro in chiave storica e sociale. Il sacro sarebbe così una soluzione trovata dalle società umane per spiegare il mondo e per regolare gli aspetti più importanti della vita comunitaria.

Anche se con modalità ed esiti diversi, la riflessione e la ricerca di Rudolf Otto e Mircea Eliade, e dei loro attuali continuatori, si caratterizzano invece per il fatto di rilevare la qualità fenomenica del sacro (per cui esso c'è quando si manifesta, esiste in quanto si mostra). Rispetto alle manifestazioni del sacro, l'uomo prova il sentimento della propria inferiorità e tende a sacralizzare tutto l'universo: il sacro sarebbe una "visione del mondo".

E' interessante notare come nessuno degli studiosi citati dia una spiegazione palesemente metafisica, secondo la quale il sacro esisterebbe in sé, indipendentemente dall'uomo. In fondo, dare spiegazioni metafisiche è, o sarebbe, compito del pensiero religioso. Ebbene, nel cristianesimo, l'utilizzo di "sacro" come sostantivo è quasi inesistente, mentre se ne riscontra persino un abuso quando è impiegato come aggettivo (dal Sacro Cuore alla Sacra Rota). Il concetto espresso dal sostantivo "sacro" si può identificare solo con quello di Dio. Nel cristianesimo, pertanto, lo studio del sacro è studio di Dio, non può essere altro che teologia.

La logica e le metodologie delle scienze, che procedono per raggiungere una conoscenza della realtà che sia oggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile non possono, per loro stessa natura, indagare ciò che, come il sacro, si cela dietro ragionamenti che eludono la confutazione e coinvolgono la natura stessa del linguaggio. Tuttavia, il sacro, come fenomeno culturale e sociale, quindi nelle sue declinazioni più mondane (esoterismo, diffidenza o rifiuto delle spiegazioni razionali, principio di autorità, fascino del mistero, ecc.) è presente sotto varie forme nelle società moderne e con esso chi si occupa di scienza deve fare i conti.

(continua in un prossimo articolo)

martedì 14 settembre 2010

Carnevale della matematica n. 29


Oggi, 14 settembre, è il giorno del Carnevale della Matematica, giunto alla sua ventinovesima edizione. Lo ospitano i Rudi Matematici sul loro blog, presentando i diversi contributi con il consueto stile vivace e ricco di humour. Tra i vari articoli, tutti interessanti, segnalo il mio, dedicato alla stagione in cui i modellini didattici delle superfici algebriche cubiche e quartiche esercitarono un grande influsso sull’arte astratta.

giovedì 9 settembre 2010

Arte moderna e superfici algebriche

Il XIX secolo fu un periodo straordinario per la storia della geometria, con acquisizioni e personaggi straordinari. Come in tutte le epoche di sviluppo, vi furono disparati campi d’indagine e scuole diverse, che disputavano su che cosa e in che modo era meglio studiare. Una linea di indagine, seguita con grande entusiasmo per tutto il secolo fino all’inizio di quello successivo, fu lo studio e la classificazione delle superfici algebriche di grado n, cioè quelle superfici dello spazio reale i cui punti soddisfano un'equazione che si ottiene uguagliando a zero un polinomio di grado n in x, y e z.

L’unica superficie algebrica di grado 1, che soddisfa l’equazione generale x + y + z = 1, è il piano. Un piano è una superficie liscia, cioè priva di punti singolari: nell’intorno, sufficientemente piccolo, di un qualsiasi punto del piano, la superficie è una porzione del piano stesso.

Le superfici di grado 2, o quadriche, soddisfano l’equazione data dall’eguaglianza di un qualsiasi polinomio di secondo grado con lo zero. Ad esempio, la sfera nello spazio euclideo a tre dimensioni è definita come l'insieme di punti (x, y, z) che verificano l’equazione x2+y2+z2=1, il cilindro ha invece equazione x2+ y2=1, il cono x2+ y2–z2= 0. La sfera è un esempio di superficie quadrica liscia, mentre il cilindro e il cono sono superfici singolari: in essi esistono punti nel cui intorno la superficie si presenta irregolare e quindi distinguibile da una porzione di piano. Nel caso del cilindro il punto singolare si trova "all'infinito", e quindi non si può vedere e la superficie sembra liscia, mentre nel caso del cono il punto singolare è il suo vertice.


Esistono anche quadriche rigate, date da insiemi di rette. L’iperboloide a una falda (sopra) e il paraboloide iperbolico (sotto) sono superfici rigate, cioè per ogni punto di ciascuna delle due superfici passa almeno una retta che giace interamente sulla superficie. Gran parte di queste superfici è di relativamente facile rappresentazione sul piano.


L’attenzione degli studiosi di quel periodo si rivolse in particolare allo studio delle forme delle superfici di grado 3, dette cubiche, definite da un polinomio di terzo grado, e delle superfici di grado 4, dette quartiche, definite da un polinomio di quarto grado.

Un esempio di superficie cubica liscia è la superficie diagonale di Clebsch, la cui equazione ha la particolarità di poter essere descritta come somma di cinque “equazioni” di piani, ciascuna elevata alla terza potenza. Un’equazione possibile è x3+y3+z3+(x+y+z+1)3–(2x+2y+2z+1)3=0. Come si vede, si tratta di una superficie di difficile rappresentazione nel piano, e il suo studio era agevolato dalla costruzione di un modello che potesse essere maneggiato. Si scoprì inoltre in quegli anni che ogni cubica liscia è razionale e che contiene esattamente 27 rette. Tale scoperta fu salutata come una tappa fondamentale nello studio delle superfici cubiche e portò all'uscita di centinaia di pubblicazioni scientifiche sull'argomento.


Una superficie cubica singolare possiede un numero finito o infinito di punti singolari. Se il numero è finito, esso non può essere maggiore di 4. Una superficie cubica con quattro punti singolari è ad esempio la superficie di Cayley, di equazione possibile 9x3–4z3–27xy2+3(x2+y2)z–36(x2+y2) + 16z2= 0.


Le superfici di grado quattro, quartiche, emersero dalle ricerche nel campo dell’ottica e sono ancora più varie. Esse furono studiate in modo particolare da Kummer e Klein. Come le cubiche, le superfici quartiche possono avere un numero finito o infinito di punti singolari. Se una superficie quartica ha un numero finito di punti singolari, allora può averne al massimo 16. Una superficie quartica con esattamente 16 punti singolari è la superficie di Kummer.


Non sempre i 16 punti sono visibili: essi possono essere immaginari o trovarsi all'infinito. Una quartica con infiniti punti singolari è la superficie romana di Steiner, scoperta verso il 1836 da Jakob Steiner durante un soggiorno a Roma. L'insieme dei punti singolari forma tre rette doppie che si intersecano in un punto, punto triplo per la superficie.



Durante le ricerche nel campo delle superfici di grado superiore a 2, come si è visto, emerse la necessità di costruire modelli per illustrarne le proprietà. La costruzione e lo studio di modelli di gesso fu intrapresa particolarmente in Germania, soprattutto a Gottinga per lo stimolo dato da Felix Klein. Molti modelli, costruiti anche con cartapesta, legno e corda, o metallo, furono prodotti in serie e venduti ai matematici e ai dipartimenti di matematica di tutto il mondo. Si costruirono modelli anche di superfici oggetto di studio di altri campi della matematica, come la geometria e il calcolo differenziale. Questa stagione d’oro dei modelli di superfici durò per tutta la seconda metà del secolo, per poi conoscere un lento declino fino a quando negli anni ’20 cessò la loro produzione. Essi rimasero nei magazzini delle facoltà, dove sono rimasti fino ad oggi. Una delle più interessanti collezioni si trova proprio in Italia, presso il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino, che ha curato una bella pubblicazione e ha attivato un utilissimo sito sul web. La ricerca sulle superfici algebriche, integrata dallo sviluppo della topologia, sarebbe comunque continuata, con il fondamentale contributo della scuola italiana.



Fu negli anni ’30 che due diversi movimenti artistici, i surrealisti e i costruttivisti, scoprirono più o meno contemporaneamente il valore estetico dei modelli delle superfici cubiche e quartiche. Lo scultore russo Naum Gabo (1890-1977), pioniere dell’arte cinetica ed importante esponente del costruttivismo, incominciò a trarre diretta ispirazione dai modelli per le sue sculture, inducendo poi altri artisti a seguire il suo esempio. Anche il pittore e fotografo surrealista Man Ray si interessò attivamente ai modelli, facendo nel 1936 una serie di fotografie di quelli conservati all’Istituto Poincaré di Parigi.

I costruttivisti furono inizialmente molto attirati dalle scienze e dalla matematica, sia nello sviluppo della loro visione artistica, sia nel loro vocabolario di forme. Ciò attirò loro molte critiche e, alla fine delle loro carriere, molti di essi giunsero a smentire ogni influsso matematico o scientifico, anche quando questo era stato innegabile.


È probabile che Gabo abbia visto per la prima volta dei modelli di superfici mentre era studente a Monaco nei primi anni del secolo. Già adolescente egli aveva un certo interesse per l’arte, ma si trovava nella capitale bavarese come studente di medicina, tuttavia seguì anche corsi di fisica e ingegneria all’Università Tecnica, dove era disponibile una buona collezione perché la città era stata un centro della loro produzione. Le prime sculture dell’artista, influenzate dal cubismo, come Testa n. 2 (1916) ricordano i modelli di superfici fatti di cartapesta assemblando sezioni trasversali. Lo Studio per una scultura di pietra (1933, a fianco) ricorda molto il modello di una superficie rigata che egli poteva aver visto all’Istituto Poincaré durante il suo soggiorno parigino di quel periodo. Egli potrebbe anche aver visto loro immagini sulle enciclopedie o i testi di matematica disponibili in quegli anni. Secondo la biografia artistica scritta da Christina Lodder e Martin Hammer, il disegno del 1936 Studio per la costruzione nello spazio: Cristallo (sotto) sembra essere ispirato direttamente dalla figura che corredava un articolo sui modelli di superfici nella 14° edizione dell’Enciclopedia Britannica. Anche molte delle grandi sculture che eseguì in Germania negli anni successivi, molte delle quali sono andate distrutte durante la guerra, mostrano evidenti debiti verso i modelli delle superfici cubiche e quartiche.


Anche il fratello di Gabo, Antoine Pevsner (1866–1962), era scultore. Anche se negò sempre ogni diretta influenza matematica sulla sua opera, la sua serie Superficie sviluppabile della metà degli anni ’30 sembra ispirata dai modelli di superfici rigate. In effetti, queste opere sembrano costruite proprio come sviluppo di insiemi di rette, e la coincidenza difficilmente è casuale.


La scultrice inglese Barbara Hepworth (1903–1975) conobbe e frequentò Gabo durante il soggiorno inglese di quest’ultimo tra il 1936 e il 1946. Dalla sua corrispondenza sappiamo che conosceva la collezione di modelli conservata alla scuola matematica di Oxford, che probabilmente influenzò il suo lavoro. La scultura Elicoidi in una sfera (1939) assomiglia molto, ad esempio, alla superficie romana di Steiner. Anche Pelagos (1946, sotto) rammenta la forma dei modelli matematici in corda e gesso, materiali di uso comune tra i costruttori di modello, ma assai poco adoperati dagli artisti del tempo.


Un altro scultore inglese talvolta associato sia al costruttivismo che al surrealismo è Henry Moore (1898–1986). Egli dichiarò più di una volta che l’uso di corde nelle sue sculture, che iniziò nel 1937, fu influenzato dalla vista dei modelli del Museo della Scienza di Londra: “Ero affascinato dai modelli matematici che vidi là, che erano stati costruiti per illustrare la differenza della forma che sta a metà strada tra un quadrato e un cerchio. Un modello aveva un quadrato ad una estremità con 20 buchi su ogni lato (…) Attraverso questi buchi erano intrecciati altrettanti anelli che portavano allo stesso numero di buchi sull’altro estremo. (…) Non fu lo studio scientifico di questi modelli, ma l’abilità di guardare attraverso le corde come dalla gabbia di un uccello e di vedere una forma dentro l’altra che mi stimolò”. L’influenza di questi modelli è evidente in opere come Figura con corde n. 1 (sotto) del 1937. Più tardi avrebbe smentito se stesso, dicendo che le sue opere ispirate ai modelli “erano divertenti, ma troppo nella natura dell’esperimento per essere soddisfacenti. (…) Quando finì la guerra li abbandonai”.


Per i surrealisti, i modelli delle cubiche e delle altre superfici algebriche costituivano una perfetta contraddizione: allo stesso tempo fantastici e bizzarri pur avendo un’origine scientifica e razionale. Fu probabilmente Max Ernst (1891–1976) a farli conoscere agli altri surrealisti. Sia Marcel Jean sia Neil Baldwin, nelle loro monografie, concordano sul fatto che egli aveva visto la collezione dell’Istituto Poincaré, ne aveva parlato al direttore dei Cahiers d’Art, Christian Zervos, che a sua volta aveva chiesto a Man Ray (1890–1976) di fotografarli. Ernst aveva poi accompagnato Man Ray al Poincaré a fare le foto in uno stile deliberatamente impressionista. Nel film A Life in the Day of Man Ray, egli stesso conferma questa versione dei fatti, dicendo che “fui informato di alcuni oggetti matematici all’Istituto Poincaré di Parigi”, anche se non entra nei dettagli. In ogni caso, alcune delle fotografie, intitolate Oggetti matematici, comparvero nell’edizione del 1936 dei Cahiers d’Art accompagnate da un saggio di Zervos su matematica e arte astratta.


Le fotografie di Man Ray, così come la sue serie di pitture basate sugli Oggetti matematici, diedero molta notorietà ai modelli delle superfici. I surrealisti esposero oggetti matematici nella mostra parigina Exposition Surréaliste d’Objets del maggio 1936. Nel suo celebre Crisi dell’oggetto (1936), il guru del surrealismo André Breton (1896–1966) scrive: “I laboratori delle istituzioni matematiche in tutto il mondo già mostrano fianco a fianco oggetti costruiti secondo principi sia euclidei sia non-euclidei: entrambi apparentemente disorientano il profano, ma possiedono tuttavia una affascinante ed equivoca relazione l’uno con l’altro nello spazio come generalmente lo concepiamo”.


L’interesse di Man Ray per i modelli potrebbe aver influenzato anche la Mostra surrealista internazionale a Londra. Questa esposizione, alla quale partecipò anche Henry Moore, si tenne dall’11 giugno al 4 luglio 1936 e fu visitata da una media di 150 persone al giorno. Il catalogo della mostra mette in evidenza il fascino esercitato sul movimento dai modelli matematici: la copertina riproduce un collage di Max Ernst con una statua dalla testa di rettile che tiene in mano dei modelli di superfici, tra le quali la superficie di Kuen. Le fotografie di Man Ray furono esposte anche alla grande mostra Fantastic Art, Dada, and Surrealism che si tenne al Museum of Modern Art di New York nel 1936-37.


Max Ernst realizzò diversi altri collage e dipinti che si possono mettere in relazione con i modelli. Tra questi si possono citare La festa degli Dei (1948, sotto), Le nozze chimiche (1948) e Giovane incuriosito dal volo di una mosca non-euclidea (1942-47, più sotto), che contiene forme che rammentano superfici come la ciclide a fuso e la ciclide del corno.


Nel catalogo del MoMa, Georges Hugent parlava, a proposito degli oggetti matematici e di quelli esposti, di “regno dell’incertezza e dell’enigma”, di “incontro tra razionale e irrazionale”. L’interesse dei surrealisti per i modelli delle superfici fu fondamentalmente solo estetico.

Il rapporto tra i modelli delle superfici algebriche e il mondo dell’arte fu insomma temporaneo e superficiale. Non ci fu mai un dialogo tra i matematici che avevano costruito quei modelli e gli artisti, costruttivisti o surrealisti, che li usarono come fonte d’ispirazione. Il mondo dell’arte li considerò come oggetti dei quali i costruttori non avevano saputo cogliere la qualità estetica. Ciò è vero solo parzialmente, se si pensa che essi costituiscono manifestazioni tangibili dell’intrinseca bellezza della matematica.

martedì 7 settembre 2010

Piccola antologia dei poeti inesistenti (10): Spectra!

Nei primi decenni del secolo scorso, il mondo artistico e letterario americano ed europeo era popolato da una moltitudine di scuole in competizione, ciascuna con il suo manifesto e la sua teoria estetica. Alcune di queste scuole sorsero come deliberate prese in giro di altre, ad esempio quella di cui parlo in questa puntata. È una storia che per molti aspetti ricorda quella che ho già raccontato della burla del falso poeta australiano Ern Malley, sia perché l’obiettivo era lo stesso, cioè attaccare la poesia modernista e le avanguardie, sia perché, anche in questo caso, lo scherzo andò oltre le intenzioni degli autori.

Nel 1916 Witter Bynner e Arthur Davison Ficke, due poeti americani di scuola classica che già avevano pubblicato separatamente, decisero di averne abbastanza dei versi liberi della poesia moderna di inizio secolo e si unirono per dar vita a una finta corrente letteraria nota come quella degli Spettristi. Bynner and Ficke erano stati studenti di college assieme ad Harvard, entrambi appassionati di scherzi goliardici, così architettarono la burla con talento e umorismo. Da principio i due si riunivano a casa di Ficke a Davenport, nello Iowa, ma le loro continue sessioni di scrittura, durante le quali camminavano per la casa declamando versi in stile modernista, stancarono le moglie del padrone di casa che li cacciò costringendoli a concludere l’opera in una camera d’albergo.

Dopo una settimana, generato da vis satirica e scotch whisky, era pronto il volume Spectra: A Book of Poetic Experiments, attribuito agli inesistenti Emanuel Morgan e Anne Knish. Morgan, un poeta metà Whitman metà bardo dai termini altisonanti, era l’alter ego poetico di Bynner, mentre Knish, la poetessa oracolare, enigmatica e vagamente sensuale, era quello di Ficke. Dei due autori inesistenti, Bynner e Ficke si erano spinti persino a immaginare una biografia e le fattezze fisiche, per dare maggiore credibilità alla loro opera poetica. Le poesie erano prive di titolo, ma erano riconoscibili da un numero. Con una certa sorpresa per i falsari, il cui intento era stato quello di scrivere versi decisamente brutti, il volume fu accettato da un editore. Spectra fece la sua comparsa sulla scena letteraria e ricosse successo, nonostante versi come:

L’asparago è alto e piumoso
e la canna dell’acqua giace
marcendo presso il muro del giardino.

La prefazione, firmata da Anne Knish, costituiva anche il manifesto del sedicente gruppo. In essa si sosteneva che “lo scopo del gruppo Spettrico [è] spingere le possibilità dell’espressione poetica in una nuova regione, raggiungere la fresca brillantezza di espressione di un metodo non molto differente da quelli della Pittura Futurista”. Il nome scelto dal gruppo era così giustificato: “Spettrico ha (…) tre significati associati, separati ma strettamente collegati. Innanzitutto parla alla mente di quel processo di diffrazione per il quale sono disarticolati i diversi raggi colorati dai quali è composta la luce. Esso indica il nostro pensiero che il tema di una poesia dev’essere visto come un prisma, sul quale la bianca luce priva di colori dell’infinita esistenza cade e viene scomposta in ardenti, meravigliose e intelleggibili tinte. Nel secondo senso la parola spettrico si riferisce alle vibrazioni riflesse della vista fisica, e suggerisce l’aspetto luminoso che si vede dopo che l’occhio è stato esposto a una luce intensa e, per analogia, i colori di sfondo della visione iniziale del poeta. Nel suo terzo senso, spettrico connota le sfumature, le ombreggiature, gli spettri che per il poeta avvolgono tutti gli oggetti, sia del mondo visibile sia di quello invisibile (…) Questi spettri sono l’incanto molteplice e la vera essenza degli oggetti, come la magia che inevitabilmente doveva circondare uno specchio in mano a Elena di Troia”. Proprio come i colori dello spettro luminoso si ricombinano nella luce bianca, i riflessi della visione ritrovano il riposo, i fantasmi che circondano la realtà sono la parte vitale dell’esistenza, così la visione spettrica avrebbe potuto, in caso di successo, sintetizzare, prolungare, moltiplicare le immagini emozionali del lettore. L’arte spettrica dichiarava la propria attrazione verso la sensibilità dell’arte cinese (entrambi i due burloni erano davvero esperti l’uno in letteratura e l’altro in pittura cinese), in grado di rivelare la grottesca vanità dell’individuo di fronte all’Assoluto. Il metodo spettrico era nella sua infanzia, e i poemi contenuti nel libro dichiaratamente degli esperimenti, tra i quali come più significativi erano indicati l’opus 41 di Emanuel Morgan e l’opus 76 di Anna Knish. Eccoli (l’intero volume originale si trova a questo link):

Opus 41

GLI SPETTRI arrivano danzando con il vento,
arrampicandosi sull’erba alta,
gridando forte, indisciplinati,
per raggiungere il sole e vederti passare…
I colori del vetro aguzzo.

Sotto un labirinto di salice andasti
Non amareggiata… ma un raggio violetto
cadde sul viso bianco, piegato all’indietro,
di un corpo in una corrente.

Nel sole arrivasti di nuovo,
di rossa luce solare i tuoi piedi erano calzati…
e intorno a te stava un anello di uomini piumati
con braccia nude venerando un dio.

Uccelli color indaco, e scoiattoli sull’albero
e rigogoli lampeggiati dentro e fuori…
il giallo contorno di Euridice
attesa da Orfeo in una nera ridotta.

Con una felce perlinata tu scacciasti un moscerino…
E le fanciulle, appese con vivide palline di verde,
mentre una di loro portava in braccio un gatto arancione,
tenevano palme come per una regina.

Poi eri persa alla vista
e alberi chiusi divennero per te le nubi,
finché comparisti di nuovo, la luna sopra la tua spalla, e la notte
fiorì di blu.


Opus 76

GLI ANNI sono nulla;
solo i giorni contano;
questi, e le notti.
Ho visto le grigie stelle marciare,
e le bolle verdi nel vino,
e ci sono volte gotiche del sonno.

La mia cattedrale
Possiede una grande spira
Fulva nella luce del sole.
Doccioni popolano la sua navata;
alte tra le sue oscure crociere
canzoni dimenticate vivono come ombre.
Oro e sardonico abbigliano i suoi altari.
Il suo tetto possente
è rame che incanala la pioggia.

Domani spade di fulmine verranno
e tuono di cannone.
Essi schioderanno questo tetto
di rame possente.
Prima degli occhi dei miei doccioni,
nel suono delle mie canzoni dimenticate,
lo prenderanno via.
E mentre la pioggia cade torrenziale
dovrò seguire il mio tetto nella guerra.

Insomma un gran guazzabuglio di idee e di associazioni mentali. Se Gli spettri sembra raccontare l’ascesa al cielo dell’amata, tra scene a metà strada tra un’Assunzione della Vergine e Lucy in the sky with diamonds, Gli anni descrive un sogno di rovina in cui l’io narrante si paragona a una cattedrale gotica privata del tetto dalla tempesta. Versi singolari, senza dubbio, ma davvero goffi anche in lingua originale.

Eppure poeti di fama come Amy Lowell e William Carlos Williams giudicarono con favore gli spettristi, e Harriet Monroe, editor dell’autorevole rivista Poetry, accettò cinque loro poesie. Il duo truffaldino aveva scelto di far vivere Morgan, Knish e lo spettrismo a Pittsburgh, città nella quale giunsero numerose lettere di lettori entusiasti all’indirizzo di un amico di Bynner che era stato messo a conoscenza della burla. Edgar Lee Masters, autore dell’Antologia di Spoon River e premio Pulitzer, scrisse una lettera a “Emanuel Morgan” elogiando il volume con queste parole: “Voi avete un’idea di come i luoghi possano avere un’essenza, tutto ha un noumeno dietro la sua apparenza ed è ciò che la poesia deve scoprire (…) Lo spettrismo, se così lo si chiama, è al nucleo stesso delle cose”. Ficke e Bynner si giocarono a dadi la lettera che sanzionava il loro successo.

Ci furono anche episodi davvero curiosi: Thomas Raymond, il candidato repubblicano alla carica di sindaco di Newark, nel New Jersey, decise di evitare i discorsi politici di prammatica, limitandosi a leggere dal palco poesie di Walter Pater o tratte dal volume di Spectra. Dopo la sua elezione, lesse le poesie di Anne Knish durante il party che seguì la cerimonia d’insediamento! Lo spettrismo funzionò così bene che Bynner e Ficke allargarono il numero dei membri della congiura a Marjorie Seiffert, una poetessa che aveva già pubblicato poesie sul New Yorker con il nome di Angela Cypher. Anche l’opera fittizia della Seiffert, che assunse in questa occasione lo pseudonimo di Elijah Hay e pubblicò in volume alcune sue poesie assieme ad altre scritte con il proprio vero nome, ebbe buona accoglienza.

Quando scoppiò la prima guerra mondiale, Ficke fu inviato in Europa, mentre Bynner rimase negli Stati Uniti. Cominciarono tuttavia a correre voci sempre più frequenti che lo spettrismo era uno scherzo. Il dibattito interno fu avviato da Marjorie Seiffert, il falso Elijah Hay, che notò come l’eccessivo coinvolgimento di Bynner nella burla lo aveva portato ad approfittare di ogni occasione per parlare degli spettristi, attirando troppa attenzione. La Seiffert si ritirò dalla congiura e smise per sempre di pubblicare sotto falso nome.

Ficke raccontò poi che, mentre si trovava sul fronte francese, un ufficiale di alto grado gli chiese che cosa ne pensasse delle poesie di Spectra. Quando egli rispose con una mezza verità che secondo lui si trattava di una specie di burla, il graduato si complimentò con lui per l’intuito. Alla domanda “Ma come fate a sapere che si tratta di uno scherzo, signore?”, l’ufficiale rispose: “Perché io sono Anne Knish!” Ficke ricordava quella conversazione come uno dei momenti più dissennatamente felici della sua vita.

Durante una conferenza nel 1918 Bynner fu costretto ad ammettere l’imbroglio. Si disse che l’uomo che dal pubblico gli chiese di confessare pubblicamente provenisse dall’Università del Wisconsin, proprio dove il locale Literary Magazine aveva pubblicato l’anno precedente una parodia dello spettrismo (un’inconsapevole parodia di una parodia) chiamata Scuola Poetica dell’Ultra-violetto, fondata da tali Manual Organ e Nanne Pish, i cui nomi erano evidenti storpiature di quelli dei falsi poeti di Spectra. La notizia provocò un certo scandalo e privò Bynner e Ficke di molte amicizie. Alfred Kreymborg, editore del giornale letterario Others e prima persona a ricevere direttamente la confidenza della Seiffert sulla realtà di Spectra, commentò scherzosamente che, nonostante fossero delle burle, i versi degli spettristi erano un sicuro miglioramento rispetto a quanto Bynner e Ficke avessero mai pubblicato in precedenza. Naturalmente omise di ricordare che nei mesi antecedenti aveva dichiarato di aver personalmente incontrato Anne Knish e di averla trovata bellissima!

I due artefici della burla continuarono la loro attività poetica anche dopo lo smascheramento di Spectra. Bynner affermò che Emanuel Morgan, con il cui nome continuò a firmare le proprie opere, influenzava sempre la sua poesia. Lo scherzo e la deliberata presa in giro della poesia modernista finirono con influenzare l’opera successiva dei due autori al di là delle loro stesse intenzioni, perché entrambi trovarono una forma d’espressione più libera che aveva un suo affascinante pregio. Alcuni critici posteriori sostennero che la poesia di Spectra era di qualità migliore di quella delle opere “serie” dei due. Un commentatore giunse a dire che i “brutti” versi della burla erano apprezzabili perché erano l’espressione vera e inconscia dello sfrenato spirito giovanile di Bynner e Knish, mentre i versi delle loro opere serie erano belli per gli standard convenzionali, ma troppo seri. È davvero spudorata e imperturbabile la tendenza di certa critica letteraria di giustificare con grandi giri verbali tutto e il suo contrario, senza alcun senso di vergogna.


domenica 5 settembre 2010

Nuove rime scientifiche


Crollo dei valori universali

Non c’è più religione, anche lui un diverso,
a pensarlo normale è proprio tempo perso.
È una cosa un poco folle:
anche lui si veste a bolle,
quell’ambiguo non è uno, è multiverso.


Inedito di Lafontaine

Il buffo Bufo che sbuffava sopra il tufo
ebbe una baruffa con Giacobbe il gufo.
– “Levati sbruffone
dalla mia visione:
sono stufo che con gli UFO mangi a ufo!”

(mica pasta muffa, ma tartufo)


Chimere

Creare nuove specie è cosa complicata
che con gli incroci si fa da antica data.
Così un po’ rincresce
che con la fragola–pesce
hanno incrociato una bufala e una cazzata.


La cavalletta quantistica

Come saltella la cavalletta
verde e tenace tutto il dì:
una creatura davvero perfetta
per coprire il tratto tra A e B.

Le dà la natura tanta energia
per balzare tra orti e roseti
e mi chiedo se cosciente sia
di possederne in livelli discreti.


Integrazione

C’era una base azotata di Cirò Marina
che uscì da una situazione clandestina.
Era stata integrata
in un gene di patata,
quella citosina regolarizzata di Cirò Marina.


Naturale

Si fa strada, poco a poco, lemme lemme,
il concetto che in natura tutto sia gi emme.
Era già di questa idea
la prima cianoficea,
che è ancor più vecchia di Matusalemme.


Destino dei bosoni

Il fotone migliore della sua generazione
era stanco del gruppo, voleva distinzione.
Dai fermioni canzonato,
si fece scoraggiato
e gli sembrò un principio d’esclusione.